Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

venerdì 18 aprile 2014

Vincenzo Casagrandi 1847/1938 - Nel 1903 fondò la Società di storia patria per la Sicilia orientale.

 CASAGRANDI Vincenzo - Storico e archeologo (Lugo di Ravenna [Ravenna] 1847 - Catania 1938). Appartenente a una famiglia di antiche tradizioni risorgimentali, conseguì a Napoli la laurea in giurisprudenza, ma approfondì, dopo, i prediletti studi storici e letterari. Dopo alcuni anni di insegnamento nei licei di Milano, Genova e Palermo, nel 1888, essendo riuscito vincitore del concorso a cattedra di storia antica, alla fine del secolo scorso fu chiamato a insegnare nella facoltà di lettere dell'università di Catania, e si trasferì definitivamente nella città etnea, dove svolse la parte migliore della sua attività scientifica e del suo impegno civile. Alle monografie di storia greca e romana (sulle orazioni di Tucidide, sulla battaglia di Maratona, su Diocleziano, sui Calpurni minori) seguirono numerosi e importanti saggi sulla Magna Grecia e sulla storia e civiltà della Sicilia orientale (Camarina, Morgantina, Gela, Siracusa, Len-tini). A Catania, in particolare, dedicò importanti studi, tra i quali sono da ricordare quelli sul monastero dei Benedettini, sul famoso organo di Donato del Piano, sul Castello Ursino, sul Siculorum Gymnasium e sulle leggende agatine. Fu appassionato alpinista e lasciò anche alcune monografie sull'Etna. Per questa sua attività amò definirsi « un romagnolo diventato catanese ». Nel 1903 fondò la Società di storia patria per la Sicilia orientale (di cui fu presidente  dal   1924   al  1928),  che ebbe sede nel palazzo universitario, a fianco dell'Accademia gioenia (v.). Avviò la costituzione di una biblioteca specializzata in seno alla predetta Società e della rivista « Archivio storico per la Sicilia orientale » (meglio conosciuto con la sigla ASSO). 






Pubblicò scritti storici di buon pregio: Diocleziano imperatore (1876), Agrippina minore (1878), Storia e cronologia medievale e moderna (1929). Incaricato dal podestà di Catania gen. Antonino Grimaldi di redigere l'inventario dei 621 manoscritti donati dal barone Antonio Ursino Recupero, vi attese dall'aprile 1931 al gennaio 1932. Memorabile, per chiarezza e sintesi, fu sulla Rivista del Comune del marzo-aprile 1929 un articolo in linea coi tempi (politici): La nuova Catania dopo il terremoto del 1693 e la nuovissima dell'epoca fascista. Casagrandi era nipote di Felice Orsini, patriota e rivoluzionario, romagnolo anche lui (1819-1858), decapitato a Parigi con Giuseppe Andrea Pieri. 




Dopo la sua scomparsa (2 febbraio 1938), il Comune di Catania deliberò che le sue spoglie mortali fossero tumulate nel viale degli illustri catanesi, nel cimitero metropolitano.
e. mus.

* Enciclopedia di Catania
* foto mie






sabato 12 aprile 2014

Pochi cenni sul salotto della Contessa Maffei

Tratto da "il salotto della Contessa Maffei" di Raffaello Barbiera 


Capitolo Primo
La famiglia della Contessa


Il salotto di Clara Maffei, a Milano, fu per mezzo secolo il più celebre d'Italia: per cinquantadue anni, fu riunione di patrioti, di letterati, di artisti italiani, e degli stranieri illustri che, visitando la Penisola, passavano  per  la  metropoli lombarda.
ritratto di Clara Maffei


L'influenza, esercitata dal salotto Maffei nel decennio dal 1848 al 1859. nei destini di Lombardia, e possiam dire d'Italia, (influenza grandemente dovuta alle energiche inspirazioni di Camillo Cavour, che vegliava da Torino), non va trascurata da chi studia le origini della terza Italia. La patriottica irradiazione del salotto Maffei si diffuse oltre i limiti di Milano e della Lombardia, si diffuse in altre regioni italiane; e vi portò la parola d'ordine, la parola che ben presto divenne azione. Anche fuori d'Italia, specialmente a Parigi, che pur vanta nella sua storia politica, letteraria e galante, salotti famosissimi, il nome di Clara Maffei era conosciuto e ripetuto con reverente simpatia: «le salon Maffei» veniva citato alle Tuileries come ritrovo d'uomini di gagliarda tempra sul cui senno e sul cui aiuto ........., Camillo Cavour, contava fiducioso. 
Non si tratta, adunque, d'un salotto provinciale, d'un salotto milanese, bensì d'un salotto italiano. Non lo segnalava il lusso esteriore, non il fasto da cui la gentil padrona di casa e i suoi amici di casa abborrivano, bensì l'armonia d'elevati intelletti, di forti caratteri, di cuori ardenti, devoti alla patria, al culto della letteratura,   dell'arte e dell'amicizia.

Poiché è doveroso tenersi lontani da ogni esagerazione, non si creda che Clara Maffei deva essere posta nella storia delle donne notevoli a lato d'una Roland, d'una Récamier, d'una Cristina Belgiojoso; che fosse una mente direttrice, una di quelle regine quasi imperiose di salotti, dove i frequentatori sono, più o meno, sudditi. 
La sua potenza consisteva nell'arte, così ardua, di ricever bene, di riunire nobili elementi; di esser centro di un ordine d'idee civili, liberali, senza farne mostra. Nessuna ostentazione, nessuna posa, nessuno sforzo in lei: sembrava nata per ricevere, per guidare una conversazione eletta, per ispegnere subito abilmente gli attriti, che nel calore delle discussioni possono sorgere. L'arte del ricevere (diceva ) è l'arte del sacrificarsi. E quante volte la buona amica nostra si sacrifica ai gusti degli altri!... Era gentildonna nell'aspetto, nel discorso, nella delicata vivacità, nella scioltezza, nel gesto, nell'anima, e nella finezza con la quale ella poneva ogni nuova persona a lei presentata accanto a un compagno di attitudini, di gusti, di studii.
A' suoi occhi bruni, pensosi, bellissimi, velati spesso da mest'zia, nessuno sfuggiva; perciò fu detto ch'ella aveva... una preferenza per ciascuno. E, se scorgeva qualche amico d'umore non lieto, accorreva a lui premurosa e affettuosa. Allorché temeva che un'amica gemesse sotto il peso d'una dolorosa preoccupazione, correva a casa a trovarla, la confortava con parole soavi che penetrano nelle vie più riposte dell'animo stanco; e quante volte si offriva a soccorrerla, sfidando i pregiudizii e le cattiverie del mondo!
Tutti la chiamavano «contessa» benchè avesse sposato il poeta Andrea Maffei 

cui non aspettava il titolo di conte; ma era nata contessa Carrara-Spinelli, e   nessuna   contessa  d'Europa meritava più di lei quel titolo, tributato più in omaggio alle sue qualità squisite che alla sua  nascita.

Clara Maffei nacque a Bergamo, patria d'un'al-tra dama amica di numerosi poeti e sapienti, la poetessa Paolina Secco Suardo-Grismondi, la buona Lesbia Cidonia del Mascheroni, lodata dal Voltaire.
Dall'atto di battesimo si rileva che Elena Chiara Maria Antonia Carrara-Spinelli, figlia dei conti Giovanni Battista e Ottavia Gàmbara, coniugi, vide la luce il giorno 13 marzo del 1814, in quella città, e precisamente nella «parrocchia di Sant'Agata nel Carmine ».
Il padre di Clara, ottima pasta d'uomo, poeta di classiche eleganze e pedagogista, insegnava lettere in primarie case patrizie di Milano. A' suoi tempi, godeva di bella fama letteraria; oggi, il suo nome è dimenticato. Nessuno si è occupato finora di questo scrittore lombardo che vestiva di elette forme eletti sentimenti; di questo tragèdo, che affollava i teatri più cospicui d'Italia. Ma ahimè! sul teatro presto si muore, e le sue tragedie morirono prima di lui.
Egli discendeva dai Carrara di Bergamo ( l'ultimo dei Carrara di Padova cadde, nel 1435, sotto la scure dei Veneziani) e precisamente dal ramo dei Carrara-Spinelli di Clusone, che avea ottenuto nel 1721 dalla Repubblica Veneta il titolo di conte per ispeciali benemerenze acquistate in Svizzera. A loro spese ( dice il « Libro d'oro dei veri titolati della Serenissima Repubblica), i Carrara-Spinelli avean lavorato per il « buon successo dell'alleanza stabilita con quei Cantoni » e s'erano adoperati « nelle moleste turbolenze della Terraferma nell'occasione de'   passaggi   delle  truppe  di  estere  Corone ».             «
Anche il padre del nostro gentiluomo-poeta (esso pure nato a Clusone, dilettavasi di poesia, ch'era lo sport di  quel  tempo.                            ,
Sparsi in volumi, in volumetti e nei periodici let-terarii d'allora, si trovano almeno trenta lavori del padre di Clara Maffei. Le compagnie tragiche (correva la moda delle tragedie come oggi delle «po-chades » ) gareggiavano nel rappresentare, senza dargli un soldo di compenso, la sua « Isabella di Lara, Gli Arsacidi, Davide, Guido della Torre»; tutte tragedie di stampo alfierano recitate da attori alfierani, tiranni e vittime frementi, che a qualche solitario patriota facevan pensare, con acre amarezza, ad altri tiranni, ad altre vittime... non ideali purtroppo. Nelle odi, egli imitò felicemente ora il Parini, ora il Fantoni. Lasciò una versione dell'epitalamio di Catullo, delle «Georgiche» di Virgiglio, del «Ra-damisto » tragedia del Crébillon. Inneggiò alle nozze di Napoleone I; ed esaltò il generale austriaco Bubna perchè liberò il Piemonte dalle orde giacobine. Sciolse un carme all'«Arco della pace» di Milano, un « Canto ad amore », e un sospiro alla felicità domestica, che il poveretto non godeva troppo con quella moglie sua, irrequieta, ardente. Ei cantava:
Non è sempre di lagrime
Misero albergo la terrena valle,
Se cara donna al roseo
Labbro, all'ondante su le nivee spalle
Chioma ed al guardo che beando va,

Aggiunge ancor la gemina
Leggiadra prole, che s'abbella e cresce, 
Da cui se con ingenuo 
Sorriso pueril baci ti mesce, 
La celeste tu suggi voluttè.

Le sue prose educative contengono consigli preziosi, frutto di esperienza lunga, e forse amara... Apparve nel 1841 l'ultima opera sua, specchio dell'animo rivolto a religiosi pensieri: ò un «Diario ascetico », lutto meditazioni, preci, salmi penitenziali.
Al pari di tutti o quasi tutti i patrizi lombardo-veneti del tempo, il padre di Clara si fece riconfermare dal governo austriaco il titolo di conte, che gli apriva molte porte: eppure non isfoggiava le borie d'altri nobili flagellati dal Parini e dai Porta. Era un patrizio del tipo bonario. Aveva occhi piccoli tagliati a mandorla, capelli ricciuti, naso lungo, mento grosso mezzo sepolto sotto le volute del cravattone di moda, alla Goethe. Bonario il suo aspetto, ma raffinato il suo sentire. Insegnò alla figlia Clara come una gentildonna deve ricevere gli amici: è una pagina, che la figlia, col suo sottile discernimento, deve avere meditata; certo ella ne seguì i consìgli; e devono seguirli tutte le signore chi vogliono  ricever  bene:

«La libertà della buona conversazione non si gode dalle signore che in casa loro: se non che, per fruire di così schietto passatempo, bisogna por giù quel sostenuto e quel contegnoso che a favellare non  invita, e mette quasi in soggezione  colui che avrebbe voglia di conversare. Se la tua conversazione è pel  consorzio dell'amicizia e del merito, puoi sbandire da essa tutti quei riguardi che chiamansi pregiudizii,  i quali inceppano un conversare allegro e disinvolto.  Talora le gentildonne rugose, che hanno lo spirito di vent'anni, sono meglio vedute e frequentate che le giovani fresche ed eleganti ».

L'ottimo  gentiluomo era nato a insegnare.  A Milano,  guidò l'educazione del primogenito della duchessa Camilla Litta Visconti-Arese, nata contessa Lomellini di Tabarca, dama di palazzo dell'imperatrice d'Austria. Da ciò ebbe origine l'amicizia che la contessa Clara nutrì fino all'ultimo suo giorno pei Litta.   Ciambellani e principi dell'impero   Austriaco,  i Litta  erano amici del conte Carrara-Spinelli, che non inclinava punto a lodare i moti democratici, peggio  poi i moti demagogici a' quali avea dovuto  assistere.  Così non lodò il duca Pompeo Litta,   quando   (prima della contessa Lomellini)  volle impalmare, all'ombra dell'albero della libertà, un'americana; finita la rivoluzione e abbattuto l'albero,  il  duca si scordò  della figlia d'oltremare, che tornò in America;  ma gliene erano
rimasti due figli.
La  madre di Clara, contessa Ottavia Gàmbara, discendeva da  patrizii  ancor più rivoluzionarii  del duca Pompeo Litta. Il genitore della contessa Ottavia si segnalò a Brescia per le sue scalmane a 
favore di quel « delirium tremens » che fu la Repubblica Cisalpina.  Racconta un altro Litta, lo storico Pompeo, negli alberi genealogici delle «Famiglie celebri italiane », che quel nobiluomo, nel mutamento civile del 1797  che fu de' primi che distruggessero lo stemma patrizio. Lo stemma dei Gàmbara consisteva in  uno scudo con un bel gambero rosso in mezzo.  Questo gambero, simbolo di regresso, e l'aquila nera a due teste coronate, simbolo di prepotenza,  che sormontava lo scudo garbavano così poco al conte, che s'affrettò a deporre, nelle mani plebee del Governo provvisorio, stemma e diritti feudali. Ma quanti reazionarii del più bel nero diventavano repubblicani del più bel vermiglio, attraverso il fuoco delle meteoriche rivoluzioni! É l'eterna storia del gambero: casca bruno nella pentola e n'esce rosso.
Questo conte demagogo, non ostante le sue smanie sovvertitrici, era un cuor d'oro. Illibati i suoi costumi, inesausta la sua carità verso i poveri. Appassionato pe' fiori, un giorno, mondando una rosa, si punse. Non curò la puntura, ammalò alla mano che non volle gli fosse amputata, e ne morì nel 1805 a quarantun anno, lasciando due figlie: Teresa e Ottavia, la madre appunto della contessa Clara  Maffei.
Teresa, maritata a un elegante scudiero d'Eugenio Beauharnais, visse ritirata dal mondo, modesta, schietta, benefica; fiore ch'esalava (avrebbe detto un poeta romantico) il suo profumo nell'ombra. Morì demente in seguito a un cattivo parto, nel 1834. Ottavia, che sposò il conte Giambattista Carrara-Spinelli raccontava alla figlia Clara, bambina, le virtù di questa povera zia Teresa; ma altre cose le raccontava la madre:
— Tu ti chiami Chiarina in memoria della poetessa  Chiara Trinali,  mia madre.
Questa Trinali era una facile verseggiatrice della scuola anacreontica del Vittorelli, il sospiroso poetino,  cantor d'Irene, cantor della luna:

Guarda che bianca  Luna? 
Guarda che notte azzurra 
Un'aura non sussurra, 
Non tremola uno stel

La virtuosa poetessa Veronica Gàmbara, splendore delle donne italiche nel Cinquecento, apparteneva anch'ella alla casa della madre di Clara Maffei: e nasceva in Pratalboino, feudo della famiglia Gàmbara sul bresciano. Vi appartenevano anche una beata, Gàmbara Costa, un Lorenzo Gàmbara, poeta latino, due cardinali, e un terribile feudatario, un bandito,  morto  nel  1804.
Il conte Alemanno Gàmbara, del castello di Pratalboino s'era formato un nido temuto, co' suoi bravi, appartenenti a quella razza che, come riferisce lo Stendhal nel «Rome Naples et Florence», al principio di questo secolo nei dintorni di Brescia era tutt'altro che sterminata dalla gendarmeria di Napoleone lanciata a darle la caccia. Il volgo parlava di trabochetti spaventosi in quel maniero, del quale rimasero solo poche rovine, ludibrio dei venti. Era vero che in quel castello si commettevano orribili violenze. Una volta, alcuni birri veneziani entrano nelle terre del conte per isnidarne un malvivente. Il conte li lascia venire e li invita ad allegro banchetto; ma, al domani, un pesante carro coperto di cavoli entra in Brescia, e sotto que' cavoli stanno ammucchiate le salme dei gendarmi trucidati. Eppure quest'uomo sanguinario usava modi cortesi, soccorreva i poverelli, e pronto li difendeva dall'altrui prepotenza. Sdegnando di sposare donne ricche, s'impalmò con una marchesa povera dei Carbonara di Genova. Costei s'incapricciò poi d'un conte Maniscalchi di Verona e condusse vita licenziosa colmando d'amarezza il cuore del marito che l'amava. Bandito dalla Repubblica Veneta, Alemanno Gàmbara (il quale poteva servir di modello ai « Masnadieri » di Federico Schiller ) ottenne alla fine perdono e passò da Zara a Chioggia, quindi rivide la patria, e morì vecchio leone desolato nel castello di Pratalboino, testimone delle sue baldanze e de' suoi delitti.
I Gàmbara di Brescia diedero un altro ardente ribello alla Repubblica Veneta, quel conte Francesco (uno dei tre figliuoli d'Alemanno) il quale al primo turbine della licenza giacobina, alla testa di un'orda di bergamaschi e di bresciani, irruppe a Salò, vi rovesciò il Leone di San Marco, fece prigione il rappresentante Veneto, Almorò Condul-mer, disarmò gli Schiavoni, e aperse le carceri. Egli rideva nel veder «tremare la sedia della vecchia verginella» (sue parole), la già superba Venezia. Ma Salò e i dintorni insorsero contro di lui; ed egli cadde prigioniero. La Serenissima (in mezzo a quei torbidi aveva il coraggio di chiamarsi ancora così!) si preparava a tagliargli la testa; ma Bo-naparte, «quell'ommett del cappellinn», come lo chiamava Carlo Porta, giunse in tempo a salvarlo.

Il cittadino Francesco Gàmbara fu uno de' cinque che recarono in pompa magna a Napoleone la nomina a presidente della Repubblica Cisalpina. Più tardi, si consacrò tutto alla letteratura: scrisse sui fatti contemporanei, compose un poema sulla lega di Cambrai contro Venezia, sfucinò una folla di tragedie e di commedie, fra cui... «commedie ad uso degli stabilimenti di educazione ! » Era scritto lassù che questo figlio della rivoluzione dovesse finire in mezzo a una rivoluzione: morì a Brescia nel 1848.
A ben più alta scuola di libertà fu educata, per fortuna, Clara Carrara-Spinelli; ben altri ideali alimentò in quell'anima di bambina la madre. Pure qualche goccia di quel sangue ribelle scorreva nelle sue vene, e, a quando a quando, nella dolcezza consueta di lei, quel sangue ribolliva, invermigliando il piccolo pallido vólto di fata sorridente.
Nel 1837, quando il Balzac (allora nell'apogeo della gloria) venne a visitare la contessa Clara, questa gli suggerì il titolo d'un racconto, ch'era il cognome della venerata marde di lei, Gàmbara: il racconto « Gàmbara del Balzac uscì alla luce in quello  stesso  anno.


CAPITOLO II

La contessa Clara in una lettera a Giulio Carcano, il gentil novelliere degli umili, confessava che l'infanzia era stata la «sola epoca non infelicissima della  sua vita »...
Fu affidata al Collegio degli Angeli di Verona dalla madre, che la raccomandava con molte lagrime a una dama veronese, la contessa Mosconi, e alla gentil figliuola di costei, l'adorabile Teresa, la quale studiava pure in quel collegio e contava sei anni di più della nuova sua piccola amica.
Le due fanciulle contrassero un'amicizia tenerissima che durò tutta la vita. Teresa Mosconi, sposata poi al conte Spiridione Papadopoli di Venezia, fu la prima, la più intima e la più affezionata amica che la Maffei abbia avuto. In collegio, Teresa accennava alla compagna le conversazioni che la propria madre teneva col Pindemonte, con Giulio Perticari, col Monti, con altri scrittori di grido: e tali racconti accendevano in Clara il desiderio di conoscere anch'ella un giorno i poeti più celebri d'Italia. .... - 

CAPITOLO XX - Nuovo periodo del salotto - una bizzarria di Iginio Ugo Tarchetti

Intanto altri visitatori entravano in quelle sale; e il primissimo posto spetta a Graziadio Ascoli, il filologo di genio, creatore d'una scienza, di fama mondiale. Nato a Gorizia, egli attese colà, giovane assiduo, ai traffici paterni in un fiorente opificio, ma ad altre sfere il genio istintivo, irresistibile, delle lingue lo portava. Senza diplomi accademici (cioè senza allori di carta) egli, al pari di Nicolò Tommaseo, di Cesare Cantù, di Carlo Tenca, di Gabriele Rosa, potea vantarsi auto-didattico; e a quali vette volò il suo pensiero! Il suo aspetto è quello d'un biblico profeta, dall'alta fronte di linee bellissime.
Un aspetto di re merovingio avea, invece, un chiomato romanziere, al quale Clara Maffei inviava spesso, in segno d'ammirazione, quel saluto mattutino, de' fiori. Egli, al pari del Tommaseo, sorgeva a difensore della donna: quello che oggi si chiamerebbe un «féministe». Era il romantico Iginio Ugo Tarchetti,

d'Alessandria, nato nel '41; il quale proclamava al pari d'un altro mesto ingegno, Carlo Bini: «La virtù del sacrificio e dell'amore non ha limiti nel cuore della donna», non pensando quante donne sono la rovina d'uomini onesti, di oneste famiglie; ma quante altre sventurate, (è vero) sono spinte al male da noi!... Il Tarchetti era tempra d'alto scrittore; eppure dovette sacrificarsi a essere scrivano presso un'amministrazione militare. Lasciate quelle pastoie, si librò alle proprie geniali inclinazioni, lottando ancora: col bisogno; corona di spine, più sicura della corona di lauro. L'anima sua era byroniana; il dubbio la tormentava; ma aspirava a credere: «Avvi una sventura (egli diceva) che è superiore a tutte le altre, che sfugge a qualunque manifestazione di parole, che si eleva al di sopra della stessa disperazione; fredda, severa, impassibile, quasi feroce nella sua calma; ed è il dubbio, il dubbio tremendo di sé stesso. Quando si ha sacrificato tutta l'esistenza ad un solo principio : quando ci siamo composti con una sequela interminabile di dolori questo fragile edificio, ch'è il soddisfacimento e la stima di noi medesimi, allora viene spesso a collocarsi fra noi e le nostre opere una terribile convinzione: la convinzione della loro vanità, dell'inutilità e del ridicolo dei nostri sforzi! Allora vediamo come la coscienza si faccia giuoco di noi, e tutto ci si spezzi fra le mani, come i balocchi dei fanciulli ». In questa confessione, v'è tutto il Tarchetti; un ammalato morale al pari di tanti del tempo suo, una specie di Manfredo. Il suo racconto « L'innamorato della montagna » riflette lo spirito suo, anelante anch'esso alle altezze. L'espressione del suo giovane volto avea qualche cosa d'inspirato e d'augusto agli occhi di fanciulle bellissime, e bruttissime, che s'innamoravano di lui. Qualcuna, orrenda, lo perseguitò a lungo colle furie d'una irruente passione morbosa. Il Tarchetti ebbe un giorno un'idea: per fuggirla, si recò a Parma; e fece incollare sulle cantonate della città un avviso col quale egli si proponeva alle famiglie qual professore di conversazione inglese. Come mai era sorta quell'idea, a lui che, allora, non conosceva neppur una sillaba d'inglese?... Trovò una cliente, una sola: una signora attempata, che portava un cognome inglese, e sapeva benissimo parlare, dopo tanti anni, la lingua de' suoi poeti favoriti. Quella signora mandò un biglietto d'invito al Tarchetti, che si presento tosto a lei. Ella era.., Ildegarda Manin, sorella di Daniele, moglie all'inglese Meryweather, l'eroina infelice dell'«Edmenè-garda del Prati, che abbiamo trovata, a proposito di questo grande lirico, nell'ottavo capitolo. Non lieve fu lo stupore della signora nell'apprendero la confessione 
del Tarchetti come avesse pubblicato quell'avviso sulle cantonate parmensi solo... .per ispirito   «bohème»   d'avventure!
— Non sapete l'inglese?... ella gli disse. Ebbene, ve lo insegnerò io. — E glielo insegnò. Così da maestro da burla Iginio Ugo Tarchetti divenne uno scolaro sul serio, e imparò bene quella lingua, da colei che era rimasta presa da materna simpatia per il pallido ben chiomato giovane sognante, senza tetto e senza meta.
Clara Maiffei, indulgente, perdonò al Tarchetti quanto egli scrisse contro la vita militare, nella, quale ella vantava a buon diritti prodi amici. Ella avrebbe voluto che quel giovane non fantasticasse troppo, ma ne ammirava i pregi. Quando, nel 25 marzo 1889, egli morì di tifo, non ancora trentenne, la contessa seguì la bara, esprimendo a tutti il proprio acerbo dolore nel vedere uccise con lui tante speranze. 

Al domani de' funerali, un altro romanziere, l'intimo amico del Tarchetti, Salvatore Farina, si recò commosso a ringraziarla del tributo reso al povero giovane; ma ella non voleva ringraziamenti; e, accogliendo l'autor d'« Amore bendato » mentre stava  abbigliandosi davanti  allo specchio, gli  disse:
— Venite pure avanti, Farina; così vedrete che non mi tingo.

* ed. Lorenzo Rinfreschi di A. Piacenza 1914



domenica 6 aprile 2014

La Contessa Lara e Mario Rapisardi

La vita della Contessa Lara fu tutta amore.
Le più audaci seduzioni del sesso prorompevano dalla sua esile figurina, divinamente modellata, che pareva staccata " da un quadro di Watteau o di Boucher „. E la sua anima ardente di poetessa cantava i fremiti che l'agitavano, con versi leggiadri e pieni di squisita sensualità.

lo t' amo, t' amo. Oh, ch' altra donna mai
Non susurri al tuo cor questa parola:
Per quanta ne incontrasti e ne vedrai
Anco nei sogni, vo' bastarti io sola.
Io saprei tramutarmi in che vorrai,
Mentre com'or tra i baci il dì s'invola:
Frine, Saffo, Maria chiedi, ed avrai
Quanto fibra, intelletto, alma consola.

Chi non sente da questi versi emanare il profumo inebriante che stordisce i sensi, che sferza il sangue, che induce ai sogni voluttuosi, indefiniti? Come resistere alla potenza di quegli abbracciamenti, di quei baci? E quanti furono i suoi adoratori? Quanti ne trascinò ella dietro il carro trionfale della sua incantevole bellezza?  Qualcuno lo si ravvisa:

(Ad un amico)

Cantò che la serena arte d'Omero
Ne le mie forme agli occhi suoi splendea,
Mi chiamò gloria, musa, angelo, idea,
Fantasma incantator che adombra il vero.

Al ciel, cui fido vola il mio pensiero,
Per me il ribelle spirito s'ergea;
Per me la fiamma che nel sen gli ardea
Mutossi in pianto nel grand' occhio nero.

E mi sognò pe' lidi suoi, la dove
Un balsamo di zagare e di timi
Arcana voluttà su i sensi piove ;

Dove tranquillo al vespero dorato
Fuma l' Etna da i vertici sublimi:
Tanto sognò che non si è più destato.     (Cfr. Carezza in " Ricordanze - M. Rapisardi)

Ma ella non voleva che la si descrivesse una sirena, una maliarda, che suggeva la vita con pochi baci; ne meno bigotta perchè frequentava la chiesa. Ella voleva. Apparire

Non demonio, ne maga, ne Madonna ;
Ma una figura semplice e pudica
Figura di leggiadra e nobil donna.

E però, con civetteria raffinata, spesso soleva mostrarsi agli amici ora in posa di verginella ingenua e pudibonda, ora in abbigliamenti strani di principessa vaporosa.
Era, in verità, adorabilmente capricciosa; e se si trovava sola, e non poteva uscire perchè fuori pioveva nella notte invernale, ecco ella scriveva in un foglio, laconicamente:



Son sola. Piove; mi fa freddo. Vieni.

Maestra in operare inganni amorosi, sempre accesa dell' invincibile febbre dei sensi, ella era tale che mentre si trovava in braccio di un amante, meditava il convegno con un altro: e i loro scatti di gelosia sapeva dominare con le sue arti irresistibili di maga. Ecco:

Il litigio era grave. Egli l'avea
Con aspri accenti e con sospetti offesa;
E fissava lo sguardo in su la rea,
Quasi ne avesse la discolpa attesa.

La testina gentil di greca dea
Scrollava ella, sdegnando esser compresa ;
E co'l picciolo piè lieve battea
Una levriera su'l tappeto stesa.

Ei si mosse a lasciarla; ed ella assorta
Tutta in un suo pensier, seguialo altera,
Fredda, senza un addio, come una morta.

Ma dubitosi, in atto di preghiera,
Si guardaron negli occhi in su la porta,
E disser sottovoce : A questa sera.        (Questo sonetto è intitolato: Sulla porta.)


Ma l'arte doveva assorbirla interamente. Ella affidava al canto le sue memorie e le sue speranze: credeva riabilitarsi nell'onda armoniosa della poesia, e, amorosa  cinciallegra, cantava in tutte le stagioni sempre la sua nota semplice e bella, a dispetto dei pettegolezzi del mondo ipocrita.

Dicean ghignando che a la donna sola,
A la rejetta, a l'esule, a la mesta,
Non più l'arte, che inalza e che consola,
Darebbe fiori per la bionda testa.

La Musa, invece, intorno ad essa vola
Sempre fida qual pria, nobile, onesta
E fa negl'inni udir la sua parola
Che memorie e speranze in lei ridesta.

Insieme van così lungo il sentiero
Triste del mondo, che soltanto ha fine
Ne l'alta erba là giù del cimitero.

Ingombro è il suol di rettili e di spine,
Di minacciose nubi il cielo è nero,
E pur cantano ancor le pellegrine.

E i suoi versi spontanei, melodiosi, quasi sempre originali, finemente cesellati, malinconicamente suggestivi, scritti col vivo sangue del suo cuore fremente, avvinsero gli animi, e furono con avidità letti e cercati e gustati.
In essi è una nota spiccatamente personale.


Il Rapisardi conobbe Evelina Cattermole Mancini (Contessa Lara) a Firenze, nell'estate del 1875.
La vide un giorno ferma a una vetrina di libraio. Attratto dalla potenza fascinatrice di quella giovine e rara bellezza, la segui: abitava non molto lontano da via della Pace, ove al n. 9 era la casa di lui.
S'informo: seppe chi era.
Il nome della Mancini correva allora per le bocche di tutti, a Firenze : lo scandalo del duello era troppo recente.
Ciò acui il desiderio del Rapisardi di conoscerla personalmente.
Le mando un esemplare delle Ricordanze. 
Ella gli rispose che quei versi le erano noti, che li aveva letti insieme col suo Bepi; e l' invitava tosto a un abboccamento.



l'ultima terzina di un sonetto che la poetessa dedicò a Mario Rapisardi nei tempi felici: Era di maggio un dì, sull'imbrunire / Ei mi gettò una rosa entro 'l balcone / Io la raccolsi e mi sentii morire.


L' appuntamento era per mezzogiorno.
Il Rapisardi, come tutti i giovani innamorati a cui un' ora d'attesa sembra un'eternità, alle ore undici e mezza, impaziente e ansioso si trovò dietro l' uscio della Lina.
Erano già a' preliminari, quando udirono alla porta una scampanellata risoluta.
Trasalì il Poeta, ricordandosi di avere sbadatamente lasciato sul tavolino il biglietto accusatore.
S'aspettava una scenata. " Lasciate fare a me: state tranquillo „ gli disse la Lina, senza scomporsi; e ando ad aprire.
Il sospetto era realtà.
Apparve la Giselda pallidissima, con le folte e nere sopracciglia aggrottate e un tremito convulso nelle labbra bianche che mal nascondevano la emozione vorace.
Ma il contegno e le parole ammalianti della Lina riuscirono subito a calmarla.
Lo stesso giorno divennero amiche.
L'indomani la signora Mancini andò a trovarli in casa.
E le due amiche in seguito dovevano divenire intimissime.
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Non senza meraviglia ci vien di notare che giusto allora il Rapisardi aveva pubblicato dal Le Monnier il Catullo e Lesbia, studio che potrebbe sembrare una preparazione del suo spirito, per una tal quale rispondenza con la sua nuova avventura. Si direbbe che l'anima del Poeta veronese si sia affratellata alla sua nella prova dell' arte.

Or il tempo che Mario Rapisardi passò amoreggiando con la Contessa Lara è per vero il periodo più tempestoso e tuttavia più fecondo della sua vita. Si può dire, anzi, che per lui quest' amore, nonchè una distrazione, fu come una valvola di sicurezza alla sua natura esuberante passionale irrefrenabile; ed egli vi si abbandonava con la gioia del pellegrino che a una canora polla d'acqua fresca ristora le viscere arse dal viaggio.

Che scintillio d'immagini e gaiezza d'ispirazione in quella 3° parte delle Ricordanze, che egli andava scrivendo.
E che soave tenerezza di richiami e di abbandoni nelle strofe voluttuose della Lina!
Un sonetto intimo bellissimo, che il Rapisardi si decise in ultimo a stampare nell'edizione definitiva delle sue poesie, compendia questo idillio.
E intitolato : Lettura di versi.

Ella legge i suoi versi; amor non dorme
Nel mio petto geloso: or lieti or mesti,
Come levrieri i sensi miei ridesti
Delle avventure sue corron su l'orme.

Pazzi amori ella narra, ore celesti,
Fantasmi strani, alati sogni a torme ;
Io con la man tra le nemiche vesti
Tento ansando le sue floride forme.

Ella dice un bel verso, io dico : t'amo;
D' arte essa parla, io de le sue bellezze ;
Una rima ella chiede, un bacio io bramo ;
Finchè a provar le verseggiate ebbrezze,
Come strofe intrecciandoci, facciamo
Un poema di baci e di carezze.

A lei il Poeta cantava con giovanile baldanza :

Ti rapirò dove dal sen si sferra
Selvatico cavallo il genio mio,
Dove col mondo e la fortuna in guerra
Sorgo fra i lampi e sfido a morte Iddio.

In quegli anni, oltre che le Ricordanze, egli scriveva il Lucifero, tradusse Lucrezio. lanciò come fiotti di luce redentrice l' Ode al re, il Giobbe, le poesie di Giustizia.
E di quel tempo e la famosa polemica.
Ma gli amori, i dolori, le malattie, piuttosto che affievolirne l'ingegno e il carattere, lo ingagliardivano e lo ritempravano.
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La fine

S.ta Maria di Gesu, 24 marzo 1885.
Oh dignitosa coscienza e netta !
Se mi  avessi  scritto   " Imbastisco il mio millesimo
amore e sono a' comandi del tal dei tali „ ti disprezzerei
meno.
Addio. Mario Rapisardi

L' idillio era finito. Un tempio crollava. Nessuna magica potenza poteva rievocarne il nume.


Dopo tutto quanto abbiamo di già sopra scritto e riportato, si giunge ora a voler, senza uno scopo plausibile mettere in dubbio tale episodio della vita affettiva del Rapisardi con Evelina Cattermole; ma, poichè si cerca ad arte velare la verità, sentiamo il dovere per onestà letteraria di precisare richiamandoli alla lesta i fatti, con la scorta degli stessi documenti. 
Non è da tener conto naturalmente dell'inutile ciarpame di invenzioni fantastiche che cade alla prima lettura di queste lettere e di quelle del Rapisardi.

In una pagina del suo recente libro su la Contessa Lara la signora Maria Borgese così conchiude: " Dunque il Rapisardi conosce la Contessa nel settembre 1875, appena qualche mese dopo la separazione di lei dal marito, e arde subito di amore. La segue, le manda un suo libro, le si fa presentare, le presenta la moglie per insistenza della stessa Lara. La signora gradisce l' affettuosa devozione dell'uomo illustre, ma non può amarlo; gli si mostra cortese, indulgente, anche dolce, ma si stringe di schietta e fedele amicizia con Giselda, la moglie di lui. Egli le dà del tu e lei gli risponde col voi.... ..

C'è da rimanere perplessi, sinceramente, con tutto che la gentile scrittrice sin da principio ci avverte che " fu animata da una grande umana simpatia, di donna a donna „.

Eppure, i fatti parlano tanto chiaro; a meno che tutti gli appuntamenti a solo e a ora tale che la Lara dava al Rapisardi nei suoi brevi biglietti (come quello: " Vaspetto dopo le 2 1/2 -)  e la sua proposta di passare " qualche altro dolcissimo giorno a Napoli o a Salerno  in compagnia del Rapisardi non s'abbiano a intendere da oggi innanzi come inviti a semplici conversazioni letterarie. 
O per quale ragione poi i loro abboccamenti dovevano sempre essere necessariamente di nascosto alla nonna , sia in casa della Lina che in quella di Giulio o di Giorgio ? 

E, di grazia, che potrebbero significare le parole che la Lina sottolinea nella lettera scritta dopo la guarigione: " Appena sarò in grado di dire una parola, ve ne avvertirò e verrete a trovarmi 
Dobbiamo per avventura figurarci la Contessa, in siffatte circostanze, quasi quasi una bella e buona pupattola imbottita di stoppa e di cruschello? 

Non basta. Poichè c'era di mezzo la moglie Giselda, onde impossibile parlare in libertà, e gli avvicinamenti periodici (" l' ebbrezza d' un istante „ dice il Poeta nel Ritrattoa intervalli di anni: " è evidente, non sentiva amore per Rapisardi „. Come se quella donna terribilmente facile e infinitamente capricciosa ne abbia sentito mai " amore „ per alcun uomo. Così la chiusa del palpitante sonetto Lettura di versi del Rapisardi (pubblicato la prima volta da un giornale di Napoli a insaputa del Poeta, in occasione della morte della Lara): 

Come strofe intrecciandoci facciamo
Un poema di baci e di carezze

e tutta la lettera che la Lina gli scrive da Roma il 19 gennaio 1885, in cui gli chiede perdono gettandogli " le braccia al collo come lì a Napoli „ e l' altra che si chiude con lo " strettissimo abbraccio „, nonchè il reciproco uso del tu nell' intimità e apertamente quando furono liberi della Giselda, potrebbero tutt'al più dimostrare una cosa naturale " non rara fra scrittore e scrittrice legati da una forte simpatia e dalla vita comune del giornale e del libro , ; anzi - la gratitudine o la pietà „ della Lina per il Rapisardi. Così, proprio.
E non al Poeta sarebbe esatto riferire, per conseguenza, il sonetto della Contessa Lara Sulla porta.' in cui è descritta la scena del litigio dei due amanti e la relativa pacificazione. 
E dire che fu allora (ottobre 1880) il Rapisardi, che lo mando al Martini perchè lo pubblicasse nel suo giornale! 
Or in proposito ben ricordo che, quando io mi recai dopo l' assassinio della Lara a visitare il Rapisardi, lo trovai che sfogliava il libro della povera morta (il volume Versicon la dedica ' Al suo Mario, Lina „), e mi fece leggere giusto quel sonetto che gli ricordava tante cose. L'immagine della isterica autrice gli tornava alla mente nella sua fascinosa bellezza. " Versi scritti con l'utero „ chiamava quel libro il Poeta, e in una ottava omessa dal canto VII dell'Atlantide (sicuramente tracciata molto prima del '93) si legge appunto:

le uterine armonie della Contessa
Qui declama un arnese ispido e rude

Tuttavia giova anche ricordare di passata che nel 1892, la Lina aveva mandato al Rapisardi con dedica suggestiva il suo nuovo romanzo L'innamorata, e nello stesso anno il Rapisardi in una lettera al Cesareo non aveva dubitato di chiamarla " donna insigne ,.

Ecco, noi non giudichiamo: solamente esponiamo a nudo i fatti

dal Commentario Rapisardiano di Alfio Tomaselli, 1932





"La fine tragica della sua vicenda sentimentale con il pittore napoletano fu quasi inevitabile: il 30 novembre, durante l'ennesima litigata in cui Eva gli intimava di andarsene, fu fatale la presenza nella stanza del revolver, che l'uomo, infine, in circostanze mai ben accertate, usò contro di lei colpendola all'addome. La pistola era un modello da signora, di piccole dimensioni, e il colpo non provocò la morte immediata di Evelina. Però Eva non fu immediatamente soccorsa: l'uomo e la cameriera, che nel frattempo era accorsa, impiegarono diverso tempo prima di chiamare un medico, e le forze dell'ordine furono sul posto ad indagare solo parecchie ore dopo, quando Eva era già agonizzante. Secondo varie testimonianze, fino all'ultimo, a chi si recò al suo capezzale, Eva insisté nel dire che l'omicidio era stato dettato solo ed esclusivamente da interesse economico: infatti, in caso di omicidio dettato da motivi passionali, le giurie dell'epoca tendevano ad applicare molte attenuanti alla pena.
Naturalmente, seguì un processo che fece scalpore. Non fu possibile provare precisamente la dinamica dei fatti, né le motivazioni economiche sottostanti al gesto dell'omicida. Il testamento indicava come unico erede l'amico Ferruccio Bottini, che però rifiutò il lascito.
I funerali ebbero un gran concorso di folla, e furono molte le manifestazioni di affetto. In seguito, però, si verificò un brutto scandalo: i fondi che erano stati raccolti per la sepoltura svanirono nel nulla e i resti della scrittrice non poterono mai avere sepoltura adeguata." Wikipedia

martedì 1 aprile 2014

Domenico Milelli un poeta dimenticato (Catanzaro 1841 – Palermo 1905)

"Tu che venduta l'anima all'incanto
Or godi e dormi come un buon borghese.."

"Domenico Milelli, non poco genio e molta sregolatezza, canto' e visse da refrattario, pagando in privazioni e in persecuzioni la sua fedelta' alle idee rivoluzionarie e a uno stile di vita non conformista. Ex seminarista, volontario garibaldino, animatore di circoli scapigliati, professore di scuola media piu' volte sospeso e revocato, si affermo' come poeta dal temperamento esuberante, con speciale predilezione per l'epos e l'eros, spesso associati nei suoi versi. (...) La vita raminga, la poverta' inseparabile, l'estraneita' alla societa' ufficiale, la produzione disordinata ma spesso eccellente, la coerenza ideale collocano Domenico Milelli fra i piu' rappresentativi interpreti di una "boheme" italiana, di schietta radice meridionale" (Pier Carlo Masini, Poeti della rivolta", Milano, Rizzoli, 1978; pag. 129).


A Domenico Milelli nobile poeta dimenticato della mia forte e nobile Calabria. Saggio di Federico Turano (circolo Calabrese di Roma) 
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In una delicata pagina per Aurelio Costanzo, giovanissimo autore, in quell'aureo periodo di rinascita delle lettere in Italia, di quella poesia che tanto piace e va direttamente al core.

Io  canto  come  canta l'alma mia 
perchè  son certo  che non  erra  mai 
che parla sempre  come parla il core...

l'ignorato poeta dell'anima squisitamente gentile, schietto ed aborrente della finzione, innamorato della bellezza, ma già pervaso da un'onda di vago scetticismo, frutto di delusioni e di disinganni, ad un tratto si domanda bruscamente :
—- Che cosa sarà mai del Costanzo in avvenire, quando messo più da vicino a contatto del mondo, sperimenterà davvero gli uomini e la vita? — Sarà un miracolo — risponde — se egli continuerà a credere e ad amare.
Noi, peraltro, che non la pretendiamo nè ad infallibili,  nè a profeti,  abbiamo una  nostra idea sul proposito e la vogliamo dire proprio tale e quale ci frulla pel capo.
O egli, il Costanzo, dovrà finire e turarsi la bocca o, continuando, dovrà mutare registro.
In questa triste e difficile vicenda, l'ultima sua canzone sarà il contrapposto esattissimo di tutte quelle pubblicate finora come l'odio è il contrapposto dell'amore, come la morte è il contrapposto della vita.
Tale era lo stato d'animo del nostro Poeta dimenticato che la sua vita trascorse in quel mondo d'illusi, di superbi e di pitocchi, di gente, insomma, che nell'ora stessa, ride e soffre e soffre per colpa propria;

Perchè rido e in cor mi piange 
il dolor dell'allegrezza? 
Perchè piango e in cor mi aride
l'allegria della tristezza?

si domanda il rapsoda, che l'allegria della tristezza più di tutti conobbe. 
IL POETA «BOHÉMIEN».
Era allora il periodo più acuto della cosidetta Bohème letteraria ed artistica che anche l'Italia ha avuto a simiglianza della Francia.
Ne hanno fatto parte artisti come Ercole Rosa, romanzieri come Giuseppe Rovani ed Iginio Ugo Tarchetti ; poeti come Emilio Praga, Arrigo Boito, Ferdinando Fontana.
E Domenico Milelli fu veramente l'ultimo poe-bohèmien.
La Calabria « dai clivi e rivi diffusi di smeraldo ai rai del sole » gli aveva dato i natali sulla metà del secolo scorso e quella naturale abbondanza immaginosa e coloritriee di che egli inondava i versi che declamava, peregrinando di loco in loco.
Trovatore errante, fu il vero e l'ultimo di quei bohèmiens che da ogni convenzionalismo e da ogni dogma si staccano e della vita si formano una particolare concentrazione che si nutre di chimere e di sogni e si riassume nella sregolatezza.
Essi hanno dei momenti ineffabili di gaudio, quei momenti ineffabili che dà l'ebbrezza del sogno, che dà l'illusione. Ma sono momenti fugaci cui succedono le ore tristi, ore di trepidazione febbrile, di dubbio terribile, di scoramento profondo. Ma essi scrollano le spalle, scrollano la testa, scrollano tutta la persona e così tentano di scacciare la trepidazione, il dubbio, lo scoramento, conselando le loro agonie con l'antico adagio che « i carmi non danno pane ».
Senza dubbio la Bohème è quasi il noviziato della vita artistica, vita di coraggio e di perseveranza, seducente e terribile, che conta i suoi vincitori, ma anche le sue vittime.
Quante creature sovrane nell'arte ricordano spesso, nella serenità della loro apoteosi, il tempo in sui nel sorriso della giovinezza non avevano altro che il sole dei loro vent'anni, il fulgore della verde speranza : Molière, Shakespeare, Rousseau e d'Alembert e fra i nostri più recenti Boito, Praga...
Ma il Milelli non riuscì ad allontanarsi mai da quella vita sbattuta da tempeste e da sogni e dal
giorno in cui----contava appena 20 anni — lasciò la
sua terra natia e col suo primo libro di versi « In giovinezza » raggiunse Milano ove ben presto fece parte di quel cenacolo in cui fulgeano i nomi dell'autore di « Mefistofele », dell'autore di « Penombre » e del Tarchetti malauguratamente rapito in giovane etade, sino all'ultimo suo giorno rimase col suo temperamento di sognatore pur essendo sparito quel mondo che il Murger ritrae nel suo delizioso romanzo, pur non avendo compagni, pur aggirandosi in un ambiente di sepolcro.
Forse il brillante ingegno del Poeta , se più disciplinato e non conturbato da quella vita di dubbi e di sregolatezze, era destinato a più rapida e
radiosa  ascesa !
Ciononostante, egli è sempre il verseggiatore dalla vena facile ; il poeta della giovinezza e dell'amore e se il suo temperamento che lo trascinò nel vestibolo di quella vita burrascosa non gli consentì di infondere alla sua opera d'artista spiriti di esistenza duratura, i frammenti della sua produzione multiforme valgono a rilevarci la sua più spiccata attidudine alla più bella poesia..
LE PRIME OPERE. IL POETA DI NATURA »
L'esordio fu lusinghiero : « In giovinezza » : quanta dovizia di rime e di metri ! Ecco rivelarsi subito poeta facile, e conquistarsi repentinamente le simpatie di quanti in quel tempo leggevano con passione poesie. Il suo canto era melodia che sgorgava dall'intimo con dolce metro ed ammaliava : era la canzone d'un cuore nobile, la strofe di un'anima tenera bisognosa d'amore, aperta al solere, ricca di bontà e malinconia.
Entusiasmo per la vita che sorge e malinconia per la vita che sparisce : sentimenti varii che confluiscono nelle artistiche dipinture di "Paesaggio breve"  ove paesaggi incantevoli e scene dal vero consacrano ancora il Milelli poeta di natura :

L'Etna grandeggia a l'ore mattutine 
Avvolto ne le sue cappe di neve 
E il ciel, sovresso,  curvasi in un fine 
Arco di  argentea  trasparenza  lieve.

Fuma il gran cono in nebule opaline, 
Che di roridi l'alba aliti imbeve; 
Mentre giù basso,  l'ultime colline 
Stanno ne l'ombra ancor fumida e greve.

Lungi a le ripe il mar freme in vocali 
Freschi risucchi co'l levante e splende 
Tutto diffuso di viole in fiore

E disdegnando i tedi e  le venali 
Cure del giorno, trepida e si accende 
Tra l'uno e l'altro,  viva lampa,  il core!
(Paesaggio Etneo)

Erompe sempre il sentimento nelle fini cesellature di tali descrizioni, esso fluisce abbondante dalla facile vena, e non è sentimento d'un vacuo sentimentalista, del trionfatore d'un'orà o di un giorno!

Non lo aveva creato poeta la natura e non doveva essa inspirarlo col suo mistero imperscrutabile e col suo fascino indefettibile?
IL POETA ROMANTICO.
Era un poeta nato, adunque, ed era pure un romantico, non di quel romanticismo inteso còme una particolare condizione di spirito, squilibrata, perplessa, straziata da antitesi, turbata da fantasmi, premuta da ogni parte dal senso del mistero, ma di quel romanticismo della terza maniera inteso come visione sconvolta, straziata ed antitetica della vita (Croce).
Aggiungasi che in quel periodo delle lettere in Italia era proprio la scuola così detta romantica che aveva imprigionati gli spiriti : l'Aleardi che si dibatteva tra due grandi amori : la donna e la Patria ; il Tarchetti che negli ultimi anni della sua vita ci viene descritto passeggiatore di cimiteri, mediatore di tombe, in perpetuo atteggiamento d'interrogatore innanzi alla vita e alla realtà ; Arrigo Boito che al tragico e all'orrendo si fa superiore col riso, non già col cinismo che — osserva il Croce — è aridità di cuore, ma con l'humour, coll'ironia di sè medesimo. Questa scuola, d'altra parte, non era che la più densa sfumatura di uno stato d'animo diffuso onde il romanticismo doveva avere le sue spontanee manifestazioni nell'arte e nella vita. Un giovine lombardo, Giulio Pinchetti, si uccideva a venticinque anni, lasciando alcuni frammenti poetici d'intonazione leopardiana : il vigoroso Brindisi del suicida, ed Arrigo Boito levava un grido innanzi alla « pallida giostra dei poeti suicidi » che si correva per l'Italia. Olindo Guerrini, intanto, usando l'artificio del Sainte Beuve, fingeva in Lorenzo Stecchetti un giovane che muore di tisi a trent'anni e gli attribuiva « Postuma », versi intonati a malinconia e a pensieri di morte.
In tale stato d'animo diffuso il Poeta romantico per natura è ovvio che ritrovasse sè stesso e le sue prime poesie possiedono tutta l'attrezzeria e il repertorio di quell'arte attraente : scene nuziali, canti di poeti innamorati sotto il verone della bella, banchetti, funerali tombe, visioni di fate « con gli occhi tinti ne'l color de'l mare », canzoni che ripetono il dolce verso d'amore in contrasto colla solitudine e con lo sconforto da cui talora è avvinto.

E la canzone dicea ; cor senza amore 
è tetra notte sovra morto mare 
e in larghe ripeteano onde sonore 
gli  echi notturni :   amare!

E il poeta girò d'intorno li occhi, 
come  fa il falco pria che  s'alzi  a volo, 
poi disse ricadendo in su'  ginocchi : 
Mio Dio,  come son solo!

Ma gemme più preziose tempestano la collana delle poesie racchiuse nel « Canzoniere » che il Mi-lelli compose tra l'84 e l'85.

S'io non sognassi mai, se non potessi, 
su l'ali  azzurre de  la  fantasia, volare, 
volare a' tuoi fervidi amplessi, 
maliarda del core,  o poesia,

se restare inchiodato io qui dovessi 
a 'l nero scoglio de la vita mia, 
a lottare sempre co' nemici istessi, 
cui son parenti invidia e codardìa.

Se mi vietassi inebriarmi a' tuoi 
labbri stillanti, o Venere divina, 
se Lieo mi negasse i doni suoi,

a' quattro venti anch'io ti griderei                                     
cieca noverca  e  lurida  sgualdrina 
anch'io, natura, ti bestemmierei.



L'IMITAZIONE DEL POETA

Senonchè i soliti ipercritici, poggiandosi su simiglianze od affinità d'arte poetica, ne hanno voluto intaccare l'originalità e la schietta spontaneità, forse una delle caratteristiche del cantore calabrese, ed in ogni giro di strofa hanno intravisto una imitazione, in ogni ode un ricordo pur evanescente di poeti a lui contemporanei.
Ma se nel « Canzoniere » — certamente — vi scuote in qualche sonetto il fremito stecchettia-no, se in qualche ode vibra il concitato verso del Carducci, e se talora il romanticismo aleardiano spande il suo profumo nella composizione del verso, forse non rimangono integre la genialità dell'ispirazione e l'originalità della costruzione poetica e dell'espressione che bastano a circoscrivere la personalità artistica propria dell'autore, a dare una propria fisonomia alla vasta e preziosa opera sua?

Io non posseggo perle o diamanti (dice ad Antonietta) 
per fartene un monile o una corona, 
quel che ti posso offrir sono i miei canti, 
e che poco ti dia, bimba, perdona; 
Me l'ispiraro i fior,  gli astri rotanti, 
di Lesbo i cedri e l'ombra di Dodona, 
dell'Ionio tuo mar l'onde sonanti, 
e le dolcezze della tua persona.

Questa è naturale ispirazione di canti melodiosi, di leggiadre canzoni, di possenti invocazioni. E' l'anima sua schietta che in ogni verso dischiu-desi qual boccio! di rosa alle aure primaverili : è il suo temperamento franco e leale che si rivela nella dedica ad Antonietta : tutti i suoi carmi commuove e sommuove quel sentimento pieno di freschezza che trabocca dal cuore gonfio del poeta.
Che se per caso gli tocca di ripetere cose già dette, egli le ridice con accento personale come di uno che proprio allora le scopra e le riscopra, se gli tocca di usar frasi logore, egli le riatteggia in modo che riacquistino vigore.

Amor è desiderio di carezze lascive 
brama d'ebrezze  fervide, di voluttà furtive; 
amor le labbra tumide al colmo nappo appende 
e i nervi agita e stimola, le tarde linfe accende; 
è amor febbre e delirio, è amor peccato e Dio 
oblio lungo dell'anima, dolce e penoso oblio.

E' amore, Olga, il tuo petto, che anela avido e stanco, 
la tua bocca che brucia e non può dire: io  manco.

Così canta all'amata, e in sublime slancio poetico evoca le angeliche visioni di un tempo felice,  fantasmi fluttuanti nella glauca marina

E mi stava su gli occhi una figura 
bella siccome gli angioli che il Frate 
di Fiesole pingea........

le albe rosate, il molle idillio e gl'incantesimi del mare. Ma quelle visioni sono purtroppo larve passeggere e vacui miraggi quegl'incantesimi poichè la realtà presto si disvela... ed allora egli piange di amaro pianto, odio trova dove cercava amore, tutto è deserto intorno a lui e non gli rimane che il cuore della madre. Quel contrasto che aveva permeato la natura intima dell'artista ha così la sua più gagliarda espressione :

Oh,  meglio era morir, morir tra i veli 
candidi della culla, 
come  dicevi tu, sognando i cieli, 
morir, morir senza conoscer nulla.

Ma  allorchè  il  pensiero  della  donna  amata risveglia al poeta il più dolce dei sentimenti che per un momento gli dona l'oblio che tutto avvince, a lei, mostrando la sua mortal ferita che gli rode l'anima e lo tormenta, esclama

e,  se mancasse in me questa infinita 
fede nell'amor tuo,  credimi,  allora 
io,  come un cencio,  gitterei la vita.

Ed ancora :
"Rottami" sono riproduzioni di bellezze antiche e moderne, di certe delicate composizioni dell'Heine o di vcchie ballate straniere : se si sfogliano quelle dolci poesie sì sente a volte il profumo della musa carducciana che vi carezza l'anima come in « Ritorno » :

Ella è tornata e mi ha fatto tremare... 
Mi ha fatto orribilmente abbrividire.

Come in « Locomotiva » che ricorda l'« Inno a Satana » :

Ruggite, o folgori, venti ululate 
le immani ei svincola braccia ferrate 
e fischia;  e indomito di loco in loco, 
passa terribile signor del foco.

Altre volte vi scuote il fascino dell'arte stec-chettiana bella per la sua vivacità di ritmo e di espressione :

Giace il paese e dorme 
nella notte,   siccome 
un camposanto enorme.

Ma non è vuota imitazione, non è sterile riproduzione : il Poeta, invece, scompone ab imo la materia ed il crivello della sua anima la ricompone, la riplasma dandole l'impronta della propria personalità artistica si che la intonazione del verso rimane originale e le sue liriche vivono di vita propria e non riflessa.
La favola di Giurfredo Rudel e Melisenda di Trìpoli ne è magnifica prova. Il Carducci del racconto poetico heiniano aveva già fatto una mirabile riproduzione, il Milelli rimaneggiando, rifaceva, assimilando, ci presenta la scena tutta nuova di pensiero e di forma, di contenuto e di spirito si che al lettore curioso non potrà capitare di contestarne l'originalità della strofa.
D'altronde anche nelle sue imitazioni è sempre sincero e mette a nudo tutta quanta la sua anima d'artista.


.....   io giro
ape leggiera e instabile 
di loco in loco e aspiro 
i profumati balsami, 
onde natura è lieta, 
che mi cangia in poeta.

Ed aspirò ancora « le disperate melanconie del Senan, le bizzarre e mordaci ironie dell'Heine, le strane ed affascinanti fantasie del Poe, le ingenue preziosità del Drossinis, le festive spontanee lucentezze del Blemont, così semplici e così belle nella purezza sentimentale delle loro concezioni ».
A Maria (da Bikelas), l'Addormentata (da Poe) nel suo volumetto di traduzioni « Gemme sparse », e poi « il picciolo diamante » da Drossinis :

Talvolta un picciol pezzo di vetro
gittato  a caso  vien  su  la via;
del sole un tremolo raggio l'accende
e tutto il picciolo vetro risplende;
un bel diamante crede sia li
talun che il vede brillar  così.

Come una stella fulge il mi' amore 
e una fanciulla per tutti ell'è 
come tante altre; ma angel, ma fiore; 
angelo,  io splendere la veggio in me; 
per gli altri un picciol pezzo di vetro 
per  me  diamante degno di  Re!

Ma Domenico Milelli non si contenta delle imitazioni ma vuole dare all'arte il suo io, la sua personalità, vuole mostrare a vivo il suo temperamento che gli fa sprezzare la vita e lo fa inneggiare all'amore, gli dà slanci d'entusiasmo e schianti di uomo disfatto, accenti d'odio e trilli di gioia.
IL RITORNO AL CLASSICISMO
Nella nova Italia, intanto, l'ambiente si veniva allora gradatamente mutando e con la politica spuntavano le questioni sociali, risorgeva il materialismo mentre le scienze aveano nuove e più larghe applicazioni. Tale mutamento lo avevano avvertito artisti come Giovanni Prati ; già gli ultimi romantici contemplatori del mistero dell'esistenza apparivano malati. In conseguenza contro i deliri della scuola romantica sorse in  Italia un vigoroso movimento capeggiato da Giosuè Carducci, temperamento poetico, classico ed antiromantico che con la sua opera che doveva rispondere ad un ideale ben moderno, volle e seppe compiere la rivoluzione contro le idee e le forme che dominavano la vita e l'arte, la vita e l'arte di una società languida e molle.
E all'appello del nuovo poeta rispose serrando le file la gioventù italiana che già da alcuni anni lo ammirava e che sentiva ogni giorno crescere il suo entusiasmo  pel  Vate.
Naturalmente in tale movimento vivificatore delle lettere anche sul nostro Milelli gli scritti del Carducci dovevano avere sensibile influenza, e quando vennero pubblicate le « Odi Barbare », egli, fornito di cultura classica non comune che poteva essergli di buon viatico per salire alle altezze della gloria, al classicismo fece ritorno con le « Odi Pagane ».
« Incominciai così — dice il Poeta — per isva-gare l'animo triste ed annoiato, cacciandomi a rivivere un po' coi miei morti, co' miei cari morti, che io aveva appreso ad amare da giovinetto, e che mi          
pareva valesse la pena di ossequiare assai più che non certe burbanze e certe superbie di vivi   ...
« Ero nauseato ed uggito di tanta roba, cui 
una volgare frenesia di plauso aveva fatto e faceva 
largo...
E m'indispettiva la dissennata presunzione di molta gente la quale si arrogava il diritto e la vanteria gloriosa del più compassionevole disprezzo per quanto di veramente grande era stato prodotto tra noi, prima che i taumaturghi della così detta arte moderna si fossero assunta la poco disinteressata e niente difficile missione di bandire alle genti il verbo novello ...
 Ero  uggito e  nauseato ;   ecco  tutto ».
Lo vediamo così, seguendo il consiglio del Carducci, cercare Orazio e Anacreonte, Catullo ed Omero raccogliendo le versioni in « Verde antico » ove unica si rivela la forza dell'immaginazione insieme con la schiettezza della rappresentazione del pensiero dell'autore.
V'ha la solennità di Omero e la freschezza di Anacreonte, la mitezza di Virgilio, il sorriso scettico oraziano : con la molteplicità dei motivi non comuni insuperabilmente ritratta la bellezza della classica poesia.
Ecco un saggio della versione anacreontea :

Amore  un  giorno  un'ape 
non vide,  che dormìa 
fra le  rose,   onde   quella 
a un ditino il  feria.
Subito un grido  ei mise 
dalla  man   dolorando 
e a Citerea la bella 
ratto corse volando. 
Ahi! Ahi! madre, ch'io moro. 
Ahi! ch'io moro,  ei piangea, 
mi morse un picciol serpe 
che  ape il villan dicea. 
E lei : Se una puntura 
d'ape  fa  tanto  danno, 
quelle,   che dar tu suoli, 
o  Amor,   che   cosa  fanno?

E da Catullo :
Donna non è che possa amata esser tanto vantarsi 
Quanto davver tu amata da me, mia Lesbia, sei, 
Fede all'amore suo cotanto nissuno mai tenne 
Quanta,  per  la  mia parte,   io  ne ho  serbata  al  tuo. 
Or sento, e tu ne hai colpa, o Lesbia, travolta la mente 
A tal che di se stessa perde l'ufficio, ond'io 
Quel  che  chiederti debba  non  so;   nè se amarti ancor
[buono 
nè se odiarti, o insieme d'amore e d'odio morire.

In questo torno di tempo ha inizio la prodigiosa attività di Domenico Milelli che da Milano prima e poi da Bologna era venuto a Roma.                       
Era l'epoca del più vivido fulgore del Som-maruga che nell'81 si era recato nella Capitale per stabilirsi ed era il momento più fortunato dell'Abruzzo nell'arte: Michetti, Tosti, d'Annunzio: la pittura, la musica, la poesia. Essi — così racconta il Chiarini — si univano nei Saloni gialli del Capitan Fracassa (una sala di pochi metri quadrati), che raccoglievano spesso le più note celebrità contemporanee : Giovanni Prati, Pietro Costa, Paolo Ferrari, Giosuè Carducci, Olindo Guerrini, Enrico Panzacchi, Ferdinando Martini, Anton Giulio Barrili, Mario Rapisardi, Girolamo Rovetta,  Gabriele
d'Annunzio.
Il Sommaruga ben presto maturò il progetto di una combinazione col Capitan Fracassa per la fondazione di una grande Casa Editrice e, impadronitosi di quel cenacolo, prese in affitto il cantone di via Due Macelli, quel magazzino che poi dovea diventare la famosa redazione della Cronaca Bizantina. Nei nuovi Saloni gialli troneggiava Adele Mai che doveva essere, secondo « Gandolin », la Vittoria Colonna di quella Corte letteraria.
Domenico  Milelli  fece bella  parte di  questa Corte letteraria e  collaborò nella  Cronaca Bizantina distinguendosi ben presto con Edoardo Scar-foglio e con Gabriele d'Annunzio.
La Cronaca procedeva a vele gonfie ed il Som-maruga inondava il mercato librario di una quantità di libri di sua edizione, alcuni dei quali ottennero fortuna straordinaria. In quel periodo favorevole Sommaruga curò la pubblicazione del Canzoniere ed incitò il poeta a scrivere le « Rime » in risposta alle « Rime » della Contessa di Lara, che con entusiasmo era stata applaudita. Il Milelli si volle allora chiamare « Conte di Lara » e sotto tale pseudonimo leggiamo quei versi delicati che

Son di sogni  diafani 
stanche larve.....
Son di ebrezze e di spasimi 
fatue   vampe   fuggenti
Son di gioie e di lacrime 
ombre e  memorie  vane
...........
Sono i  cori di  un'orrida tragedia 
che tu, bugiarda, ricordasti al mondo

Tu, bugiarda — grida il Poeta — e l'invettiva acre ferisce in pieno l'orgoglio d'una donna che con la sua posa e la sua venustà irresistibile, aveva intessuto il poema d'un amore colpevole a dispetto del marito tradito.
Ma l'avidità del guadagno momentaneo e la smania di réclame ben presto segnarono il tramonto del Sommaruga e col Sommaruga tramontava la fortuna del poeta. Ed allora incomincia la triste o-dissea : da Roma ad Alcamo in Sicilia e da Alcamo a S. Severino delle Marche come un antico rap-soda : una ombra leggera di scetticismo la avvolge ma l'arte — soave lampa — splende sempre, lo attrae col nuovo incanto, si che in nobile slancio offrendole ogni suo intimo dolore prorompe in un grido :

Son tuo,  son tuo,  possente 
Maliarda divina, 
Resti tu  sola  quando 
Ogni altro Iddio rovina.

LA PERSONALITÀ ARTISTICA DEL POETA. L'ANIMA DEL POETA. IL SUO CAPOLAVORO.
Sullo squallido ghiaccio di Weroén, nella regione polare, mentre stride il nembo tra le vampe del crepuscolo sanguigno, su quella glauca corazza di cristallo senza un fil d'erba o fiore, Kokodè — fatal mistura di selvaggio e di romito — solo, attendendo ormai l' ultimo suo giorno, guarda cogli occhi sbarrati il mare che freme.
Nessun segno di vita, solo il mugolio del mare, l'ululo eterno del vento che avvolge l'onda che s'innalza e poi stride e si frange schiumando, e poi ribolle su sè stessa fremebonda nel gorgo che spalanca : L'orrore degli antri, lo scintillio argenteo del ghiaccio, il biancor spento della luna, tutta la scena selvaggia d'un paesagio boreale.
E Kokodè impersona tutta la freddezza di questi luoghi che tanto ama mentre la sua figura si stacca man mano da questo sfondo poetico desolante per balzar viva e piena di freschezza quando gli avvampano l'anima i ricordi di bei sogni svaniti.
E il solitario, nella notte, scrive, scrive, scrive le sue memorie ed una leggera aura di dolcezza in contrasto col freddo soffio dello sfondo boreale carezza il racconto di quelle soavi memorie ! E canta il jonio fiammeggiante di topazi e di brillanti che cinge la patria sua, il Jonio sulla cui distesa azzurra un dì ebbe ampio il volo la sua fantasia, e canta il vecchio ulivo che su la materna rupe scuote i rami sotto l'impeto del vento e ripete la sua lunga istoria che è la storia di Sibari, la città dell'amore e dei conviti, come narran gli autori delle vecchie favole greche, e scioglie in ultimo un inno alla sua Calabria dai clivi e rivi diffusi di smeraldo. Poi ricorda il padre la cui ferrea tempra mai fiaccò la notte oscura che la vita intorno avvolge, il padre che tanto amò e venerò, rammenta i verdi anni in cui per la prima volta si schiuse alla dolce poesia : il suo primo spasimo ...

..... chi dentro all'anima 
questo spasimo mi ipose? 
perchè irido  e  in  cor  mi  piange 
il dolor dell'allegrezza? 
perchè piango e in cor mi ride 
l'allegria della tristezza? 
Chi  di voi  codesto  enigma 
può  spiegarmi  in  cortesia? E le genti — è questo il fiore 
della dolce  poesia.

Ma la tempesta s'abbatte, e schianta ben presto i dolci sogni del poeta ; alla dolcezza del canto della giovinezza si contrappongono i singhiozzi, le lacrime amare della catastrofe che bussa prepotente e spietata alle porte della sua casa : muore il padre, e, come le foglie, il fato terribile stacca dal tetto natio Lidia, cui l'implacata tosse aveva infranto il giovane petto e poi Lelio ghermito alla madre in sì giovane etade e poi Lina, « ultima aurora di pace », e a tanto strazio la madre come pazza scoppia nella tragica interrogazione :

Dio,   s'è  ver  che  tu  ci  sei, 
Dio,   perchè   questo  supplizio? 
Che ti han fatto i figli miei?

sublime impeto di umano dolore che come un ruggito erompe dall'anima sconvolta e sanguinante... Ricordiamo __

Nè le lacrime a' materni 
occhi  espresse dagli  affanni, 
nè i dì nudi ad uno ad uno 
noverati   in   sedici   anni

rallentar della maligna 
sorte gli odii un'ora sola, 
colpa  il  pianto   in   sulle   ciglia 
e  sul labbro  la  parola.

Quante volte,  al poveretto 
gramo desco il pan mancando, 
scarso un obolo ci corse 
per   le  vie  limosinando :

Quante volte irrigidito 
dal fatal verno inclemente 
alle  lacere  si   chiese 
coltri il sonno  inutilmente,
mentre   tu,   madre,   tremando 
della vita de' tuoi figli 
t'affannavi  a  consolarli 
di amorevoil consigli.

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Alle fosse avide intanto 
spalancate   in   cimitero 
preparava il pasto infame 
il  bisogno   orrido e nero;

e  di Lidia macerando 
pria le fibre delicate 
alla triste  iliade  schiuse 
le   miserrime   giornate.

Su quel volto a poco a poco 
come più si fea nel core 
vivo il senso della vita 
si  effondea letal pallore.

Della  luce  azzurra  il raggio 
nei sereni occhi languìa 
il sospiro era un lamento, 
il sorriso un'elegìa.

Triste larva,   ella passava 
come  nebula d'incenso 
della sua dolente casa 
pel deserto arido,  immenso;

finchè  un dì,   dalla  implacata 
tosse infranto il giovin petto 
le sue diè, povera martire, 
membra bianche al cataletto.

E la madre come pazza : 
— Dio s'è ver che tu ci sei, 
Dio perchè  questo  supplizio? 
Che  ti han  fatto i figli  miei?

E, qual ramo a giovin faggio, 
dalla grandine  strappato, 
l'esil  corpo dalle pustole 
del vaiuolo difformato,

dall'attigua,  invan pregando, 
sua  stanzetta,   intanto  aita, 
Lelio il fior vedea perire 
della sua giovine vita.

— Oh! levatemi da  questo 
di  carboni orrido letto, 
piombo fuso ho nelle vene, 
ho l'inferno entro nel petto,

per  pietà da  questinc'endio
che mi brucia e mi divora
chi  mi  salva?   O  madre,   aiutami,
per  pietà non  far  ch'io  mora!  —

E il funesto estremo  rantolo 
afferrandolo alla gola, 
gli togliea tra le sue spire 
rabbiose  la  parola.

Così giacque e gli luceva 
nella immobile pupilla
 come gocciola gelata 
del dolor l'ultima stilla.
*
*    *
E soffiando umido il vento 
dell'autunno le penose 
grigie nebbie dell'ottobre 
avvolgea tutte le  cose.

E te pur,  chiusa ne'  loro 
scuri e tetri abbracciamenti 
te,  di pace ultima aurora 
tolser, Lina, a' tuoi parenti.

Fur trent'ore di martirio 
per te lunghe interminate; 
trenta secoli d' anelito 
per quell'anime affannate.
Finchè — madre,  ahimè! — dicesti:
—   Muoio !  —  e  tacque  la tua voce 
strangolata  dal   difterico
uccisor spasimo  atroce.

E la madre il macro e lìvido 
corpicin forte abbracciando, 
nei tuoi  spenti  occhi i suoi  freddi 
impietrati occhi fissando :
—  Tu  —  gridò :   —  Morta  tu   pure, 
Lina,  o santo angelo mio;
Ah! Tu sei padre d'infamia, 
non d'amor,  perfido Dio! —
(Bare, da Kokodè).

Ma finalmente l'alba spunta « la rosea desiata alba dei forti » e ritorna con essa quella dolcezza a carezzare il canto del poeta : insuperabile virtù di contrasto che anima il temperamento artistico del Milelli che con travolgente forza suggestiva passa dal dolore alla gioia, dall'estasi allo schianto, dalla maledizione alla vita all' inno all' amore, dal sorriso del vincitore al truce sguardo del disfatto. Ritorna così il dolore e l'anima ricomincia a sanguinare : epilogo d'una lotta interiore che travaglia l'artista, lotta senza tregua tra una realtà fitta di sventure e la forza smagliante degli ideali che lo spirito umano sublimano : sublime travaglio spirituale finchè quegli ideali lo avvolgono in una fiammata di entusiasmo e nella Trilogia ch'io chiamo a contenuto sociale, (Prometeo - Laocoonte -Ercole) hanno la più alta e bella affermazione.
IL PATRIOTTISMO DEL POETA.
Prometeo è incateanto alla rupe scitica delle ingiustizie sociali, e l'avvoltoio della società gli rode il fegato : sola speranza tra i dolori di quel più antico dei martiri dell'idealità umana ; il canto delle Oceanidi. Non è il Prometeo della tragedia eschilea, simbolo della lotta fra la ricerca umana della verità e della scienza contro la somma potenza del nume offeso e neppure è il Prometeo dello Schelley che in esso impersonò l'ideale supremo dell'uomo, ma è il simbolo della resurrezione delle plebi contro l'oppressione dei privilegiati, resurrezione che trionfa nella fratellanza umana della terza parte della Trilogia.
Tali ideali sociali, però, non scoloriscono affatto nel Milelli l'amore che egli tributava immenso per la Patria e, quando l'aspirazione di un'Italia infiammò i giovani petti, egli combattè con Garibaldi al Volturno dando magnifica prova di grande attaccamento verso di essa. « In giovinezza è tutto un fremito di romanticismo patriottico come essenzialmente romantico fu il nostro Risorgimento :

Viva! — egli grida — omai dall'Alpe al mare 
Leva Italia un sol vessillo; 
Viva!  i  tempi  ormai ritornano
di Duilio e di Camillo.

Pertanto quei concetti sociali dovettero formarsi nel Milelli proprio quando, realizzato il sogno dell'unità nazionale, si fece strada in Italia un vigoroso movimento di riscossa contro viete costruzioni d'una classe privilegiata che con la rivoluzione francese aveva perduto il dominio politico, movimento di intellettuali cui certo il poeta bohémien, il romantico non potea non partecipare.
Così tale suo atteggiamento spirituale ha la spontanea e sincera spiegazione.
E pur sbattuto incessantemente dalla bufera di loco in loco, il Poeta sempre in core sigillato conserva col ricordo della patria il ricordo della sua terra natale :

Io t'ebbi sempre in core e tu del mio 
lavoro, onde levarmi alto tentai, 
non di conforto un picciol segno, un pio 
segno d'affetto non avesti mai.

E volser gli anni. E poi ch'oltre il desìo 
qualche cima dell'arte anch'io toccai, 
che dissipasse di sì triste oblio 
la nebbia un raggio solo invan sperai.

Forse legge dei fati. Eppur se alcuna 
lode concederanno i dì venturi 
al mio nome, vincendo la brutale
gara degli odii, io pago di quell'uno 
sarò,  che almeno a' miei figli assecuri 
l'amore della mia città natale.
(Al mio  paese)

E  ancora in   « Notte umbra » :
Del mio Jonio io non so, del mio bel sole
Io non la so scordar la poesia.....
Affascinante Poeta che dei romantici aveva le qualità migliori : l'abbondanza sentita, la melodia colorita, l'abbandono al fantasticar melanconico, tutto amore e gentilezza!
ALTRE OPERE MINORI.
ÌL SENTIMENTO DEL POETA.
IL SUO NAUFRAGIO.
Rifugiatosi nella bellezza della Conca d'oro dopo un pellegrinaggio senza posa, astretto dalla necessità imperiosa, volle raccogliere molte poesie inedite in un volume: « Nell'isola », che poi non potè vedere la luce perchè pazzescamente stampato da un editore siciliano al quale dovette vietare la pubblicazione, in quel torno di tempo abbozzò l'« Ercole », l'ultima parte della Trilogia e raccolse sotto il titolo : Le Cristiane » alcune poesie che rappresentavano il ritorno del Poeta all'antica fede religiosa.
Ma il bisogno lo assillava, lo spettro della miseria batteva tristemente alle sue porte ed in alcimi momenti di terribile sconforto egli aveva accenti di commozione straordinaria :

A me. intorno il deserto, a me davanti 
l'ombra e la morte, esco il retaggio mio, 
e chiuse dentro al cor, fiere, incessanti, 
due voglie,  anzi due furie : ira ed oblio.

Ed ancora :
Dentro le tempie il vuoto,  entro le ansanti 
vene la febbre ed il delirio,  ond'io 
oltre posar non so gli spirti erranti 
che del nulla nel gelido desio
E l'invoco e l'affretto..

Non aveva amato la natura, la Patria, la sua terra natale, la sua famiglia di cui parlava con le lagrime agli occhi? Ed allora perchè tanto soffrire?
Non aveva sì caldo affetto pei figli che finisce col dire :

..... dacchè Guido m'ama
ed Ugo mi sorride e mi accarezza
mi par bella la vita e dolce il mondo?
Non aveva oviunque cuore e gentilezza? Ma a che gli valsero? A che gli valse l'ingegno?
Di parecchi poeti suoi contemporanei che hanno avuto il vento in poppa, più arrisi dalla fortuna egli è certamente superiore e e perciò io credo che il tempo farà a Domenico Milelli giustizia riconoscendo i meriti non comuni che egli ebbe, dopo lo sprezzo che i contemporanei gli gettarono addosso e dopo l'oblìo cui dai contemporanei fu condannato. Le sue poesie non furono, come oggi si usa, declamate nelle sale e nei teatri, ne ebbero quella sapiente reclame che oggi sanno fare i poeti alla merce loro, ecco perchè non vinsero tutte le resi-stense per farsi leggere ed ammirare lungamente.
Fatalmente doveva naufragare e naufragò.
La paralisi che già lo aveva colpito gli dette, sul tramonto del -905, il colpo di grazia : la parola gli morì sulle labbra, e la dolcezza dei suoi carmi coi quali lui, meraviglioso dicitore, avea ottenuto in altri tempi umanimità e deliri di applausi si smorzò fulmineamente nelle tenebre del sogno che non ha più risvegli !...
Pochi, e la più parte giovani, accompagnarono il feretro al Cimitero ove gli stessi giovani che tanto lo amarono, sparsero fronde d'alloro sulla nuda tomba del Poeta.
Ed è tutta un'immensa poesia intorno al cippo che tra le croci di quel Camposanto distingue le ossa dello sfortunato cantore ...
E Palermo soffusa di splendore, in eterna primavera smagliante di luce, olezzante di fiori, gli canta nella bellezza della Conca d'oro l'immortale elegia.
FINE - 1932.



Mori a Palermo nella notte tra il 22 e 23 Dicembre del 1905, "povero come era sempre vissuto, realizzandosi quasi con fedeltà sconcertante ciò che lo stesso Milelli aveva poeticamente sognato in gioventù":
Povero e vagabondo anch 'io vorrei
di terra in terra errar di gente in gente,
Nè mi dorria se avessi i giorni miei
a consumar piangendo assiduamente.
Vorrei provar l'angoscia e l'irrequieta
febbre, o Torquato, che struggeati il cor..



Fotografia
Domenico Milelli
1911
s.m.napolitana
F.P. Frontini
Il tuo ritratto
Domenico Milelli
1911
Carisch
F.P. Frontini
Inno all'italia delle colonie
Domenico Milelli
1902
Carisch
F.P. Frontini
Luna che spunti
Domenico Milelli
1904
Venturini
F.P. Frontini