Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

lunedì 28 novembre 2011

Come amò Garibaldi la patria, di Francesco Perez -1882


Come amò Garibaldi la patria
(Estratto  dall'Orazione pronunziata nel Politeama di Palermo il 2 luglio 1882).

.....   Perigliando più anni così nell'altro emisfero, per la difesa di stranieri popoli oppressi, non per questo gli uscì mai dal pensiero la patria lontana.
La patria, quale intendevala Garibaldi, quale la intesero le più grandi anime italiane — Dante e Mazzini su tutti — era ben altra da quella che idolatrarono gli antichi. Per costoro straniero e nemico furon sinonimi, e la stessa parola, hostis, valeva a significar l'uno e l'altro. Al modo stesso che ciascuna gente voleva avere i propri suoi Dii, nulla aventi che fare con que' d'altra gente, così pur della patria. 
Amare la patria valeva odiare, o per lo meno sprezzare chi di quella non fosse. E ci vollero i tempi maturi e inoltrati della romana civiltà perché si udisse il motto, solitaria aspirazione a tempi futuri « son uomo, e nulla di umano reputo alieno da me; », e perché Lucano potesse dir di Catone « non sentirsi nato a se stesso, ma a tutto il genere umano. »
Il concetto della patria repellente, esclusiva dominò non solo ne' tempi degli Dei speciali a ciascun popolo, ma ed anche, e forse più, nel medio evo, quando già a quegli Iddii erano succeduti i Santi protettori e patroni di ciascuna città e d'ogni singola classe.
E questo sì egoistico e meschino concetto di patria fosse pur anco mutato ne' tempi odierni! —Ma no. Prepotere con egoismo sulle altre nazioni è tuttavia l'ideale di certi uomini di Stato, che osan deridere noi fautori della pace universale e dell'arbitrato internazionale ; noi liberi economisti, che sentiamo la grande solidarietà del genere umano; che sentiamo e pensiamo come la natura stessa, spartendo inegualmente i suoi doni, non tutto concedendo ad ogni nazione, le costringa tutte ad affratellarsi, a scambiare reciprocamente i lor prodotti materiali e morali, per raggiungere tutte il gran fine della vera civiltà, la pace e l'universale benessere.
Né così lungamente inteso l'amore di patria, l'amore della propria nazione, cesserà d'avere ragione d'esistere, o riuscirà meno vivo. 
La razza, le indelebili speciali attitudini, che da essa e da' vari climi e territori derivano, la storia e le tradizioni proprie di ciascun popolo è, sintesi di tutto ciò, la lingua comune, resteranno pur sempre vincolo di distinta nazionalità, creeranno doveri e diritti speciali e precedenti a quelli universali e comuni a tutto il genere umano. 
Ond'è che il cittadino dell' èra nuova, che rifulgerà quandocchessia dalla vetta del Campidoglio, se amerà fortemente la patria, se sarà pronto a dare il sangue per essa, a volerla indipendente da qualsiasi servaggio interno od esterno, non vorrà per questo soggiogare la patria altrui, ingerirsi negli affari propri di quella sotto i mille pretesti che gli odierni sofisti hanno saputo inventare; non  pretenderà preminenza alla sua; non vorrà con armi e dogane far guerra alle altre, ma le amerà tutte sorelle; e solo vedrà nemiche e combatterà fino all'ultimo sangue le prepotenti che osassero negare indipendenza alla sua, insultarla, avvilirla, ingerirsi nelle sue faccende domestiche, foss'anche con ridicole propagande che pretendessero recare libertà a chi ne ha tanta da farsene ad altri imitabile esempio!
Tale era la patria che idolatrò Garibaldi.  E mentre per essa non era ancora suonata l'ora del riscatto, mentre i più generosi suoi figli apparecchiavansi alla riscossa, ei sentì commuoversi al grido degli oppressi di là dall'Atlantico. Pugnò e vinse per essi, levando ad altissima stima dovunque il nome italiano. 
E apparecchiava così gli esuli alle patrie battaglie, e creava, senza saperlo, intorno a sé quell'aureola di gloria, quel fascino su' suoi seguaci, che fu la più valida tra le sue forze, e che più tardi in Italia potè fargli dire :
« Soldati! Io vi offro fame, sete, fatiche, pericoli, morte. Chi ama la patria mi segua. »
E tutti il seguirono!
                         Devmo Francesco Perez.

*(tratto da Caritas strenna per gl'inondati 1882.83)

- Una patria, a cui sia limite il polo,
una famiglia, a cui sia fede il vero. - Mario Rapisardi  

venerdì 25 novembre 2011

IL COMPARATICO IN SICILIA di Giuseppe Pitré - 1882


IL COMPARATICO IN SICILIA di Giuseppe Pitré 
(tratto da Caritas strenna per gl'inondati 1882.83)



Auspice e protettore S. Giovanni Battista, il Comparatico è in Sicilia, presso il popolino, la parentela più considerevole e più stimata: tanto che allo spesso non la cede alla parentela di sangue. Dire S. Giovanni è come dire compare, e quando si giara sul santo, si fa un giuramento che non dà luogo a dubitare di nulla. Il compare vuol bene al compare come a fratello, e alla comare come a sorella, ma sorella con la quale non debba entrare in troppa familiarità, se non vuoisi fare onta a S. Giovanni. Il figlioccio poi amasi come figliuolo proprio, ed è comune l'adagio: Amuri di parrinu (padrino), amuri finu.
La santità del comparatico va al di là di qualunque supposizione, e guai a chi con atti o parole, od anche con pensieri, l'offenda! Esso è specchio tersissimo, cui il più lieve alito appanna, è fiore delicato, cui un toccamento poco delicato fa subito avvizzire. S. Giovanni ne è geloso, e lo vuol serbato puro come l'anima sua. S. Giovanni è dilicatu, dice il proverbio; ed anche: S. Giovanni'un voli 'nganni
Leggende in verso e in prosa celebrano sotto questo aspetto il comparatico, e basta ricordare I compari del Còmiso, La Comare, e, meglio, Il marinaro di Capo Feto, dove il Santo punì in modo terribile un compare ed una comare, che violarono il primo de' sagramenti; onde la credenza antichissima che amendue giacciano tuttavia, dopo secoli e secoli, sotto un enorme masso del Capo Feto presso Castellamare (Prov. di Trapani), mandando un fetore d'inferno. Leggende simili corrono in Cianciana, Resuttano, Marsala, Polizzi, Cefalù, ecc.
Una serie di pratiche e di massime regolano la condotta de' compari tra loro. Per dirne una: essi non si danno mai del tu; e su questo non si fa eccezione neanche tra consaguinei; perchè, se una donna (parlo sempre del popolino) tiene al battesimo il neonato d'una sua sorella o d'un suo fratello, cessa in loro il tu e comincia il voi col vocativo di cumpari o cummari. Litigi tra essi non nascono o finiscono in sul nascere, altrimenti si reca offesa al santo, il cui intervento è immancabile. La vanedda (vicolo) di lu 'nfernu, nell'antica Contea di Modica (prov. di Siracusa), nella sua origine richiama ad uno di questi scandalosi battibecchi.
Se poi sventura vuole, che un malinteso dia luogo ad uno screzio, ad una rottura, allora chi si tiene 'dal lato della ragione, se ne richiama, come a giudice imparziale, al santo esclamando: S. Giuvanni mi nn'ha via pagarti! (S. Giovanni me ne ha da dar ragione). Ma questi casi, per onore del comparatico siciliano, son rari come le mosche bianche, e quando una rottura è inevitabile, si leva di mezzo il santo per non farlo spettatore di tali scandali.
E qui una considerazione d'ordine morale, che può far molta luce sulla vita domestica d'una certa classe del nostro popolo.
Posto che S. Giovanni rappresenta il comparatico, ed un'offesa fatta ad un compare è offesa fatta a lui, nel cui nome si contraggono i legami più sacri, è facile il supporre quale influenza debba il comparatico esercitare sulla nostra gente minuta. Tra persone temibili per indole rissosa e vendicativa, alle quali sieno norme di condotta i principi più brutti della mafia, il comparatico è un gran bene ed anche un gran male. 
Supponiamo che tra uomini de' bassi fondi sociali nascano parole; dalle parole si viene presto a' fatti, e il sàngue non potrà mancare. Chi vuole evitare un danno, ci metta di mezzo S. Giovanni : un comparatico da contrarsi col battesimo del primo bambino che nascerà all'uno o all'altro de' due nemici. Basta la parola, perché tutto ceda sotto lu S. Giuvanni nnuminatu. 
Da questo giorno, i due potenti avversari, che altrimenti si scannerebbero come cani, diventano amici sfegatati, depositari l'uno della fede dell'altro.
Ma che diremo quando questa parentela spirituale venga contratta o impegnata tra persone che avran da fare col criminale?
Il comparatico impone cieca fiducia, fedeltà a tutta pruova, silenzio scrupolosissimo su uomini e cose. Provatevi a far parlare, a far testimoniare una persona di queste in una istruttoria, in un dibattimento criminale; non riuscirete a cavarne nulla. I compari tacciono, e per l'amore o per dovere o per convinzione; senza riserve, senza esitazione si aiutano l'un l'altro, si mettono a qualunque sbaraglio, disposti a subire tutti i rigori della legge, pur di serbare il più stretto silenzio su ciò che sanno e su ciò che potrebbero sapere o far sapere. 
Le cronache giudiziarie siciliane ci attestano tuttodì che uno de' maggiori ostacoli al facile corso della Giustizia è questa specie di dovere offensivo e difensivo che si crede imposto dal S. Giovanni (comparatico), e che, poche eccezioni fatte, non venne mai violato da nessuno, il quale corona i sagrjfizi voluti dal comparatico.
Qui gioverebbe vedere quali pratiche sieno in uso nel contrarre un comparatico, ma ciò farebbe troppo lungo questo non breve cenno destinato a pubblica e pietosa onera di beneficenza.  - G. Pitrè


giovedì 24 novembre 2011

LE FESTE BELLINIANE [15 ottobre 1876] di Federico De Roberto




(Nostra Corrispondenza).
Catania, 26 settembre. Da un mese Catania è in uno stato anormale, ognuno si sente in dovere di adoperarsi per ricevere degnamente il grande concittadino, e tutti si sono adoperati tanto che per la ristrettezza del tempo si sono fatti, miracoli. Il 21 tutto era pronto. I treni e i piroscafi provenienti da tutte le direzioni versavano a migliaia i forestieri, e la folla curiosa circolava per le vie della città adorna di un infinito numero di bandiere nazionali e di quelle di tutte le nazioni del mondo. Il 22 l'accorrenza dei forestieri aumentò ancora. Tutti i balconi erano parati a festa, sui muri, delle vie si vedevano le immagini di Vincenzo Bellini circondate da ghirlande e festoni di fiori, e su tutte le bocche risuonava il suo nome; era un vero entusiasmo.
L'arrivo delle ceneri era fissato per le sei; le vetture versavano i curiosi al suolo, alla Piazza dei Martiri e alla Stazione.
Tutti i bastimenti erano pavesati a festa. Gli occhi erano rivolti a quell' angolo di terra ove doveva apparire la squadra; imperocché il ministro di agricoltura industria e commercio aveva promesso al Municipio che insieme al Guiscardo che doveva portare le ossa di Bel lini, sarebbe venuta la squadra che era a Taranto.
Alle 4 pom. Lasta di prua d'una nave spuntava dalla terra,  tutti i cuori palpitarono; era il Guiscardo. L'annunzio corse in un baleno per la città. I due colpi di cannone che si tirarono da terra, ebbero un' eco sulla spiaggia opposta e in tutti cuori. Ma la delusa aspettativa della squadra produsse una cattiva impressione.
Ancora mancava molto tempo all' ora stabilita, ed il Guiscardo si avanzava lentissimamente. Elle 5 ore meno pochi minuti la corvetta era all'altezza della lanterna. Allora incominciarono le salve. Era il grido di gioia che Catania emetteva ricevendo il figlio suo; era il saluto che gli inviava. - La corvetta rispose alle salve, avvolgendosi nel denso fumo dei suoi cannoni. A regolari intervalli brillava un fuoco, e dopo un 12 secondi si sentiva il lontano tonar del bronzo. Era ancora distante più di 4 chilometri. La rotta era al sud, poi fu portata a sud-ovest. Si seguitò così fino a che arrivò nella direzione del molo vecchio. Allora si avanzò nella direzione del porto ; il quale cominciava a coprirsi di barchette che andavano all'incontro della corvetta e poi le tenevano dietro. Intanto seguitava il cannoneggiamento da terra. Allorquando la nave imboccò il porto si udì un batter di mani fragoroso, i cappelli si abbassarono ed i fazzoletti sventolarono. I membri della Commissione erano raccolti sul casseretto insieme cogli uffiziali di bordo e salutarono la folla stipata alla lanterna, al molo, sui palchi ,  alle   finestre e dentro le barche.
Alle 5 1/2 il Guiscardo gettò l'ancora. Finirono le salve, ma il batter delle palme continuò più fragoroso. Appena il Guiscardo si fermò, la banda intuonò l'inno reale e le altre bande seguitarono i loro concerti.
Intanto annottava. Si cominciò ad accendere i lumi. In 5 minuti il mare fu coperto di punti rossi vagolanti. Alle 6 ore e 10 si accesero i fuochi di bengala alla lanterna. Grandi fuochi di legna brillarono sulla costa e dall' alto del Salvatore, i razzi multicolori solcavano l'aere, le granate scoppiarono e i mortaletti aggiunsero il loro fragore all'incantevole scena. Il Messaggiere, avviso della R. Marina, fu illuminato a fuochi di bengala, e lo stesso Guiscardo. Poi a poco a poco i fuochi si spensero, le barche rimisero a terra i curiosi e la folla sgombrò il porto per gettarsi nelle vie.
L'illuminazione di queste era magnifica, tutte la case splendevano I giardini Pacini e Bellini ridondavano di luce, le bandiere vi sventolavano e le bande vi intrattenevano la gente con la musica di Bellini. In Piazza degli Studi era eretto un palco, sul quale fu scoperto un trasparente del prof. Rapisardi, rappresentante l'apoteosi di Bellini: gruppo di angeli che portano Bellini in cielo, e la melodia piangente che fugge. Su quel palco si tennero concerti vocali e strumentali, l'ultimo dei quali fu l'apoteosi di Bellini, scena drammatica posta in musica dal maestro Pacini.
Per finir la serata si illuminò a fuochi di bengala la via Vittorio Emanuele, alle cui estremità si videro apparire una grande lira ed un arco di trionfo.
Ma se la festa era finita, la gente voleva assistere allo sbarco delle ceneri, e muta si portò al porto. La barca funeraria fu staccata da terra e il feretro fu posto nella carrozza dell'ex S. P. Q. C, che si mosse seguita dalla folla che gridava : Evviva Bellini ! — Alla Porta Uzeda si intesero le grida di: Abbasso i cavalli! a noi Bellini! Dalla Porta Uzeda alla Porta Aci le grida raddoppiarono: Staccate! Via i cavalli! Ai catanesi Bellini! Evviva Bellini! La carrozza non potè andare più innanzi ; si staccarono i cavalli, s'intese un immenso grido , la gente si precipitò al timone. Fino alla piazza del Borgo non s'intesero altre grida che: Evviva Bellini! e fra esse: Viva la Francia! Viva Parigi e Catania! Mani frenetiche agitavano i cappelli ed i fazzoletti, la gente veniva ai balconi, le finestre si illuminavano. Fu una vera marcia trionfale. Alle 2 la carrozza arrivava al Borgo, ed il feretro fu esposto nella cappella ardente.
Il domani, alle ore 10 e 1/2, le reliquie di Bellini furono  solennemente   consegnate  al. 
Sindaco e alla Giunta municipale.                              
- Tutte le deputazioni delle associazioni citta- dine, nazionali ed estere; le rappresentanze dei corpi scientifici ed artistici ; il rappresentante della R. Casa, generale de Sonnaz, ecc., ecc., si adunarono alle 11 e 1/2 al Palazzo di Città. Il professore Ardizzoni lesse un discorso che fu applauditissìmo.
Alle 3 tutte le deputazioni e rappresentanze, la  milizia,  l'ufficialità  dell'esercito, lo  stato maggiore delle navi il « Guiscardo » ed il Messaggiere arrivarono alla piazza del Borgo, a cui fu dato il nome di Piazza Bellini. Alle 3 e 3/4 un sarcofago di ebano con lavori in argento fu    posto sopra un carro a tre ordini. Il primo era    una specie di grande biga, sostenuta da quattro    
ruote eguali. Sul basamento davanti era posta la statua della Melodia,  di dietro un trofeo di     bandiere delle nazioni e città ove Bellini colse    gli allori.  Dal primo basamento si  elevava il secondo ordine coperto da una coltre di velluto nero con il nome di Bellini ricamato in argento.     La  coltre era sostenuta da festoni appesi ai    colli di quattro cigni, posti agli angoli superiori del secondo, basamento. Il terzo ordine era composto di dieci cariatidi rappresentanti gli spartiti di  Bellini e sostenenti  una barella su  cui era il sarcofago. Dopo alcuni tentennamenti di quest'ultimo  si dovette  rafforzare la barella; un' altra fermata si fece sotto l'arco di trionfo, eretto sulla piazza per tirarne la fotografia. Infine il corteo sì pose in moto. Lo aprivano un pelottone  di carabinieri a cavallo, seguivano i chierici e le rappresentanze dell'Istituto nautico, dell'Università, della Società dei figli dell'Etna, figli  del  lavoro, del Circolo dei cittadini, del Circolo degli operai, dell'Accademia  gioenia, della  Società  artistico-musicale, ecc.;  in  fine un  battaglione di   linea   con   musica e bandiera. Ai lati del carro tirato da tre quadriglie di cavalli, guidate a   mano  da   valletti    in  costume  del secolo XIV, due  gonfalonieri  portavano i gonfaloni della città. Dietro il carro veniva la famiglia di Bellini, cioè il fratello, la sorella ed un nipote; il sindaco, il prefetto, il rappresentante della R. Casa, l'uffizialità dell'esercito, il corpo universitario, giudiziario e consolare, i rappresentanti del Senato e del Parlamento, i senatori e i deputati, i comandanti delle navi, gli uffiziali della R. Marina, i decorati degli ordini di Savoia, SS. Maurizio e Lazzaro, Corona d'Italia, i sindaci invitati ecc., ecc.
Veniva dopo un secondo battaglione con musica, un'altra banda ed una compagnia di fanteria di marina.
Durante il trasporto le bande suonavano marcie funebri. Dai balconi piovevano i fiorì, i mazzi, le corone, i sonetti. Alle 6 il carro giunse alla Cattedrale, sul cui frontone in una coltre nera era scritto;
Questa basilica — ove dormono dimenticate — le ossa di tanti re — diventerà questo giorno famosa — per la tomba — di — Vincenzo Bellini.(di M. R.)
Il feretro fu portato nella chiesa che era tappezzata, di velluto nero, dalle arcate pendevano cortine di velo nero, l'abside era occupato da un palco ove 200 ragazzi cantarono uno stupendo coro del maestro Coppola. Il feretro fu posto sopra un catafalco a due ordini. Il primo poggiava sopra una scala di tre gradini, era tappezzato di mortella e cipresso che disegnavano delle arcate gotiche occupate da genii in argento. Il secondo ordine era tappezzato di velluto nero con trofei musicali, in argento. Su di esso fu posto il feretro coperto da una coltre di raso bianco con ricami in oro. Nei tripodi di bronzo ardeva l'incenso, mentre tutta la chiesa era illuminata.
Quella sera, al giardino Bellini, ove era accorsa una folla immensa, si suonarono pezzi di Bellini accolti da fragorosi e ripetuti applausi.
La domenica, 24, la chiesa era trasformata in cappella ardente. Con assistenza dell'arcivescovo e del rappresentante la R. Casa si cantò la gran messa da Requiem del maestro Coppola, diretta da lui medesimo. La messa è veramente grande. I canti funebri e celestiali vi abbondano, i cori sono stupendi; e tutto ciò, unito ai motivi grandiosi dell' Agnus Dei' e del Miserere, fa un insieme degno di chi la scrisse e di quello a cui è diretta.
Fu poi discoperto il monumento sepolcrale, opera dello scultore Tassara, composto d'un basamento in cui sarà incastrato un bassorilievo rappresentante una scena della Norma. Sul basamento è un'urna, su cui il Genio della Melodia depone una corona. Il tutto è sormontato da un'arcata che finisce con una croce a braccia uguali, e sul cui fondo un bassorilievo rappresenta l'Apoteosi di Bellini. L'Apoteosi ed il Genio sono in gesso, non essendo arrivati quelli in marmo. Ai piedi del monumento è la tomba su cui sta scritto: 
Bellini.
La sera la banda di Messina intuonò l'aria del Pirata : Nel furor delle tempeste , che fu fatta ripetere ben otto volte.
Infine si illuminò a fuochi di bengala tutta la via Stesicore Etnea, e dissipato il fumo si lesse siili' arco di trionfo il nome di Bellini, che ornai riposa nella terra che lo vide nascere.
                                                                                                                                   
F. De Roberto.


[Anno III. - N. 51, 15 ottobre 1876]

sabato 19 novembre 2011

Studio sul Superuomo di Mario Rapisardi. La speranza o l'utopia di un poeta.

...quando diciamo i più forti uomini dell'avvenire, non intendiamo i più muscolosi, i più nerboruti, i più prepotenti, ma i più buoni, i più virtuosi, i più saggi; quelli insomma che avranno la forza di resistere al male, in modo da non intorbidire e contaminare le fonti del comune benessere; quelli che sapranno vivere e morire per la libertà, per l'eguaglianza, per la giustizia sociale.....


Studio sul Superuomo di Mario Rapisardi

Un fenomeno simile a quello descritto da Lucrezio nella formazione della terra e del cielo, avviene anche nella storia dell'incivilimento.
Vi sono nella congerie e nella massa della vita sociale alcuni elementi, alcune energie che s'innalzano dalla superficie, si librano sul pantano della esistenza ordinaria; s'individuano in certi organismi superiori, che sono l'effetto della elaborazione e della selezione della materia a traverso il tempo e lo spazio: organismi, che assommano e concentrano in sè le qualità migliori e più caratteristiche della specie, ed attirano perciò l'attenzione, il sospetto, l'odio e l'amore della moltitudine.
Questi organismi che sono come punti di projezione luminosa verso l'avvenire, formano la guida, la bussola, la forza vera ed operante della specie; la quale in tanto è perfettibile in quanto è capace di produrre, a via di scelta naturale e sociale, questi esseri destinati a infuturare e migliorare la razza.
La favola dell'Arca di Noè potrebbe simboleggiare questa eletta della specie umana, che la Natura vuol salvare dalla universale rovina, facendola sopravvivere ai deboli, ai disadatti, ai colpevoli.
La legge darwiniana della sopravvivenza dei più forti avrebbe anche qui una riconferma solenne. Se non che, il concetto della forza, in ciò che spetta alla razza, va, come tutti gli altri, modificandosi e trasformandosi; e quando diciamo i più forti uomini dell'avvenire, non intendiamo i più muscolosi, i più nerboruti, i più prepotenti, ma i più buoni, i più virtuosi, i più saggi; quelli insomma che avranno la forza di resistere al male, in modo da non intorbidire e contaminare le fonti del comune benessere; quelli che sapranno vivere e morire per la libertà, per l'eguaglianza, per la giustizia sociale.
Questa schiera sempre più numerosa, ch'è la parte più forte e più eletta della specie, non è ancora la schiera dei superuomini, ma è appunto quella che li presente e li prepara.
Il superuomo verrà da essa, come dall'antropoide è venuto l'uomo.
Il presentimento ch'essa ha d'uno stato migliore della razza umana è qualcosa di simile, potrebbe anche essere un succedaneo, alla fede dei cristiani nel paradiso.
I pagani rilegavano nel passato l'età dell'oro: la storia del consorzio umano era da loro raffigurata nel colosso dall'aureo capo e dal piede d'argilla.
I loro desiderj, quelli almeno dei pensatori e dei poeti, erano sempre rivolti al passato: come gl'indovini di Dante aveano il volto dalla parte delle natiche; i loro pensieri facevano ritroso calle.
Tali perpetui laudatores temporis acti non potevano concepire la legge universale dell'evoluzione: la perfettibilità e il perfezionamento umano per loro non esisteva. La loro saggezza si compendiava nel carpe diem.
Non per nulla Orazio diventò il poeta più caro alla borghesaglia di tutti i tempi.
Il cristianesimo, fra tanti mali, ha questo gran merito d'avere rivolto il viso dell'uomo all'avvenire: al cielo, al paradiso, esso dice, ma non importa: il cielo degli uomini pensanti è quell 'avvenire di verità, di giustizia, di libertà e d'amore, di cui essi hanno il vago ma non fallace presentimento.
Questo presentimento d'uno stato migliore in pochissimi individui d'una generazione diventa fede, idea fissa, ossessione.
Questi magnanimi pochi, i quali per la confessione, la propagazione e la rappresentazione di una tal fede, sagrificano i comodi, la pace e la vita stessa, sono coloro che vanno generalmente distinti col nome di genj : esseri intermedj fra l'uomo presente e l'uomo avvenire, ponti aerei gittati dalla Natura fra l'una e l'altra generazione, fra l'una specie e l'altra, forse fra l'una e l'altra sfera; anelli di congiunzione fra la realtà e il sogno, fra il presente e l'avvenire, fra l'uomo e il Dio.
Tra i vegetali, tra gli animali, fra le specie diverse vi sono questi esseri intermedj (la gradazione della specie è legge che non patisce eccezione di sorta alcuna); sono gli addentellati nell'immenso edificio dell'essere faticosamente inalzato dalle generazioni nell'infinito.
Le manifestazioni tutte della vita umana, specialmente le intellettuali e specialissimamente le artistiche, hanno tutte in genere questa tendenza: sono piante che tendono irresistibilmente in alto, alla luce, all'avvenire.
Le arti non sono che la rappresentazione di questa universale tendenza; la musica più di tutte.
Il genio non ha soltanto il presentimento, ma la visione lucida di questa tendenza.
Le qualità sovrumane ravvisate dal Bovio nei veri genj e così genialmente da lui descritte ed illuminate, si trovano quasi sempre congiunte alla infermità, alle stranezze, alle colpe osservate ed enumerate con tanta sapienza positiva dal genio di Cesare Lombroso: la sintesi del filosofo e l'analisi dello scienziato si compiono e ci danno la fisiologia e la patologia del genio.
Il quale non è propriamente una infermità nè un'anomalia, ma la sintesi ideale di un'età, il prodotto più delicato, più alto, più etereo in cui la Natura ha condensato le sue più spiritali energie, le qualità più belle, le fibre più squisite della materia.
La delicatezza e la fragilità stessa dell'organismo del genio, anzi che provare la degenerazione, prova l'elevazione più sublime delle forze naturali, come la finezza estrema di alcuni prodotti dell'industria umana è certa misura dell'altezza a cui questa sia pervenuta, e costituisce di quelli il pregio singolare e la eccellenza suprema, non ostante i pericoli a cui la stessa loro fragilità preziosa li espone ad ogni istante: il menomo urto può frantumare la sottile e quasi diafana argilla d'un vaso italo greco, il caolino più leggiero e più puro delle majoliche di Sèvres, il cristallo più aereo, animato dal soffio dell'industria di Murano.
La sensibilità delicatissima del genio lo espone a disinganni, a dolori, ad agitazioni e travagli ignoti alla placida folla degli uomini così detti normali; ma solo a tal patto la natura gli ha concesso il piacere più alto e più intenso che possa essere dato ad un essere umano: quello di rispecchiare in sè l'eterno divino; di accogliere nella mente, come in un prisma, i raggi luminosi della vita universale; di cogliere a volo i più lontani e reconditi rapporti fra le manifestazioni più varie dell'essere; di scoprire le verità più contese alla mente umana, di penetrare nelle trame più recondite della vita; di svegliare nelle anime affini gli echi sopiti di mille generazioni, di riprodurre ne' colori, nei concenti, nella parola le vibrazioni secrete e le armonie sublimi dell'universo.
Le infermità che lo accompagnano derivano in lui dalla razza, dal clima, dall'ambiente sociale, dall'esercizio straordinario degli organi del pensiero e del sentimento, e in parte anche per avventura da quella avara legge di compenso, onde la Natura accorda lo sviluppo straordinario di certe facoltà a scapito di certe altre, che rimangono imperfette e rudimentali.
L'opera del genio è personale ed originale per eccellenza.
Perchè un'opera sia tale, bisogna ch'essa, e per il concetto che l'informa e per la maniera, onde tal concetto si esprime, esca dalle vie comuni, ora annunziando verità nuove o guardando da un aspetto nuovo le già conosciute, ora rappresentando in maniera tutta sua le proprie e le altrui passioni, calpestando le regole fin allora credute sacre, e variando senza scrupoli quei termini entro a cui la critica officiale, cioè il pregiudizio scolastico imperante, pretendeva circoscrivere le manifestazioni dell'umano pensiero.
Originalità importa ribellione; e il genio è naturalmente ribelle.
Voi gli tessete intorno una rete vulcanica di precetti, di assiomi, di leggi; ma egli agevolmente la spezza o la sprezza, manda all'aria le forme sacramentali e i canali privilegiati in cui si vorrebbe gettar e far correre il pensiero creatore, e ne crea altre, che la critica nuova si scalmanera di classificare, di ridurre alle vecchie misure legali per allogarle finalmente nei casellarj, nei musei e negl'ipogei della presuntuosa imbecillità.
Questa ribellione, che manda a gambe levate tanti bacalari autorevoli e bollati, che caccia dal tempio i mestieranti e i merciajuoli della scienza e dell'arte, che si ride di tanti stagionati pregiudizj, e la prima caratteristica di quelle opere geniali, che saran poi considerate e ammirate quali pietre miliari nella storia della civiltà.
E siccome nella ribellione e nella battaglia i colpi non vanno misurati a fil di ragione, il genio riesce quasi sempre eccessivo.
Al par nell'odio è nell'amor sublime come l'Achille cesarottiano.
Immaginate le grida e gli scandali dell'aurea mezzanità!
Altri gli si avventano ai polpacci, altri congiurano a perderlo; il volgo diffidente gli volta borbottando le spalle.
E biascicando un porcin verso di Flacco, All'enorme busecchia allarga il cinto.
Ma che importa al genio della moltitudine, che dà e toglie il favore e la nominanza? Ad altro egli mira.
Il passato è il regno dei fossili; il presente è il dominio dei pieghevoli e dei galanti. Regnum meum non est de hoc mundo, egli può dire con Gesù ; se non che il mondo suo non è il cielo, ma l'avvenire; non la beatitudine ma la battaglia; intuisce una verità e l'afferma a dispetto di tutte le forze congiurate a celarla e a sopprimerla; ha la visione chiara d'un Ideale di libertà, di giustizia, di bellezza, e vuol raggiungerlo ad ogni costo, vuol tradurlo ed effettuarlo nella realtà; non s'inchina a demiurghi, non crede inviolabile alcuna legge; gli ostacoli che gli oppongono la fede, la prepotenza, la critica non fanno che accrescere la sua brama e la sua forza: li affronta sorridendo con la non curanza di un dio; ed anche allora che più gli resistano, e già sembra che il suo vigore si franga in una lotta ineguale, anche quando soggiaccia alla loro resistenza brutale, la sua fronte s'illumina d'una soave speranza, perchè egli presente e prevede in quell'ora suprema il suo trionfo immancabile nell'avvenire.
Per questo diciamo che il genio è il precursore del superuomo, l'annunziatore e l'apostolo dell'Ideale.

FRAMMENTO D'UNO STUDIO SUL SUPERUOMO ,
apparso su Palingenesi, II, 5,
il 1 luglio 1900



martedì 15 novembre 2011

G. Verga e M. Rapisardi, dal Don Chisciotte del 3.4.1881 per il terremoto di Ischia

ISCHIA
ED I RECENTI TERREMOTI


SU questo argomento di attualità per
noi è  richiamata oggi l'attenzione generale della grande   famiglia
Italiana per soccorrere i fratelli miseramente colpiti.


CASAMICCIOLA
QUANDO   giunse   la notizia del   disastro che aveva colpito Ischia mi parve di rivedere l'isoletta, quale mi era sfilata dinanzi agli occhi attraverso gli alberi del battello a vapore, in una bella sera d'autunno.
La mensa era ancora apparecchiata sul ponte, e gli ultimi raggi del sole indoravano il marsala nei bicchieri. Dei viaggiatori alcuni s' erano già levati , e passeggiavano su e giù. Altri, coi gomiti sulla tovaglia, guardavano l' immensa distesa di mare che imbruniva sotto i caldi colori del tramontò; su cui Ischia stampavasi verde e molle, e dove la riva s' insenava come una coppa. Casamicciola, bianca, sembrava posare su di un cuscino di verdura.
A tavola due che tornavano dal Giappone discorrevano di seme di bachi; Una coppia misteriosa era andata a rannicchiarsi a ridosso del tubo del vapore. Un giovane che non aveva mangiato quasi, e stava seduto in un canto, pallido, col bavero del paletò rialzato, guardava l'isoletta con occhi pensierosi e lenti, in fondo alle occhiaie incavate.
Tutt' a un tratto sul profilo dell' isola che spiccava dalla luce diffusa del crepuscolo, apparve netto e distinto un fabbricato, quasi sorgesse d' incanto, e l' ultimo raggio di sole scintillò sui vetri, come l' accendesse.
Quel dettaglio del paesaggio che si animava all' improvviso apparve così chiaro e luminoso come se si fosse avvicinato d' un tratto.
Tutti si volsero ad ammirare lo spettacolo, e i negozianti di cartoni giapponesi tacquero un momento. Soltanto la coppia ch' era andata a nascondersi dietro il fumajuolo non si mosse, e gli occhi del giovane pallido che teneva il bavero rialzato non si animarono neppure.
Così succede ogni di; e due sole preoccupazioni bastano a sé stesse, l'amore e la mattìa, l' origine e la fine della vita. Quasi cotesta riflessione fosse venuta istintivamente a tutti in quel momento, si cominciò a parlare dell' azione benefica che hanno le acque e l'aria di Casamicciola, e dei malati che vanno a cercarvi la salute o la speranza. Invece il giovane dal paletò, pensava probabilmente, come si fa delle cose che si desiderano, alle gioie tranquille e ignorate che dovevano esserci in quell ' isoletta verde, fra quelle casette bianche, dietro quei vetri scintillanti. E quando i vetri si spensero, e la casa si dileguò ad un tratto quasi al mutare di una lanterna magica, e i contorni dell'isoletta sfumarono nel mare livido, il suo volto si offuscò. Adesso quella casetta bianca è forse distrutta, e degli occhi senza lagrime e senza sorriso ne contemplano le rovine, dalle occhiaie incavate, su dei visi pallidi.
                                                                                                                G. Verga.



FEBBRAJO

SEMPRE che con tepor primaverile 
Scote ilvario febbraio i sonnolenti 
Arbori, e desta su' diserti rami 
Tenero verde o intempestivi fiori, 
A voi facili sogni, a voi  speranze 
Lusinghevoli io penso, onde s'ingemma 
Anzi tèmpo l' incauta giovinezza 
Datrice alma d'inganni. Irato a un tratto 
Del concesso governo urla aquilone, 
Stagna i vividi succhi, abbrucia i novi 
Germogli, i fiori isterilisce, e a volo 
Precipitando da l' etnea montagna 
Di subito nevischio i campi inalba. 
Guarda il mite cultore, e con un triste 
Riso scrollando la  lanosa testa : 
Ben, esclama, più ch' altro a te s' addice 
Il morso  di rovajo,  o impaziente 
Mandorlo, a cui si  tarda la stagione 
De' fiori; ben a te, pronta a dar foglie 
O  acacia infruttuosa: un' aura dolce 
Basta a sedurvi. Nascerà fra poco 
Zefiro con aprile, e invan, fra' vostri 
Aridi stecchi lene sospirando, 
Chiederà a l' uno i saporiti frutti, 
A l' altra i mazzi de' nettarei fiori.   
Ma de la vigna, che ancor freddi e brevi 
Dal ceppo screpolato alza i potati 
Salci, simili a dita, e ben fu saggia 
A non destarsi a l' aure ingannatrici, 
Pender vedremo nel pomoso  autunno 
Come mamme caprine i pingui grappi, 
Onde il licore de l' oblio si  spreme.
                                         Mario Rapisardi.

domenica 13 novembre 2011

Stato civile della «Cavalleria rusticana». «La Lettura» 1921, di Federico De Roberto


Stato  civile  della   «Cavalleria   rusticana».  
 «La  Lettura»,   Milano,   1°  gennaio 1921.
di Federico De Roberto
*( le correzioni o gli appunti, scritti nel bordo dell'articolo, sono di F. De Roberto).

Giuseppe Deabate, narrando nel fascicolo dell' Illustrazione italiana  dedicato  a Giovanni Verga il Battesimo della « Cavalleria rusticana», attribuisce a Cesare Rossi, fra le molte altre benemerenze, anche quella « di aver compresa, sentita, ammirata alla prima lettura, la bellezza e la forza del bozzetto drammatico del Verga  e  di  non aver esitato un istante a porlo in scena. Fu, questa la gran, lode che andò dai critici al buon naso del Rossi, per ripetere l'immagine con cui essi amavano scherzosamente alludere al gran naso di quel raro e caro attore ».
Chi, sa come precisamente andarono le cose non può far buone le lodi largite in quell'oc-casione dai critici all'attore e capocomico re-putatissimo ; e poiché la Cavalleria rusticana, è l'opera che più d'ogni altra rese popolare il nome, del grande artista ultimamente festeggiato
 da tutta l'Italia — compresa quella uffiale, che 
finalmente, accorgendosi della gloria, di Giovanni Verga, gli ha riconosciuto anche in 
Senato il posto di Alessandro Manzoni — non sarà fuor di luogo ricostruire fedelmente, la storia del piccolo grande capolavoro.


















venerdì 11 novembre 2011

Per il centenario di Calcedonio Reina (Catania, 4 febbraio 1842 – Catania, 10 novembre 1911) è stato un pittore e poeta italiano


Ntra lu burgu e la marina
C'è un pitturi arrinumatu,
Vecchiu, pricchiu, strascinatu,
Lenzi lenzi la fracchina,
'Nzaimatu, scarcagnatu...
Cu' po esseri ? 'Nduvina ! (di Mario Rapisardi)
 

Maestro Calcidonio

di Mario Rapisardi

Ei fu nella città di Catana, antichissima e famosissima di Cicilia, uno dipintore chiamato Maestro Calcidonio ; il quale e per lo ingegno singolare e per la maniera bizzarra del dipingere e più ancora per la continenza e abito del vivere, fu veramente straordinario e quasi mirabile huomo del tempo suo.

Da fanciullo dette opera alle lettere latine, perciocchè suo padre che era uno cerusico sapientissimo volea piuttosto farne uno dottore che uno artefice ; ma conciosiacosacchè il maestro che gli leggeva lettere era uno calonaco, di molta reputazione appresso dei più, ma di poca scienza e di neuno giudicio, e più gonfio di vento che di dottrina, si che pareva all' aspetto, e tale era nell'animo, uno otre di quelli che Eolo diede ad Ulisse? siccome pone in suo dittato il sommo poeta Omero, così intervenne che il fanciullo prese in odio sì fatto quella prima disciplina, che tanto imparò di umanità quanto quello suo precettore cognosceva ebraico, che mai non lo seppe.

Venuto intanto all'età della discrezione, e avuta qualche notizia delle umane lettere, egli si diede assai felicemente al trovare; e molte rime trovò che furono stimate indizio di buon ingegno. Diede anche mano allo studio della musica e con tal buona disposizione ed ardore, che pareva a tutti dovesse presto riuscire uno musico eccellente.

Ma quello di che maggiormente si piacque fu l'arte del disegnare e dipingere : per l' amor della quale fatta stanza nella meravigliosa Partenope, presto dette argomento di bene sperare ; e, istudiando i modelli dei famosi artefici e ritraendo dal naturale e ispeculando certe sue invenzioni, egli venne in poco a formarsi una sua tal maniera, che non era uno che veduto una volta una sua tavola non dicesse poi vedendo qualche sua nuova storia: ella è opera di Maestro Calcidonio ; tanto era propia e singolare la sua maniera.

Tra le opere ch' egli condusse, degnissima di memoria per la novità e bizzarria dell'invenzione è quella che rappresenta dua giovani amanti che si abbracciano e baciano in uno cimiterio intra due lunghe file di ataùti e di scheletri che pare li guardino non senza invidia di tanta felicità. E un' altra ne fece che è uno scheletro, o sia la morte incappata in uno grande lenzuolo, seduta in uno trono in mezzo d'una grande camera vuota, e tutta intenta a ricamare una coltre nella quale sono scettri, tiare, corone ed altri simiglianti emblemi di potere mondano. E ora pingeva uno giovinetto cieco sicut mors ficcante uno dito nell'occhiaia d'uno teschio; ora una pulzella che porta in voto uno cuore; ora una giovane donna in paramenti nuziali con una testa di morto in uno vassoio con certi occhi spiritati che è uno terrore; e altre simiglianti allegrezze, dalle quali, non che allettar compratori, era più facile trovare chi inorridito se ne fuggisse.

E per questo non fu ignuno che mai gli committesse o gli comperasse una storia; che tutti sapevano quanto ei fusse terribile dipintore ; e avrebbono piuttosto volsuto ricevere in casa la versiera che uno suo spaventoso dipinto. Della qual cosa egli molto a ragione si rammaricava accusando li huomini di poca discrezione e di molta lussuria : avvegnachè secondo il suo giudicio questa loro avversione procedesse unicamente da ciò, che altro nell'arte eglino non gustano che le delizie della carne, e tutto ciò che spetta alla salvazion dell'anima, come viziosi e senza continenza, trascurano.

E non meno che nel dipingere ei fu nuovo e fantasioso nel rimeggiare. I versi che egli andava scrivendo su per li sgualciti e unti fogliolini, raccattati per le vie, non erano mai secondo retorica, nè di purgato stile, nè di puro dettato: aveano si una certa misura, ma non sempre tale che uno accigliato Aristarco vi potesse trovare i debiti piedi. Ma sì vaghe erano le invenzioni sua, e sì nove e inaspettate le immagini, che a leggere le sue rime tu sentivi nel quore, come un misterioso colloquio di spiriti, e romore di ale e scroscio di acque e stormire di fronde, e ti lampeggiava sugli occhi come un barbaglio di lampi, sì che credevi essere trasportato per incanto in un mondo nuovo, e più tosto tra fantasime di sogni, che tra persone vere. E il succedersi delle immaginazioni, e delle incomposte ma originali armonie ti dava come un giramento di cose, da farti venire la vertigine e il capogirlo.

E ora faremo uno brieve ricordo dei costumi e portamenti suoi, che furono quasi tutti istravaganti.

E primamente dirò che tanta fu la sua continenza così nel mangiare e nel bere come nelle altre cose corporali, che ben l' aresti detto uno santo anacoreta di Dio. E del molto che in questo proposito potrei riferire, basti solamente questo: che in città popolosissima e voluttuosissima ei viveasi quasi in uno deserto, senza altra compagnia che dei suoi pensieri; e poco pane bigio e pochissimo pesce salato, o un po' di pillacchera, che gli tenea luogo di fagiani e di starne nelle più straordinarie solennità eragli cibo sufficiente.

E mai occorse vederlo in compagnia di femmine, altro che per intento dell'arte; ma delle femmine ei si valea poco anche in questo, piacendosi più dipingere idee che uomini, e più anime che carne; onde fu detto con qualche fondamento di vero, essere egli troppo stratto dalle condizioni del vivere e in specialità dalla ragione dei tempi sua, che tutto riduceano a materia, anche l'anima immortale, giusta li epicurei: che è una grande istoltezza e bestemmia. Or tornando al proposito della continenza di Maestro Calcidonio, aggiungo, che tanta era la sua virtù in domare la concupiscenza della carne, che di qualsiasi femina ei si tenesse gnuda dinanzi per iscopo dell'arte, ignuna egli toccò mai con le mani in qualtivogli parte del corpo; e questo parea meravigliosa continenza agli amici...

Aveva egli fra i pochi uno amico, uomo assai loico e istrutto nella filosofia naturale e morale, ma più dedito alle umane lettere che alle divine; il quale era uno grande incredulo, il quale diceva che Dio non fosse e tutti lo chiamavano il Marabise (1), che non sapeano che sì chiamare. Ora costui, quale uomo incredulo e mondano, non volle mai aggiustar fede alla istraordinaria castità di maestro Calcidonio, del quale e' soleva dire essere uno mangiapulzelle; ma questo era una diabolica malignità del Marabise.

Circa gli altri costumi di questo singolar dipintore, dico che egli conducea meschina e misera vita, non già che egli fusse povero, ma più tosto per istracuraggine delle cose temporali non disgiunta da una certa passione di avarizia, onde ei solea dire essere più tosto da prezzare il danaro che la sanità; che questa, non ostante i medici, tanto o quanto si suole recuperare, ma il danaro una volta andato non più si racquista.

Abitava in fra poveri, in poverissima stanza a uno soffitto altissimo, più simigliante a uno trespolo da pappagallo che a una casa d'uomo; per giungere al quale bisognava arrampicarsi per più centinaia di gradi tutti sbocconcellati e sdrucciolevoli per lo gran sudiciume, e passare indi per anditi e andirivieni umidi e puzzolenti, che ti parea esser drento a uno budello di maiale. E la casa era come uno covile con arazzi di muffa, tappeti di polvere, portiere e cortine di ragnateli. Una seggiola con tre gambe, uno strapunto di strame, uno tavolino zoppo con due piè e qualche rozza ed imbrodolata stoviglia erano i nobili arredi di quella magione ; e tele, colori, pennelli, stracci e ciabatte gittati e sparsi per ogni parte, che parea uno naufragio.

E in tanta lautezza egli se ne stava solo, non volendo neppure con una fante divider tanto bene, e questo, diceva il Marabise, era il più generoso atto di carità cristiana, che mai gli vedesse praticare.

Stranissimo era oltre ciò il vestire, si che spesso il vedevi in giro con uno stivale di vacchetta e uno zoccolo, uno berrettone di pelle di gatto sul capo e una palandrana fino alle calcagna, che l' aresti preso per uno masnadiero inseguito dal bargello. E nel mutar dei panni ei non guardava alle stagioni, che tutte le stagioni ed i climi ei soleva portarli addosso ad un tempo solo; così che mentre le brache facevano agosto in Garamanzia, il corpetto e la giubba segnavano dicembre per li Britanni.

Anfanava per le vie più frequenti in siffatto arnese; con le mani intrecciate sul petto come in atto di contrizione e di prece, ma le guardature sospettose e quasi ferine, ch'ei gittava qua e là su la gente, e un certo suo proprio ghignare come di satiro lascivetto persuadean tosto esser l'animo suo più lontano dalla pietà che non fosse per avventura dall'odio e dal disprezzo dell'uman genere.

Al conversare era piacevole e motteggevole molto; ma non patìa, che altri tale il tenesse, temendo non la piacevolezza sua fusse malignamente presa per giulleria: tanto che dettogli uno dì una bambinetta, appresso alla cui madre egli era dimestico molto: Restate ancora, maestro Calcidonio, che senza di voi la brigata non ride-; egli s'ebbe tanto a male di ciò, che afferrata con impeto la fanciulla stava per isfracellarla; onde accorsa la madre alle grida e ripresolo gravemente del fatto, non ei si ristette; anzi con maggior veemenza di collera: Voi siete peggior della putta, le gridò, malvagia briccona che Dio vi mandi il cacasangue a tutte e dua. E come furioso partissi di quella casa, nè più volle rimettervi il piede.

Ma oltre a queste furie e bizzarrie, Maestro Calcidonio era il più dolce e diritto uomo che al mondo fosse, e tale almeno, se non da buttarsi nelle fiamme per amor di Dio e del prossimo, da non torcere un capello a chicchessia e da attendere alle faccende sua, che furono mai sempre di fare onore al suo nome e alla sua gente con opere di colore e di inchiostro.

E perciocchè nel presente secolo uno huomo che abbia pochi e leggeri vizj uniti a molte e sincere virtù è cosa piuttosto singulare che rara, per questo ho volsuto scrivere questo brieve comentario a onore del suo ingegno e ricordo perpetuo della sua virtù.


(1) è facile capire come con questa voce che in dialetto lombardo significa « uomo di mal affare », il Rapisardi scherzando alluda a sè stesso. O che non forse il « rinnegato » Carducci aveva osato chiamarlo « cattivo soggetto » ?

* chi meglio di Mario Rapisardi poteva interpretare l'animo del suo migliore amico.



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