Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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venerdì 28 gennaio 2011

Marussja Manzella: Io, sorella di Igor Man

Marussja ritratta da Milluzzo

LA SICILIA - 28 dicembre 2010 - di  Giovanna Genovese


Mi dicono: «Perché non intervisti Marussja, la sorella di Igor Man, il giornalista di origine catanese scomparso un anno fa?». E' un'idea, ci provo. Scrittrice, poetessa e collaboratrice de La Sicilia dal 1951 al 1963, oggi Marussja ha 86 anni, non vede più bene, abita a Roma con il figlio Vania. La sua voce al telefono è dolce e garbata, la sua risata squillante come quella di una ragazzina, ma per rivivere il passato ha bisogno di essere guidata da chi ogni tanto nel nostro giornale pubblica ricordi di una famiglia di giornalisti e scrittori, cercando di mettere assieme le tessere di un mosaico che sta tutto nel terribile XX secolo, quello con cui noi italiani non abbiamo mai fatto i conti (e si vede).

Allora, anziché un'intervista «in presa diretta», proponiamo una chiacchierata tra mamma e figlio costruita sul filo della memoria. La conversazione che segue è dunque storicamente vera, documentabile nei contenuti, ma narrata liberamente con lo stile scrittorio di Vania Di Stefano (in tondo) e approvata dall'interessata (risposte in corsivo).


«Mia madre s'affacciava e chiamava mio padre per il té con una frase russa che diceva...».

Dalla bocca di Myriam (detta Marussja) escono parole antiche, struggenti: quelle di Elfride Neuscheler fuggita dalla rivoluzione sovietica nel 1916. Approdò in Sicilia, s'innamorò di Titomanlio Manzella, morì di cancro nel 1932.

«Mio padre impazzì quasi. Avevo 8 anni, Igor 10, Mirco 5. Arrivarono le governanti tedesche. Il russo si spense sulle nostre labbra e imparammo il tedesco. La lingua materna riaffiorava quando c'erano Nadine e Vera, sorelle di mia madre. Da Cibali venimmo via nel 1942, diretti a Roma, passando lo stretto sotto i bombardamenti».

Avevi paura?
«Mai provata: mio padre era tranquillo, impenetrabile ormai a ogni dolore».

Cosa recava con sé a Roma una diciottenne in piena guerra?
«I profumi del mare d'Acitrezza e lo strazio per la morte di mio cugino Ardengo (figlio di Gesualdo Manzella Frontini) sepolto nel sommergibile Corallo; recavo la medaglia di campionessa regionale di lancio del disco e l'ansia per la sorte del fratello di Ardengo, Francesco, deportato in India dopo la battaglia di Giarabub; tornò anni dopo, provato, ma con l'onore intatto; recavo una ciocca di capelli di mia madre e il suo respiro sulla mia guancia; recavo l'abbraccio magro di mia nonna Giuseppina Frontini, figlia del grande musicista (Martino Frontini), e il calore avvolgente dei miei sogni, della mia straripante fantasia».

nonna Giuseppina Frontini, sorella di Francesco Paolo Frontini


Quando pubblicasti i primi versi?
«1943 nel Meridiano di Roma; altri poi nel Giornale di Sicilia, Il Giornale della sera, Doctrina, La Fiera Letteraria, Il Corriere di Sicilia. Da allora non ho mai smesso. Negli ultimi anni, a dispetto di questi occhiacci che m'hanno tradito, ho scritto su fogli senza poter leggere ciò che scrivevo».

Premiata?
«Al Sette Stelle di Sinalunga nel 1951 con la lirica Nuova carezza, che piacque più della poesia di Pasolini. Lui si congratulò. Facemmo amicizia, ma non lo rividi più. Un uomo affascinante, il viso sensibile scavato dall'ombra dell'inquietudine. La Sicilia segnalò la mia vittoria con altri quotidiani. Era direttore Antonio Prestinenza, Neddu, compagno di prigionia di mio padre nella grande guerra, anima d'artista vero. Apprezzava le mie cose, così, caso raro per una donna, divenni collaboratrice della terza pagina».

Cosa scrivevi?
«Racconti, con ritmo quasi settimanale, ma anche pezzi di colore».

Quanto è durato?
«Dal 1951 al 1963».

E poi?
«L'incontro col segretario della Quadriennale d'Arte di Roma, Fortunato Bellonzi - presentatomi da Emilio Greco, amatissimo amico di famiglia - portò a una collaborazione precaria che durò fino al 1983, quando anche Bellonzi settantaseienne fu pensionato senza pensione e liquidazione».

Possibile?
«E' l'Italia di sempre. Tirò avanti scrivendo articoli su Il Tempo, poi con la legge Bacchelli ebbe un vitalizio per meriti culturali. Lavorando con lui, nel 1960 cominciai a pubblicare articoli su artisti contemporanei e nel 1967 proposi a La Sicilia la rubrica, Arti figurative, durata almeno sino al 1972».

E la poesia?
«Sono usciti due volumetti che nessuno ha letto e tanto meno comprato: Come grano falciato nel 1974 e Che importa il tempo nel 1992».

Cosa tieni nel cassetto?
«Il frutto del mio disordine creativo, che ha partorito versi liberatori, ma sempre lontano da critici, salotti e manfrine».

Questo spiega un po' il tuo isolamento.
«Non mi pento di nulla. A modo mio sono stata fortunata e felice. Ho conosciuto persone straordinarie e veri artisti, e ancora ne frequento, talora solo telefonicamente: i coniugi Gizzi creatori in Torre dei Passeri della Pinacoteca Dantesca intitolata a Bellonzi, e poi Tonino Caputo, Franco Mulas, Riccardo Fiore, Alejandro Kokocinski, Albino Moro, Vincenzo Gaetaniello, Ikujo Toba, Francesco Manzini, Giovanni Gromo, Bruno Caruso, Ennio Calabria, Stefania Guidi, Claudio Capotondi. A Nicola Micieli devo la riscoperta di Bellonzi pittore. Molti non ci sono più, ma solo nel corpo: fra gli artisti Riccardo Tommasi Ferroni, Marcello Tommasi, Gaetano Pompa, Emilio Greco, Giuseppe Mazzullo, Carlo Quattrucci, Sho Chiba, Venanzo Croccetti, e poi uomini di cultura come Bonaventura Tecchi, Jacopo Recupero, Ennio Francia, Enzo Carli, Carlo Ludovico Raggianti, funzionari come Umberto Parricchi, Gianluigi Ferrarino. E ne avrei di nomi... ad esempio Sebastiano Milluzzo che nel 1951 mi fece un ritratto».

Igor Man il fratello

Parlami di Catania.
«Dopo il trasferimento a Roma, passata la guerra, nei primi anni Cinquanta ci tornavo d'estate, viaggiando in terza classe su treni meravigliosamente aperti e lenti; rasentavano paesaggi paradisiaci, spiagge deserte, canneti, vigneti, uliveti. Tornavo per la nonna, gli zii Gesualdo, Alfredo, Dernier, Savina e suo figlio Gaetano Zappalà grande poeta. Si stava in via Pietro Carrera 19 e di lì partivamo per memorabili passeggiate tra ginestre, fichidindia e muri di lava. Al giornale ci andavo per portare i pezzi e salutare Prestinenza e Piero Corigliano, formidabile redattore, preparato, simpatico, non si dava le arie e lavorava sodo. Con suo fratello Gino, invece, ci siamo ritrovati a Roma».

Pensi di pubblicare ancora?
«Anni fa mandai alla Sellerio Sangue d'uva, una selezione dei racconti usciti su La Sicilia, ma nessuno m'ha risposto. Non ci penso. Diversamente da mio padre, non ho mai avuto l'assillo di pubblicare; quel che ho avuto m'è bastato e per essere felici basta poco, basta la stima di persone sincere e genuine. Mio padre ha passato la vita a battere su quella vecchia Olivetti che conservo ancora. Il rumore della macchina era come una ninna nanna; le sue dita la cantavano, inseguendo il pensiero con ritmi allegri, ora esitanti, ora torrenziali».

Ti sei laureata?
«Ci provai; me l'hanno impedito le difficoltà familiari».

Però sei iscritta all'albo dei giornalisti.
«Sono pubblicista dal 1957 e fui premiata nel 2002 per gli anni di attività svolta».

Torneresti indietro?
«Sì. La vita è bella e va presa con un occhio serio e uno scanzonato. Te lo dice una che non vede più bene».

 
Titomanlio il padre e lo zio Gesualdo
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sabato 28 agosto 2010

LA VERA STORIA DEL FUTURISMO, la parola a Gesualdo Manzella Frontini

-Futurismo e Passatismo -
Per quanto riguarda l'appartenenza di Gesualdo Manzella Frontini al movimento futurista, bisogna risalire a quando lo scrittore, ventenne, aderisce ai motivi e alle forme di quella generazione irrequieta che sotto il Consolato austriaco grida “Viva Trento e Trieste”, generazione, inoltre, carica di una certa insofferenza per tutto ciò che andava determinandosi del tramontato Ottocento. (vedi anche qui )
Così, insieme ai compagni di studio, attacca la vecchia cultura e tutto ciò che si riferisce al passato.
Il Manzella, nel gennaio del 1907, lancia un manifesto dove sono già espresse, prima che lo facesse il Marinetti, le idee e la rivolta futurista. E a questo punto penso interessante riportare gli stessi appunti manoscritti del Manzella raggruppati in una carpetta dal titolo “Futurismo e Passatismo”.
Gli appunti servirono al Manzella per una conferenza tenuta al Kursal di Luino il 29 marzo del 1913.
Ecco cosa scrive: “ Nel gennaio del 1907 io lanciavo un manifesto che preludeva la pubblicazione d'un giornale letterario, “Critica ed Arte” forse non ignoto a qualcuno di voi. Il manifesto fu accolto con ostilità molte: esso portava fra le righe frasi stilizzate la rivolta futurista, ma non ne conteneva il nome, né la prepotenza aggressiva. Ebbi pochi aderenti e tra questi un giovane di genio, Filippo Tommaso Marinetti, che fu collaboratore nel mio giornale e che mi divenne amico affettuoso.
Era trascorso un anno quando il Figaro, il giornale diffuso parigino, lanciava al mondo col nome di futurismo un grido di elevazione di rinnovamento di nuovo orientamento, e il Marinetti eroicamente affrontava con la stessa idealità e con mie identiche la lotta ch'io non avevo saputo sostenere...”
Il manifesto lanciato dal Manzella nel gennaio del 1907, prima ancora di quello del Marinetti del 1909, non ha fortuna e la rivolta, ch'era futurista, esposta-vi dal Manzella Frontini viene accolta senza entusiasmo. 
Ma continua Gesualdo Manzella: “ Così nasceva il futurismo. Il proclama (del Marinetti) piacque a me, ed era umano che fosse piaciuto, poiché io vi leggevo la eco dell'anima mia, eco lontana che datava fin dal 1903 quando pubblicavo il mio primo volume dal titolo “Novissima – semi ritmi” ove per primo in Italia cantavo in metri liberi canzoni che la critica giudicò audaci, sconvenienti, poco sereni... Io intesi il bisogno di scrivere al Marinetti non già per aderire – ch'egli era stato un mio efficace collaboratore un anno prima – ma per ricordargli che sotto la forma di aggressiva irruenza egli non faceva che ripetere quanto avete voi già inteso nel mio manifesto...


Mi sembra opportuno, a questo punto, riportare le parole che la redazione di “Critica ed Arte” indirizza “ agli artisti giovani e alla gioventù contemporanea”: “ Parta dalla terra del sole, dalla feconda terra fiorita, e dalla città ardita sotto l'incubo ognora minaccioso del possente ubèro di fuoco, o fratelli giovani, dispersi fra le ruine d'Italia, la voce di rinnovamento. Rispettosi verso coloro che abbiamo ammirato, non chiederemo il loro contributo; vogliamo che il glorioso passato giudichi il presente ardito e l'avvenire che NOI rechiamo in Noi. Cadremo forse nella lotta, ma superbi di una tale caduta”. (Critica ed Arte – Catania, gennaio 1907).  Il giornale procura tali noie al Manzella, che al quinto numero si ritira.

Proseguendo la conferenza di Luino (1913) così egli si esprime: “ So che alcuni di voi, parenti della mia piccola falange scolaresca, sono già scandalizzati per il fatto, in verità non nuovo, d'un insegnante che si occupi d'altro che non sia la scuola ed i registri e le medie e le raccomandazioni. Quest'uomo fortunatamente non è vecchio e possiede perciò quella grande virtù che il mondo non ha saputo e non saprà cantare: la fede audace, ed è così che egli vi parlerà stasera del Futurismo, convinto, convintissimo di arrecare alle vostre menti chiarezza di idee e convinzione perché possiate giudicare questi pochi apostoli fiduciosi ed esaltati di volontà”. Continuando: “ Il buon pubblico nostro non vuole operare alcun sforzo, ama che gli si dia la sua brava porzioncina di poesia o di pittura o di musica... per aperitivo o digestivo, e non crede opportuno spiegarsi alcun tentativo di novità, sia pure fatale, rispondente a necessità ideologiche o sociali. Non dice: forse non comprendo; - ma s'affretta a gridare: - siete pazzi – a coloro che sono stati chiamati dalla Natura a precorrere le vie nuove e ardite”.
Significativa è la definizione che da del Futurismo, prima del 1909: “ Se Futurismo significa esaltazione della vita, di quella vita energica ch'è moto, velocità, irruenza, violenza significa espressione perfetta della nostra anima di arrivisti, di industriali audaci e avidi, di commercianti subdoli, d'operai scontenti e rivoluzionari”. 


Lettera indirizzata a Giuseppe Lipparini il 7 luglio 1911, che riporto: “ Credetemi, caro Lipparini, noi abbiamo inventato il “futurismo” per la gravezza paludosa dell'aria che ci sta attorno e ci corrompe e ci pervade entro le vene il sangue e le carni ed il cervello; abbiamo inventato il “futurismo” per bisogno ineffabile ed impellente di nuovo, ci siamo ribellati a tutto e a tutti perché volevamo scorgere, dopo l'empietà dell'incomposta distruzione, qualcosa la quale non fosse il putrido presente incolore, astioso, convinti magari di non aver niente da dire, se non parole di ira, accenti rotti di sdegno, sconvenienze; ma era fede profonda la nostra, ed ora si è capito anche dalle persone serie, era speranza d'invenire fra i rottami il segno vivo di ciò che volevamo.
E se non esistesse bisognerebbe crearlo un movimento simile.. e chiamatelo se più vi piace anarchismo”. 
Intanto il Marinetti, pubblica il suo Manifesto e da questo momenteo inizia la corrispondenza con Manzella-Frontini. “ ….....Marinetti è un uomo che non è affatto pazzo, ma uno degli uomini più rappresentativi e geniali di questo primo quarto di secolo. Marinetti che è tempista come Mussolini e come Mussolini è d'una straordinaria sensibilità politica, abbandonando agli ulteriori sviluppi i vari futurismi, volle porsi all'avanguardia dell'anima nazionale e creò il Futurismo nazionale italiano.


L'errore nostro fu quello di aver confuso gl'indistinti moti di rivolta contro la podagrosa Italietta umbertina con l'ispirazione e con la serena visione della vita e del mondo” (L'arte fascista non sarà l'arte futurista - 1926)



***
lavori per wikisource, vedi qui



Canto  d'allarme.«Novissima Semi ritmi» (1904)

Perché,  o mio cuore,  questa sera  impaziente
tu  batti con fremito d' allarme ?
Senti tu forse il lontano ululato de la livida schiera
minacciosa dei pensieri ?
Penetra il soffio violento do la lotta e si stende
su la landa arida del cervello.
Tu fremi,  o mio cuore fedele,  nel vano  richiamo
de le disperse speranze, degli ideali lontani ;
ma non vedi gli stinchi al suolo
e l'olezzo non  senti de le carcasse imputridite?
Non vedi la schiera de le mulacchie
gracchiani su gli scheletri spogli
volteggiare ne 1' aria ?
Tu batti ancora il funebre canto de la sconfitta !
Io sento a la gola i singhiozzi de le ruine.



Bibliografia
G. Manzella Frontini, di D. Di Bella - relatore Prof. Ermanno Scuderi  1976/77
Futurismo e Passatismo, manoscritto per conferenza tenuta al Kursal di Luino, 29 marzo1913
G. Manzella Frontini, Corriere di Sicilia, 13 aprile 1963
La Redazione, Agli artisti giovani e alla gioventù contemporanea, in Critica ed Arte gennaio 1906
A Giuseppe Lipparini, Corriere di Catania, 7 luglio 1911 

Biografia – G. Manzella Frontini di Vito Finocchiaro, 1985.

Il ricordo di Gesualdo Manzella Frontini è ritornato piacevole e grato alla mia mente con lo «speciale» di Gaetano Zappalà, «Don Gesualdo di Trezza», pubblicato su «La Sicilia» del 28 ottobre 1985, nella ricorrenza del centenario della nascita del letterato catanese. Definire letterato il Manzella Frontini è, forse, un poco riduttivo, anche se l'essere cultore della letteratura, e cultore come lo fu lui, è pregio non da poco. Riduttivo, nel suo caso, perché egli non fu soltanto un eccezionale, coltissimo conoscitore e profondo studioso dell'«insieme delle opere, pertinenti ad una cultura o civiltà, affidate alla scrittura», non un semplice fruitore delle opere altrui, ma un soggetto attivo, un protagonista del fatto letterario. Fu, infatti, scrittore, poeta e giornalista raffinatissimo, impegnato, espressivo e fecondo (dei suoi ottantanni di vita ne dedicò più d'una sessantina allo scrivere!), un nome autentico a livello nazionale ed europeo, se è vero, com'è vero, che lo troviamo con Filippo Tommaso Marinetti tra i fondatori del futurismo, nel 1910 tra i firmatari del «Manifesto dei drammaturghi futuristi» dello stesso Marinetti (è con i poeti Gian Pietro Lucini, Paolo Buzzi, Federico De Maria, Enrico Cavacchioli, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni, Libero Altomare, Luciano Folgore, Giuseppe Carrieri, Mario Bètuda, Enrico Cardile, Armando Mazza, assieme ai pittori Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini ed al musicista Balilla Pratella) e tra le personalità che figurano nel «Manifesto delle avanguardie letterarie ed artistiche europee» firmato da Guillaume Apollinaire nel 1913 a Parigi (nell'elenco vi sono Marinetti, Picasso, Carrà, Matisse, Palazzeschi, Strawinsky, Papini, Soffici, tanto per fare dei nomi che dicono molto a tutti).
Laureato in lettere e diplomato in filologia, insegnante nei licei classici di Prato, Luino, Cassino e Catania («Cutelli» e «Spedalieri») nonché nel liceo dell'Istituto San Michele di Acireale, Gesualdo Manzella Frontini diresse i giornali romani «L'idea liberale» (1914), «Le fonti» (1918), «Corriere africano» (1930) e collaborò a numerosi giornali e riviste, tra cui «Delta», «Vita nova», «Popolo di Roma», «Anthologie», «Lavoro fascista», «Corriere emiliano», «Ausonia», «Misura», «La rassegna», «Il resto del Carlino», «Novella», «Corriere della sera», «Corriere di Sicilia», «Popolo di Sicilia», «La Sicilia», «L'ora», «Giornale di poesia», «La fiera letteraria» e «Poesia», la rivista di F. T. Marinetti. Fu autore prolifico e versatile, come si conviene a chi nutre molteplici interessi ed ha il desiderio intenso (direi meglio, figurativamente, la smania) di soddisfarli tutti. Scrisse, infatti, ben ventisei opere (e va da sé che mi riferisco a quelle pubblicate in volumi), spaziando dalla poesia al teatro, dai racconti alla letteratura ed alla retorica, dagli studi critici e dai saggi ai romanzi. Val proprio la pena di elencare i suoi libri (e lo farò in appendice, anche per ricordarne alcuni che oggi sono poco noti), divisi per sezioni, non senza notare che ognuna di queste l'Autore curò non episodicamente ma per lunghi periodi della sua intensa vita, con ampio respiro di continuità, dando corpo a coerenti sequenze temporali, che si avvertono particolarmente nei campi della poesia, della saggistica e della narrativa.
Non è, comunque, questa la sede, per chi, come me, non è un critico letterario né sa portare avanti con autorevolezza disquisizioni in chiave di puro estetismo, per approfondire il discorso su Gesualdo Manzella Frontini, scrittore ed operatore di cultura nel senso più largo dell'accezione. ........


OPERE DI G. MANZELLA FRONTINI
 
POESIA: 
«Novissima Semi ritmi» (1904),
«Le rosse vergini. Rime pagane»(1905),
«Il prisma dell'anima» (1911?),
«Sul gigli gocce sanguigne»(1920),
«Il mio libro dai campi P.W.» (1949).

RACCONTI: 
«Le lupe» (1906),
«Quando la preda è stretta» (1921).Premio “Il Seminatore”

STUDI CRITICI E SAGGI:
«La Lozana Andaluza» (1910),
«Contemporanei e futuristi» (1910),
«Auro d'Alba» (1927),
«Mario Puccini» (1927),
«Il Santo mediterraneo» (1931).
«Abate» (1932)


TEATRO: 
«L'altro sangue» (1922?),
«Verso le ombre» (1923),
«La madre immortale» (1935).

LIBRI DI LETTERATURA E DI RETORICA:
«Note di letteratura» (1921),
«Lingua e stile» (1931),
«Idee estetiche e gusto»  (1924).

ROMANZI: 
«L'Uomo che non seppe odiare» (1924),
«Il testamento di Giuda» (1925),
«Pupetta» (1926),
«Circo Barum, naja e sciacalli» (1933), premio “Accademia d'Italia”
«Scale» (1935), premio “Foce”
«Crocifissi alla terra» (1953),
«Sorte» (1961), quest'ultimo con presentazione di Bonaventura Tecchi.

VARIE: 
«Volare» (1927),
«L'eroico imperiale» (1928),
«Italia una e diversa, tutte le regioni» (1923).

***
Vedi anche: 

COSA É IL FUTURISMO ? Commento al decalogo di Gesualdo Manzella Frontini (1910) e Critica a MAFARKA-EL-BAR romanzo africano - QUI

***
Dal 1903 al 1965 scrive per La Sicilia, il Corriere dell'Isola, La voce dell'Isola, Orizzonti, Libera parola, Il Tevere, Quadrivio, La Gazzetta delle Arti, Ultimissime, Momento Sera, Le Lettere, Il lavoro Fascista, Tribuna Agricola, La Gazzetta del Sud, Il Resto del Carlino, Pomeriggio, Il Risveglio, Milano Sera.
I due pseudonimi (in sicilia) Eligio Flora e Deodato Perduti.

Collabora alle riviste
1903 Fantasmagoria
1904 La Lettura
1906 Critica ed Arte
1909 Poesia
1915 Imo de Pectore
1920 Rivista delle Signorine
1921/28 Le Fonti
1922 Il Polline
1923 Delta
1925 Polemica
1926 Bibliografia Fascista
1926/27 Le Thyrse
1926/28 Vita Nova
1926/29 L'Arte Fascista
1927 Quaderni Fascisti. Volare.
1930/31 Il Corriere Africano
1932 L'Asceta
1932/33 In Aevum
1938/39 Il Nuovo Stato
1946 Rassegna
1947 Misura
1947/48 Le Arti Belle
1947/48 Camene
1950/53 Doctrina
1955 Rassegna
1956/62 Catania
1957 Realtà
1957/60 Battaglia letteraria
1959 La Lucerna
1960 Vie Mediterranee.

A la sala anatomica. «Novissima Semi ritmi» (1904)

Oh,  ricordo perenne ! 

Un profumato autunno di tuberose, 
un acre odore d' acido fenico. 
Entrai  ne la sala anatomica  illuminata 
da le ultime fiammate d'un vespero di viola e di croco. 
Stavano stesi i cadaveri, squarciati, 
di sangue e di  grumi su le tavole chiazzate; 
Un vecchio, con l' occhio schizzato, 
avea un torace microscopico, 
su la glutine de l'occhio fetente le mosche 
importune un inno cantavano liete. 
Uno straccio di vecchio giornale turava la bocca d' un tisico, 
sul quale attenti lavoravano dei giovani : 
cedette lo sterno
fremettero i consunti, lividi polmoni 
imputriditi.
Quando su l' ultimo marmo, 
una donna vidi, da le anche spiccate, 
ed il seno avea floscio, 
ed il ventre squarciato colante materia, 
l'immagine vostra,  divina creatura, 
ne la sua carne di molle biancore 
improvvisa mi svelò la sua fresca.... 
ma pur vana bellezza.

Il dramma "La madre immortale" di Gesualdo Manzella Frontini





 Archivio Storico Luce - Attrice Marcella Albani
Giornale Luce B0485 del 06/1934

giovedì 19 agosto 2010

Alessandro Abate pittore, note critiche di Gesualdo Manzella Frontini


Alessandro Abate appartiene all' ultimo ottocento e la sua attività si riversa in questo secolo, senza soluzione di continuità spirituale. Nato a Catania nel 1867, egli risentì gli ultimi guizzi del romanticismo, in ciò che di più caratteristico fu l'apporto di quella scuola, vale a dire nella teatralità di certi quadri, nella "composizione" convenzionale, nella cura dell'effetto, ottenuto a discapito della profondità psicologica.


L'innato senso pittorico e coloristico, però salvò il giovane artista dalla sciatteria e monotonia cromatica dei romantici.
Del resto egli si affaccia all' osservazione e allo studio dei maestri del tempo, sotto la guida sagace e geniale di un nobile pittore, che in quel tempo faceva scuola a Catania, e che lasciò segni incancellabili sulla personalità del suo giovane discepolo.
Parlo di Antonino Gandolfo, colorista vaporoso e umido, disegnatore efficace ricco di sentimento, e che talvolta, nelle trasparenti carni delle sue donne, vi dà il presentimento del cromatismo gioioso e vitale dello Spadini.
Ma il Gandolfo, che in un certo periodo della vita non rifuggì dal quadro sociale di derivazione continentale, certo degli Induno, fu disegnatore coscienzoso e attento, e al suo discepolo che si produsse anch' egli, nei primi anni, in quadri di vita quotidiana, istillò il rispetto di questo elemento primo ed essenziale, che per volgere di anni e di tende.....(testo non leggibile)..e di mete diverse, costituirà sempre, come per la poesia il ritmo, il (.... )mento primo
e la legge (...... )cibile della pittura. L'Abate passò poi a Napoli alla scuola del Marinelli , in seguito a Roma completò i suoi studi con Iacovacci. Ivi ottenne lusinghieri giudizi e riconoscimenti ufficiali.
A noi non interessa che in misura assai relativa il curriculum del nostro e lasceremo alla curiosità burocratica del lettore scrupoloso e pedante, in una nota, le notizie delle esposizioni e onorificenze e degli incarichi ricevuti, e delle più importanti ordinazioni passate e recenti.
Importa qui delineare il carattere dell'arte dell'Abate, fissarne i segni, espellere ciò che di spurio, di accademico, di giustapposto e di commerciale è nella sua molteplice attività e ricondurre all'effettivo valore la sua personalità artistica.

Il torto dell'Abate, è stato uno, se torto può chiamarsi uno stato di fatto che dipende da circostanze tiranniche di vita, ma che, purtroppo decidono spesse volte la sorte di un uomo, nella valutazione obbiettiva che ne farà la storia.
L'Abate, che indubbiamente à qualità di primo ordine e numeri eccezionali a suo vantaggi è rimasto troppo isolato nell'ambiente provinciale e chiuso della sua città, estraneandosi completamente dalle correnti e dagli spiriti nuovi, che da trent' anni a questa parte ànno percorso l' Italia, per influssi esterni o per movimenti interni. Così che egli è venuto a trovarsi in una posizione di inferiorità rispetto ad artisti di minor valore,
ma che sono stati toccati, scossi e rinnovati da tendenze molteplici, acquistando una sensibilità più moderna, e da gusti e anche da mode, che si sono seguite a volte troppo vertiginosamente. Con ciò non si dice che l'artista debba lasciarsi trascinare dal momentaneo isterismo del pubblico, spesso turlupinato e accarezzato nelle sue incoerenze superficiali e passeggere. L' arte non può essere una moda.
Ma avviene che l'isolamento, a meno che non si tratti del genio, può condurre alla cristallizzazione, alla maniera, o alla riproduzione a serie di se stessi. Per contro poi nei temperamenti fiacchi, la vita tumultuosa di un centro dinamico d'arte può determinare dispersioni fatali e irreparabili. L'Abate però si trova nelle privilegiate condizioni di non subire a fondo, fino al perturbamento, le influenze dei maestri coi quali si è trovato a contatto, o di cui à studiate le opere, e però gran lume sarebbe venuto alla sua arte in un centro di cultura e di vita artistica.
Egli avrebbe potuto, come gli è capitato talvolta, e come risulta da sue tele, sentire le tendenze varie ma riportarle, attraverso la elaborazione, al suo temperamento, come correttivo.
In altri termini le opere altrui non lo polarizzano, nè lo soffocano : egli sa vedere in orizzonti non suoi, non appena a questi egli arriva, per caso o per uno sforzo d'intuito.
E dico "per caso,, non per comodità espressiva, ma a ragione veduta, perchè gli accostamenti fra l'Abate a qualche pittore di maggiore e più spiccata e diversa personalità sono casuali, e non ànno lunga risonanza: trascorso il momento simpatico, in cui pare che egli abbia inteso un rapporto di affinità con l'oggetto del suo studio, egli lo abbandona.
Un altro e non meno serio effetto negativo sullo sviluppo della sua personalità, nelle condizioni d'isolamento in cui egli si è trovato, è dovuto alla mancanza di una critica illuminata e illuminante.
Cresciuto fra la stima dei suoi concittadini, unico superstite di un dignitosa tradizione pittorica (Rapisardi, Reina, Sciuti, Gandolfo) egli non à mai trovato chi lo avesse distolto o incoraggiato sulle varie strade su cui si è condotto per istinto e per indefinito malessere : è andato a tentoni.
Il ritrovarsi ch'egli fa di volta in volta e il riprendere la sua, la vera strada, lo deve al suo equilibrio o forse ai primi elementari, direi, essenziali insegnamenti avuti dal Gandolfo e dall'Accademia. La critica à fra l'altro la grande responsabilità di chiarire spesso all'artista l'artista, e però il critico è anche un collaboratore dell'artista.
Questi collaboratori l'Abate non à avuto.
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L'Abate à dovuto sottoporre alle esigenze della piccola e grande borghesia provinciale, le ragioni dell'arte, così che il sacrificio à nociuto alla sua opera, dando spesso la sensazione del mestiere e del commercialismo, là dove era soltanto necessità; della faciloneria e della superficialità, là dove era invece bisogno di piegarsi alle prestazioni d'opera a tempo, e di adattamento al gusto dei committenti. L'eroismo non è moneta corrente.
Lo storico dell'arte nostra che dovesse misurare domani le possibilità e le realizzazioni dell'Abate, dovrebbe poterne valutare, alla stregua di queste condizioni e considerazioni, tutta la vasta produzione, e con criterio unitario e lineare, selezionando, cogliere la vera natura e il carattere del nostro.
Nelle illustrazioni interposte o che seguono a queste note sintetiche ò voluto riprodurre qualcuna delle opere, che nulla aggiungono alla valutazione di questo artista, poco favorito dalla sorte e molto dalla natura, ma lo ò fatto a fine dimostrativo. Acquarellista, affreschista, decoratore, paesista e ritrattista, l'Abate à trattato il quadro di genere come il grande quadro sociale, la composizione allegorica o storico-allegorica, il soggetto religioso e la decorazione a grande stile di palazzi e chiese.
Quando si esce dal suo studio e si istituiscono confronti e parallelismi fra le sue produzioni se ne riporta un senso di fastidio, giacchè vorremmo potere annullare certi aspetti della sua attività, ignorarli, per ridurla a qualcosa di unitario, di sostanziale e organico : alla vera essenza.
Che per fortuna sua e con nostra soddisfazione, ciò che rimarrà di lui, di più suo, di naturalmente aderente al suo spirito è tanto, ed è tale, che non vale la pena di lasciarsi distogliere dai valori negativi.
Nè qui si tratta di un artista che non abbia linearità o abbia smarrito il senso dell'orientamento, o abbia ceduto per via, o abbia lasciato allo sbaraglio gli elementi costituitivi della sua individualità, ma di un caso non raro purtroppo della malefica opera della vita di provincia. L'innato buon gusto però non sempre si è piegato alla pacchianeria e alla richiesta e alle esigenze dei committenti, e la sua mitezza e delicatezza d' animo à saputo spesso resistere e ribellarsi. Sono seguiti allora felici periodi di libero respiro, in cui l'artista à lasciato cantare la sua anima e à creato opere belle e talune perfette.
Tralasciamo di occuparci di alcuni quadri, che pur sono piaciuti e non soltanto nell'ambiente provinciale.
Il più vasto allegorismo ricostituito a base dei più crudi element(.......)sti e realisti, non è stato vinto, ma appena attenuato dall'ab..(........ )ittorica, che à tentato di vaporizzare con la magia del colore la pesantezza e la piattezza del simbolo. La distribuzione delle masse e un vigore espressivo di grande rilievo, la sapienza prospettica, che non rifugge da ricordi classici, rimangono sopraffatte dalla teatralità e dalla superficialità e da una certa trascuratezza dei particolari, che è indice di fastidio nell'autore stesso.
Tralasciamo pure le grandi tele religiose, perchè riteniamo l'Abate troppo turgido di qualità pagane e troppo moderno spirito, perchè possa umiliare l'istintiva gioia della vita al mistico fervore e alla sottigliezza teologica o al romanticismo sentimentale di certi aspetti modernizzati di pittura sacra.
Infatti il sentimento della natura e della sanità, che chiameremo panteistica, che è la sorgente vera e profonda del suo temperamento, è stata travasata in alcuni quadri di questo genere che sono più riusciti.
La riprova di questo nostro apprezzamento è stato dichiarato da alcuni particolari notevoli e sottolineati nel martirio di Sant'Euplio e nella Apoteosi di San Martino.
E poi che questo sentimento profondo e largo della natura non poteva esprimersi compiutamente che in un soggetto, con cui potesse aderire e connaturarsi, richiamiamo l'attenzione del lettore sul "Poverello di Assisi „ (pag. 17) che, con la "Pietà „ (pag. 22) del mausuleo dei Caduti nella Chiesa di San Benedetto, sono i più severi e realizzati quadri religiosi dell'Abate.
A scanso di equivoci diremo che l'elogio alla Pietà ci è suggerito dalla umanità del dolore materno, espresso con colore drammatico sul volto della Madre e dall'armonia e dalla distribuzione delle masse, dalla velatura e diafanità dello sfondo, più che dal misticismo, che avrebbe potuto esigere un tale soggetto. Vi campeggia un raro intuito architettonico.

E che il religioso qui non esuli dal quadro è un corollario: chè noi abbia segnalato nell'Abate, quale una delle sue virtù principali, la profonda umanità: infatti i due termini umanità e religiosità coincidono e non sono contraddittori come superficialmente potrebbe apparire.
Alessandro Abate è un ritrattista documentario e un costruttore di tipi.
Abbiamo presentato una serie di teste piene di vigore e di carattere, in cui l'interiorità trasfigura il soggetto, dando alle linee del volto, talvolta in una pennellata, che sembra buttata giù o sfuggita al pennello indocile, una rivelazione psicologica. Giovani donne fiorenti, dalle cui carni salde e luminose traspira la vita e la sanità, illuminate da sorrisi invitanti, o sensualmente procaci e pensose , con occhi opachi e ardenti sotto malinconici veli di desiderio; bocche carnose, tumide, seni turgidi e morbidi e ricchi ; volti accaldati sotto capelli scomposti e disfatti. La loro essenza bacchica è appena frenata dalla castità ed onestà della razza. Il giuoco delle luci è in ragione diretta della sobrietà della pennellata, che non s'indugia, ma pare invigilata e affrettata, mentre risulta decisa, calcolata, sapiente.
Alessandro Abate è colorista ed è pittore genuino. Se in qualcuna di queste sue tele il ricordo del Mancini violento e sconcertante colorista, apparisce, subito l'equilibrio del nostro rientra nei propri limiti.
La pennellata dell'Abate allora non à pentimenti, egli si abbandona alla sua ispirazione, all'impeto, alla canzone della luce, alla forza del suo temperamento concretizzatore e dipinge con larghezza, ma senza esagerazione.
Avviene che questa forza espressiva vinca anche le ragioni tecniche, e così assistiamo alla visione di acquarelli che anno la consistenza, la saldezza e la sostanzialità dell'olio, e ad oli che sembrano acquarelli, sì fatta ne è la trasparenza.
Mi piace qui ricordare un quadro, Aci e Galatea (pag. 26) ove il mito acquista una sua evidenza lirica straordinaria, dovuta alla sinfonia vibrante dei colori, alla medi-terraneità interpretativa della natura e alla trasparenza.

Sullo sfondo aerato sorge l'Etna, resa impalpabile dal suo candore di neve, l'atmosfera è impregnata di profumo, che il colore assume tale una spiritualità da derivare dai fiori, e le acque del fiume e quelle del mare, che si fondono in una trasfusione di delicata e forte bellezza, cantano nel bacio di Aci e Galatea allacciati.
Il quadro fu offerto a S. A. il Principe di Piemente nelle sue nozze e fu lodatissimo dagl'intenditori. Credo che sia uno dei documenti più efficaci di dimostrazione del valore pittorico dell'Abate, e quale colorista e interprete della atmosfera dell'Isola, e paesista vasto, lirico e sinfonico.
Sotto questo aspetto l'Abate à detto una sua parola inequivocabile e personale.
I cieli azzurri inconsistenti dei paesaggi etnei e il vulcano che caratterizza la nostra terra, che la suggella in una sua gagliarda e solenne bellezza, àn trovato in Alessandro Abate il loro cantore eccezionale. C'è uno spirito dentro quelle tele, che non si contenta di osservare passivamente, ma vi si trasfonde e liricizza la visione.
Se poi vi soffermate a guardare le incassate teste dei suoi contadini e dei suoi popolani vi troverete tanto carattere e tanta radicata umanità, che non potrete concepirli facendo astrazione dall'anima dell'Isola, anzi della campagna etnea, di questa bruciata terra di forte, rude e generosa gente.
Volti gravi in cui c'è la rassegnazione con la volontà in armonia, pacatezza e aperto animo; l'Abate à ottenuto con esiguità di mezzi e con solo gioco di pennellate dense ed espressive direi, somatiche, i più vivaci e definitivi effetti : l'evidenza plastica risulta da sapienza di toni.
Questo conoscitore e maestro di disegno à bruciate tutte le conoscenze tecniche, e la vita nelle sue figure risulta complesso di fattori inscindibili: luce, linea, colore.
Era facile prevedere che la sua esperienza tripolina, in una atmosfera in cui il colore pare che consumi i volumi, dovesse sboccare in prove e in realizzazioni compiute.
Così infatti è avvenuto.
Lontano da ogni maniera decorativa, egli à saputo rendere l'animo, il significato, la vita della luce, l'ambiente della nostra colonia.

Ma era anche facile scivolare nel decorativo e nelle arbitrarie maniere oleografiche: ma l'Abate aveva tutte le virtù per intendere la sinfonia della luce africana : c'è riuscito : egli à inoltre colto il senso della vita di quella gente, lo spirito di quella terra che si avvicina alla nostra.
I suoi interni, le sue arabe, i suoi larghi paesaggi, vasti da togliere il respiro, da sopraffare, dicono meglio di qualsiasi discorso illustrativo, le ragioni della nostra discussione sul vero temperamento di questo saldo talento pittorico.
Il colore non è fine a se stesso, ma l'Abate guarda con gioia e con gioia si arrende al colore, che talvolta diventa volume, si risolve in volume, come il volume si risolve in luce e levità.
Per questa sua abilità molte opere decorative di largo respiro, in saloni monumentali, ricordano, oltre che per gli scorci audaci, il tripudio leggero e sensuale delle carni, il barocco glorioso del Tiepolo.
L'Abate è radicato alla sua terra, la sente e ne vive la paganità, è padrone di mezzi eccezionali di tecnica, à precise qualità ed è nella stagione matura delle grandi risorse e delle definitive opere.
I suoi ritratti lo dichiarono un psicologo avvertito.
La critica può attendersi opere ancora più compiute, se egli vorrà ridursi con fedeltà e solo alla sua vera natura e al suo istinto.
NOTE BIOGRAFICHE
Alessandro Abate è nato il 25 novembre 1867 da Carmelo e Giovanna Reitano a Catania.
Dai 15 ai 18 anni frequentò il corso di disegno e di pittura tenuto a Catania dal pittore Antonino Gandolfo. Si trasferì subito dopo a Napoli dove studiò all'Istituto di Belle Arti, restando contemporaneamente sotto la guida del prof. Vincenzo Marinelli.
Nel '93 ottenne dal Municipio di Catania la borsa di studio per un corso di perfezionamento a Roma presso il prof. Iacovacci, frequentando i corsi di studio di nudo presso 1'Istituto delle Belle Arti e i corsi del Museo Artistico Industriale, da cui ottenne la medaglia d'oro.
Nel '94 espose per la prima volta a Roma all'Esposizione Nazionale col quadro «Dolore e miseria » e successivamente nel '95 a Palermo, nel '97 a Milano.
Nel 1902 espose alla Quadriennale di Torino " E pur si muove n che fu acquistato all' Esposizione di Santiago nel Cile ; nel 1906 ancora a Milano e infine nello stesso anno all' Esposizione summenzionata di Santiago.
Dal 1907 è rimasto, tranne brevi parentesi, a Catania, dove à condotto a termine parecchie opere di notevole importanza, nella Chiesa dei Bianchi, in quella di Sant' Euplio, e in palazzi privati.
Nel 1927 ottenne il gran prix all'Esposizione di beaux arts di Parigi.
Recentemente è stato nominato da S. M. Vittorio E. III, motu proprio, Commendatore della Corona d' Italia.
Dal 1929 al 1931 lavorò ed espose alla Fiera di Tripoli. Nella stessa città eseguì per ordine del Governatore il grande telone del Teatro Reale, e un quadro allegorico "Le Colonie e la Patria ".
Adesso decora il Palazzo della Provincia di Siracusa, in seguito ad un concorso, e decorerà quello della Provincia di Catania.
ritratto di Francesco P. Frontini