Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

domenica 29 aprile 2012

Edoardo Giacomo Boner e i suoi anni catanesi. 1893

(Messina5 marzo 1866 – Messina28 dicembre 1908) è stato un poetascrittore e giornalista italiano.





Quando, nell'ottobre del 1893, Edoardo Giacomo Boner venne nella nostra città il suo nome era già abbastanza noto.
Si sapeva che oltre ad essere un buon narratore (i « Racconti peloritani » ne erano una prova sicura) egli era un letterato, versato anche nelle scienze e ricco di dottrina e d' ingegno, che aveva al suo attivo libri come « Leggende boreali » (1886), che De Amicis aveva trovate «interessantissime», e come «L'Italia nell'antica letteratura tedesca » (1887), che dimostrava non solo la sua profonda conoscenza della lingua e letteratura italiana e tedesca, ma ben anche la sua grande erudizione e le sue notevoli qualità di scrittore.
Ma più di tutto si sapeva che Boner era un poeta (le edizioni dell'editore milanese Quadrio, « Novilunio » — 1884 — e « Plenilunio » — 1889 — erano state nelle mani di tutti) e questo bastava a renderlo caro particolarmente ai giovani, che di poesia e di poeti son sempre stati ghiotti, forse perché la giovinezza è poesia essa stessa.
Boner allora non aveva ancora pubblicato « Musa crociata » i cui versi oltre ad un giudizio del Pascoli («Boner ha straordinari l'ingegno, la fantasia, la dottrina, la vena e l'abbondanza del sentimento, ma semina rovesciando il sacco, non attingendovi con la mano ») gli frutteranno una lettera (21 luglio 1899) di Giovanni Verga che merita di essere riportata : « Musa crociata fa onore non solo al suo ingegno ma anche al sentimento che le ha ispirato i bei versi e me ne congratulo maggiormente con l'amico e col poeta di questi tempi piccini per tutto ciò  ch' è  sentimento  e poesia ».
Ma a non pochi grossi calibri delle patrie lettere, tra cui Tommaso Cannizzaro, Luigi Capuana, Giovanni Alfredo Cesareo, Domenico Ciampoli, Federico De Roberto, Giovanni Gentile, Francesco Guglielmino, Sabatino Lopez, Concetto Marchesi, Luigi Natoli, Enrico Panzacchi, Giovanni Pascoli, Giuseppe Pipitone Federico, Girolamo Ragusa - Moleti, Mario Rapisardi,  Giovanni Verga, ecc., non erano sfuggiti i versi giovanili boneriani di «Novilunio » nè quelli più maturi di «Plenilunio», che nella Prefazione lo stesso Boner definiva « un pò meno scialbi, un pò meno freddi (di quelli di « Novilunio »), ma sempre fiori d'ombra schiusi alla luna », nè quelli che, col titolo appunto di «Versi, 1880 - 1892 », egli aveva dato alle stampe a Girgenti nel 1893, alla vigilia cioè del  suo  trasferimento  a  Catania.
Ma in questa sede non tanto interessa conoscere l'opera di Edoardo Giacomo Boner, che, del resto, essendo vasta e complessa meriterebbe un lungo e meditato discorso (1), quanto parlare dei suoi anni catanesi e, naturalmente, di quella parte dell' opera sua che qui balzò alla luce della sua anima e del suo pensiero, o che, comunque, dalla nostra città fu ispirata ed essa canta ed esalta  nelle  sue  bellezze  e  nei  suoi  grandi.
*
Ancora diciassettenne, avendo alcuni affari sbagliati del padre (un commerciante di gran talento ma sfortunato, trapiantatosi dalla natia Svizzera tedesca in Messina, dove sposò, in seconde nozze, Anna Larini, che fu la madre del Nostro) gettato la famiglia in gravissime ristrettezze economiche, Edoardo Giacomo Boner fu assunto, grazie alla sua già matura conoscenza del tedesco e di altre lingue estere, dall' Istituto « Dante Alighieri » di Messina per insegnarvi lingua  tedesca.
E Boner insegna e continua a studiare. Iscritto infatti alla facoltà di lettere di quella Università, egli è nello stesso tempo insegnante e studente. Studia dunque e insegna e, per guadagnare di più e poter così aiutare la famiglia, viaggia, anche, durante le vacanze. Viaggia per incarico di importanti ditte industriali di Messina che apprezzavano la sua serietà e la sua perfetta padronanza delle lingue estere. Viaggia per guadagnare, ma, viaggiando, segue dei corsi di letteratura tedesca, latina e neolatina presso le Università di Lipsia e di Berlino e approfondisce la sua conoscenza delle lingue e letterature straniere e affina sempre più la sua preparazione e la sua cultura.
Finché, nel 1892, conseguita frattanto (nel 1890, presso l' Università di Napoli) l'abilitazione all' insegnamento della lingua tedesca negli Istituti Tecnici, e nel 1891 (presso l'Università di Roma) quella per l'insegnamento delle lettere italiane nei Licei, passa ad insegnare tedesco all' Istituto Tecnico « Michele Foderà » di Girgenti, con lo stipendio annuo, aggiungo per i curiosi,  di  L.   1920.
A Girgenti, a 28 anni, comincia dunque la vera e propria carriera scolastica di Edoardo Giacomo Boner ; quella carriera che nel 1906 lo porterà a conquistare — primo in graduatoria ad unanimità di voti — la cattedra di letteratura  tedesca  nell'Università  di  Roma.
Un anno appena Boner insegnò a Girgenti ; ma se in seguito egli scriverà (Le Siciliane, p. 8) questi  versi :
« Salve, o Girgenti, eremo asil che adoro ! 
Vigor tu desti e luce al pensier mio, 
E da te appresi,  altera in tua sfortuna, 
Esser tra mie sfortune altero  anch' io »
vuol dire che quel breve soggiorno deve avergli insegnato qualche cosa e lasciato nell' animo suo un dolce ricordo e impronte indelebili.
Da Girgenti, nell'ottobre del 1895, Boner passò a Catania.
*
Appena Edoardo Giacomo Boner ebbe notizia del suo trasferimento da Girgenti a Catania, avendo qui dei parenti, pensò di incaricare un d'essi, precisamente il cugino marchesino Giovanni Palermo, di procurargli una camera mo-bigliata comunque fosse, purchè il fitto non superasse le lire venti mensili.
Il marchesino si mette subito all' opera. E dopo non poco girare trova. Trova non già la solita stanza in famiglia, bensì una davvero bella e decorosa camera in casa di persone dabbene, arredata con un certo lusso, naturalmente di gusto ottocentesco, e, fra l'altro, a breve distanza da quell' Istituto Tecnico « Carlo Gemmellaro » in cui appunto il Boner dovrà insegnare. Insomma, una camera ideale secondo il cugino, per cui egli è lieto e felice.  Tanto  che,  giunto il poeta a Catania, lo accoglie a braccia aperte, lo accompagna, lo presenta. Tutti sono contenti. E Boner, apparentemente soddisfatto, si installa in quella bella camera e, per riposarsi del lungo viaggio,  va  addirittura   a  buttarsi  sul  letto.
Ma trascorso qualche giorno, una grande sorpresa attendeva il marchesino recatosi a trovare il cugino.
— Il professore ? risponde la padrona. Ma ha lasciato la camera il giorno dopo del suo arrivo. Non aveva ancora nemmeno riposta la biancheria nei cassetti del comò. Né tirato fuori i libri  dalle  casse  e   dalle  valige.
E, allo stupore del cugino, soggiunge : — Ma possibile che lei non sapesse niente, che non sappia nulla ? Andando via, il professor Boner ha detto che era obbligato da gravi motivi a raggiungere  subito la famiglia a Messina.
La sorpresa del marchesino Palermo è grandissima. Non sa che cosa dire, che cosa rispondere a quella povera signora visibilmente contrariata, quasi offesa. E se ne va confuso, mortificato, offeso anche lui. Da un cugino come Boner poteva egli aspettarsi un fatto simile ? E non sapendo che fare, gli scrive a Messina. Ma il giorno appresso chi ti incontra in via Stesicoro-Etnea ? Proprio Boner. Il quale, alla meraviglia e al risentimento del cugino, risponde con l' aria più naturale che « non essendo riuscito a sopportare quella stanza bella si ma terribilmente imbottita di tende, di divani, di tappeti, di mobili e senza luce nè aria nè vista », aveva là per là inventata la scusa del richiamo urgente della famiglia e, chiamata una carrozzella che passava, vi aveva caricato su tutti i suoi bagagli e, gridato al cocchiere: «in piazza Manganelli», era  scappato  via.
Era avvenuto questo. Che lo stesso giorno del suo arrivo, andato in giro per la città, aveva scoperto, attraverso chi sa quali indicazioni, una cameretta tutta bianca di calce e piena d' aria e di luce al quarto piano di un palazzone sito appunto all' angolo di piazza Manganelli e via Recalcaccia ;  l' aveva subito presa in  affitto e vi si   era   andato   ad  allogare  a  precipizio  felice  e contento.
Il poeta, il romantico nutrito di studi classici, la mente e l'anima piene, affollate di miti, di leggende, di favole, di fantasmi, aveva bisogno, per stare a suo agio e ispirarsi, di una grande finestra (altro che la stanza insaccata in quel budello di Corso Vittorio Emanuele) che sovrastasse e dominasse la città e dalla quale si potesse liberamente contemplare il cielo e, di là dalla interminabile e grigia fuga dei tetti, anche il mare, l'immensa   glauca   distesa   dello  Jonio :
« Del mar fisando i ceruli perigli, 
Quante volte sognai,  là,  su quel molo, 
A le  biond'albe,  a'  vesperi vermigli! ». (Le Siciliane, p. 12)
Desideroso infatti com'era, avido, anzi, d'aria, di libertà, di paesaggio, e insofferente delle aule chiuse, polverose, mefitiche, il professor Boner preferiva condurre i suoi alunni all' aperto, ora in  uno, ora in un altro sobborgo :
« Tutto  è  fuori un  giocondo  inno  all' aprile 
E olezzan  fior,   cantano  augelli ...» (Versi, p. 35)
E là, toltasi, se faceva caldo, non solo la giacca, ma anche la camicia e la maglia, e rimasto a torso nudo, incominciava a parlare. Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Foscolo, così, a capriccio, secondo gli dettava l'estro, erano i suoi temi prediletti e preferiti.
Cominciava piano, una parola dopo l' altra, quasi le soppesasse e misurasse. Poi, a mano a mano che andava addentrandosi nell'argomento, parlasse in italiano o in tedesco, s' accalorava talmente da durare ore e ore a parlare, senza stancarsi, con una foga da ispirato, che finiva immancabilmente col trascinare i suoi giovani ascoltatori all'entusiasmo e alla commozione. Erano quelli — mi diceva il povero Benedetto Condorelli, caro e indimenticabile amico, che aveva conosciuto Boner ed aveva preso da lui delle lezioni  private  di  lingua italiana   —  le più belle e proficue lezioni del professor Boner, anche se fuori programma, anche se in una materia che non era quella d'obbligo che lui doveva insegnare.
E avveniva sempre che alle sue lezioni non solo non mancava mai un solo scolaro, ma, a quelle all' aperto, si contavano spesso degli « uditori » che si mescolavano agli allievi per ascoltare la dotta, bella, alata parola di Edoardo Giacomo Boner.
Concetto Marchesi, che gli fu collega al Liceo   « Maurolico » di Messina,  disse che   « di città in città,  di scuola in scuola, Boner fu adorato dai discepoli come  nessun  altro mai ».
Parlatore e improvvisatore formidabile, davvero dotato dalla natura, gli bastavano pochi appunti essenziali, che nemmeno scriveva, ma elaborava a memoria, per fare qualunque discorso su qualsiasi argomento. Francesco Guglielmino, che lo aveva acclamato più volte, ricordava Boner oratore con parole veramente ammirevoli. Memorabile è rimasto il discorso « fortemente suggestivo, altamente poetico, ricco di evocazioni, di   voli   lirici,   di immagini squisite, smagliante nella forma e nei concetti » da lui improvvisato al Giardino Bellini il 22 gennaio del 1899, davanti ad una folla di letterati ed artisti, in occasione dello scoprimento del mezzobusto in bronzo di Mario Rapisardi, opera dello scultore palermitano  Benedetto  Civiletti (2).

* * *


Gli anni che Edoardo Giacomo Boner trascorse in Catania, dal 1893 al 1895, erano gli ultimi di quel sec.   XIX° (oh quanto   stupidamente disprezzato e forse da coloro che segretamente più lo invidiano) e la nostra città viveva uno dei momenti più fulgidi della sua esistenza e della sua storia. Fervidissima e piena d'iniziative la vita industriale e commerciale per cui la città prendeva sempre maggiore impulso e sviluppo ed importanza. In gara con questa, la vita dello spirito era addirittura incandescente. In ogni attività Catania brillava di luce propria intensissima. Dappertutto, in letteratura e in arte, uomini di primo piano : Verga, Rapisardi, Capuana, De Roberto, Gaetano Ardizzoni,  Lucio Finocchiaro, Antonino Gandolfo, Natale Attanasio, Epifanio Licata, Giuseppe Sciuti, Francesco Di Bartolo, Giulio  Moschetti,  Francesco  Paolo  Frontini.
Anche la chiesa, per le grandi virtù del Cardinale Dusmet, raggiunse allora uno splendore inusitato.
In un clima letterario ed artistico che perfino Firenze ci invidiava, attorno ai maggiori ora nominati, viveva, lavorava, prosperava una pleiade di scrittori, di poeti, di letterati, di artisti, di giornalisti, di musicisti, di uomini politici, dal cui ingegno sprizzavano e s'irraggiavano scintille di sapere, d'arte, di poesia, di vita, di bellezza, da richiamare l'attenzione, l'interesse, l'ammirazione del mondo.
In siffatto ambiente, la cui temperatura raggiungeva sovente gradazioni da altiforni, trascorse i suoi anni catanesi Edoardo Giacomo Boner, alternando l'insegnamento e lo studio all'attività creativa.
Qui infatti furono concepite, se non scritte, non poche delle poesie di «Le Siciliane». E non importa se questo volume, in cui il Boner versò il meglio della sua produzione poetica, anche se in una lettera (8 gennaio 1900) a Mario Rapisardi lo chiamò « ultimo fardelletto di sciocchezzuole versificate », non importa se apparve nel 1900, quando cioè egli aveva da circa cinque anni lasciato la nostra città.
E se a far uscire il Giannotta da una indecisione che tormentava Boner fu Mario Rapisardi, che consigliò al suo editore di pubblicare senz'altro il libro di Boner («ma cos'ha contro di me che continua a rifiutare le mie offerte di pubblicazioni?»), vuol dire che l'opera doveva valere, che il Rapisardi non era certo di facile contentatura, nè proclive alle raccomandazioni non meritate.
Ma non è questo che può interessare ai Catanesi. Ai Catanesi possono interessare i versi, veramente commossi e ammirati, che Boner ha scritto in   « Periplo »   per  la loro  città :
« Catania  è qui,  vaghissima fanciulla,
Che fra 'l suo mar distesa e il suo cratere,
Su le sue  lave al sol canta e si culla».
Ai Catanesi possono interessare i versi che nella stessa lirica Boner ha scritto per il loro Bellini:
« Ma perchè all'appressar de la Montagna 
In cor mi suona il pianto  d'Adalgisa 
E Amina per le vane aure si lagna? 
Torno all' infanzia  mia  di fedi arrisa, 
Vedo  le stanze,  odo  i soavi  accordi 
Onde l'anima mia fu pria conquisa,
 E su quel mar di sogni e di ricordi 
Tu splendi ancor, Bellini,  angel vocale, 
Moderator  d'edenici arpicordi. 
Parmi che  immense apra il tuo genio l'ale 
Su questi lochi, a te propizia  culla, 
E ogni aura, ogni onda, è un tuo spiro immortale ».
Ai  Catanesi   possono interessare i versi che Boner ha scritto  per il loro  Giardino  Bellini : 
« Or qui nel riso  di acclivi pergole, 
Di culte aiole,  di chioschi ombratili, 
Sonando i lai divini Etna, del tuo Bellini, 
Pompeggiar cocchi, monili splendere 
Tu vedi, e baldi trascorrer  giovani, 
E frotte di fanciulli chiassose in lor trastulli».
Ai Catanesi, infine, possono interessare ì tre atti in armoniosissimi martelliani della commedia «Bellini», la cui prima idea indubbiamente germogliò in lui mentre risiedeva nella nostra città.
Pubblicata nel 1903 nella vallardiana «Natura ed Arte », con illustrazioni di Riccardo Salvadori (3), questa commedia di Edoardo Giacomo Boner (purtroppo rimasta ignorata nonostante il tema suggestivo e i pregi letterari) dimostra, tra l'altro, quanto fosse vasto e versatile il suo ingegno, se egli poteva dedicarsi alla narrativa, alla poesia e al teatro, mentre non trascurava, tutt' altro, di coltivare severi studi scientifici e lo studio delle lingue e letterature straniere, particolarmente le tedesche.
L'azione si svolge in tre luoghi lontani nel tempo e nello spazio.  Il primo atto a Napoli, in casa di Maddalena Fumaroli (primo grande e sfortunato amore di Bellini) all' indomani del felice esordio del giovane musicista («'u guaglione») al Teatro San Carlo con lo spartito di « Bianca e Fernando». E si assiste al nascere di quell'idillio che non ebbe meriggio.  Il secondo atto ha luogo a Milano cinque anni dopo. Bellini è già celebre. Ma i milanesi, che già avevano applaudito «Il Pirata», «La Straniera», «La Sonnambula», alla prima di «Norma», la sera del 26 dicembre 1831 al Teatro La Scala, la fischiano clamorosamente. Tutto l'atto è imperniato su quel solenne fiasco (4). Intorno a Bellini, perchè a lui più vicini e cari allora, sono Giuditta Turina, Felice Romani, Francesco Fiorimo Il terzo atto si svolge a Puteaux a quattro anni di distanza dagli eventi del secondo atto. Col trionfo dei « Puritani » al Teatro degli Italiani a Parigi, la sera del 25 gennaio 1835, Bellini ha conquistato la gloria. Ma la malattia, che da tempo lo mina, e il dolore per la recente scomparsa della Fumaroli sovrastano la gioia del trionfo. Ed ecco, improvvisa e fulminea, la scena del trapasso del Cigno catanese, con la  quale la commedia finisce.
Edoardo Giacomo Boner era un assai fine letterato e poeta per ammannire uno di quei polpettoni che di solito i commediografi o drammaturghi imbastiscono attorno ai grandi nomi e fatti della storia e dell' arte. Egli ha invece semplicemente sceneggiato, ma con grazia inimitabile, tre tappe o momenti, della vita artistica ed amorosa di Vincenzo Bellini, scegliendoli tra i più salienti e densi di significato e di destino e, perciò stesso, di contenuto drammatico. Ha così scritto un' opera che aderisce compiutamente al mito romantico di Vincenzo Bellini.
E saputo e risaputo che Bellini amò molte donne e che molte donne amarono lui. Ma appunto per ciò, forse non uno solo degli amori di Vincenzo Bellini attinse alle profonde misteriose radici dell'amore e del dolore. Nessuna donna, nemmeno la Turina, che si può dire fu la musa vivente del nostro Cigno, riuscì ad attanagliare, ad avvincere, a possedere compiutamente l'anima belliniana, perennemente rapita da ben altri miraggi, da ben altre visioni, da ben altre armonie. La vita amorosa di Bellini, e tanto meno, si capisce, quella artistica, non poteva dunque offrire sufficiente materia al commediografo ; ne ha però offerta moltissima al poeta. Tanto meno poteva offrirne al trageda e al drammaturgo. Non è forse, quindi, senza valore e significato, il fatto che il Boner, che aveva prima chiamato « dramma » questo suo lavoro teatrale (5), poi, pubblicandolo interamente, lo chiamò « commedia » . E la commedia, piace osservarlo, finisce con la morte del protagonista.
Due cose son certe : la prima, che anche in quest' opera, Edoardo Giacomo Boner rimane essenzialmente un poeta, e non soltanto per la stesura in versi dell'opera stessa, bensì per la concezione, per l'impostazione e per lo svolgimento ; la seconda, che questa commedia bone-riana è un nobilissimo omaggio del grande messinese non solo a Vincenzo Bellini, ma anche alla nostra città,  patria di Bellini.
E la nostra città — non per sdebitarsi di tanto omaggio — ma per dimostrare, sia pure a mezzo secolo di distanza, di averlo gradito e apprezzato,  voglia far semplicemente apporre, sulla acciata dello stabile di Piazza Manganelli dianzi ricordato, una piccola lapide marmorea che ricordi che in quella casa abitò, dal 1893 al 1895, Edoardo Giacomo Boner, poeta, scrittore, letterato, maestro messinese (1864-1908). Data propizia sarebbe quella del 28 dicembre 1958, cinquantenario del terremoto di Messina in cui il Boner morì. 
Amante del bello e di ogni bellezza artistica, naturale, fisica, eccetera, Boner sentiva profondamente il fascino delle donne, e di esse facilmente s'invaghiva.
E com'era al sommo della felicità mentre durava l'illusione d'amore, così, quando questa svaniva, l'amaro della delusione lo abbatteva tremendamente continuando ad addolorarlo, a tormentarlo, ad intontirlo, ad avvilirlo e scoraggiarlo per anni ed anni, per cui gli « pareva di non poter più credere nè più fidare in nessuna donna al mondo ».
Quanto sconforto e quanta sfiducia nell' avvenire traspaiono da qualche lettera sua al « caro e grande Mario » .
Decisamente, Edoardo Giacomo Boner non ebbe  fortuna  in amore, anzi fu uno sfortunato.
Per rifarsi della seconda delusione dovettero passare ben sei o sette anni e quando finalmente si sentì guarito e potè riversare tutta la passione e tutto l'amore di cui era capace l'animo suo nella vaghissima Graziella Arena, ecco l'avverso destino tendergli l'agguato più feroce e inaspettato. Tornato infatti, nel dicembre del 1908, da Roma a Messina per trascorrervi le vacanze natalizie e poscia, il 3 gennaio, passare a nozze, la notte del 28 veniva travolto, e come lui anche la sua dolce Amely (Graziella), dal cataclisma che doveva fare della bella Messina « un feretro grande ».
In una poesia al mare della sua infanzia («Sul mare», Le Siciliane, p. 143) così Boner chiudeva una  sua invocazione : 
« Ma  presso a te, ma presso
Le tue salse fragranze,  e l' armonia
Posi la spoglia mia.
E là,  per tutto e sempre tu lo stesso,
Là, de la sepoltura
Ne la gran pace oscura,
Cantami ancora le tue canzoni, o mare.
E il dio  dei poeti lo esaudì.
* * *
Verga, Rapisardi, Capuana, De Roberto, Francesco Guglielmino, Sabatino Lopez, allora a Catania, conobbero Boner e come amarono l' uomo, ammirarono il poeta e ne apprezzarono il grande ingegno e l'immensa cultura. « Era di una cultura che quasi faceva spavento » ha scritto di lui Sabatino Lopez.
Grazie a quella sua immensa cultura, Edoardo Giacomo Boner poteva insegnare qualunque materia e, all' occorrenza, sostituire qualsiasi collega.
A Catania, al « Gemmellaro », mentre reggeva la sua cattedra di tedesco, insegnò anche, in sostituzione di altri colleghi, francese e italiano ; e italiano insegnò anche nel Ginnasio « Spedalieri » e nel Liceo «Cutelli». Contemporaneamente fu lettore di lingua tedesca nell' Università : incarico conferitogli per interessamento di Mario  Rapisardi.
L'amicizia tra il Rapisardi e il Boner incominciò nel 1883. Ce lo dice lo stesso Boner in una sua lettera al Rapisardi (la prima) datata Messina, lì 15 giugno ' 84 : « Avendo avuto il bene di conoscerla personalmente l'anno trascorso...». 1884: «anno infaustissimo» per Mario Rapisardi, come lui stesso lo definì in un epitaffio apposto alla fine del ms. della traduzione  delle Odi di Orazio.
Dalle lettere di E. G. Boner a M. Rapisardi, pubblicate da Sebastiana Cannavò (6) — quelle del R. al B. andarono disperse tra le macerie della casa in Messina dove Boner trovò la morte — la corrispondenza sarebbe  cessata nel 1905.
E l'amicizia? Durò ancora? E, del resto, perchè non doveva durare ? Sta di fatto questo : che nell' unica lettera riguardante Boner compresa nell' Epistolario Rapisardiano, così Mario Rapi-sardi scrive (aprile 1911) al «Comitato per le Onoranze a E. G. Boner: Non sarò l'ultimo dei soscrittori per un ricordo marmoreo al nostro caro Edoardo, che io stimavo ed ammiravo fraternamente ». E, con una punta di sarcastica amarezza, soggiunge : « Ma per il buon successo dell'opera nostra, prego offrire la presidenza delle Commissioni a persona più autorevole e meno siciliana di me. Tutto ciò che muove da questa infima Italia non trova facili simpatie negli uomini letterati appartenenti al cervello e al ventre della nazione (7).
Una parentesi. Ritrovati in circostanze prodigiose, a diciotto mesi dal terremoto, i resti del Boner (la testa staccata completamente dal corpo) nel punto designato da una fanciulla (certa Carmelina Alibrandi) che aveva visto in sogno il poeta, essi furono tumulati nel Cimitero di Messina a spese del Comune.
Nel 1911, per dare un assetto decoroso alla tomba, sorse il Comitato di cui alla lettera del Rapisardi ora riportata. Nel medesimo tempo tale Giuseppe Portaro pubblicò un racconto garibaldino «Camicia rossa» «a beneficio di un ricordo marmoreo a G. Edoardo Boner in Messina» (8).
Ma tale ricordo marmoreo, ossia una lapide (opera dello scultore calabrese Vincenzo Jerace) raffigurante il Poeta e il momento del miracoloso ritrovamento delle sue spoglie, e recante la seguente epigrafe :

«EDOARDO  G.  BONER
VISSE PEI SUOI FANTASMI
DI POESIA E D'AMORE
E PEI CARI DISCEPOLI
PERÌ NEL TERREMOTO DEL XXVIII DICEMBRE MCM VIII
MESSINA NEL CUSTODIRE ED ONORARE LA SALMA
QUASI PER PRODIGIO SOTTRATTA ALLE MACERIE
VUOLE TRAMANDARE
IL CULTO DI UN'ARTE PURA E GENTILE
LA PIETÀ D'UNA GLORIA INFRANTA
A GENERAZIONI MENO SVENTURATE»

fu realizzato soltanto nel  1927.   E la   parentesi è chiusa.
« Durante il suo soggiorno catanese — scrive la Cannavò (9) —- il Boner non tralascia occasione per recarsi presso il Rapisardi, là, al Borgo, nella casa da cui si gode la vista dell' Etna maestoso e dell' immensa distesa azzurra dell' Jonio che s'infrange spumeggiante contro la scogliera lavica di Aci Castello. Ivi i due passano ore lietissime in comunione di pensieri ; i vecchi amici frequentatori della casa ricorderanno le loro lunghe partite a scacchi ».
Cordiali furono i rapporti del Boner, oltre che col Rapisardi e col Verga, anche col Capuana e con Federico De Roberto e col fratello del De Roberto, Diego, altro brillantissimo ingegno scomparso immaturamente. Col Lopez furono addirittura fraterni.
Non solamente Lopez e Boner si vedevano tutti i giorni a scuola, dato che, come s' è detto, insegnavano entrambi al « Gemmellaro », ma a-bitavano nel medesimo stabile, presso una certa Signora Sani che Sabatino Lopez, pur dopo mezzo secolo, ricordava ancora e con tanta simpatia. « Abitavamo — mi scriveva fra l'altro nel 1937 — dalla signora Sani, che era una tanto brava Signora continentale, vedova che rimase a Catania e ci maritò bene due figliuole. Lui, Boner, però, abitava al piano di sopra, uno o due, non rammento ».
Anche i pasti prendevano insieme nello stesso ristorante, il Savoja, che era in via Mancini, in uno stabile allora di proprietà Mollica, ora di un grande Istituto bancario.
Sabatino Lopez volle bene a Boner fin dal loro primo incontro a Catania e ne seguì con gioia l' ascesa sino alla cattedra universitaria romana, e ne conobbe e ammirò l' opera, dai primi versi alle ultime pubblicazioni dense di dottrina e di sapere. E deve averne pianto la morte accoratamente se, quando nel 1946, accolte dalla Civica Amministrazione di Messina le istanze di chi scrive (10), si intitolò a E. G. Boner la via delle Fabbriche, così tra l'altro mi scriveva : «Ma più ancora la ringrazio per avermi dato notizia che finalmente la Città di Messina ha intitolalo a Edoardo Giacomo Boner, il poeta insigne e l'uomo tra i più buoni e colti che abbia mai conosciuto, la via in cui egli abitò e morì. Tanti anni ormai e ne provo dolore come di una morte di ieri ».
Una sola opera del Boner, cosa strana davvero, ignorava Sabatino Lopez : la commedia « Bellini ».
Difatti, quando, accingendomi a scrivere di essa, io lo pregai di darmi delle notizie, egli mi rispose con insolita laconicità: «Non conosco il « Bellini » e quindi non posso darle alcuna notizia ».
Ma, scritto e pubblicato l'articolo, anzi gli articoli, sulla commedia boneriana (11) e mandatigli i giornali : « La commedia o dramma di Boner — mi scrisse — oggi innanzi a un pubblico pagante e vario non troverebbe favore perchè non siamo più abituati al verso martelliano. E, per la verità, salvo che per un breve e lieve componimento, oggi, ci sembra intollerabile. Peccato ! Le sue osservazioni sono giustissime circa i mutamenti, direi quasi i pentimenti del Boner. Accade, del resto, frequentemente, che i ritocchi, in parte giovano e in parte guastano ».
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Ho sin qui parlato di Edoardo Giacomo Boner, tratteggiato, soffermandomi sugli anni da lui trascorsi in Catania, la sua figura di poeta, di scrittore, di studioso, di maestro ; illuminato, attraverso qualche episodio, il suo carattere e il suo temperamento originale ; accennato alla sua sfortuna amorosa, alle sue amicizie, alla sua fine e al prodigioso ritrovamento della sua salma ; ma un ritratto di lui non è ancora uscito dalla mia penna. In verità, non 1' ho nemmeno tentato. Perchè? Perchè il ritratto di Edoardo Giacomo Boner l'ha tracciato, in una lettera scrittami il 30 novembre 1937, Sabatino Lopez ed io ho voluto riservarmelo per chiudere queste mie note. Eccolo, schizzato in punta di penna, ma somigliante e vivo, come poteva tracciarlo soltanto Sabatino Lopez che il Boner conobbe, amò, pianse : « L'ebbi collega e gli volli bene fino dal giorno che l'incontrai a Catania. Semplice, affabilissimo, in cordiale dimestichezza con gli allievi, che lo adoravano ; con gli occhietti miopi e, penso, affaticati dai lunghi studi ; con la sigaretta in bocca, sempre; era di una coltura che quasi faceva spavento. Glielo dicevo, e lui rideva. Poeta, lirico e scienziato, sognatore e pratico, cuore e mente aperti a ogni sano palpito e ad ogni bellezza, fu onore di Messina, che amò e predilesse. Anche la sua fine rende più cara e pietosa la sua memoria ».
                                                                                                               Francesco Granata  (1957 - tratto da Catania vecchia e nuova)

* scritta per wikipedia, biografia qui 

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« ..Edoardo Boner era stato travolto sotto il peso di due piani. La sua casa era spiombata per largo tratto sulla strada arrovesciandosi tutta e accomunando le sue con le macerie di altre case. Il cumulo delle rovine giungeva all'altezza del secondo piano, fino alla dimora di Edoardo. Qua e là carte, documenti, lettere, frammenti di libri, fradici di piova e di fango, attestavano lo scempio brutale che nella furia delle ruine e dei predoni avean patito le cose più care di quell'anima innamorata. Tra i rottami stava, mezza nascosta, una cassetta di zinco scoperchiata in mezzo a un fascio di bigliettini rosei e azzurri, di mano femminile. Eran documenti di amori lontani che l'acerbo rimpianto del poeta non aveva voluto disperdere e che ora stavano su in alto ad accertare il viandante che il poeta si sfaceva là sotto. Della suppellettile domestica, della casa, nessuna traccia; solo poco più in alto, fra due muri squarciati, l'angolo di uno stanzino, intatto. Mi arrampicai fin lassù e vi trovai, poiché piovigginava, un rifugio. Che pace là dentro, in mezzo a quell enorme silenzio di devastazione!. Quell'angolo pareva aspettasse anzi che l'ultimo colpo di piccone, il compimento della mano dell'uomo. Conteneva ancora il lavabo con il catino dell'acqua bianca di sapone, lo spazzolino pei denti, la bottiglia dell'acqua Magone che odorava di lavanda e un asciugamano ancor umido e arrotolato, attaccato al muro. Quel luogo, tutto pieno di una suggestione di vita, mi dava l'impressione certa di un'attesa. Qualcuno dovea là ritornare, fra poco. E l'allucinazione si coloriva, si arricchiva, sin che m'avvenne di chiamare con impazienza: Edoardo! Scosso dalla paura balzai fuori inciampando e barcollando come se tutte le midolla si dissolvessero nel sudore che mi colava abbondante... »
(Commemorazione - Rivista d'Italia - ottobre 1909. Concetto Marchesi)

Lettera al comitato per le Onoranze di Edoardo Giacomo Boner, di Mario Rapisardi. aprile 1911

Non sarò l’ultimo dei soscrittori per un ricordo marmoreo al nostro caro Edoardo, che io stimavo ed ammiravo fraternamente.
Ma per il buon successo del l’opera nostra, prego offrire la presidenza delle commissione a persona più autorevole e meno siciliana di me.
Tutto ciò che muove da questa infima Italia non trova facili simpatie negli uomini letterati appartenenti al cervello e al ventre della nazione.


martedì 17 aprile 2012

Antonio Ghislanzoni, l'intollerante scapigliato. 1824/1893

Antonio Ghislanzoni (Lecco25 novembre 1824 – Caprino Bergamasco16 luglio 1893) è stato un librettistapoeta e scrittore italiano. Il suo nome è legato soprattutto al libretto dell'Aida di Giuseppe Verdi, col quale collaborò anche alle revisioni della Forza del destino e di Don Carlos.


Il Canto di Mignon

Vedeste mai quel paese gentil
Che il sol riveste di tanto splendor;
Il bel paese ove eterno è l'april,
Eterno il riso degli astri e dei fior ?

Ivi ogni murmure d'acqua o di vento
D'arpe celesti somiglia un concerto;
Ivi ogni nota d'umana favella
Somiglia un canto, un sospiro d'amor..

Di quel mio vagheggiato Eden natio
Ho qui nel core un vago sovvenir...
Lo veggo in sogno, e là tornar vogl'io,
Là voglio amare, e piangere, e morir.
                                                                                          
 Musica di Francesco P. Frontini ,1898

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Nasce a Lecco il 25 novembre 1824. All'età di dieci anni, il padre, medico e direttore dell'ospedale della città, lo fa entrare in seminario per seguire gli studi ginnasiali. La ferrea disciplina dell'istituto è però poco tollerata dal carattere insofferente del piccolo Ghislanzoni, che, diciassettenne, verrà espulso per il comportamento irriverente: l'anticlericalismo rimarrà una costante della sua ideologia.
Terminato il liceo a Pavia e iscrittosi a Medicina, presto si delineerà per lui una diversa carriera: prima cantante (baritono) e poi scrittore. Quella della scrittura, in realtà, sarà la sua vera attività. Dopo la Seconda guerra di indipendenza (1859) si lega a Milano al gruppo scapigliato. È giornalista assiduo: nel '59 dirige per alcuni mesi «L'uomo di pietra»; nel '62-63 dà vita al «Figaro»; nel '65 fonda la «Rivista Minima» (che, dopo una lunga interruzione tra il '66 e il 71, dirigerà fino al 1875); nel '77 fonda il «Giornale capriccio» (che chiuderà per problemi economici due anni dopo); per non parlare delle collaborazioni alle numerose testate che ospitano suoi romanzi a puntate, racconti, recensioni, interventi di varia natura. Ma non manca l'attività creativa vera e propria: narrativa e poesia. Tra le sue opere di narrativa segnaliamo: Suicidio a fior d'acqua (1864), Le donne brutte (1867), La contessa di Karolystria (X883),Abrakadabra (1884), Racconti e novelle (1884).
Per la poesia ricordiamo Libro proibito (1878), cui arrise un notevole successo di pubblico, tanto che nel 1890 giungerà alla settima edizione. Non vanno dimenticati, infine, i libretti d'opera: Ghislanzoni ne scrisse circa ottanta, tra cui quello dell'Aida verdiana. Un anno dopo la scomparsa della moglie, Maria Bosisio (sposata nel 1859 e da alcuni anni affetta da una grave malattia mentale), morirà anche Antonio Ghislanzoni: a Caprino Bergamasco, il 16 luglio 1893.(Roberto Carnero)

« Dicendo mal di tutti, il vero espressi / Lassù nel mondo; se parlar potessi, / Pietoso passeggier, ora direi / Ogni bene di te, ma.... mentirei. »  
(Antonio Ghislanzoni, Il mio epitaffio)

I suoi epigrammi possono, contribuire a documentare la temperie culturale, sociale e politica del tempo. «I versi del Libro proibito», scrive Gilberto Finzi (1997:165), «riprendono un'atmosfera polemica d'epoca che non tocca, forse nemmeno sfiora, la poesia, ma che bene riconducono a momenti collaterali tipici della Scapigliatura».
In tal senso l'opera di Ghislanzoni è da leggere «in relazione all'affermarsi della scapigliatura e alla sua frantumazione in posizioni e iniziative anche diverse e contrastanti fra loro ma riconducibili in genere a un atteggiamento di rifiuto o di insofferenza verso i valori della società borghese e i modelli letterari che li rappresentavano» (Zaccaria 2000:47). 
Quasi un anticipatore del movimento (cfr. Paccagni-ni 1995:1-48) in quanto di una generazione precedente a quella degli Scapigliati maggiori, su di lui è fortemente limitativo il giudizio di Gaetano Mariani (1967:696): «Dei suoi amici e nemici il Ghislanzoni accoglie in fondo l'esteriorità massiccia degli atteggiamenti, sia umani che letterari, assorbe la carica di rottura che è nell'opera di un Praga, di un Boito, di un Tarchetti nei limiti in cui tale carica si adeguava alla sua visione dell'umanità che è insieme indulgente e spietata, ironica e sentimentale, seria e sorridente...».

Ama, o fanciulla-d’una luce sola


     Si irradia il core, ed è luce d’amor;


     Non potrà il tempo che ogni gioja invola


     Mai quella luce spegnerti nel cor.





Ama! alla età dei disinganni amari


     Dei tedii lunghi, dei vani desir


     La primavera dei ricordi cari


     Sentirai nel tuo petto rifiorir.





Ama, o fanciulla! benedetto e pianto


     Poserà il cener tuo dentro l’avel,


     E all’angelisco spirto amor soltanto


     Presterà l’ali per salire al ciel.



I nostri tempi
La vera sintesi
      Dell’età nostra
      Con breve distico
      Qui si dimostra:
«Tutto si compera,
      Tutto si vende,
      E carta sudicia
      Per ôr si spende.»

La nostra musica

Nell'universo
      Regnò sovrana
      Fin che fu musica
      Italïana;
Volle esser musica
      Cosmopolita,
      E allor d'Italia
      Non è più uscita.

I pseudonimi

Quando d’una effemeride
    Tu imbratti le colonne,
    Presumi invan nasconderti
    Nel vel di un Ipsilonne.
    A ognun che il testo esamini
    Subito si rivela
    Che all’ombra del pseudonimo
    Un asino si cela.





Liriche per musica


Di Ulisse Cermenati, Milano, novembre 1924
Fu uno scrittore arguto, buono, squisitamente italiano: fu «poeta nella vita e nelle opere» così come giustamente è scolpito sul piccolo monumento, che amici e ammiratori, gli eressero nella sua Lecco, cinque mesi dopo la morte.
Nel capoluogo del teatro manzoniano, nella ridente cittadina lariana, che deve la sua fama all'autore dei «Promessi Sposi» e la sua ricchezza all'instancabile febbre di lavoro, Antonio Ghislanzoni nasceva cento anni or sono, al 25 di novembre. In quello stesso 1824, Lecco aveva dati i natali ad un altro suo figlio insigne, l'abate geologo, Antonio Stoppani.
Il padre, dottor fisico Giovanni Battista, avrebbe voluto fare dell'Antonio un continuatore della severa e delicata sua professione, e con questo intento, lo aveva ovviato agli studi classici, indi alle discipline mediche all'Università di Pavia.
Il giovane non era stoffa da Esculapio; in quei tempi egli si sentiva attratto irresistibilmente all'arte lirica. E dalla antica città degli studi, egli spiccava infatti il volo per i teatri d'Italia e dell'Estero, interpretando con la sua bella voce baritonale - così chiara e sicura nel canto, in lui ch'era balbuziente al massimo grado nella conversazione normale - le creazioni di Donizetti, di Bellini e di Rossini.
Della sua avventurosa vita di cantante, egli medesimo ha scritto briosamente in parecchie occasioni, e specialmente nelle «Memorie politiche di un baritono» e «In chiave di baritono», anche per rettificare inesatte dicerie che si sparsero sul suo conto, e che furono raccolte da biografi faciloni, i quali mettevano il Ghislanzoni in luce di eterno burlone, e di sfrenato gaudente, anziché in quella giusta e simpatica di uno dei più puri e geniali componenti la scapigliatura artistica e letteraria, che fiorì in Milano nella seconda metà del secolo scorso, e che tanto raggio d'intellettualità fece rifulgere sulla metropoli lombarda.

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Invero, anche sfrondata da tutte le leggende, la vita di Antonio Ghislanzoni, cantante e scrittore, costituisce una ricca collana di episodi brillanti, così come brillante e piacevole furono il suo carattere e il suo stile. Fu chiamato il Paul de Kok italiano, fa chiamato anche, per i suoi innumerevoli e salaci epigrammi, il moderno Marziale.
Agli antichi trionfi di teatro, egli, però non teneva molto. Anzi...!
«Ripensando a quei tempi - scrisse infatti - mi avviene spesso di meravigliarmi della spensierata gaiezza, che io mettevo nel rappresentare al cospetto del pubblico i personaggi del marchese di Bois Fleury, di dott. Malatesta, di Dulcamara, di Figaro e di don Basilio. Fatto è che una volta slanciato sul palcoscenico io m'investiva siffattamente dell'umorismo musicale di Donizetti e di Rossini da riuscire un attore comico esilarante e inappuntabile. E questo dico senza ombra di orgoglio; poiché ai miei successi di istrione io ci tengo pochissimo, e quasi mi vergogno di ricordarli».
Però amava intrattenersi su quella che fu la parte aneddotica di quei lontani tempi giovanili.
Debuttò nel carnevale del 1846 a Lodi; passò poscia al «Carcano» di Milano, e un episodio saliente di quella stagione teatrale è così narrato da lui stesso:
«Uscito, dopo lunga malattia, dalla casa di salute, l'impresario Boracchi mi mandò a Piacenza, e quindi a Codogno, per cantare nell'Attila la parte di Ezio. Partii da Codogno e scesi all'Albergo dell'Àncora a Milano nel teatrale costume di Ezio, colla daga alla cintura e il grand'elmo a cresta rossa sulla testa».
È facile immaginare le matte risate di chi vide capitare nell'albergo lo strano personaggio così camuffato!
Cantò nell'anno seguente ad Arezzo, e dopo lunghe e avventurose peregrinazioni tentò di recarsi a Roma, ansioso di prendere parte alla difesa della gloriosa e agonizzante Repubblica. Sotto le vesti dei più svariati «eroi» internazionali, di cavalieri antichi e di non meno antichi tiranni, l'artista da teatro non aveva dimenticato di essere italiano e Ghislanzoni il suo dovere di patriotta l'aveva fatto, - senza menarne scalpore in seguito, - anche a Milano durante le «Cinque giornate», delle quali descrisse poi in pagine gustosissime le scene comiche che si svolsero accanto a quelle epiche.
Il Ghislanzoni, s'avviò adunque verso la Città eterna, accompagnato da un'amica, desiosa di emozioni, e che per nascondere il sesso, s'era rivestita di abiti virili. Presso le porte di Roma la coppia fu arrestata dai soldati francesi. La signorina, cavallerescamente rilasciata dagli ufficiali, potè prendere la via del ritorno, ma il nostro Antonio, dichiarato prigioniero di guerra fu rinchiuso, prima all'isola di Santa Margherita poi trasferito a Bastia, in Corsica, dove sofferse quattro mesi di durissimo carcere.
Liberato alfine; un generoso ammiratore del suo talento e del suo inesauribile spirito, gli fornì i mezzi per recarsi in Francia.

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Egli ha raccontato da par suo questo nuovo periodo della sua carriera lirica, che culminò la sera del 2 dicembre 1851 - la sera storica del colpo di Stato, - cantando la parte di Carlo V nell'Ernani, a quel Teatro Italiano.
Il giorno dopo, scoppiati i tumulti, il teatro fu chiuso, e il baritono si trovò sul lastrico.
Nel marzo dell'anno seguente, formò una compagnia, e riprese a pellegrinare per i teatri di provincia, riducendosi a Nimes, con un guadagno netto di 200 lire, che sfumò immediatamente, per una grave malattia che lo colse.
Antonio Ghislanzoni, cantò, o meglio tentò di cantare, per l'ultima volta nel 1855, di ritorno a Milano.
Così da lui è rievocato quel burrascoso spettacolo che doveva di punto in bianco, tramutarlo da baritono, in letterato:
«Nelle varie riprese della mia carriera intermittente non mi era mai accaduto di sentirmi trapassare l'orecchio dal sinistro stridore dei fischi. Questa soddisfazione, che solo mancava a completare la mia biografia teatrale, l'ebbi a Milano clamorosa, spietata, degna di me. Il teatro Carcano, che era stato nel 1847 il mio campo di Marengo, si tramutava otto anni dopo nel mio Waterloo. I fischi, le grida, le contumelie che mi investirono mentre io adunava invano gli ultimi residui delle mie note agonizzanti, per cantare nel «Templario», la parte eroica di Briano, mi intimarono di cedere le armi. All'indomani della sconfitta, io presi risolutamente il partito di abdicare, e confesso che, deponendo i titoli di baritono assoluto e di cantante disponibile, mi parve di rifarmi uomo, di ricostituirmi cittadino.
«L'ottimo Rovani, ch'io non conoscevo di persona, narrando nell'appendice della «Gazzetta di Milano» quel mio primo ed ultimo fiasco, con quella squisitezza che era la luce simpatica di ogni suo scritto, si rallegrava che io abbandonassi la scena, promettendomi degli allori più invidiabili nel campo delle lettere».

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Da quel giorno adunque, Antonio Ghislanzoni, divenne scrittore, e scrisse molto in altri quarant'anni della sua esistenza, distinguendosi nelle forme letterarie più disparate; cosicché parecchi de' suoi lavori furono anche tradotti in lingue straniere.
Il suo romanzo-capolavoro: «Gli artisti da teatro», - col quale si prefisse lo scopo principale di descrivere la tumultuosa vita dei cantanti nella sua realtà inesorabile, ad ammonimento dei giovani che, sedotti dalle false apparenze, intendessero avventurarsi capricciosamente, inconsci ed illusi; e d'altra parte di mettere in evidenza le piaghe sanabili, richiamando su queste l'attenzione del pubblico e dei governanti - ottenne, e ottiene tutt'ora, un meritato successo.
«Gli artisti da teatro» comparso dapprima a puntate nel giornale «Il Cosmorama pittorico» fu raccolto in volume e riprodotto per numerose edizioni, anche recentemente dall'editore di quest'altro suo lavoro.
Molto opportunamente l'amico Matarelli ha voluto, con doveroso e affettuoso pensiero di omaggio, nell'occasione del centenario della nascita del geniale artista lombardo, toglier dall'ingiusto oblio, questa Abrakadabra, che è la dimostrazione di una fantasia fervidissima, e che ha preceduto di molti anni la fortunata opera di Bellamy.
Degli scritti del Ghislanzoni, si leggono ancora con diletto: Le memoria di un gatto - Le donne brutte - Angioli nelle tenebre - Un suicidio a fior d'acqua - La contessa di Karolystria - Le acque minerali di S. R. - Un viaggio d'istruzione - I volontari del 1866 - Un capriccio della rivoluzione - Il diplomatico di Gorgonzola - Il dott. Ceralacca - Due spie - Un apostolo in missione - Storia di Milano dal 1836 al 1848 - I due preti - Il sole della libertà - Dietro una valanga - Una partita in quattro - Autobiografia di un ex cantante - La Corte dei Nasi - Giuda Scariota - Il renitente - Se il marito sapesse - Un uomo colla coda - Cugino e cugina - Gianbarba - I primi passi alla scienza - Il corvo rosso - Ciò che si vuole - Il redivivo - Il violino a corde umane - La tromba di Rubly - Le vergini di Nyon - Memorie di Pavia - Il flauto di mio marito - Le sedici battute dell'Africana - Storia di Lecco dal 1832 al 1848 - I drammi del Natale - Giovane e sconosciuto - Una nuova opera al teatro della Scala - La predica di fra Veridico - L'arte di far debiti; e molte e molte altre novelle di maggiore o minor mole. Scrisse anche pel teatro di prosa, ma con minor fortuna, tre commedie: Tutti ladri - La moda nell'arte - I due orsi.
Assai noti sono inoltre i suoi libretti d'opera, - una ottantina circa, - e in questa forma d'arte egli potè ben essere chiamato «principe» poiché fu tra i primi che la risollevarono a dignità di concezione e di verso.
Il melodramma che gli diede maggior fama, poiché il suo nome fu accoppiato a quello grandissimo di Verdi, ma gli fruttò ben poco finanziariamente, fu senza dubbio l'Aida. Altri come Papà Martin, Francesca da Rimini, Re Lear, Fosca, Salvator Rosa, I lituani, I mori di Valenza, I promessi sposi, Salambò, Edmea, Spartaco, furono rispettivamente musicati da altri insigni maestri, quali il Cagnoni, il Cromes, il Ponchielli, il Petrella, il Catalani, e il Platania.
Ma non qui si è arrestata la sua attività letteraria. Oltre duecento sono gli epigrammi; a centinaia si contano i componimenti poetici sparsi su tutti i giornali letterari e le più importanti riviste d'Italia.
Militò pure nel giornalismo, e fu al Secolo nei primi anni di vita del quotidiano milanese; diresse la Gazzetta Musicale di Ricordi, e fondò la Rivista minima, Il Capriccio e La posta di Caprino, ove profuse a larghe mani le gemme del suo vivido ingegno, lo spirito sano della sua instancabile vena. Un doloroso, stridente contrasto con l'anima gioconda dello scrittore, è stato l'ultimo periodo della sua esistenza, trascorso nel romitaggio dell'alpestre paesello di Caprino Bergamasco, ove volontariamente si era ritirato, per sfuggire ai rumori delle grandi città, per godersi un tramonto tranquillo, fra gente umile e buona. Dettò allora un'epistola diretta «Al dott. L. V.», che resta come un gioiello di poesia, e di pungente satira.
Onesto sino allo scrupolo, disinteressato fino all'ingenuità, egli, che col solo libretto dell'«Aida» avrebbe avuto diritto di guadagnare tanto che gli bastasse per campare agiatamente, dovette invece lottare sempre con le più umili necessità quotidiane.
Ad un giovane discepolo, che stava per lanciarsi a quel tempo nel mondo giornalistico, affidava una lettera per un amico di Roma.
Lo scritto reca la data del 28 marzo 1893, pochi mesi prima cioè della morte.
Da quel foglietto, ormai ingiallito dal tempo, sotto il velo dell'arguzia, traspare purtroppo una profonda amarezza.
In un punto, fra l'altro, il solitario, esclama:
«Io vado invecchiando a Caprino. La mia vita è una, cambiale in sofferenza. Mi approssimo ai settant'anni, e devo scribacchiare per vivere!»
In quello stesso mese di marzo, egli traduceva una poesia di Tennyson, e la traduzione lo fece proclamare vincitore su ben seicento concorrenti.
Sono versi che sembrano preconizzare la fine imminente, e fanno comprendere come lo spirito del Poeta, che sentiva avvicinarsi l'ora suprema, abbia trovato ancora nell'interpretare il mesto canto del vate inglese, tutta la forza, tutto lo scintillio dell'estro giovanile.
Eccoli i versi, che furono il canto del cigno:

«Quando l'ora silente in veste bruna
Intorno al mio guanciale i sogni aduna,
Deh! non mi richiamate,
Mute voci dei morti,
Sì spesso avanti verso l'ima valle
A cui volsi le spalle,
Nè verso il sole che non dà più luce...
Me chiamate piuttosto, o silenziose
Voci, oltre il nulla, nell'etereo smalto
Della stellata via,
Che in alto splende, in alto, sempre in alto!...»

*
* *


Antonio Ghislanzoni, allo spuntar dell'alba del giorno sedici di luglio di quell'anno, moriva.
Quest'uomo, aveva data precoce prova della sua vena umoristica, da scolaretto, nel seminario di Castello sopra Lecco, con una scappatella che ben volentieri ricordava agli amici. Un vecchio e pedante professore di storia, aveva dettato il tema: Che cosa disse Muzio Scevola ai romani, mettendo la mano sul braciere ardente?
Doveva essere il compito più importante dell'anno, quello cioè che avrebbe deciso della capacità e del profitto dell'alunno per essere promosso. Gli allievi ebbero perciò un tempo abbastanza lungo, per riflettere e per svolgerlo con ampiezza.
Il futuro autore degli Artisti da Teatro, e dell'Abrakadabra, fu lesto, e naturalmente per il primo consegnò un foglio grandissimo su cui non aveva vergato che la dolorosa esclamazione: Ahi! ahi! ahi!
E infatti, che cosa avrebbe potuto dire di più mi uomo, sia pure Muzio Scevola, mentre stava bruciandosi le carni?
Il professore, solennemente, al cospetto della scolaresca, che a stenti tratteneva le risa - si indignò e con quel senso di divinazione, che è una specialità dei pedagoghi, scrisse un rapporto in cui sosteneva che il piccolo Antonio sarebbe sempre stato un idiota e un analfabeta.
È il preconizzato idiota e analfabeta, per molti lustri, sino alla più tarda, età, con le sue opere, seminò il più schietto buon umore, fustigò e corresse i costumi con la satira, divertì varie generazioni di lettori, e anche giunto sul passo estremo, poteva annunciare all'amico Monteggia, che sul suo marmo sepolcrale, sarebbe rifiorita ancora la sana e schietta risata!
Invece la sua morte fu crudele, straziante. Non si spense che dopo una lunga, atroce agonia, cosicché si dovette affermare, quando esalò l'ultimo sospiro, che aveva cessato di soffrire.
Qualche giorno prima di chiudere gli occhi per sempre e per, comporsi, finalmente, nella pace, Egli volle attorno al suo letto si raccogliessero i bambini più poveri del paese, per offrir loro a manciate, gustose ciliege.
Con gli occhi bagnati di lagrime, stette a contemplare il quadro simpatico, e a godere dell'ingenua gioia dei piccini. Innamorato d'ogni cosa bella e buona, amante dei deboli e degli innocenti, l'umorista, il poeta morente, volle allietare le ultime sue ore, col sorriso e la riconoscenza dei fanciulli, privi d'ogni altra consolazione, nella povertà della loro infanzia.
E prima d'essere chiamato «oltre il nulla», pur tra le torture del male spietato che l'uccideva, ebbe ancora la forza di mormorare:
«Voglio fiori, molti fiori, con me, nella bara!»,
E con questo omaggio alla bellezza e alla gentilezza del Creato, si irrigidì nella morte.
Da allora riposa nel cimitero di Lecco, ove le sue spoglie per volere dei concittadini, furono trasportate con solenni onoranze, accanto a quelle di Antonio Stoppani.
Sulle tombe dei due insigni lecchesi sta incisa la medesima data: 1824.