Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

mercoledì 18 gennaio 2017

Luigi Capuana e "la politica anzitutto"


  • Ebbi rimorsi di non essermi sentito Siciliano abbastanza; di avere esagerato anch’io i difetti del carattere isolano, e di avere apprezzato equamente pregi e particolari ogni volta che, interrogato, avevo dovuto ragionare; ebbi rimorso di non aver difeso clamorosamente, e senza sciocche gonfiezze di amor provinciale, la Sicilia, quando l’avevo sentita mal giudicata o calunniata... cosa non rara purtroppo! (Capuana da L'isola del sole - proemio, Giannotta ed., Catania, 1914)



La vastissima produzione di letterato e di critico di Luigi Capuana è conosciuta universalmente (e la diversificazione in generi letterari numerosi nell'ambito di essa dà la misura delle qualità dell'Autore); meno conosciuta per taluni risvolti la dimensione politica, che il Nostro esplicò con grinta e con passione, pur con le pause degli anni vissuti a Firenze a Milano e altrove — per un trentennio, congiuntamente anzi strettamente intrecciata con l'attività letteraria.
Fu una vocazione o predisposizione, lontana nel tempo, risalente agli albori dell'Unità, se troviamo il Capuana nel maggio 1860, appena ventunenne, vice presidente del «Comitato di operazione di Mineo», insediatosi dopo lo sbarco di Garibaldi per il dissolvimento degli organi municipali (cfr. Gino Raya, Bibliografia di L. Capuana, Roma, 1969, p. 12). Il 30 giugno successivo, il presidente del Municipio portava a conoscenza del Capuana che il Governatore del distretto l'aveva nominato «Segretario Cancelliere di questo Consiglio civico». L'incarico, provvisorio, fu espletato egregiamente per tutto il semestre. L'11 agosto 1861 fu scelto dal Governatore come consigliere del comune (il Consiglio civico in questa fase non era ancora elettivo) ed invitato alla sessione che iniziava il 20 successivo (cfr. C. Zimbone, La Biblioteca Capuana, Catania, 1962, p. 62). Ancora qualche anno trascorso nel natio loco e poi l'espatrio a Firenze, dove rimase per cinque anni, fino al 1868.

Nell'agosto del 1868 (era rientrato a Mineo alla fine di giugno), la morte improvvisa del padre e «gli affari di famiglia» gli imposero di rimanere a lungo. Riprendeva i contatti con i conterranei e, in particolare, con Lionardo Vigo e con Mario Rapisardi. Nel 1870, nel corso dell'anno scolastico, dalla Giunta comunale fu nominato «ispettore scolastico municipale». Di questo incarico, adempiuto con senso del dovere, rimane il testo del lungo discorso pronunziato il 24 novembre 1870, giorno della solenne premiazione (Il bucato in famiglia, Catania, 1870, pp. 23). È questo il tramite, o il ritorno di fiamma, che lo traeva dal privato al pubblico.

Nelle elezioni amministrative, svoltesi nel corso dell'anno, venne eletto consigliere comunale: iniziava così il nuovo ciclo di attività amministrativa, al servizio della cittadinanza. Nel 1872, con regio decreto del 29 febbraio, venne nominato Sindaco di Mineo. Dopo pochi mesi il consiglio comunale fu sciolto e la gestione affidata al R. Delegato straordinario cav. Antonino Fassari inviato dalla prefettura (rimane una Relazione sulla tenuta dell'amministrazione del Comune di Mineo, Catania, 1872). Del nuovo consiglio, che tenne la prima seduta il 24 agosto 1872, fece parte il rieletto Capuana, che dopo venne nominato sindaco, sempre con regio decreto.
Le sindacature del Capuana durarono, in questa fase, poco meno di quattro anni. In una lettera («Mineo lì 2 marzo 1875») all'amico Giovanni Gianformaggio, Capuana lo informava della stesura di una relazione riguardante il periodo della sua amministrazione «Sto scrivendo la mia relazione al pubblico delle cose fatte nei quattro anni di sindacatura» (L. Capuana, Carteggio inedito, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Catania, 1973, p. 11). Le elezioni, che si svolsero nel luglio 1875, segnarono la sconfitta dell'amministrazione guidata da Capuana.
La quasi totalità dei biografi e degli studiosi sono convinti che le sindacature del Capuana furono solamente queste, specificando erroneamente la durata continua di cinque o di sei anni. Tutti omettono la sindacatura triennale dal 1885 al 1888. La testimonianza in tal senso nel Carteggio Verga-Capuana, edito da Gino Raya (Roma, 1984, pp. 274-275), ed è Capuana che in una lettera, inviata da Mineo il 9 agosto 1887 dopo il lungo sfogo confidava all'amico Giovanni: «Come Sindaco non ne posso più! ». Rimarrà in carica ancora un anno. Un cronista del quotidiano catanese Il TelefonoEco dell'Isola riferiva, nel novembre 1887, nella rubrica «Vediamo un po'», un incontro non comune. Lo stelloncino era titolato «Il Sindaco di Mineo»: « Luigi Capuana, il fortunato autore di Giacinta, è qui fra noi da parecchi giorni. L'ho incontrato al corso con Giovanni Verga» (a. I, n. 104, martedì 15 novembre 1887, p. 2).

*   *   *
Nel decennio intercorso fra le sindacature del 1872-1875 e l'ultima del 1885-1888, vi fu la fase propriamente politica allorquando il Capuana si convinse che la conquista della medaglietta fosse agevole nel Collegio elettorale di Militello in Val di Catania, che comprendeva anche il comune di Mineo. Nel primo decennio dopo l'Unità d'Italia, il collegio era stato conquistato agevolmente dal barone Salvatore Majorana-Cucuzzella. Nel decennio successivo, con inizio il 20 novembre 1870 fu rappresentato, per le successive cinque legislature, dal professore Salvatore Majorana Calatabiano, che cessò automaticamente il 13 luglio 1879 per la nomina a senatore. Questa l'occasione buona per l'inserimento (pensava il cav. Luigi Capuana).
Nelle elezioni indette per il 3 agosto 1879, Capuana ebbe due forti avversari: il barone Benedetto Majorana Ramingo, che sperava di ereditare l'elettorato di famiglia del padre Salvatore, già deputato, e Ippolito De Cristofaro dei baroni dell'Ingegno, che aveva compatti i voti degli elettori di Scordia.
Vinse quest'ultimo largamente, e il povero Capuana, buon ultimo, si dovette accontentare di appena 66 voti (su un totale di 532 espressi validamente). Le elezioni generali per la nuova legislatura si svolsero il 16 maggio 1880 e l'uscente De Cristofaro ebbe per competitore unico il Capuana che fu ancora una volta soccombente (De Cristofaro voti 421, Capuana 114). Dell'insuccesso vi è traccia incisiva nella lettera inviata da Verga pochi giorni dopo («Milano, 28 maggio 1880») «Temevo che tu fossi in collera con me, come l'amico Campi, per il fiasco elettorale»; della candidatura ampia pubblicità nel quotidiano catanese Il Plebiscito (a. 1, n. 102, del 10 maggio 1880, p. 2), che l'appoggiò calorosamente.

Dobbiamo ora considerare, e con indagine mirata, la terza ed ultima fase dell'attività politico-amministrativa di Capuana, che va dall'anno 1885 al 1892, così frenetica e convulsa nello svolgimento da meritare lo slogan «politica ad oltranza» (o, come si direbbe in Francia, «politique d'abord, tout d'abord»). Il sindaco Capuana, in sella dall'agosto 1885 è indaffaratissimo; non solo «per patrocinare il bilancio del Comune presso la Depurazione provinciale» (lettera a G. Verga del 3 dicembre 1885), ma per i nuovi pesanti obblighi sopravvenuti dal luglio '85 con la elezione a consigliere provinciale per il mandamento di Mineo. Subentrava al barone Francesco Spadaro, che era stato eletto nel 1861 e rieletto dopo per un quarto di secolo. Il cav. Luigi Capuana raccolse 214 voti e fu probabilmente presente alla prima seduta della sessione ordinaria del 10 agosto; dopo l'insediamento, fu eletto componente della 3a commissione Istruzione e beneficenza.
Ma le assenze, fin dai primi mesi, furono molto più numerose delle presenze. Aveva promesso a Federico De Roberto, in una lettera del 20 novembre '85, di occuparsi di un affare editoriale a breve scadenza «Me ne occuperò costì, appena dovrò venirci pel Consiglio provinciale». Anche Giovanni Verga sembra deluso per l'assenteismo e così gli scrive il 16 dicembre '85 «Fui sino dal Giannotta a chiedere di te, quando sfumarono le speranze di vederti in occasione delle sedute del Consiglio provinciale. Bel consigliere che fai! ». Esplicò una certa attività; nella seduta del 15 dicembre 1886 fece aggiungere due proposte: la prima «per dichiararsi provinciale la strada Fondacaccio-Mineo» e l'altra «per un sussidio all'osservatorio sismico meteorologico di Mineo» (sollecitata dall'amico Corrado Guzzanti). Dopo, negli anni successivi, le sue assenze divennero sistematiche, e sappiamo che per lunghi periodi soggiornava a Roma e nella primavera del 1888 divenne redattore del Corriere di Napoli, diretto da Edoardo Scarfoglio.

Trascorse così il quadriennio del mandato di consigliere e nelle elezioni successive, indette per domenica 27 ottobre 1889, il quotidiano Corriere di Catania, appoggiava il candidato Capuana per i suoi meriti di letterato, ma si esprimeva con cautela per il resto e con monito per l'interessato; «Quantunque dimorante a Roma il nome illustre ci obbliga a sostenerlo, e confidiamo che gli egregi amici nostri, i quali colà si sono messi in candidatura in opposizione al Capuana vogliamo ritirarsi. Del resto nella nuova legge è sancito il principio della decadenza ed ove il Capuana non rappresentasse gli elettori al Consiglio provinciale si farebbe sempre in tempo per soddisfare alle legittime aspirazioni dei cittadini di Mineo» (a. XII, n. 292, giovedì 24 ottobre 1889, p. 2).
La spada di Damocle della decadenza non turbò il nostro consigliere, che svolgeva la sua attività di scrittore e di giornalista a Roma, cosicché nei primi mesi del 1890 fu avanzata dal prefetto «la proposta di decadenza per le assenze ingiustificate alle sedute della sessione ordinaria». Essa fu posta all'ordine del giorno della seduta dell'8 aprile 1890. Parlarono a suo favore numerosi consiglieri: gli avvocati Eduardo Cimbali e Giovanni Auteri Berretta e, ancora, l'autorevole comm. Francesco Tenerelli senatore del regno. Perorarono efficacemente, sostenendo che le assenze del Capuana erano giustificate, in quanto dovute a malattia. Il prefetto Vincenzo Colmayer « custode della legge», pur non perfettamente convinto, tuttavia ritirò la proposta di decadenza.
Due anni dopo Luigi Capuana presentava formali dimissioni che furono accettate. Si chiudeva così definitivamente un ciclo di attività extra letteraria durato circa trent'anni. Si apriva un altro capitolo della vita di Luigi Capuana: aveva ottenuto dal ministro della P.I., nel novembre 1892, la nomina di professore incaricato dell'insegnamento di letterature straniere comparate presso il R. Istituto Superiore di Magistero femminile di Roma.
(La Sicilia, 29 novembre 1985) Sebastiano Catalano




CARLO DOSSI - « Giornale di Sicilia », 26 agosto 1883

Tra i più importanti esponenti della scapigliatura milanese, fu particolarmente legato ad altri scrittori del genere come Emilio Praga e Luigi Conconi ed è ancora oggi apprezzato per la schiettezza dei suoi scritti, il linguaggio ricercato ma comprensibile a tutti, la spiccata ironia e la critica che mosse al suo tempo anche in ambito politico e sociale.


 « Giornale di Sicilia », 26 agosto 1883

A poco a poco questo Carlo Dossi han finito per istrapparlo dall'oscurità. Qualche editore stampa i suoi libri, e qualche giornalista se ne occupa. Ciò non ostante chi ne sa qualche cosa di costui? Dove abita? con chi vive? è egli giovane o vecchio? Non è facil cosa rispondere a tutte queste dimande. A Milano dov'io feci, assai tempo addietro, lunga dimora, e dov'era amico degli amici del Dossi, quest'ultimo non lo vidi che una volta sola, per caso. La sua figura mi colpì. Stetti un pezzo a mirare fisamente quella strana testa d'uccello appiccicata ad un esile corpo. Egli non proferiva che poche parole, per forza, come colui che si annoia   financo   ad   aprir  la  bocca.
Nel suo sguardo, nella sua voce c'era come una triste espressione di stanchezza. Pareva un uomo che avesse assai sofferto e assai pensato.

Carlo Dossi avea fatto parte di un cenacolo artistico, nel quale torreggiava la figura erculea di uno scrittore dalla coltura eclettica e dal vasto e poderoso ingegno, Giuseppe Rovani. Morto Rovani, quel cenacolo si sbandò. Grandi, lo scultore che sta lavorando nel monumento per le Cinque Giornate, cominciava a farsi un nome col suo Cesare Beccaria; Tranquillo Cremona aveva acquistato un'autorità pari al suo valore; Levi e Perelli s'erano buttati al giornalismo; Carlo Alberto Pisani Dossi, cioè Carlo Dossi, sebbene agiato, desiderava quel che si dice un'occupazione. Ognuno dunque cominciava a pensare al fatto suo. Non pertanto se il cenacolo più non esisteva come un'intima brigata di amici, continuava sempre ad esistere come un'affettuosa armonia d'intelligenze.
Ma il Dossi rimaneva ancora ignoto, o quasi. Del resto credo che egli rifugga del consorzio degli uomini. A me pare che questo forte originale e caratteristico scrittore debba nutrire un profondo disprezzo per la società. Ci aveva la mamma, una santa donna di alto e libero ingegno, e la mamma gli è morta. Ci aveva un cane, ma un rospo gliel'ha morsicato, e se n'è ito il cane. E adesso Carlo Dossi è rimasto solo.
Dico male: a Roma, dov'egli è impiegato al Ministero degli Esteri, ci ha due fidi amici, il Levi e il Perelli,   direttore  il   primo,   redattore   l'altro   della   « Riforma»,  ma costoro passano il santo giorno strascinando
la catena del giornalismo; e il Dossi non li vede che qualche volta la sera, a ora tarda. Li vede per salutarli, perché essi non s'impensieriscano sul conto suo; e poco dopo  se ne va,  meditabondo,  seccato.
Oh i bei giorni del cenacolo, a Milano! Oh come allora si sturacciavano allegramente le bottiglie, anfitrione, nume e protettore Giuseppe Rovani, là, in quella  rumorosa  Osteria del Gallo.
D'altronde a quei convegni io credo che il Dossi c'intervenisse di raro. Il suo intelletto è fatto per la solitudine. Tutto ciò che è folla lo annoia; tutto ciò che è rumore lo disturba. Che importa a lui della gente? Che importa a lui della società? Che gliene importa della rinomanza della gloria? Egli possiede una vasta coltura, ma la dottrina a lui non serve che come un nutrimento di cui ha bisogno. Egli conosce il latino, il greco antico, l'ebraico, il caldeo, ma tutta questa roba se la tiene in corpo, per sé. Pare che non avesse potuto resistere all'impulso di scrivere —- e scrisse; ma che ne fece, sino a poco tempo addietro, dei suoi romanzi? li stampò con gran lusso, in edizioni... di cento esemplari. Ognuno di questi esemplari era messo in vendita per cento lire; e così il Dossi raggiungeva il suo scopo, ch'era  quello  di  non  venderne  nemmeno  uno.
Un solo editore, il Sommaruga, ha potuto vincere una tale ripugnanza per la pubblicità che possiede in sommo grado il Dossi; e appunto il Sommaruga ha ristampato adesso due suoi vecchi lavori:  la Colonia Felice ed i Ritratti Umani, che in questi giorni ho letto, anzi  ho  riletto,   con  interesse grandissimo.

E le impressioni che ne ho ricevuto sono state molte e varie; questa anzitutto: che il Dossi non sarà mai popolare. Questo scrittore, che pure nei suoi intenti artistici è così democratico, è poi estremamente aristocratico nella forma. In lui non il periodo lindo e leggiero che scivoli elegantemente come slitta sul ghiaccio; ma il tocco forte e conciso, ma la frase concettosa ed efficace, ma il periodo muscoloso e breviloquente. Codesto ameranno senza dubbio lettori intelligentissimi dal gusto raffinato, ma non amerà la plebe folta dei leggitori dal breve comprendonio, dalla non nutrita intelligenza, dalla poca voglia di studiare e di imparare leggendo. A questo si aggiunga la numerosa introduzione che fa il Dossi nella sua prosa di nuovi o poco usitati vocaboli, tratti in gran parte dal dialetto lombardo; si aggiunga anche la strana accentuazione, non del tutto illogica e inutile da lui adoperata e ne avrete abbastanza perché i lavori di questo originalissimo scrittore non possano mai essere completamente accettati dalla moltitudine.
La originalità del Dossi, leggendo appunto i suoi libri, sembra dapprima che consista solo nella rude e ferrea magia della forma, e invece codesta originalità risiede non meno nella parte sostanziale dell'opera. Gli è  che  l'armonia  tra  le  due  parti   è  grandissima;   può dirsi   anzi,   senza   tema   d'errare,   che  l'una  s'immed sima   incosciamente  nell'altra  o  che  entrambe  scaturiscono  d'un  sol  getto  insieme.
Che fa il Dossi nei suoi libri? Studia e svela l'uomo, o, per dir meglio gli uomini, nella loro individualità e nella loro comunità. Ed è strano! Questo solitario, questo refrattario dal sociale consorzio, quest'uomo che ha vissuto e che vive tutto immerso in una solitudine triste e contemplativa, conosce la società e la vita in un modo che mette spavento. È per effetto di osservazione, o solo per effetto d'intuito? Certo l'osservazione vi ha avuto la sua parte, né sarebbe possibile altrimenti; ma la forza dell'intuito deve essere in quest'uomo ferrea e profonda. Tutto ciò che è vizio, ipocrisia, malignità egli lo conosce, lo anatomizza e lo svela; non v'è angolo del cuore umano che gli sia ignoto, non v'è arcano del pensiero che egli non intuisca e non afferri. Le sue dipinture, brevi ed efficaci, talvolta mettono i brividi; in una frase, in un motto egli è buono a scolpire un'indole, a fermare con efficacia scenica una situazione. Né egli è artista obiettivo soltanto. Egli, quasi sempre, rivelando, giudica, giudicando, condanna. I tipi ch'egli rappresenta, sembrano suoi nemici ch'egli aggredisce, doma e costringe a soccombere. Ed è una lotta disperata, corpo a corpo, alla quale il suo stile, che sembra opera di un bulino di cesellatore, dà efficacia strana e fortissima di contorni, di linee di espressioni e di movenze.

Questo è il Dossi. Tale è soprattutto nell'opera sua più seria e più completa che è la Desinenza in A, grande e luminosa lanterna magica di viventi. E la Desinenza in A, fa desiderare che il Dossi si accinga ad un'opera di più vasta mole: che tenti il romanzo sociale, dalle grandi linee e dalle molteplici figure. Vi riuscirebbe? Io non so; certo un suo tentativo, anche rimanendo semplicemente un tentativo, potrebbe chiamarsi  con  precedenza  un  serio  lavoro.
Ma dalla Desinenza in A son già trascorsi circa sei anni, e Carlo Dossi non ci ha dato più nulla di nuovo. Difatti la Colonia felice ed i Ritratti umani, che ci han fornito l'occasione di questo articolo, non sono che delle ristampe. Che fa egli dunque il Dossi, egli, l'artista dalla inesauribile tempra? La stanchezza l'opprime a tal segno, da fargli trascurare il suo unico svago, quello cioè  di  far  conoscere  gli  uomini   agli  uomini?
Se ciò è, io ne sono dolente per lui che soffre; dolente per l'arte, la quale, con suo detrimento, dalle sofferenze dell'uomo vede anche derivare l'inerzia dell'artista.
* Enrico Onufrio


martedì 3 gennaio 2017

LA MAFIA IN SICILIA - 1887


« Nuova Antologia » febbraio  1887, di Enrico Onufrio






1°) Allorquando avviene che le condizioni della pubblica sicurezza in Sicilia si riducono ad uno stato anormale, Deputati, Giornalisti, Governo, individui d'ogni taglia e d'ogni colore ne discutono e ne giudicano come di materia che essi a sufficienza conoscano.
Allora si risolleva la parola mafia, le si attribuiscono significati diversi, la si plasma in moltissime guise, e a (mesto modo si cade in un intricato labirinto di spropositi, che aumenta le difficoltà e riduce il problema ad  un  enimma.
Ultimamente, presentatasi l'opportunità di un'interrogazione in Parlamento da un Deputato siciliano, il Ministro degli Interni,  nel rispondere all'interrogante, si trattenne a parlare del malandrinaggio in Sicilia, e neppure egli potè dispensarsi dal proferire giudizi affatto erronei. Né questo può attribuirglisi a colpa, giacché ritengo fermamente, che nessuno può discorrere, con piena coscienza di causa, di faccende che ignora: sicché dal 1860 a questi giorni, tutti i Ministri italiani, che si sono intrattenuti sulla mafia siciliana, son cascati in errori madornali ed hanno resa più difficile la questione.
Si domanda da ogni parte: che significa mafia? quali sono gli individui che possono dirsi mafiosi? quali rimedii debbono mettersi in opera per ischiantare la trista radice?

2°) Ma prima di tutto bisogna determinare il vero significato di questa parola. Comunemente per mafioso s'intende in Sicilia chi ha del coraggio e sa darne le prove. Oltre a questo però il gregario della mafia dev'essere fornito di certi requisiti indispensabili: deve portare, per esempio il berretto o il cappello un pò a sghembo; i capelli devono terminargli a ciuffo sulle tempie; il suo linguaggio deve essere spiccio e conciso.
Probabilmente la mafia ha un'origine spagnola.
A quei tempi la braveria era all'ordine del giorno, e gli altolocati poggiavano la loro forza sulla bassa canaglia. Il mafioso siciliano ai tempi della dominazione spagnuola ha il suo riscontro nel bravo di Lombardia.
Ci sono naturalmente diversi generi di mafiosi, ma di questo parlerò in appresso. Dico per ora, che lungo il corso delle rivoluzioni siciliane, dal 1820 al 1860, la mafia seguì l'andazzo dei tempi, e non esito a confessare che moltissimi dei suoi gregari, impugnando le armi,   seppero   battersi   con   valore.
Però non abbandonarono la loro trista impronta. Al 1848, per esempio molte squadre di rivoltosi dalle varie contrade dell'Isola convennero in Palermo; ma appena scacciate le truppe borboniche molti di quei ribelli da soldati della patria si mutarono in ladri di piazza e la sera, appostati pe' canti delle vie meno frequentate, rubavano a man salva. Si dovette ricorrere all'estremo  rimedio   della   fucilazione.
Nei tempi che precessero la rivoluzione del 1860 i mafiosi potevano dividersi in tre categorie: camorristi,  ricottari  e briganti.
Parlerò successivamente di questi tre diversi generi di  galantuomini.

3°) I camorristi sono interamente spariti: ritengo che sieno già divenuti monopolio della tradizione. Per lo meno suppongo che pochi ne rimangano ancora. La camorra esiste sempre e dovunque, ma io qui intendo alludere alla camorra com'era a quei tempi organizzata in  Sicilia.
Il nome di camorrista deriva probabilmente da capo morra o mora, che è il gioco prediletto da quella gente e nel cui esercizio suole scegliersi talvolta un direttore o un capo. Infatti il camorrista è colui che s'impone agli altri per mezzo del suo coraggio e della sua forza fisica che gli hanno fruttata una grande autorità morale.
Non c'era un camorrista che fosse sprovvisto di coltello.
Quest'arma era chiamata con vocabolo del gergo, danno, ed era fornita ai detenuti dagli amici di fuori, nascosta  dentro un  pane  di  forma bislunga.
Il capo camorrista era anche sottoposto a quei pericoli che minacciavano i Governi dispotici. Spesso in grembo alla associazione avvenivano congiure ed ammutinamenti, ma l'audace monarca facea pagare ben cara la sua vita.
Di estrema audacia, provvisto grandemente di coraggio e di forza, valentissimo tiratore di coltello, egli non  periva  che  sui   cadaveri   di  parecchi  nemici.
Ecco in poche linee il quadro dei camorristi quali erano un tempo in Sicilia. Evasero tutti dalle carceri per la rivoluzione del 1860, ed impugnate le armi seminarono delle loro ossa i campi di Milazzo e del Volturno.

4°) Estinto non è ancora l'altro tipo della mafia: il ricottaro.
La missione del ricottaro è quella di essere strenuo paladino delle donne perdute e di farsene il difensore di fronte a coloro che vogliano su di esse esercitare dei soprusi. Ma la loro missione comunemente trascende, sicché si muta in quest'altra: esercitare le sopercherie più capricciose per semplice ambizione di prepotenza.
I ritrovi dei ricottari sono le taverne e le case, dove si eserciti un infame mercato e nelle quali ciascuno ha la  propria  amante.
Anch'essi adoperano un gergo stranissimo; vestono abiti dimessi, e mostrano dall'aspetto e dall'abbigliamento il loro strano e turpe mestiere. Essi odiano mortalmente due sorta di gente: il damerino detto don liddo, cioè lindo, pulito, e il birro.
Nel basso popolo di Sicilia l'odio alla Polizia è assai comune, e trae manifestamente la sua origine dai tempi antichissimi del dispotismo borbonico, in cui la sbirraglia, scelta dal grembo della più bassa canaglia, non aveva altra missione che di esercitare violenze e soprusi. Quest'odio verso la Polizia nella classe dei ricottari continua, poiché sono appunto i poliziotti che invigilano su loro, li perquisiscono e li conducono in domo Petri,  quando  occorre.
I ricottari esercitano la loro malaugurata carriera in età  giovanissima, comunemente dai diciotto ai ventiquattro anni. Molti di loro, dandosi all'omicidio e al furto, terminano la loro vita nelle carceri; moltissimi altri s'ingentiliscono coll'esperienza ed a proprie spese  imparano  a  divenir  galantuomini.
L'arma dei ricottari è il coltello, ed è questo il loro amico indivisibile; moltissimi ne diventano abili tiratori, e sanno riceversi e consegnare colla massima disinvoltura   delle  buone  coltellate.
Il linguaggio che essi adoperano è breve e conciso.
Nelle taverne il giuoco prediletto del ricottaro è il tocco.
Qual'è lo scopo del tocco? Nessuno. Non tralascio però di fare un'osservazione. Tanto nella società di camorristi, quanto nel tocco, abbiamo visto de' governi assoluti e dispotici. Il capocamorra e il sotto rappresentano due tiranni in piccolo.
Si avverta che le due usanze, a cui ho accennato, nacquero senza dubbio sotto il governo del dispotismo, e la bassa canaglia, che in faccia alle leggi allo Stato non godeva alcun diritto, pare che si fosse riunita in sé stessa per godere la voluttà d'un dominio e un'apparente indipendenza dagli altri corpi sociali.
La classe dei ricottari se non è distrutta è assai illanguidita nella sua forza d'un tempo. In epoche di continui rivolgimenti e trambusti, essa si agitava liberamente nell'ombra, adempiendo in tutto e per tutto al suo tristo programma. Ma oggidì un mutamento esiste. Il coltello del ricottaro nell'affrontare il don liddo teme la comparsa d'una rivoltella nascosta sotto l soprabito, e nell'affrontare la sbirraglia teme la giustizia  della  Corte  d'Assise.
Ad ogni modo il ricottaro in Sicilia non è spento.
Non è raro che un giovane perisca di ferite all'ospedale senza voler confessare il nome del suo feritore. Quel disgraziato comunemente è un ricottaro, che muore adempiendo scrupolosamente alla sua legge della omertà.

5°) Esiste ancora il brigante.
Parecchi individui che portano questo nome si aggirano attualmente per le campagne dell'Isola, lasciando fama delle loro prodezze. Il più famigerato di loro è Antonino Leone, Valvo, Di Pasquale, Lo Cicero, Capraro, Rinaldi, tutti masnadieri audacissimi, furono uccisi la maggior parte per vendette private o per invidia di mestiere. Capraro di Sciacca fu ucciso dalla pubblica forza. Egli abbandonato dai suoi compagni sostenne da solo due ore di combattimento contro un gran numero di soldati. Valvo fu assalito in una casa, dove trovavasi colla sua amante e morì combattendo. Di Pasquale fu ucciso da Leone per odio personale, Batindari trovasi attualmente in prigione. Egli resistette per parecchie ore contro gli assalitori; abbandonato dai compagni,  continuò  a  combattere;  ferito  gravemente, si diede alla fuga, per più di due miglia, dopo le quali cadde a terra sfinito.
Uomini di tale audacia si impongono facilmente a popolazioni d'intere campagne. Il brigante veramente famoso che rimanga in questi giorni, come dissi più sopra, è Leone, ma le bande di malandrini non mancano. Esse son formate di uomini che non esercitano il brigantaggio per mestiere, ma che si prestano volentieri di tanto in tanto a fare un bel colpo. Dopo la loro impresa essi lasciano il fucile del brigante ed impugnano spesso la zappa del contadino.
Alla distruzione del malandrinaggio in Sicilia sono inutili sino a un certo punto i soldati dell'esercito, e sono spessissimo, quasi sempre dannosi i cosi detti militi a  cavallo.
L'Onorevole Ministro degl'Interni, parlando della pubblica sicurezza in Sicilia, disse com'egli abbia speranza nel concorso delle popolazioni. Per popolazione non può intendersi che devastino le loro campagne uccidano il loro bestiame, incendino i loro boschi. Adunque prima di tutto fa d'uopo che ai proprietari s'infonda la fiducia col forte appoggio, colle promesse fondate, senza lasciarli poco dopo soli all'arbitrio dei briganti, che non dimenticherebbero di vendicarsi di quei proprietari che loro hanno dichiarata la guerra.
Inoltre è buono a sapersi, che l'anormalità della pubblica sicurezza in Sicilia non deriva soltanto da otto o dieci briganti che vanno attorno per le campagne; ma assai più da quei tali (e sono pur troppo in gran numero) che nascosti nell'ombra agevolano il brigantaggio e se ne fanno manutengoli. Costoro, i quali non hanno l'audacia di affrontare a viso aperto la battaglia e la morte, coperti dal mantello della loro vigliaccheria aiutano e fomentano il brigantaggio, formando quella congrega di faziosi che la mano forte del Governo potrebbe agevolmente comprimere. Dappoiché quei tristi sono come i corvi che si avventano sull'uomo, solo quand'esso è cadavere; coloro infatti, che esercitano il manutengolismo per ingordigia di denaro, chinano il capo e si mettono le mani in tasca, quando temono che la loro pelle possa andarne di mezzo.
Perché il Governo possa direttamente intervenire alla estirpazione del malandrinaggio, fa d'uopo che conosca il male negli elementi che lo compongono e negl'individui che lo rappresentano; sicché egli deve infondere intera la fiducia nei proprietari, ed affidare il reggimento delle provincie ad uomini del paese che sappiano, vogliano e possano fare. In quanto ai militi a cavallo io ne ritengo necessaria l'abolizione; ma se deve affidarsi alle truppe il servizio delle campagne, bisogna che si mettano alla loro testa delle guide coraggiose del paese, e che non abbiano punto l'onore di una   qualsiasi  relazione   col   brigantaggio.
Si è detto da moltissimi che la costruzione delle vie ferrate influirà in gran parte alla estirpazione del malandrinaggio, ed io ne convengo interamente. Ma credo altresì che una delle ragioni precipue dell'esistenza della mafia sia la questione economica intorno ai contadini siciliani. A ciò potrebbe provvedere benissimo una certa legge agraria presentata molto tempo addietro in Parlamento, e che credo trovisi attualmente sotto gli studii di una speciale commissione.
In Sicilia, per la maggior parte, la paga massima del contadino è venticinque soldi al giorno e nulla più. In inverno, quando piove, l'agricoltura si mette da parte e il contadino si muore di fame. In estate, in moltissimi paesi dell'Isola, il contadino non ha diritto che a mezza giornata di lavoro. Sicché ognuno può comprendere facilmente in quali misere condizioni versi la classe dei contadini in Sicilia. Venticinque soldi a giorno è il maximum della fortuna, a cui egli possa aspirare, ed un povero diavolo, prima di morire di fame, prima di prostituire le sue figlie, ama meglio farsi manutengolo di un brigante, o brigante egli stesso.
Ci vuole adunque da questo lato una riforma ed una riforma radicale.
Allorquando ai reggitori della cosa pubblica si presenta una quistione sociale, bisogna che essi l'affrontino e si studino in tutti i modi di risolverla. Un problema che oggi si offre per se stesso difficile, domani potrà essere irrisolubile  affatto.

6°) Riassumo brevemente le idee da me innanzi espresse. Ho  dimostrato  colla  storia  come  la  Sicilia  sino  al 1860 vivesse d'una vita tutta propria; e quindi intorno alla mafia nessuno estraneo all'Isola può farsi assai facilmente  un  concetto.
Alla mafia cittadina può provvedere benissimo una Polizia oculata ed onesta. Alla mafia campagnuola con tutte le sue diramazioni affini di manutengolismo è in obbligo di provvedere la mano energica del Governo.
Dopo ciò è inutile ripetere che il tempo saprà fare il resto, qualora cittadini e Governo concorrano entrambi ad agevolare lo sviluppo di que' benefici che la civiltà suole immancabilmente apportare.







domenica 1 gennaio 2017

Frontini Martino, Catania 1827/1909.



Frontini Martino, contrappuntista valentissimo nato in Catania nel 1827 ed ivi morto il 7 novembre 1909.

Fu il maestro dei tanti maestri catanesi che ebbero nome stimato nella seconda metà del secolo scorso, molti dei quali gli rimasero gratissimi, e si mostrarono orgogliosi di avere imparato l'arte musicale dal Maestro Frontini.

Istituì la Banda Municipale e ne fu direttore per più di 30 anni: diresse anche la Banda del R. Ospizio di beneficenza.
Compositore di gusto squisito, produsse un numero notevole di pagine musicali che lo ricorderanno sempre in tutta Italia, come uno tra i meglio ispirati autori di melodie e di ballabili, specialmente di valtzers, in cui fu riconosciuto insuperabile come Straus.
Scrisse ancbe opere liriche e coreografiche che ebbero successi magnifici
Di Lui abbiamo l'opera in tre atti Marco Bozzari, assai lodata dal grande maestro Pacini, che aveva stima immensa del nostro Martino Frontini, e lo ebbe gradito ospite nella sua villa di Pescia.
Abbiamo inoltre il Fatima, azione coreografica, e la Rivolta dell'Olimpo, operetta fantastica riuscitissima; e poi infiniti pezzi da concerto per orchestra, per banda, melodie da camera, ballabili, ecc.
*La Sicilia Intellettuale contemporanea 1911 




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Il corpo musicale civico - Rivista del comune di Catania gennaio-febbraio 1933

(...)Dal verbale di seduta consiliare del 6 luglio 1861, sopra menzionato, sorge, per la prima volta, per il nostro Corpo Musicale civico, il nome di « Banda Musicale».


 Ne era direttore, in tale periodo, il M° Martino Frontini, padre dell'illustre musicista vivente, nostro concittadino, Comm. Francesco Paolo. La nomina definitiva a direttore il Frontini l'ebbe nel settembre 1861, perché nella seduta consiliare dell' 11 di quel mese, il Consiglio Comunale affidava al  Frontini,  quale Direttore della disciolta Banda, l'incarico di « ricostruirla».

  

 

Dunque, nonostante che la data ufficiale di nomina del Frontini a direttore sia quella dell'11 settembre 1861, il Frontini deve esserlo stato parecchio tempo prima, tanto che nel '60, quando le truppe della Guardia Nazionale di Catania si recarono a Siracusa per prende possesso di quella città sgombrata dai Borboni, la quale, in quella circostanza era già sotto la regolare direzione del Frontini, che prese personalmente parte a quella specie di spedizione.

 E che la Banda dovesse esistere parecchio tempo prima del '60 si desume da altre circostanze.
 Già l'Archivio Musicale della Banda, al Teatro Bellini, offre qualche partitura per «picco!a banda che rimonta a qualche decennio prima. Una «Marcia funebre, del M° Concetto Vezzosi porta la data del 6 marzo 1851, ed il Vezzosi era Vice-direttore della Banda al tempo in cui ne era direttore il Frontini.
 Anche i Maestri F.lli Nicolò e Carlo Sardo sembra che abbiano diretto, in questi albori, la 
banda Nazionale (sin dal suo sorgere e per oltre un ventennio, il popolo la chiamò sempre Banda Nazionale ). Vi fu, in quel tempo, un valente maestro a nome Martino Pappalardo, il quale, dopo la partenza dei F.lli Sardo, si interessò moltissimo delle sorti della Banda che, frattanto, si era sciolta. E poiché la cittadinanza reclamava i suoi bravi concerti pubblici, vi fu un tentativo di formazione di un'orchestra, che si provò, forse più di una volta, ad eseguire concerti in piazza sotto la direzione del detto Pappalardo, il quale era allora definito dalla Autorità Cittadina: 
« maestro di tutti i professori di orchestra di questa città . 
Pare altresì che precisamente in questo periodo di tempo, Giuseppe Verdi, lavorando ai suoi 
« Vespri Siciliani si rivolgesse al detto Pappalardo per avere qualche motivo popolare siciliano.
Ora, se pensiamo che i «Vespri» nacquero nel 1855 e che il detto Pappalardo fu, da quell'anno, per parecchio tempo assente da Catania, si può credere che la Banda Musicale già esistesse prima di tale data.
Se non sono facilmente documentabili le notizie intorno alla banda, prima del 1860, dal '61 
in  poi, però, si può seguire esattamente ogni suo movimento.





 Difatti, avuta la nomina definitiva a direttore, nel settembre '61, il Frontini volge tutte le sue cure al Corpo Musicale, che, come sopra si è ricordato, dal popolo era chiamato « Banda Nazionale oppure « Banda Nazionale della Guardia Nazionale ».

 II Frontini, con valido interessamento dell'autorità municipale, si accinge subito a formare una grande Banda, tanto che verso il 1865 c'è già un organico di 54 elementi, numero veramente imponente per quei tempi. E se a ciò si aggiunga che, allora, vi erano paghe mensili da L. 20 a L. 67 e che il Maestro direttore era remunerato con lo stipendio di L.100 mensili, possiamo comprendere in quanto onore e in quanta considerazione fosse tenuta la Banda cittadina. Essa accoglieva elementi di primo ordine. Dalle Bande militari affluivano, a getto continuo, suonatori assai provetti, e ancora si ricordano solisti di eccezione, quali i flautisti Giovanni Spampinato Torrisi, il clarinista Antonio Martinez ed il celebre Carlo Sardo, straordinario suonatore di cornetto, i quali, anche isolatamente, tenevano concerti da camera nei paesi vicini
 Con tali elementi e con un direttore quale era il Frontini, - coadiuvato per molto tempo dal M° Vezzosi - la Banda Musicale teneva sempre alto l'entusiasmo del popolo, il quale, non pago di assistere ai pubblici concerti, si accalcava anche alle prove, tanto che il M.° Frontini fu costretto, per il normale svolgimento della preparazione dei concerti, a richiedere l'intervento di una Guardia Municipale, perché questa impedisse 1' affluire del pubblico nella «Sala delle ripetizioni ».
 E che i pubblici concerti della Banda Municipale fossero tenuti in grande considerazione dal pubblico - che non era costituito soltanto dalla massa popolare - si rileva dal fatto che i più illustri musicisti catanesi dell'epoca confortano e propugnano, con la loro piena ed incondizionata adesione, lo sviluppo della Banda. 
 Difatti, il M.° Pietro Platania, che fu Direttore dei Conservatori Musicali di Palermo e Napoli; il M.° Pietro Antonio Coppola, il quale, dopo il suo ritiro da Lisbona, fu per parecchio tempo soprintendente municipale per tutto quanto riguardava manifestazioni musicali cittadine; i M° Antonino Gandolfo, operista molto stimato; il M°Rosario Spedalieri, Direttore stabile dell' orchestra del Teatro Municipale, e molti altri, frequentando assiduamente, quando erano in città, i pubblici concerti, mostrarono sempre la più viva simpatia e prodigarono i loro più larghi consensi alla Banda municipale.
 Assunta, pertanto, a tali fastigi, la Banda comunale seguiva laboriosamente la sua via.
  Autorità municipali, prefettizie e politiche, favori popolari, attenzioni e benevolenze di
illustri rappresentanti dell'Arte e delle Lettere, tutta  si può dire, la cittadinanza seguiva con legittimo orgoglio, lo sviluppo istituzione, la quale, sia per quello che offriva alla città, sia per i successi che otteneva nelle sue frequenti gite,  nei paesi e nelle cittadine della Provincia e fuori di questa, rappresentava un potente ed efficace mezzo di divulgazione e di educazione musicale.
 La Banda continuò, così, per la sua diritta via, quando nel 31 gennaio 1872, al Consiglio comunale vien fatta la.... melanconica proposta della trasformazione di essa in « Filarmonica ».
 II Consiglio rimanda la discussione ad altri seduta. Si insiste di nuovo, dopo un anno, nella seduta del 17 gennaio 1873, ma il Consiglio rimanda ancora, con l'impegno, però, che la giunta presenti un progetto di trasformazione della banda in Orchestra . 
 Nella seduta del 27 maggio 1873 non si  prende ancora alcun  provvedimento.
 Si rinvia il provvedimento ancora una volta e si giunge, così, al 1875, quando, nella seduta del 21 giugno di quell'anno, affermata, dalla maggioranza dei Consiglieri, 1a massima che l'Orchestra richiede maggiore spesa, è messa ai voti la proposta della più volte sostenuta trasformazione, la quale viene respinta con voti    14 contro 6. E la Banda municipale continua ancora la sua strada tra il sempre crescente consenso della Cittadinanza.
Nel 1882, sotto la direzione del Frontini, si reca a Roma in occasione del Pellegrinaggio Nazionale per il Re Vittorio Emanuele II e tiene due applauditi concerti al Plincio: avvenimento, questo, senza dubbio molto importante - e non unico - per l'entusiasmo che,  a memoria di molti, quei due concerti riuscirono a suscitare.
 Verso il 1890, dopo circa 35 anni di ammirevole direzione, il Frontini è costretto, per ragioni di salute, a trascurare un po' la Banda, la quale, difatti, dal 1890 al '92, attraversava un periodo di decadenza; fin tanto che, collocato a riposa il Frontini, viene nominato, il 25 luglio 1893, nuovo direttore del Corpo Musicale il M.° Domenico Barreca.