Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

martedì 28 aprile 2015

Scapigliati e Futuristi uniti dal "filo d'Arianna"

«Io sono partigiano del buon senso,
Nè al becero nè al Re fo di cappello;
Non soffro dittatori, e quando penso
Mi piace di pensar col mio cervello.
Rido del volgo ignobile e melenso
Che grida: viva a questi e morte a quello!
Scenda dal trono o sorga dalla via
Sono nemico d'ogni tirannia.» Antonio Ghislanzoni





Quando finalmente qualcuno si deciderà a scrivere un libro di storia della  letteratura capace di non uccidere di noia l’anima degli studenti, mostrando il volto inquieto di una scrittura nata nelle trincee, nelle fabbriche in agitazione, nei bassifondi, sulle barricate, fra i fumi maleodoranti della suburra e le esalazioni allucinate dell’assenzio? Anche perché, parliamoci chiaro, non solo per gli studenti ma anche per tanti professori e sedicenti esperti i nomi di Ferdinando Fontana, Ada Negri, Mario Rapisardi sono quelli di illustri sconosciuti. Eppure basterebbe dare una letta alle biografie di questi poeti maledetti dell’Italia post-risorgimentale (dei famosi come degli sconosciuti) per comprendere come si abbia a che fare con uomini e artisti letteralmente immersi nelle problematiche, nelle battaglie e nei sentimenti diffusi del loro tempo. Troviamo così uno Stanislao Alberici-Giannini, un Eliodoro Lombardi, un Domenico Milelli, un Luigi Morandi, un Vittor Luigi Paladini che vengono dritti dritti dalla militanza garibaldina. E se Ulisse Barbieri conobbe il carcere a 16 anni per aver affisso manifesti patriottici, Pompeo Bettini, Pietro Gori, Carlo Monticelli e lo stesso Turati saranno in prima fila nelle agitazioni socialiste, sindacali e anarchiche. Giovanni Antonelli, dal canto suo, farà per tutta la vita la spola tra manicomi e carceri, mentre la “poetessa del quarto stato” Ada Negri, dopo una vita a cantare gli umili, diventerà la prima donna membro dell’Accademia d’Italia per volere dell’amico Benito Mussolini.


Vite border line di contestatori e libertari, fratelli maggiori dei piromani che pochi anni dopo daranno fuoco all’italietta borghese. È da questi fermenti, infatti, che si dipanerà il filo rosso dell’altro  Novecento italiano, quello che vedrà come protagonisti i bohemien dimenticati della scapigliatura, gli intelletti eretici de La Voce e di Lacerba, gli alfieri del sacro teppismo anarcosindacalista, gli eroi dell’arditismo, i poeti incendiari del futurismo e su su fino a contaminare almeno in parte un certo “socialismo tricolore" riemerso qua e là nel dopoguerra. Punk di un secolo fa, sessantottini ante litteram (ma più belli e più autentici), questi poeti maledetti anticipano l’atmosfera elettrica di Fiume e non sono altro che i padri di quegli Arditi così rievocati da Italo Balbo: «Io – disse un giorno il grande aviatore – non ero in sostanza, nel 1919-1920, che uno dei tanti: uno dei quattro milioni di reduci delle trincee… Un figlio del secolo che ci aveva fatto tutti democratici anticlericali e repubblicaneggianti: antiaustriaci e irredentisti esasperati in odio all’Asburgo tiranno, bigotto e forcaiolo».

Avventurieri, guasconi e scapestrati, figli di un’Italia ribollente di vita che non sempre ha trovato adeguato spazio sui libri di storia. Un’Italia che, mutatis mutandis, forse esiste ancora e che scalpita nelle pieghe della cosiddetta “società civile” che tira avanti nonostante una politica troppo spesso parruccona e ingessata. 

E i balbettii imbarazzati che accompagnano gli scialbi 150° dell’unità, che invece poteva essere l’occasione per una svolta simbolica, lo confermano. Lo stesso centenario del futurismo è apparso ai più come l’ennesima occasione sprecata per ridare all’Italia un’avanguardia attuale, uno spirito nuovo e creativo di cui
pure avremmo disperato bisogno. Ma fuori dalle celebrazioni ufficiali c’è chi va oltre e ripesca – stavolta però con l’occhio realmente rivolto all’oggi e al domani – anche i fratelli maggiori di Marinetti & c. e sodali. Sono i poeti dimenticati di Iannaccone. Sono gli scapigliati, di cui si è potuto dire: «Nell’arte come nella vita, questi anomali personaggi fanno loro il mito di un’esistenza irregolare e dissipata come rifiuto radicale delle convenzioni correnti e delle norme morali. Sono gli scapigliati. Alcolisti incalliti, musicisti, poeti, pittori, combattenti, giornalisti e politici: questo il volto rivoluzionario del nuovo genio artista. Cantano il bene e il male, il bello e l’orrendo, declamano virtù e vizi, raccontano sogni e realtà». E ancora, parlando di Emilio Praga: «Questo è il trillo della delusione di un uomo in miseria distrutto dall’alcool suo compagno di viaggio; un antico Keruac un anarchico integrale, insofferente alla morale, alla religione e alla retorica; sarà lui il primo a cantare la “morte di Dio” ossia di tutte quelle costruzioni razionali e formali che così come nella poesia anche nella storia del mondo hanno messo le catene all’uomo ormai incapace di travalicare i limiti dell’esistenza per assurgere alla vera conoscenza».


La scapigliatura come modello esistenziale trasgressivo per la gioventù del terzo millennio?

In Francia il collettivo artistico-politico dedito a provocazioni mediatiche e politicamente scorrette che ha per nome Zentropa non si è forse dato come slogan «Amour, absinthe, revolution», dove “absinthe” sta appunto per “assenzio”? Torna in mente il Carme comunardo di Domenico Milelli: «Ancor non seppero gli irti filosofi / noi pazzi, o Assenzio, sotto il tuo labaro / schierati in giovani falangi indomite / darem battaglia». Entusiasmo ingenuo e ribellismo adolescenziale? Forse. Ma ne avremmo anche oggi un gran bisogno.
Anche se poi non ci ha messo tanto a mettere i puntini sulle “i” quando il nuovo Stato non ha mantenute quelle promesse di rinnovamento che, insieme all’aspirazione unitaria, aveva mosso anime e corpi al seguito del “generale” Garibaldi… (tratto da un art. di A. Sciacca)
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Lettera indirizzata a Giuseppe Lipparini il 7 luglio 1911, che riporto: “ Credetemi, caro Lipparini, noi abbiamo inventato il “futurismo” per la gravezza paludosa dell'aria che ci sta attorno e ci corrompe e ci pervade entro le vene il sangue e le carni ed il cervello; abbiamo inventato il “futurismo” per bisogno ineffabile ed impellente di nuovo, ci siamo ribellati a tutto e a tutti perché volevamo scorgere, dopo l'empietà dell'incomposta distruzione, qualcosa la quale non fosse il putrido presente incolore, astioso, convinti magari di non aver niente da dire, se non parole di ira, accenti rotti di sdegno, sconvenienze; ma era fede profonda la nostra, ed ora si è capito anche dalle persone serie, era speranza d'invenire fra i rottami il segno vivo di ciò che volevamo.
E se non esistesse bisognerebbe crearlo un movimento simile.. e chiamatelo se più vi piace anarchismo”. Gesualdo Manzella Frontini




lunedì 13 aprile 2015

La Biblioteca di Mario Rapisardi e intervista con Amelia Poniatowski



La Biblioteca di Mario Rapisardi - di Rodolfo de Mattei

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per visualizzare cliccare l'immagine

Rivista mensile "la parola e il libro" n.4 1963



Intervista con Amelia Poniatowski, compagna del Poeta
Oblio e odio, di Lorenzo Vigo - Fazio.

Pregai un mio amico adulto, il Prof. Giorgio Buscema, d'accompagnarmi, e andai con lui a bussare alla porta dell'appartamento, che fu l'ultima abitazione dello scrittore.

La Signora Amelia Poniatowski e il Dr. Alfio Tomaselli, a cui ella, da pochi giorni, era andata sposa, ci accolsero garbatamente e mi fornirono le notizie che desideravo.

Così, «Il Tirso» di Roma, periodico d'arte fondato da Gabriele D'Annunzio, nel n. 36 della decima annata, il 16 Novembre del 1913, pubblicò, in prima pagina, su quattro colonne, il mio articolo: «Oblio e odio alla memoria di Mario Rapisardi (Intervista con Amelia Poniatowski, compagna del Poeta ».

Ne riproduco, qui appresso, alcuni passi salienti: 

«- Oh, come sono contenta della loro visita!... Avrei dovuto mandare io qualche cosa ai giornali del continente, per protestare contro questa indegna congiura d'odio e d'oblio... Ma giacché loro hanno avuto la bella idea di venirmi a trovare, non ne fa più d'uopo. - Ci dice la Signora Poniatowski ».
...« - Come hanno veduto, la casa ha perduto la fisionomia di prima, perfino la terrazza, così cara a Mario, scompare... »

« - Ma ci dica: non ha reagito ella contro questa violazione? »

«- S'io abbia reagito!... - esclama calorosamente. - Ma se io mi sono votata a tutti i santi... del potere: a sindaci, a deputati, a municipi, a giunte...».

« E non le hanno dato ascolto? »

«Neanche per sogno. Il padrone di casa mi ha risposto che s'era messo d'accordo col Municipio.
Ne ho parlato ad artisti, a letterati, a politici. Nessuno ha saputo impedire... quest'accordo. »
«Sarà stato forse perchè Mario, ch'era un'anima alta e nobile, ed ebbe sempre il torto di dire la verità - la quale certe volte riesce amara - scrisse qualche parola frizzante contro municipi, sindaci, onorevoli, giunte comunali, amministrative, ecc. Ed ora se ne vendicano... »
« - E' la vendetta dei vili! - soggiunse il mio amico. »
« - Con l'odio, il disprezzo, l'oblio... Ma Mario resta sempre quello che è; io lo chiamo l'Uomo della verità. »

« - E sanno cosa se n'è fatto del cadavere? - ci chiede il dottore. »

« - Ecco, lo spiego loro subito. - soggiunge la Signora Amelia - Il 4 Gennaio, farà due anni che il Grande e scomparso. Ed è da quasi due anni, perciò, che il suo corpo giace, non ancora tumulato, nell'ufficio del cappellano del cimitero... Quel povero dottore che l'ha imbalsamato, affinché i sorci non lo mangiassero, ha usato tutti i mezzi... Perché le mosche non cadano nel piatto, ci mettiamo sopra una coppa di rete metallica, così hanno fatto con lui... »

« - E nessuno reclama? - gridai. »

« - L'altro giorno, un gruppo di giovani, in segno di protesta, venne ad apporre quella lapide - ci dice ella, mostrandoci col dito, appoggiata ad una sedia, una lastra di marmo d'un metro quadrato circa. -
Trascrivo quello che vi sta scritto:

RICORDANDO L'IMMORTALE MAESTRO MARIO RAPISARDI
GLI STUDENTI UNIVERSITARI
XX Settembre 1913

« - Si figuri che costoro che si dicono discepoli di Mario, attaccarono la lastra sul muro del domicilio del Signor Chiarenza!... E che chiasso fecero!... »
« Appena io mi fui accorta dell'errore, dissi: - Non sono ancora due anni che Mario Rapisardi è morto, e non vi ricordate più dove è vissuto! - »
« Ed ordinai subito che togliessero quella lapide. ».

-Ed i mobili?

« - Sono rinchiusi la dentro - ci dice, indicandoci la porta a tramontana (quella dello studio), che è chiusa con diversi lucchetti. - Un numero rilevante di volte ho mandato a dire al Municipio che li tolgano, e non li lascino rodere dai tarli, ma coloro fanno orecchio da mercante. Anzi, ogni volta, hanno mandato qualcuno, per aggiungere un altro lucchetto; e l'ultima volta, fecero ricoprire esternamente di latta le imposte dei due balconi dello studio. »

« I manoscritti, almeno, sono al sicuro? »

« - Ma che! Sono pure la dentro, gettati per terra, alla rinfusa... »
« Dio voglia che i topi li abbiano rispettati. Se ne trovano fra essi alcuni inediti, che Mario scrisse, adolescente, fra la vita e la morte. Anche quelli della "Palingenesi" e d'altre opere. »
« - Perché il Municipio non li rileva? E tutti gli oggetti sono catalogati? »
« - Niente affatto. Prima di morire, Mario mi diceva sempre: "Cataloghiamoli! Cataloghiamoli!" E loro: "C'e tempo! C'e tempo!" ».

...« Loro che sono liberi scrivano, scrivano tutte queste cose che il pubblico non sa! »

« Promettiamo di dire tutta la verità ai nostri lettori, e ringraziando, ce n'andiamo, con nel cuore, un sacro impeto di sdegno. »

La pubblicazione di tale mio articolo suscitò uno scalpore più grande del previsto. Numerosissimi furono i quotidiani, le riviste, i periodici che lo riprodussero o lo riassunsero; e tutti, prendendo le mosse dalla vibrante nota di protesta, che il Comitato di Redazione del « Tirso » vi aveva posto in calce. Anche taluni importanti quotidiani stranieri pubblicarono quanto io avevo denunciato all'opinione pubblica, biasimando l'incuria del Municipio di Catania.

La stampa catanese quotidiana e periodica faceva larga eco all'indignazione nazionale ed estera.
Così che l'amministrazione municipale fu costretta a provvedere al più presto a dare onorata sepoltura al Poeta; ed invitò Carlo Pascal a commemorarlo, nel Teatro Massimo Bellini.

Ricorderò sempre con compiacimento codesto coraggioso episodio giornalistico della mia adolescenza, il quale mi procurò la malevolenza dei responsabili dell'abbandono, in cui erano stati lasciati li cadavere di Mario Rapisardi e le sue cose; e d'altro canto, segno l'inizio della campagna, da me durata in Italia ed all'estero, per diffondere il pensiero del Poeta, rivalutarne l'opera e difenderne la fama(1).



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(1) Nel 1922, commemorai, in Catania, il X anniversario della morte di M. Rapisardi, pronunciando, nel Teatro Massimo Bellini, un discorso su « L'epistolario inedito di Mario Rapisardi », che fa parte del mio volume « Saggi e Discorsi», edito, nel 1925, da « Bottega d'Arte » di Carpi di Modena.
Ho scritto del Rapisardi, su tanti giornali e riviste; e nei periodici da me diretti «Endimione» (Casa editrice «Ausonia », Roma) e « Rivista di Catania e del Meridione », la vita e l'opera del Poeta vi furono ampiamente illustrate.

Nel 1930 l'editore Alfredo Formica di Torino pubblicò la raccolta, a cui avevo atteso per quindici anni: « Mario Rapisardi: Prose, Poesie, Lettere postume, raccolte e ordinate da Lorenzo Vigo-Fazio ».
Il 4 Gennaio del 1933, in Parigi, nella sede della «Dante Alighieri», commemorai il XXI anniversario della morte del Poeta, tenendovi un discorso su « L'opera e la fortuna di Mario Rapisardi», il quale, nel 1955, fu pubblicato in opuscolo estratto dalla « Rivista di Lecco ».

II 3 Febbraio del 1944, l'Assemblea dei Soci del Centro di Studi Rapisardiani, in Catania, mi elesse suo Socio onorario; e nella seduta del 7 Novembre 1954, in seguito alla morte del suo illustre Presidente, Prof. Francesco Marietta, mi chiamò, con voto unanime, a succedergli, in tale carica. Nel 1962, il Centro di Studi Rapisardiani in Catania pubblicò il mio libro: « Mario Rapisardi nel cinquantenario della morte ».


domenica 12 aprile 2015

Critica e polemica letteraria a Carduci, Croce e D'Annunzio di Andrea Lo Forte Randi, con cenni biografici sull'autore 1845/1916


"Una testa che pensa non evoca nulla dal regno della morte che non possa servire utilmente alla vita presente e interessare quella avvenire." 
 Andrea Lo Forte Randi, pseudonimo di Francesco Ladenarda (Palermo1845 –Palermo1916), è stato uno scrittore italiano.



Andrea Lo Forte Randi 1845.1916 Introduzione qui

La Polemica lett. 1° parte qui

La Polemica lett. 2° parte qui


  • Feticisti Carduccini, ed. G. Pedone Lauriel, Palermo 1912 - vedi qui

Tratto da Lettera aperta a Benedetto Croce, ed. G. Pedone Lauriel, Palermo 1915, di FR. Enotrio Ladenarda, pseudonimo di Andrea Lo Forte Randi, critico insigne. (Dello stesso autore: Giosuè Carducci Vol.1° e 2°, Feticisti Carduccini, 1912.)

Sul Carducci, scrissi due libri per dire alle genti: L'uomo di cui avete fatto l'apoteosi fu un volgare tornacontista, ed eccone qua le prove:

— Egli cantò la bianca croce di Savoia: ma a Versailles aveva già – con l'ajuto di Emanuele Kant – decapitato un re.

— Egli, nell'Adige, celebrò il re Umberto: ma nell' Anniversario della Repubblica aveva già detto corna della monarchia.

— Egli chiamò il Giuseppe Mazzini: «Ezechiele in Campidoglio»; ma aveva già chiamato il Mazzini: «il sultano della libertà che mandava sicari ad ammazzare i galantuomini.»

— Aveva cantato il diavolo in un inno che fece andare in visibilio tutti i marinatori delle scuole d'Italia, onde era salito, di primo acchito, alla gloria di poeta di Satana; ma poscia quell'inno egli chiamò chitarronata, e ragazzacci sgrammaticanti chiamò coloro che, a causa di quell'inno, avevano strombazzato il suo nome alle quattro plaghe del mondo.

— Aveva schiaffeggiato il Galileo di rosse chiome e decapitato Dio con l'ajuto del Robespierre; ma poscia inneggiò alla chiesa di Polenta, alla dolce figlia di Jesse, a Dio ottimo massimo.

— Aveva scritto: «Io non intendo lasciare la mia fede repubblicana sulla porta della Camera, e dentro la Camera spero di non dimezzarmi; se anche dovessi nella prova soccombere, io saluterei ancora, con l'anima piena di fede, il nostro ideale: Ave, Respublica, moriturus te salutat.» – Ma poi entrò nell'altra Camera eletto dal re e giurò fede al re.

— Egli aveva strimpellato: «Per quante aule di barbari signori vigilate dal pubblico terror bisogna aver contaminati i cuori e i ginocchi, e quante volte ancor rinnegata la misera latina patria e del suo comun la libertà, per poter di diritto alla regina tener la coda quando a messa va!» Ma poi, in Bologna, si genufletteva a Margherita e scriveva l'ode Alla regina d'Italia.

— Aveva scritto : «Meglio le ingiurie e i danni della virtude in isolitaria parte che assidersi coi vili a regia mensa.» Ma poi fu a colezione in Corte.

— Aveva gridato: «I ministri hanno un bel sudare a buttare le Commende addosso alla gente che passa per la strada. Che puzzo di freschiccio di vernice da per tutto!» Ma poi fu Commendatore.

— Era salito all'alta fama di poeta della «santa canaglia» a mezzo dei vecchi ritmi dell'«usata poesia» (Giambi ed Epodi): ma poi scrisse: «Odio l' usata poesia.»

— Si era lodato scrivendo: «A me piace esser plebeo nel concetto, nella forma, nel vocabolo proprio, nell'immagine, nella lingua, nello stile, in poesia e in prosa»; ma aveva anche detto, lodandosi: «Io sono aristocratico in arte.»

— Sua unica passione sincera fu il vino: spesso s'ubbriacava sconciamente come il piu abietto beone.

— Correva dietro alle sgualdrine – testimonio il Sommaruga, che si faceva mantenere dalle cocottes e le prestava agli amici.

— Conduceva le sgualdrine negli alberghi dai quali si faceva cacciar via. – (Chiedere informazioni ai camerieri dell'albergo dell'Ancora in Milano.)

Egli aveva sbraitato: «Io non voglio elemosine dalla patria!» Ma intanto studiava la via per esser fatto segno ad elemosine più possibili: l'ode Alla Regina d'Italia gli fruttò l'acquisto della casa coi denari di Margherita e la vendita a Margherita della sua biblioteca, che rimase sua.

— Era di cuor malvagio. Una povera maestra comunale che andò a trovarlo in casa per chiedergli una raccomandazione poco ci volle che ei non la gettasse dalla finestra. Quell'atto malvagio ha una attenuante: la maestra era assai brutta.

— Era massone; era salito all'alto grado di Grande Inquisitore presso la massoneria bolognese. Con l'intervento della massoneria egli scroccò il premio Nobel, al quale altri aveva diritto, e la pensione di dodici mila lire annue.

Eccetera, eccetera, eccetera. Tutto ciò il Ladenarda ha dimostrato con prove e documenti irrefragabili; ma ciò non ostante, la sua requisitoria contro l'indegno maremmano è – non è vero? — «una sconcia diatriba». — [rivolgendosi a Benedetto Croce] Voi no; voi – lo ripeto – voi, che avete tentato di assassinare proditoriamente il Mario Rapisardi con armi invisibili, con veleni impalpabili, con giudizi sibillini e forma concia, voi non scrivete sconce diatribe. Certo è che vi hanno gentiluomini che parlano piano, misurano le parole e, intanto, barano al giuoco: ora quello che voi avete scritto dell'opera del Rapisardi è una vera e propria baratteria. Voi cangiate le carte in mano, ma non sempre così destramente che qualcuno non vi colga sul fatto.

Così egli dice al Benedetto Croce, nella seguente « Lettera aperta » del 1915 :

« Si — vi siete detto — noi che tutto questo abbiamo fatto dobbiamo abbattere il terribile avversario del Carducci e di noi.
E' lui che dall'alto ove poggia coi suoi poemi ci conficca nelle vive carni le sue ironie, ci flagella le schiene colla sua sferza di titano, ci inchioda al pilori del ridicolo, ci uccide col suo disprezzo. 

E' necessario annientare quei suoi poemi coi quali egli mette a nudo la nostra miseria morale e la nostra pedestre mentalità ».

« E poichè della camorra che ha invaso ogni angolo dell'odierna repubblica letteraria voi siete — e potete vantarvene — il capo, voi, dico, avete — nel cospetto di tutti i camorristi — preso impegno di abbattere il colosso ».

« E all'alta impresa vi siete accinto coi mezzi che vi son propri. 
In primo luogo vi siete messo ad accusarlo per colpe da lui — come dimostrerò— non commesse, ma che, commesse su larga scala dal Carducci stesso, plagiario impenitente, avete non solo scusate, ma anche trasformato — come abbiam visto — in titoli di lode! ».

« In secondo luogo avete posto mano ad ammannire una sfacciata menzogna, allorchè — a impicciolire sino agli ultimi termini l'opera del Rapisardi — vi siete messo ad inventare gli effettacci volgari da lui ottenuti sui lettori della provincia, rifugio di mode smesse ».

La provincia, si capisce, era quella di Catania; chi applaudiva a quei volgari effettacci, si capisce ancora, erano i soli Catanesi.

« Sciagurato! Oh! che erano forse catanesi il Bersezio, il Graf, il Ranfani, il Trezza, l'Ardigo, il Dall'Ongaro , il Lenzoni, il Roux, il Mestica, il Gnoli, il Bonghi, il De Amicis, il Zumbini, il Bovio, il Cavallotti, il Rovetta, l'Ascoli, l'Ellero, il Lombroso e tantissimi altri del continente italiano che a quegli effettacci volgari diedero i loro migliori applausi? Ed erano catanesi anche quei luminari della critica europea che si chiamano Karl von Thaler, Georges Brandés, Assing, Gaussinel, Siegel? Ed erano catanesi Paul Heyse e Victor Hugo che nel Rapisardi salutarono il piu grande poeta civile dell'Italia moderna? — Non erano catanesi? Proprio? No? Ed allora?...». 

Vediamo s'io bene interpreto il vostro sorrisetto.
Voi pensate che il giudizio di tutti coloro deve essere tenuto in conto di zero, per la semplicissima ragione che nessuno di essi è autore — come voi — di un'elucubrazione estetica, mastodontica come la vostra, sicchè tutti costoro — pur non essendo catanesi — meriterebbero il castigo di esserlo.
Si, avete ragione, anzi — dico io — sarebbe opportuno proporre che i laudatori del Rapisardi, sparsi nei due mondi, si chiamassero d'ora in poi tout court « catanesi ».

Così, a fil di logica, e con precise e documentate argomentazioni, il Ladenarda condusse quella sua generosa battaglia, che limpidamente mostrò l'ingiustizia, il partito preso, l'incoerenza dell'assurbo giudizio di Croce sulla poesia rapisardiana.

Queste righe furono scritte dopo la morte del Rapisardi; il che attesta l'equanimità, il disinteresse, la sincerità. 

Incipit de La Superfemina abruzzese - vedi qui

I pettegoli della «critica» hanno lungamente discusso intorno alla data della venuta al mondo di Gabriele (D'Annunzio) e intorno al luogo dal quale egli rallegrò il mondo col suo primo vagito, come se il nostro «superuomo» fosse morto. Oh! che sì preziose notizie non potevano, oh! che non possono, anzi, chiederle al «divo» stesso, anziché gittarsi e smarrirsi in così affannose ricerche?
E dire che esiste l'atto di nascita presso l'ufficio di stato civile di Pescara e che c'è anche l'atto di battesimo presso la parrocchia di San Cetteo, nel quale, a edificazione e consolazione nostra, fra altre cose, si legge che il portentoso bambino «nacque il 12 marzo del 1863 nella casa di abitazione della puerpera