Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

giovedì 30 dicembre 2010

La poesia di Giovanni Meli in musica, da Eco della Sicilia - 1883

Giovanni Meli (Palermo6 marzo 1740 – Palermo20 dicembre 1815) è stato un poeta e drammaturgo.



Dimmi, dimmi, apuzza nica
Unni vai cussì matinu?
Nun c'è cima chi arrussica
Di lu munti a nui vicinu:
 
Trema ancora, ancora luci
La ruggiada 'ntra li prati,
Dun'accura nun ti arruci
L'ali d'oru dilicati!

Li ciuriddi durmigghiusi
'Ntra li virdi soi buttuni
Stannu ancora stritti e chiusi
Cu li testi a pinnuluni.
 
Ma l'aluzza s'affatica!
Ma tu voli e fai caminu!
Dimmi, dimmi, apuzza nica,
Unni vai cussì matinu?
 
Cerchi meli? E s'iddu è chissu
Chiudi l'ali e 'un ti straccari,
Ti lu 'nsignu un locu fissu
Unn'hai sempri chi sucari
 
Lu canusci lu miu amuri,
Nici mia di l'occhi beddi?
'Ntra ddi labbra c'è un sapuri,
'Na ducizza chi mai speddi
 
'Ntra lu labbru culuritu
Di lu caru amatu beni
C'è lu meli chiù squisitu...
Suca, sucalu, ca veni.
 
Ddà ci misi lu Piaciri
Lu sò nidu 'ncilippatu
Pri adiscari, pri rapiri
Ogni cori dilicatu.
 
A lu munnu 'un si pò dari
Una sorti chiù felici,
Chi vasari, chi sucari
Li labbruzzi a la mia Nici.




"Lu Labbru",da Eco della sicilia - Cinquanta Canti popolari siciliani con interpretazione italiana raccolti e trascritti, Ricordi - Milano - 1883.
parole di Giovanni Meli, musica trascritta di Frontini.
http://frontini.altervista.org/canti_...

Lettera del 1/01/1894 a F. P. Frontini
« Tra gli artisti e compositori dell'Isola voi siete,
« se non il solo, uno dei pochissimi che comprendono la
« bellezza e la grazia delle melodie del popolo. Pur com-
« ponendone di belle e di graziose, Voi sapete apprezza-
« re queste vaghe e dolci reliquie d'un passato che non
« ebbe storia, e serbate a durevole monumento, delle
« note piene di sentimento squisito e di candore vergi-
« nale. Altri non penserà neppure a ringraziarvi dell'ope-
« ra patriottica da voi compiuta; io Vi ammiro ». Parole, sentite e quasi solenni.
Giuseppe Pitrè

Voce di Rosalba Sinesio


"La vucca",da Eco della sicilia - Cinquanta Canti popolari siciliani con interpretazione italiana raccolti e trascritti, Ricordi - Milano - 1883.
parole di Giovanni Meli, musica di Frontini, voce di Cinzia Caminiti, madolini di Paolo Capodanno e Gianni Nicotra, chitarre di Michele gagliano e Massimo Genovese 


La Vucca
Ssi capiddi e biundi trizzi
sù jardini di biddizzi,
cussì vaghi, cussì rari,
chi li pari nun ci sù.

Ma la vucca cu li fini
soi dintuzzi alabastrini,
trizzi d'oru, chi abbagghiati,
perdonati, è bedda chiù.

Nun lu negu, amati gigghia,
siti beddi a meravigghia;
siti beddi a signu tali
chi l'uguali nun ci sù. 

Ma la vucca 'nzuccarata
quannu parra, quannu ciata,
gigghia beddi, gigghia amati,
perdonati, è bedda chiù.

Occhi, in vui fa pompa Amuri
di l'immensu so valuri,
vostri moti, vostri sguardi
ciammi e dardi d'iddu sù. 

Ma la vucca, quannu duci
s'apri, e modula la vuci,
occhi... Ah vui mi taliati!...
Pirdunati, 'un parru chiù.





A Nici! poesia dell'Abate G. Meli trascrizione di F. P. Frontini

O bedda  Nici, 
Scuma  di zuccaru,
E chi ti fici 
Ca'un m'ami cchiù?
Nun cc'è jurnata 
Chi'un si 'ncagna
.Chi sorti rètica 
La mia chi fu !

Chi ti nni veni, 
Bedda, ad amarimi? 
Vogghimi beni; 
Chi custa un sì !
Gnocu - gnucannu 
Vai rifriddannu; 
Santu dipantàni ! 
Dimmi pirchi?

M'ài pr'importunu; 
Pirchì lu saturu 
A lu dijunu 
Fidi 'un cci dà.
Lassati amari, 
Biddizzi rari; 
Via cumpatemuni 
Pri carità!

'Ntra ssi labruzzi 
Cc'è l'incantisimu, 
Dintra ss'ucchiuzzi 
Cc'è un non so chì,
'N 'amuri- duci 
Chi s'introduci, 
E manna'mpasimu 
L'alma a ddì-ddì.

Pri qnantu aduru 
Ss-ucchiuzzi amabili, 
Bedda, ti juru, 
Chi'un pozzu cchiù.
Si tu'un ti muti, 
Si tu'un m'ajuti, 
Io moru e causa 
Nni sarai tu.




lunedì 20 dicembre 2010

Per il centenario del compositore Giuseppe Perrotta - Ed. Agorà



L'esame delle carte d'archivio di Giuseppe Perrotta Musumeci, custodite dal nipote, il compianto prof. Giuseppe Perrotta Coco, ha permesso la ricostruzione delle vicende umane e del cammino artistico del musicista catanese fino ad oggi affidati alla biografia di Giuseppe Guardione (1911) nata sull'onda emotiva del suicidio dell'artista, e al recente saggio di Francesco Branciforti ed Elisa Ferrata (2003) in occasione del ritrovamento del manoscritto originale della Ouverture per Cavalleria rusticana di Verga, donato alla biblioteca del Conservatorio musicale G. Verdi di Milano dagli eredi milanesi del musicista.
Intimo amico di De Roberto, di Verga e di Capuana, Perrotta si avvalse della collaborazione poetica di quest'ultimo per la composizione di pregevoli romanze da camera. Al momento se ne conoscono otto, composte fra il 1875 e il 1888. Due di esse sono inedite: A Fasma trovata fra le carte esaminate, e La Luna dal rotondo volto, Un'altra, Aura gentile, fa parte dell'album di romanze "Accanto all'Etna", il cui spartito è in mano agli eredi di Catania.
Con questo lavoro, Elio Miccichè aggiunge un ulteriore tassello alla conoscenza umana e artistica di Perrotta attraverso l'analisi della fitta corrispondenza con il fraterno amico Generoso Risi, di cui sono conservate un centinaio fra lettere e cartoline postali scritte nell'arco di un ventennio. Non manca la corrispondenza con il fratello Agatino, poeta dialettale ed amico di Nino Martoglio: uno spaccato di vita quotidiana che fa luce sulle attese deluse di un cammino artistico irto di difficoltà che si ripercuote negativamente sui rapporti con i più stretti congiunti fino al tragico epilogo del 16 Febbraio 1910.
Una ricca appendice documentaria riporta lettere inedite di amici e congiunti oltre alla riproduzione di spartiti manoscritti inediti o dati alle stampe ma assenti dal catalogo OPAC-SBN. (Ed. Agorà)


Album di musica vocale e da camera
Mario Spinnicchia (pianoforte), Stefania Pistone (soprano),
Alessandra Toscano (pianoforte)
G. Perrotta (ritratto)


sabato 18 dicembre 2010

In Sicilia il Risorgimento fu soltanto una illusione.

« I moti dei Fasci sono per noi come una propaggine del moto del 1860, inteso come " rivoluzione incompiuta". »



In Sicilia il Risorgimento fu soltanto un'illusione.

Il popolo siciliano che si ribellò ai Borboni e li combatté credendo nelle promesse di giustizia e libertà di chi era venuto a "liberarlo" dalla schiavitù e miseria, dopo l'arrivo dei Piemontesi nell'isola, rimpianse il “giglio borbonico”  (al peggio non c'è fine).

Nel corso di 125 anni il regno borbonico non fu sempre spregevole, ma ebbe il merito di aver alla fine del feudalesimo attuato la riforma dell'amministrazione pubblica, e non ostante la non curanza, per la morale della società, per la pubblica istruzione, per le opere di pubblica utilità, non dilapidò un patrimonio fondiario assai consistente, di oltre 300.000 ettari e beni edilizi di equivalente valore, si può ammettere che al momento dell'unità, in Sicilia, il tesoro dello Stato era quasi esente di debito pubblico.

A "spogliare" la Sicilia, penseranno i “Savoiardi”, il cui regime tirannico si manifestò subito, basti citare i fatti di Alcara Li Fusi e di Bronte e di moltissimi altri comuni siciliani dove, ai contadini che credevano fosse arrivata la libertà e, che insieme con essa, come aveva promesso Garibaldi, avrebbero avuto un pezzo di terra da coltivare, i piemontesi con i tribunali speciali, distribuirono fucilazioni e carceri.
Dopo il plebiscito, per il popolo siciliano non ci saranno altro che stati d'assedio, leggi speciali, tasse, coscrizione obbligatoria e fame (per non citare le sanguinose repressioni dei Fasci contadini del 1893/94).

Naturalmente a godere dei privilegi concessi, saranno nobili e borghesi, gli appartenenti alla classe dirigente isolana. 
E' nel "tradimento della rivoluzione" e nelle sofferenze del popolo siciliano che è necessario ricercare la matrice di una delle più grosse piaghe che hanno tormentato e tormentano la Sicilia: la mafia! Che coesiste col potere governativo.

I canti popolari, veri interpreti del dolore e del pianto di tutto un popolo, abbondano di proteste che coinvolgono il governo, i Piemontesi e la classe egemone siciliana.

La letteratura "ufficiale" si limita a costatare l'evidente stato di miseria materiale in cui il popolo affonda; lo scrittore siciliano, "borghese" e dedito al mercimonio, evidenzia l'ineluttabilità di quella condizione, “per il popolo non c'è speranza né via di salvezza”.

Il Verga, prendendo a pretesto i fatti di Bronte, scrive che per un popolo incivile e barbarico, come il siciliano, non ci può essere libertà; poi descrive i contadini dei Fasci siciliani in "venduti per la roba". 
Nel "Gattopardo", del Lampedusa, l'unica cosa cui i Siciliani aspirano sembra essere il "sonno", tanto non cambierà nulla; la tesi del Lampedusa pare essere avvalorata dall'opera del De Roberto "I vice-re". Gli aristocratici Uzeda conserveranno il potere anche in periodo post-risorgimentale, mentre, la "ciurmaglia" resterà "ciurmaglia"; il popolo ha solo diritto alla rinuncia, e anche per Pirandello, non c'è possibilità di riscatto.

Singolarità d'atteggiamenti si riscontrano, in altri siciliani: Rapisardi e Costanzo, poeti colpevoli secondo la critica crociana di aver trasformato il poema in "saggio sociologico”. 

Ma proprio questa accusa mossa alla poetica dei DUE evidenzia l'originalità d'uomini e di poeti. 
La denuncia che fanno dei loro tempi, non è fine a se stessa ma si congiunge a grandi ideali: giustizia sociale, necessità di cambiamento, ribellione contro un ordine sociale ingiusto, che simbolicamente rappresenta la classe degli umili e degli oppressi che nell'opera degli altri scrittori siciliani è solo capace di rinunce, anzi "deve" rinunciare.



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Siciliani dimenticati dagli eruditi:





Girolamo Ragusa Moleti noto anche con lo pseudonimo di G.R. Sagura Molarogi (Palermo, 14 gennaio 1851Palermo, 1917) è stato un poeta, scrittore e giornalista




"Non rifarei la via del sud, temendo di essere preso a sassate"
G. Garibaldi

Carissimo Colajanni                                                     Catania, 10 Febbraio 94.

I tumulti recenti della Sicilia hanno, per le origini e gli effetti loro, una importanza sociale, che la facilità onde sono stati repressi non parrebbe loro concedere. 
Tu che li hai osservati con occhio di filosofo, moderati con accorgimento d'uomo politico e con cuore di cittadino, fai bene di consegnarli alla storia con quella serenità di giudizio, che alle coscienze intemerate non è difficile mantenere nei momenti più tempestosi e fra le passioni più vive.

Due principali verità risultano, a parer  mio, dalla notizia sincera dei fatti: la indipendenza dei moti siciliani da qualunque opera di partito, e la prepotenza d'un governo che vuol parer forte e non è.

Non che essere eccitate e preparate dai socialisti, a me pare che, le ribellioni, determinate unicamente dalle condizioni specialissime dell'isola, dagli arbitri feudali dei proprietari, dalla spietata ingordigia delle amministrazioni, dalla miseria ineffabile dei lavoratori, abbiano fatto constatare e toccar con mano la nessuna coesione del partito socialista, la discordia dei suoi capi, la varietà bizzarra dei suoi gruppi, l'incertezza dei principi, dei metodi, dell'azione.

Il socialismo in Sicilia ha avuto più presa che altrove, perché ha trovato terreno più proprio: la propagazione meravigliosa dei Fasci prova che esso non è artificiale e superficiale, ma ha radici nelle viscere stesse della vita del proletario siciliano; è piuttosto effetto che causa. Il popolo, per altro, quale ch'esso sia, poco suole accogliere e fecondare delle teoriche d'un partito: afferra tutt'al più un'idea rispondente al suo stato, un sentimento che consuona col suo; e quando si sente alle strette, si getta nell'azione, senza chiedere consiglio a nessuno. La miseria e la mala signoria furono e saranno mai sempre i motivi principali delle rivolte.

Questa condizione di cose rende ancor più colpevoli e mostruosi i modi adottati dal governo per reprimere le ribellioni. 
Qualche agevolezza conceduta li per li alle prime avvisaglie, avrebbe probabilmente sedato il fermento dei contadini affamati. 

Ma sì! I cartelloni erano già stati affissi alle cantonate; la baracca era aperta, i biglietti distribuiti; la gran cassa rintronava già negli stomachi degli spettatori; e come si faceva a sopprimere lo spettacolo.
La signora Astrea, che dietro alle quinte avea fatto copia di sé a tutta la borghesaglia legittima e legalitaria, venne allora su la ribalta e recitò col peggior garbo del mondo la parte della verginella oltraggiata: scaraventò i pesi in faccia ai presunti seduttori: agguantò la bilancia per il giogo e la sbatacchiò su la testa dei primi poveri diavoli che le vennero a tiro.

La borghesaglia legittima e legalitaria si dichiarò soddisfatta; si soffiò il naso impeperonito; e con le dita intrecciate sul buzzo e tentennando la testa come i cuorcontenti di gesso, esclamò in falsetto pecorino: Le istituzioni son salve; l'ordine regna in Varsavia; ora possiamo tornare tranquillamente a barattare, a banchettare e a russare.
A proposito: e le riforme? Ah! si: ci sono anche queste per aria; o per dir meglio, c'è una commissione che le studia, e che ponza la felicità del genere umano.

Lasciamola ponzare; e che Dio la renda lubrica. 
Che cosa saranno queste riforme il gazzettume ufficioso nol dice: esso spreca tutto il suo fiato prezioso per informarci di balzelli nuovi, di soppressioni di uffici, di monopoli audaci, di ricchezze cavate dalle borse e dalle vene di tutti.

Le istituzioni, si sà, han da salvarsi; i sacrifici non sono mai troppi. 
E poi, i balzelli hanno l'ale; e le riforme la gotta. 
Aspettiamo dunque che l'erba cresca; e se l'asino muore, peggio per lui. 
Ciò che saranno codeste riforme possiamo immaginarlo: riforme borghesi; e non occorrerebbe dir altro: semi di lino su la cancrena; concessioni ed elemosine tirate in faccia con la balestra.

E se non bastano, piombo: procedura solita e spicciativa.
Ma il piombo credi che basterà? 
Io modestamente credo di no: salvo che siasi trovato il modo di renderlo digeribile e nutritivo, come il pane che manca.
In conclusione, questi tumulti hanno rivelato condizioni tali, che non possono e non devono assolutamente durare, per l'onore d'Italia e della razza umana; hanno resa necessaria una fraterna intesa di tutti i partiti democratici in un ideale, in una fede, in un'opera comune; hanno ridotta la questione sociale all'aut aut degli scolastici.

L'idea-valanga s'è già staccata dal vertice, e seguirà fatalmente il suo corso. 
O unirsi ad essa o rimanere stritolati nel fango. 
E' la Storia che passa. 
                                        Mario Rapisardi

martedì 14 dicembre 2010

EMIGRANTI



EMIGRANTI

Splende, è vero, ne' tuoi ceruli tempj, o cielo

D'Italia, un riso eterno di giovinezza; versa
Fiumi di vita il Sol;
Cantano le Sirene scevre del glauco velo
A fior degli odorosi mari, su cui la tersa
Calma si libra a vol.

Salute, o gloriosa d'eroi madre e di biade,
Stella de'quattro mari, gemma del mondo, brama
Di popoli e di re :
L'abbondanza felice regna le tue contrade,
La fortuna s'asside sul tuo trono, la fama
Intreccia lauri a te!

Eppure essi abbandonano il natio paradiso,
Il ciel chiaro, i pescosi lidi, la terra amica
Dell' aurea libertà,
Perchè tu, cielo azzurro, non hai per loro un riso,
Perchè voi, pingui campi, non crescete una spica
Per chi il sudor vi dà.

Che importa? Mancan forse di cervi e di cinghiali
I regj parchi? Manca di buffoni la reggia ?
Di tresche e di piacer Le alcove?
Forse a' fasti de le stalle regali,
A' passi, a' cenni, a' fiati del Sir non plaude e inneggia
Narciso il gazzettier ?

Forse dalla normanna biga rapita a volo
Per le vie popolose di pezzenti non passa
Clelia baldracca? O il vin
Lauto non rutta in faccia d'un affamato stuolo
Dromo il ricco sensale, Clinia il vecchio bardassa
Dal variopinto crin?

Eppure essi abbandonano il natio paradiso,
Il ciel chiaro, i pescosi lidi, la terra amica
Dell'aurea libertà,
Perchè tu, cielo azzurro, non hai per loro un riso,
Perchè voi, pingui campi, non crescete una spica
Per chi il sudor vi dà.

Immobili, digiuni dalla scogliosa riva
Guatano il mare, il mare; e agli occhi egri sorride
Un miraggio infedel :
Spontanee messi, gente di regj freni schiva,
Mercede all'opra eguale, alme a giustizia fide,
Cui l'onestà è vangel.

E derelitte lasciano le madri e le consorti
Macere, senza pianto : — Ritorneremo, gravi
D' oro ritornerem ;
E allor dalla Fortuna, che si concede a' forti,
Virtù, destrezza, ingegno, illustre ordine d'avi
E onori e glorie avrem.—

Ed ecco, essi abbandonano il natio paradiso,
Il ciel chiaro, i pescosi lidi, la terra amica
Dell'aurea libertà,
Perchè tu, cielo azzurro, non hai per loro un riso,
Perchè voi, pingui campi, non crescete una spica
Per chi il sudor vi dà.

Miseri! Eppure al primo clangor de le tue squille
Corsero, o Patria, al campo: marce infinite, avaro
Cibo, zaino e fucil ;
E avanti, e fra le musiche la morte: erano mille,
E cento appena al vostro bacio, o madri, tornàro
Salvi dal l'erro ostil.

Ma la Vittoria, ganza di chi sta in alto, crebbe
Il venal premio ad altre chiome: alle tue, panciuto
Trimalcione, a te,
Quadrantario Duilio, cui l'onta il nome accrebbe,
A te, Sejan beffardo, che in maschera di Bruto
Fai da mezzano ai re.

Ed ecco, essi abbandonano il natio paradiso,
Il ciel chiaro, i pescosi lidi, la terra amica
Dell' aurea libertà,
Perchè tu, cielo azzurro, non hai per loro un riso,
Perchè voi, pingui campi, non crescete una spica
Per chi il sudor vi dà.

Veleggia, o nave, stridi, vapor. Fredda è la notte,
Sanguigni ardono i lampi, il temporal gavazza
Sopra il livido mar ;
Scoppia un urlo pe'lcieco aere...Fra l'assi rotte,
Fra' galleggianti corpi una vorace razza
Di squali al giorno appar.

Veleggia, o nave, stridi, vapor. Che mira in fondo,
Fra cielo ed acque, il misero superstite? S'affaccia,
Ecco, la terra è là;
Ma ritta su la riva del sospirato mondo,
Col ghigno su le labbra, con spalancate braccia
La Fame orrenda sta.




 - "E se anche il momento storico è sorpassato e questa Giustizia è un'impossibilità storica, l'arte ne ha colti alcuni motivi che non morranno in questi canti rivoluzionari, da cui esce — dice il Trezza« una voce profonda, triste, minacciosa, come di gente che soffre ignorata e calpestata da tutti »." -