Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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martedì 1 giugno 2021

CAPUANA, PENNA VULCANICA

 


Antichissima è la convinzione che una nuova vita appena sbocciata è contrassegnata, fino alla morte, dal segno di una costellazione (ricordiamo che il sedicenne Aniante da Sindonae — scomparso come Antonio Aniante il 13 novembre appena de­corso — esordì nel 1916 con l’opera poetica Costellazioni. Poe­mi universali e, in essa, metà delle composizioni furono raggrup­pate in una sezione intitolata «Le medaglie zodiacali»),



E se vogliamo dar credito all’influenza dei pianeti sul carattere dei viventi, scrutiamo i segni positivi e negativi del neonato Luigi Capuana, nato a Mineo il 28 maggio 1839 (secondo accu­rate ricerche in giorno di martedì), che fu molto sensibile alle coincidenze, ai sogni, ai numeri, allo spiritismo. I nati, come il Nostro, sotto il segno zodiacale dei Gemelli, prima decade, sono sotto l’influenza di Mercurio, e secondo la specialista di studi astrologici Ruth Anderson «avranno una personalità in­gegnosa, percettiva, studiosa. Ma, se questo pianeta è in aspet­to negativo porterà loro curiosità, pigrizia, dissipazione».

A proposito della dissipazione, è pienamente calzante una profezia vergata, nel 1887, dal medesimo Capuana quarantottenne, che inviava all’amico Federico De Roberto compiegata alla prefazione di Homo, una raccolta di novelle in corso di stam­pa presso gli editori Treves di Milano: «Troverai in mezzo al ms. una stampa. È una copia d’una mia profezia; così avrai in mano tutti i documenti per dimostrare alla mia morte, che io ho fatto tutti i mestieri cominciando dal poeta e finendo al Pro­feta. Sì, ho fatto tutto meno di quello che avrei dovuto fare, di non fare debiti» (Mineo, 29 agosto 1887).

In Luigi Capuana la personalità «ingegnosa, percettiva, stu­diosa» si rivelò con manifestazioni precoci e vistose, così come ebbe in eminente «curiosità, pigrizia, dissipazione». La versa­tilità e la flessibilità dell’ingegno lo spinsero a cimentarsi in quasi tutti i generi della letteratura (considerato critico incisivo già nel quadriennio 1865-1868 trascorso a Firenze, e autorevole alla fi­ne del decennio successivo a Milano); ed altresì in attività di or­dine pratico non disgiunte dalla tecnica dell’artista (fotografia, incisione, disegno e caricatura). Acquisite in un arco di tempo lungo, esercitate e dispiegate alcune di esse nelle poche ore di «otium» pur presenti nella giornata intensa, con professionali­tà e disinvoltura, ma anche con l’affanno e l’angoscia delle sca­denze cambiarie che vengono postergate con provvidenziali in­terventi (ma ritornano sempre più minacciose col trascorrere del tempo, perché ancor più onerose per gli interessi) che, tuttavia, lo spingevano a lavorare sempre di più, con la breve paura — come vedremo con dati dettagliati — per una missiva vergata di getto, diretta a un giovane catanese poco più che ventenne, che si avviava — siamo agli inizi degli anni Ottanta — al gior­nalismo di livello nazionale e al romanzo: Federico De Roberto.

La sonda che illumina l’inconscio e, insieme, la cartina di tornasole che reca impressa la realtà del sottosuolo psichico, è costituita appunto dalle lettere qui esaminate, vergate in due epo­che lontane un venticinquennio (numerose e inedite, l’esame sarà rivolto alla prima del 1857 ed a un numero minimo del secondo gruppo, della maturità capuaniana, che può assumere adegua­tamente il ruolo di campione rappresentativo).

Un episodio lontano è racchiuso in una interessante lettera del giovane al «nume tutelare» dei giovanissimi aspiranti poe­ti. Alla fine del 1857, il diciottenne Capuana era un diligente e assiduo alunno di Giurisprudenza nell’ateneo catanese e, già prima, dimostrava buoni propositi dichiarati nella lettera «Ca­tania, 27 aprile 1857» diretta a Lionardo Vigo (la prima in or­dine cronologico, ma l'esistenza di rapporti informali preesistenti si evince dal primo capoverso «Ricevo da Gioacchino nostro la lettera di Lao, e la noticina della spesa d’un foglio per la mia stampa»).

Essa fu scritta in previsione della propria partecipazione al concorso annuale indetto dall’Accademia dafnica di Acireale: «Non mi dispiace punto che il concorso si facesse a’ 17 del cor­rente, quantunque quella Minerva oscura del Dante sia per me di sinistro augurio; poiché mi sembra una dura pretensione quella dell’Accademia volendo che si scegliesse a sorte da tutte e tre le cantiche».

Sappiamo che il giovane aveva studiato fino a 16 anni nel reale collegio di Bronte, irregolarmente e con mediocre profit­to, e quindi nessuna sorpresa se ammetteva implicitamente di non conoscere il Paradiso. «E le difficoltà maggiori per me sa­ranno intorno quest’ultima cantica, che mi converrà studiare ora da capo a fondo». Per completezza aggiungiamo sul concorso alcuni particolari pochissimo noti. Capuana partecipò al con­corso (nella prima classe, fra i giovani di oltre quindici anni) svoltosi in Acireale il 18 maggio successivo, non ottenne la me­daglia d’oro, appannaggio del catanese Gioacchino Geremia Scigliani, ma l'accessit, ossia l’ammissione. Lionardo Vigo, presi­dente dell’Accademia dafnica, nel discorso dedicato alla premia­zione, avvenuta il 25 maggio successivo, adoperò espressioni ol­tremodo lusinghiere e comunicò all’uditorio un’ambita distin­zione conferita al Capuana: «ma sappi che solo per impreve­duti ostacoli Luigi Capuana e Tommaso Catalano furono im­pediti a compiere per intiero i loro scritti: e che tanto essi meri­tarono la nostra ammirazione da essere stati chiamati ad assi­dersi teco fra di noi col grado di Socii Corrispondenti».

Capuana chiudeva la lettera con espressioni di gratitudine e devozione «Con che ricambiarla degl’incomodi che le vò buscando? Niente più che col riverirla ed amarla come Maestro». Quel ricambiarla, interpretato freudianamente, assume un si­gnificato pregnante: l’invio, subito dopo (e anche prima di quella data), di ... antichi canti popolari mineoli di recentissima «in­venzione» di Luigi inseriti nella prima raccolta di Canti popo­lari siciliani, pubblicata dal Vigo nella seconda metà del 1857. In questa lettera — come nelle successive del quarantenne — si colgono due «costanti»: un’iniziativa attinente la carta stam­pata (editore Lao di Palermo), un programma enunciato da rea­lizzare in tempi brevi.

Il periodo, forse più intenso e interessante di Capuana e per l’attività creativa e per i progetti giornalistici (e per gli incarichi amministrativi gravosi di sindaco di Mineo e di consigliere pro­vinciale a Catania, svolti contemporaneamente), è quello che va dal 1884 al 1887, trascorsi a Mineo con brevi permanenze a Ca­tania. Il quadriennio è illuminato, come dicevamo, dalle lettere a Federico De Roberto, circa duecento, in gran parte pubblica­te da Sarah Zappulla Muscarà negli ultimi anni, nell’Osserva­torio politico letterario di Roma. Ed è grave che a fronte di que­sto numero imponente, le lettere di De Roberto a Capuana se­gnalate siano appena sei (Croce Zimbone, La Biblioteca Capua­na, Catania, 1982, pp. 10, e 112).

Esse costituiscono il resoconto degli «esperimenti» e dei «cambiamenti» (diversificazioni e ripensamenti) nell’attività del letterato (con la gestazione, lenta o veloce, di opere significati­ve), di giornalista, di fotografo, di audace progettista di impre­se da capogiro, sempre dilaniato dall’angoscia: insomma, uno spaccato della vita quotidiana con una ricchezza di notazioni e di confidenze — riservate in esclusiva al giovane Federico —, che ben rappresentano la proiezione del Capuana della maturità.

L’inizio dei rapporti epistolari con De Roberto, ventenne appena ma già direttore del Don Chisciotte, risale a quella datata «Mineo, 22 febbraio 1881», nella quale Capuana si rivolgeva al «Gentilissimo Signore», dichiarava di non avere «visto il 2° numero del Don Chisciotte» e si congedava con «La riverisco insieme a tutta la redazione». Era già partito da Catania l’invi­to a collaborare al settimanale perché in quella «Mineo, 20 marzo 1881», diretta «All’onorevole Direttore del Don Chisciotte», si scusava per non aver potuto spedire la novellina destinata al Don Chisciotte e ringraziava «il gentilissimo critico che si na­sconde sotto lo pseudonimo di Cardenio» (uno degli pseudoni­mi di De Roberto). Nella settimana successiva manterrà la pro­messa «Ecco la novellina. Avrei voluto mandarle qualche cosa di meglio, ma il tempo stringeva» (Mineo, 30 marzo 1881).

Evidentemente, è uno scambio di lettere con continuità, se in quella del 7 aprile 1881 Capuana esordisce: «Risposi subito alla sua gentilissima mandando un canto popolare inedito». Sono quelle del 1881 in totale sei (una senza data, ma scritta nel cor­so del 1881), ed è da segnalare — infine — quella dell’8 mag­gio, di ringraziamento delle cinque copie del volumetto Cata­nia - Casamicciola (edito a cura del De Roberto), a cui hanno collaborato, con il Capuana, anche Verga e Mario Rapisardi con Giselda, anche per la qualifica nobiliare nell’indirizzo «Al sig. Federico De Roberto — Asmundo dei Marchesi di Montepul­ciano».

La prima lettera di Federico — nella qualità di consulente editoriale di Niccolò Giannotta — del 3 luglio 1881, è segnalata dal benemerito studioso Gino Raya nella Bibliografia di L. Ca­puana, Roma 1969, p. 51. Dopo, da una parte e dall’altra, l’in­terruzione per oltre un biennio, ossia il 1882 e il 1883, anni che Capuana trascorse a Roma, chiamato alla direzione del Fanfulla della Domenica (settimanale prestigioso, fondato nel 1878, che aveva già raggiunto nei primi del 1880 l’alta tiratura di ventitre- mila copie). Alla fine del 1883 Capuana rientrava in Sicilia, e dal gennaio 1884 iniziava un quadriennio di fitta corrispondenza.

Possiamo, in questa sede, riferire solamente pochissimi brani di alcune lettere su temi ricorrenti: direttive per la stampa dei volumi, fotografie e progressi fotografici moderni, progetti gran­diosi, scadenze cambiarie e giudizi critici «autentici» da non pub­blicare su Giovanni Verga e Mario Rapisardi: «Gli articoli del Fanfulla della Domenica devono essere composti, come testo, in corpo 12» (Mineo, 3 gennaio 1884); invece in una successiva (28 gennaio) dedicava un’intera pagina alle «Norme per la riproduzione autografica», ma la lettera è interessante per la stron­catura del Giobbe rapisardiano e per la definizione del poeta, e, meglio negazione del poeta senza attenuanti «[...] mi confer­mo nella mia opinione che il Rapisardi è un buon verseggiato re, ma un poeta, no, di certo: gli manca la facoltà creatrice, or­ganica; la natura gliel’ha negata».

Un anno dopo (Mineo, 26 maggio 1885) insiste ancora sul corpo 12, ma corsivo: «A proposito di Ribrezzo m’è nata un’i­dea; stampare tutto il volume in corsivo corpo 12! Che gliene sembra? Ecco un ritorno all’antico che mi piacerebbe tanto! È possibile? Ne parli al Giannotta. Io ne sarei contentissimo. È una novità tipografica da tentare da noi. In Inghilterra si è fatta».

Il tema riguardante la fotografia è svolto da un’artista e da un competente con risultati degni di un Cartier Bresson. Foto­grafo sempre, si potrebbe dire del Capuana, anche durante le ultime ore di vita della madre: «Un’agonia tranquilla, simile a un sonno: una morte che fece tornare la sua fisionomia allo stato naturale. Io ho avuto il coraggio di fotografare la Mamma in quello stato, e queste fotografie sono un tesoro per me; le guar­do ad ogni momento e spesso la chiamo, a voce alta, quasi po­tesse ascoltarmi! ».

In quella brevissima del 18 agosto 1886 erano compiegate alcune foto per Federico «Arricchisco di nuovi capolavori fo­tografici il tuo già ricco, piccolo sì, ma museo». L’ultima, del 22 aprile 1887, ci illumina veramente su un Capuana perfezio­nista «Il ritratto lo avrai appena sarò provvisto di carta. Ho scritto a Parigi per una nuova carta (papier Hetmann). Se ne dice meraviglia. Vedi? lo mi tengo all’altezza dei progressi fo­tografici moderni».

Poco spazio, ormai, possiamo dedicare al progetto di fon­dazione di una rivista, formulato nel 1885, e successivamente di un giornale quotidiano a Catania. Per la rivista leggiamo uno schema completo e particolareggiato (il tipo di carta speciale « fa­cendolo fabbricare a posta pel formato in 18°»), la campagna promozionale «nei giornali politici e letterari», i compensi per ciascun tipo di collaborazione (articolo originale, novella, re­censione). Editore Niccolò Giannotta, direttore Capuana e re­dattore capo De Roberto: «Tanti saluti al Giannotta et bien des compliments, a Monsieur le redacteur en chef» (Mineo, 7 giu­gno 1885).

Qualche anno dopo, nel 1887, il progetto è veramente gran­dioso, ma ad alto rischio, anzi azzardato: un nuovo quotidiano a Catania. Sappiamo che in quell’anno si pubblicavano ben quat­tro quotidiani: Gazzetta di Catania, Il Corriere di Catania, Il Telefono. Eco dell’isola, Il Nuovo Gazzettino della sera-, que­st’ultimo cessava di esistere dopo una vita effimera, nel mese di maggio.

La direzione del quinto è stata offerta a Capuana che si ri­serva di accettare se sarà favorevole «l’affare della Banca», os­sia «io potrò prendere formalmente l’impegno della direzione del giornale. Trovarmi con te, Verga, Ferlito (Francesco) e Ca­latola, legati in un’impresa che lusinga il nostro amor proprio ed è anche finanziariamente piena di belle promesse, sarebbe per me un piacere straordinario, il desideratum del mio cuore». I calcoli sulla tiratura tutt’altro che fondati, anzi fantastici; an­che se Capuana concorda e rilancia: «I vostri calcoli mi sem­brano ben fondati. Tre mila copie [...]» all’inizio, e poi «[...] noi avremmo, come avete giustamente calcolato, la conquista di tre provincie e la non ipotetica prospettiva di una tiratura di 12.000 copie». Dopo un turbinio di considerazioni e di cifre un’enunciazione paradossale «Vi è passato pel capo l’idea di am­mazzare, anche per accordi, qualcuno dei giornali catanesi vi­venti? Il Corriere per esempio?» (Mineo, 31 ottobre 1887).

La prodigiosa e diversificata attività e capacità di lavoro di Capuana, degna di un forzato della penna, è notoria (possiamo paragonarlo a Honoré de Balzac, come lui «toujours harcelé par le besoin d’argent »), ma faceva ugualmente ritardare all’au­tore la consegna del manoscritto l’affastellamento di opere di­verse già in cantiere. Lo stato dei numerosi «lavori in corso» è esposto in una lettera del 14 dicembre 1884: «Appena man­dato Ribrezzo mi metterò a copiare il resto della Giacinta. Ho quasi conchiuso col Treves pel Marchese di Roccaverdina. Ho visto la edizione illustrata del C’era una volta?». Ma nei primi dell’anno, aveva già annunziato: «Oggi spero terminare Ribrezzo che mi ha dato molto da fare. Lo ricopierò subito e lo manderò per posta» (Mineo, 28 gennaio 1884).

D’altra parte solamente un Capuana vulcanico poteva con­cepire una novella «sismica»: «Ora sto scrivendo una novella sismica (un genere di cui io mi faccio il creatore, impiccati!) e la manderò al Fanfulla della Domenica» (Mineo, 6 settembre 1887). Nonostante il sovraccarico delle fatiche letterarie residua­vano tempo ed energie per altre attività e responsabilità proprie della vita civile ed amministrativa: il 25 luglio 1885 (rieletto con­sigliere comunale e ancora sindaco per un triennio, e neoconsi­gliere provinciale) scriveva al caro Federico: «Ringrazio la prov­videnziale mano del presidente della corte di assise di Nicosia che mi tirò in sorte perché io vada ad esercitare la nobilissima arte del giurato».

Vivere su un letto di angoscia è tremendo, e altrettanto an­goscioso è l’incubo della scadenza e il mancato rinnovo da par­te della banca, che chiede il pagamento di una montagna di danaro: «Sono in grandissima ansietà. Il giorno sei novembre pros­simo scadrà la cambiale rinnovata delle lire cinquemila avute per mezzo del mio radioso Aprile [...]» (Mineo, 18 ottobre 1887). Il 3 novembre successivo il miracolo non si è ripetuto «Caro Federico, è finita? Ricevo in questo momento il tuo dispaccio e rimango come fulminato».

No, non è finita! il rinnovo dell’effetto è ottenuto ancora una volta all’ultimo momento (forse con l’intervento del baro­ne Pietro Aprile di Cimia, proprietario del Corriere di Catania). E nella lettera del 29 dicembre 1887 poteva annunziare a De Ro­berto che non si interrompeva la consuetudine della lettura di un’opera appena finita agli intimi, fra cui Verga «[...] io verrò costì lunedì: che la lettura della Giacinta sarà lunedì sera, per­ché martedì c’è consiglio provinciale [...]». Visse ancora quasi trent’anni, inseguito e braccato da strozzini implacabili, da cre­ditori pressanti e da avvocati esigenti, fino alla morte avvenuta a Catania il 29 novembre 1915, pensionato dal maggio prece­dente e in attesa della pensione.

(Di Sebastiano Catalano 29 novembre 1983)


mercoledì 18 gennaio 2017

Luigi Capuana e "la politica anzitutto"


  • Ebbi rimorsi di non essermi sentito Siciliano abbastanza; di avere esagerato anch’io i difetti del carattere isolano, e di avere apprezzato equamente pregi e particolari ogni volta che, interrogato, avevo dovuto ragionare; ebbi rimorso di non aver difeso clamorosamente, e senza sciocche gonfiezze di amor provinciale, la Sicilia, quando l’avevo sentita mal giudicata o calunniata... cosa non rara purtroppo! (Capuana da L'isola del sole - proemio, Giannotta ed., Catania, 1914)



La vastissima produzione di letterato e di critico di Luigi Capuana è conosciuta universalmente (e la diversificazione in generi letterari numerosi nell'ambito di essa dà la misura delle qualità dell'Autore); meno conosciuta per taluni risvolti la dimensione politica, che il Nostro esplicò con grinta e con passione, pur con le pause degli anni vissuti a Firenze a Milano e altrove — per un trentennio, congiuntamente anzi strettamente intrecciata con l'attività letteraria.
Fu una vocazione o predisposizione, lontana nel tempo, risalente agli albori dell'Unità, se troviamo il Capuana nel maggio 1860, appena ventunenne, vice presidente del «Comitato di operazione di Mineo», insediatosi dopo lo sbarco di Garibaldi per il dissolvimento degli organi municipali (cfr. Gino Raya, Bibliografia di L. Capuana, Roma, 1969, p. 12). Il 30 giugno successivo, il presidente del Municipio portava a conoscenza del Capuana che il Governatore del distretto l'aveva nominato «Segretario Cancelliere di questo Consiglio civico». L'incarico, provvisorio, fu espletato egregiamente per tutto il semestre. L'11 agosto 1861 fu scelto dal Governatore come consigliere del comune (il Consiglio civico in questa fase non era ancora elettivo) ed invitato alla sessione che iniziava il 20 successivo (cfr. C. Zimbone, La Biblioteca Capuana, Catania, 1962, p. 62). Ancora qualche anno trascorso nel natio loco e poi l'espatrio a Firenze, dove rimase per cinque anni, fino al 1868.

Nell'agosto del 1868 (era rientrato a Mineo alla fine di giugno), la morte improvvisa del padre e «gli affari di famiglia» gli imposero di rimanere a lungo. Riprendeva i contatti con i conterranei e, in particolare, con Lionardo Vigo e con Mario Rapisardi. Nel 1870, nel corso dell'anno scolastico, dalla Giunta comunale fu nominato «ispettore scolastico municipale». Di questo incarico, adempiuto con senso del dovere, rimane il testo del lungo discorso pronunziato il 24 novembre 1870, giorno della solenne premiazione (Il bucato in famiglia, Catania, 1870, pp. 23). È questo il tramite, o il ritorno di fiamma, che lo traeva dal privato al pubblico.

Nelle elezioni amministrative, svoltesi nel corso dell'anno, venne eletto consigliere comunale: iniziava così il nuovo ciclo di attività amministrativa, al servizio della cittadinanza. Nel 1872, con regio decreto del 29 febbraio, venne nominato Sindaco di Mineo. Dopo pochi mesi il consiglio comunale fu sciolto e la gestione affidata al R. Delegato straordinario cav. Antonino Fassari inviato dalla prefettura (rimane una Relazione sulla tenuta dell'amministrazione del Comune di Mineo, Catania, 1872). Del nuovo consiglio, che tenne la prima seduta il 24 agosto 1872, fece parte il rieletto Capuana, che dopo venne nominato sindaco, sempre con regio decreto.
Le sindacature del Capuana durarono, in questa fase, poco meno di quattro anni. In una lettera («Mineo lì 2 marzo 1875») all'amico Giovanni Gianformaggio, Capuana lo informava della stesura di una relazione riguardante il periodo della sua amministrazione «Sto scrivendo la mia relazione al pubblico delle cose fatte nei quattro anni di sindacatura» (L. Capuana, Carteggio inedito, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Catania, 1973, p. 11). Le elezioni, che si svolsero nel luglio 1875, segnarono la sconfitta dell'amministrazione guidata da Capuana.
La quasi totalità dei biografi e degli studiosi sono convinti che le sindacature del Capuana furono solamente queste, specificando erroneamente la durata continua di cinque o di sei anni. Tutti omettono la sindacatura triennale dal 1885 al 1888. La testimonianza in tal senso nel Carteggio Verga-Capuana, edito da Gino Raya (Roma, 1984, pp. 274-275), ed è Capuana che in una lettera, inviata da Mineo il 9 agosto 1887 dopo il lungo sfogo confidava all'amico Giovanni: «Come Sindaco non ne posso più! ». Rimarrà in carica ancora un anno. Un cronista del quotidiano catanese Il TelefonoEco dell'Isola riferiva, nel novembre 1887, nella rubrica «Vediamo un po'», un incontro non comune. Lo stelloncino era titolato «Il Sindaco di Mineo»: « Luigi Capuana, il fortunato autore di Giacinta, è qui fra noi da parecchi giorni. L'ho incontrato al corso con Giovanni Verga» (a. I, n. 104, martedì 15 novembre 1887, p. 2).

*   *   *
Nel decennio intercorso fra le sindacature del 1872-1875 e l'ultima del 1885-1888, vi fu la fase propriamente politica allorquando il Capuana si convinse che la conquista della medaglietta fosse agevole nel Collegio elettorale di Militello in Val di Catania, che comprendeva anche il comune di Mineo. Nel primo decennio dopo l'Unità d'Italia, il collegio era stato conquistato agevolmente dal barone Salvatore Majorana-Cucuzzella. Nel decennio successivo, con inizio il 20 novembre 1870 fu rappresentato, per le successive cinque legislature, dal professore Salvatore Majorana Calatabiano, che cessò automaticamente il 13 luglio 1879 per la nomina a senatore. Questa l'occasione buona per l'inserimento (pensava il cav. Luigi Capuana).
Nelle elezioni indette per il 3 agosto 1879, Capuana ebbe due forti avversari: il barone Benedetto Majorana Ramingo, che sperava di ereditare l'elettorato di famiglia del padre Salvatore, già deputato, e Ippolito De Cristofaro dei baroni dell'Ingegno, che aveva compatti i voti degli elettori di Scordia.
Vinse quest'ultimo largamente, e il povero Capuana, buon ultimo, si dovette accontentare di appena 66 voti (su un totale di 532 espressi validamente). Le elezioni generali per la nuova legislatura si svolsero il 16 maggio 1880 e l'uscente De Cristofaro ebbe per competitore unico il Capuana che fu ancora una volta soccombente (De Cristofaro voti 421, Capuana 114). Dell'insuccesso vi è traccia incisiva nella lettera inviata da Verga pochi giorni dopo («Milano, 28 maggio 1880») «Temevo che tu fossi in collera con me, come l'amico Campi, per il fiasco elettorale»; della candidatura ampia pubblicità nel quotidiano catanese Il Plebiscito (a. 1, n. 102, del 10 maggio 1880, p. 2), che l'appoggiò calorosamente.

Dobbiamo ora considerare, e con indagine mirata, la terza ed ultima fase dell'attività politico-amministrativa di Capuana, che va dall'anno 1885 al 1892, così frenetica e convulsa nello svolgimento da meritare lo slogan «politica ad oltranza» (o, come si direbbe in Francia, «politique d'abord, tout d'abord»). Il sindaco Capuana, in sella dall'agosto 1885 è indaffaratissimo; non solo «per patrocinare il bilancio del Comune presso la Depurazione provinciale» (lettera a G. Verga del 3 dicembre 1885), ma per i nuovi pesanti obblighi sopravvenuti dal luglio '85 con la elezione a consigliere provinciale per il mandamento di Mineo. Subentrava al barone Francesco Spadaro, che era stato eletto nel 1861 e rieletto dopo per un quarto di secolo. Il cav. Luigi Capuana raccolse 214 voti e fu probabilmente presente alla prima seduta della sessione ordinaria del 10 agosto; dopo l'insediamento, fu eletto componente della 3a commissione Istruzione e beneficenza.
Ma le assenze, fin dai primi mesi, furono molto più numerose delle presenze. Aveva promesso a Federico De Roberto, in una lettera del 20 novembre '85, di occuparsi di un affare editoriale a breve scadenza «Me ne occuperò costì, appena dovrò venirci pel Consiglio provinciale». Anche Giovanni Verga sembra deluso per l'assenteismo e così gli scrive il 16 dicembre '85 «Fui sino dal Giannotta a chiedere di te, quando sfumarono le speranze di vederti in occasione delle sedute del Consiglio provinciale. Bel consigliere che fai! ». Esplicò una certa attività; nella seduta del 15 dicembre 1886 fece aggiungere due proposte: la prima «per dichiararsi provinciale la strada Fondacaccio-Mineo» e l'altra «per un sussidio all'osservatorio sismico meteorologico di Mineo» (sollecitata dall'amico Corrado Guzzanti). Dopo, negli anni successivi, le sue assenze divennero sistematiche, e sappiamo che per lunghi periodi soggiornava a Roma e nella primavera del 1888 divenne redattore del Corriere di Napoli, diretto da Edoardo Scarfoglio.

Trascorse così il quadriennio del mandato di consigliere e nelle elezioni successive, indette per domenica 27 ottobre 1889, il quotidiano Corriere di Catania, appoggiava il candidato Capuana per i suoi meriti di letterato, ma si esprimeva con cautela per il resto e con monito per l'interessato; «Quantunque dimorante a Roma il nome illustre ci obbliga a sostenerlo, e confidiamo che gli egregi amici nostri, i quali colà si sono messi in candidatura in opposizione al Capuana vogliamo ritirarsi. Del resto nella nuova legge è sancito il principio della decadenza ed ove il Capuana non rappresentasse gli elettori al Consiglio provinciale si farebbe sempre in tempo per soddisfare alle legittime aspirazioni dei cittadini di Mineo» (a. XII, n. 292, giovedì 24 ottobre 1889, p. 2).
La spada di Damocle della decadenza non turbò il nostro consigliere, che svolgeva la sua attività di scrittore e di giornalista a Roma, cosicché nei primi mesi del 1890 fu avanzata dal prefetto «la proposta di decadenza per le assenze ingiustificate alle sedute della sessione ordinaria». Essa fu posta all'ordine del giorno della seduta dell'8 aprile 1890. Parlarono a suo favore numerosi consiglieri: gli avvocati Eduardo Cimbali e Giovanni Auteri Berretta e, ancora, l'autorevole comm. Francesco Tenerelli senatore del regno. Perorarono efficacemente, sostenendo che le assenze del Capuana erano giustificate, in quanto dovute a malattia. Il prefetto Vincenzo Colmayer « custode della legge», pur non perfettamente convinto, tuttavia ritirò la proposta di decadenza.
Due anni dopo Luigi Capuana presentava formali dimissioni che furono accettate. Si chiudeva così definitivamente un ciclo di attività extra letteraria durato circa trent'anni. Si apriva un altro capitolo della vita di Luigi Capuana: aveva ottenuto dal ministro della P.I., nel novembre 1892, la nomina di professore incaricato dell'insegnamento di letterature straniere comparate presso il R. Istituto Superiore di Magistero femminile di Roma.
(La Sicilia, 29 novembre 1985) Sebastiano Catalano




sabato 12 novembre 2016

Celebrazioni per il centenario della morte di Luigi Capuana

Malìa - aspettando che qualche "buon santo" si decida a riproporla in Sicilia, volendo anche a Bologna...    :) prima che io muoia.



Celebrazioni per il centenario della morte di Luigi Capuana -Teatro Sangiorgi

- Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania - E.A.R. Teatro Massimo Bellini - Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale

"Letteratura e musica al tempo di Capuana"
Introduzione
Maria Rosa De Luca e Rosalba Galvagno
Concerto
Giuseppe Senfett, pianista
musiche di Francesco Paolo Frontini
Letture
Angelo Tosto
Catania 11.11.2016

"la storia di Malìa" Letture di Angelo Tosto


Giuseppe Senfett in fantasia per pianoforte dell'opera Malìa.



venerdì 21 ottobre 2016

Malìa


Malìa è un'opera in tre atti di Francesco Paolo Frontini, su libretto di Luigi Capuana.

La prima rappresentazione avvenne al teatro Brunetti (oggi Duse) di Bologna, il 30 maggio 1893.



Malìa ha questo grande pregio indiscutibile, di essere una fonte preziosa alla quale si può attingere, se si vuole conoscere veramente l'anima musicale siciliana, di cui Francesco Paolo Frontini è il più degno rappresentante.
Piantai un fiore nel mese d'aprile,
Nel maggio mi sbocciò rosso avvampante ;
Quel fiore siete voi, donna gentile,
Fioriste nel mio cor, donna galante.
COLA - atto I scena V
L'ultimo decennio del secolo diciannovesimo — definito per antonomasia la primavera della nuova arte musicale italiana — passa oggi quasi inosservato.

Quella certa stabilità che allora pareva dovesse conservare l'arte musicale italiana fino alla meravigliosa evoluzione verdiana, sboccò tutto a un tratto in un verismo provinciale che, secondo valutazioni errate, avrebbe dovuto essere il punto di riferimento di una nuova concezione dell'arte e quindi di una nuova estetica musicale.

L'influenza mascagniana aveva fatto passare quasi inosservato l'apice della ascensione artistica diGiuseppe Verdi, perchè il « fattaccio » di cronaca quotidiana aveva cominciato a stendere un velo di incomprensione sul significato altissimo dell'ultima parola verdiana.

La divergenza verista affiorata improvvisamente sul decadentismo ottocentesco, trovò contro la sua spinta iniziale una corrente opposta nell'impressionismo che già aveva cominciato a far capolino, riuscendo poi a travolgere anche quel po' di Wagnerismo rimasto latente, malgrado l'infiltrazione incontenibile e la base solida che si era ormai costruita in Italia.

Cosicché all'inizio del ventesimo secolo vediamo scomparire non solo la parentesi verista, ma anche il pericolo teutonico a base di leitmotiv e di pesantezza sonora.

La conseguenza fu naturalmente questa, che l'ultimo slancio di ispirazione del genio di Verdi non trovando motivo di paragone con la nuova concezione musicale dell'ultimo decennio non completamente sviluppata ma allacciandosi al giocondo spirito rossiniano, rimase senza eco, mentre la nuova corrente che faceva capo a Mascagni di Cavalleria scompariva completamente nel giro di pochi anni e con essa, venivano anche a mancare i tentativi dignitosi di Giordano, di Cilea, ecc.

Ma il periodo, per quanto di breve durata, ebbe allora frutti insperati e conserva tuttora, dopo il trapasso dei tesori nascosti.

Il verismo sulla scena aveva fatto accapponare la pelle a quella parte di pubblico italiano meno adusato alla violenza del carattere e più incline alla irrealtà sdolcinata, cosa del resto che è nella stessa essenza dell'arte musicale.

Ma nelle regioni meridionali dove l'elemento ideale è tutto intessuto di tragicità e di violenza, il verismo trasportato sul palcoscenico, centuplicava la sensazione della realtà, riuscendo a trascinare e a conquistare la massa.

E se si riflette che l'anima popolare del mezzogiorno canta per istinto, per natura, per necessità dello spirito, ben si deduce che un'arte basata su elementi melodici, folkloristici e passionali è forse l'unica che risponda alla comprensione di quel popolo.

Arte regionale, ne conveniamo pienamente, ma arte nel senso assoluto della parola, arte che sa scegliere i sentimenti più reconditi, che sa dire una parola propria, che sa trascinare.

Pensavo a tutto questo rileggendo quel mirabile finale, secondo di Malìa la bella opera di F. Paolo Frontini, la scena cioè in cui tutti gli elementi tragici, passionali, idealmente amorosi e superstiziosamente violenti, culminano nella maledizione estrema al simulacro della Madonna, trascinato sotto le finestre di Jana dal popolo devoto.

Grido infernale e di dannazione, schianto angoscioso di follia insana contro la fede immensa che sovrasta sul cuore dei popolani, muti dinanzi al mistero della Divinità.

Scena di verismo crudo, brutale, che è però fatale conseguenza di passione soffocata, annientata dalla inesorabilità del destino, che si accanisce contro un'anima fragile, sensibilissima.

La musica coglie appunto il senso più dolce della tragedia umana e descrive il tumulto delle passioni in un canto che si snoda a sussulti e a singhiozzi e a frasi larghe di disperazione e di violenza in cui però predomina sempre il cuore.

Il popolo siciliano è unico nell'offrire questo strano contrasto di dolcezza tragica e violenta !
C'è forse bisogno di ricorrere al pletorico, all'assordante, a tutti i mezzi di cui dispone la scienza per descrivere il dramma che si compie in un minuto?

L'anima siciliana si ribella alla confusione: semplice, lineare, tanto nell'intrecciare un idillio quanto nel concludere una partita « d'onore », ha bisogno solo di chiarezza e di comprensione.

L'arte deve essere la sua, i canti devono essere i suoi, l'espressione deve dire tutta la forza del sentimento che si nasconde nel cuore per il quale sentimento non ci sono finzioni, ne restrizioni, ma deve svolgere puro e semplice Verismo.

Ecco perchè il fortunato tentativo mascagniano di portare sul teatro di musica il rapido dramma diGiovanni Verga trovò salde e profonde radici nel mezzogiorno, dove parve sollevare d'un tratto un'ondata di passione ardente.

Ma la concezione frontiniana, se si riallaccia per un momento al tentativo verista, si distacca profondamente, come essenza e come idealità, da tutto ciò che di caduco e di convenzionale si trova inevitabilmente in questo genere.

Per capir questo, bisogna partire da un punto di vista completamente diverso di quello di coloro i quali trovarono una facile via di ispirazione in una espressione artistica, che sembra a prima vista accessibile anche ai più refrattari.

La descrizione della vita vissuta e l'estrinsecazione dei sentimenti che si agitano, può suggerire è vero, mezzi facili di espressività artistica ma trascina spesso al convenzionalismo volgare e insufficiente per assurgere a dignità di arte; convenzionalismo del resto, che rimane confinato in un vicolo cieco senza speranza di espansione e di conquista.
Ma nell'arte di F. Paolo Frontini, oltre alla sincerità evidente di una ispirazione non contagiata da influenze discutibili, abbiamo elementi tali di coloriti regionale e slanci di passionalità tutta siciliana, da farci considerare la sua Malìa non alla stregua di altre opere dello stesso genere ma, presa isolatamente, come il prodotto più spontaneo di un'arte tipicamente genuina.

La semplicità dei mezzi di espressione è la sola che potesse mettere in rilievo tutta la forza di ispirazione, che si rivela in una linea ininterrotta di melodicità veramente sentita; l'elemento folkloristico, di cui è tutta imbevuta quest'opera d'arte aggiunge al pregio della spontaneità un valore intrinseco come esempio tipico di arte regionale, e il dramma della superstizione e dell'amore accentua quel senso di umanità che sulla scena ogni tanto non fa male.

E' inutile cercare nella musica di F. Paolo Frontini la dissertazione, la ricercatezza studiata, la pedanteria accademica, la confusione, la stiracchiatura fatta coi denti.

Tutta la sua produzione, dai piccoli componimenti per pianoforte all'«opera», reca un'unica impronta.

La fonte di ispirazione è una sola, come unico diventa il mezzo di tradurre in espressione sonora il senso ultimo della propria spiritualità.

Il tragico e l'idilliaco sboccano sempre in frasi melodiche che traducono l'affanno e la calma. 
La concitazione è melodia, come è melodia l'amore. I sussulti nervosi, isterici, non diventano pesantezze armoniche o pletoricità orchestrali: contrasterebbero non solo con la natura dell'artista ma sarebbero in contraddizione col folklore siciliano.

Malia, nella sua veste semplice e tipica trascina alla meditazione e, per chi sente scorrere nelle proprie vene tutto il calore del sangue generoso, par che il profumo di zagara si espandi nell'aria come per mitigare la nausea della caducità delle cose di questo mondo.
Ma c'è l'ammonimento severo, ed è questo, che se l'arte di Scarlatti o di Vincenzo Bellini diventò arte nazionale, anche l'opera folkloristica può offrirci un motivo di evoluzione e un modello sincero di espressione spirituale popolare.

Se non fosse per tutto quanto e stato detto avanti, Malìa ha questo grande pregio indiscutibile, di essere una fonte preziosa alla quale si può attingere, se si vuole conoscere veramente l'anima musicale siciliana, di cui F. Paolo Frontini è il più degno rappresentante.

Nella evoluzione che si compie ineluttabilmente, soltanto l'oblio è imperdonabile nelle cose belle



sabato 17 gennaio 2015

«Scapigliatura Catanese» di Gesualdo Manzella Frontini

Eravamo di quella generazione irrequieta, che aveva esercitato gli spiriti bollenti sotto il Consolato Austriaco, gridando « Viva Trento e Trieste » e cantando l'inno a Oberdan s'era fatta piattonare  dalle daghe dei questurini.

Generazione segnata dal destino per due guerre.
Fu proprio nelle vacanze che precedevano l' ingresso all' Università che il gruppetto iconoclasta sopraggiunto dalle smanie volle concretare la sua azione, confidando ad un giornale tutte le speranze e le certezze di un rinnovamento.
Tre matricole e un paio d'irregolari, e c' era un  anziano studente  di filosofia.
Vacanze torride dell'agosto siciliano, anzi catanese, così che alle scalmane letterarie dava vital nutrimento la calura del lastricato lavico del Corso Stesicoro fluido tra i vapori, e dissolvetesi lontano l' Etna.
Avevamo sulla coscienza tre o quattro giornali letterari e un mucchio di debiti con tutti i tipografi, e scantonavamo con apprensione all'odore dell'antimonio, pur avendo rifilato con dignità e cuor trepido ai genitori le note insolute del nostro primo  assalto  alla  gloria.
Tempi di preparazione e di orientamento verso una cultura più vasta, e d'insofferenza per ciò che andava deteriorandosi del tramontato ottocento. Diane vaghe, con programmi ancora in fieri, ma si attaccava la vecchia cultura e il vecchio mondo.
Le nostre aspirazioni si polarizzavano verso Firenze. Il «Leonardo», Papini, il pragmatismo, le questioni sociali : le distanze ingrandivano i fatti e gli uomini, quaggiù ci sentivamo spaesati e senza destino. I colleghi universitari che ci avevano preceduto di tre o quattro anni si erano composti e addormentati nella polemica Carducci-Rapisardi, che noi consideravamo ormai superata, e ci lasciava indifferenti. 
E infatti deposto il berretto goliardico, s'era visto che di quei propositi audaci non restava che il desiderio di collocarsi, anche a tradire, al canto del gallo.
E quando si era saputo che il Rapisardi lasciava la cattedra si direbbe che si era provato un certo chiuso compiacimento. Del resto la facoltà di lettere era in quel tempo fra le più salde e quotate : 
Carlo Pascal, Ettore Romagnoli, Paolo Savj-Lopez e poi, onore grande per noi letterali, l' assunzione di Luigi Capuana a maestro di stilistica e lessicografia. Una cattedra come un'altra, ma l'orgoglio di poter sentire la parola di uno scrittore vivo e vegeto, che la generosità di un Ministro aveva cercato di strappare alle incertezze di una vita precaria ci strinse attorno al Maestro  benigno e sorridente.
Il « Circolo Artistico » era il nostro covo. Fra gli insegnanti della vigilia liceale, colta gente compassata e tradizionalista, e noi pochi reprobi si stabilirono relazioni di generosa simpatia da quella parte e di ossequio ironico da parte nostra.
Qualcuno di noi aveva già lanciato un volumetto ribelle, fin nel titolo, dai banchi del liceo, « Novissima » semiritmi, con la certezza di far dispiacere ai professori, mentre poi aveva dovuto subire una affettuosa e commossa paternale sulla intemperanza, le imitazioni, gli echi abbondanti ch'erano  nel libro incriminato.

E intanto Giovanni Verga, al quale, arrossendo, facevamo tanto di cappello, passando davanti al « Circolo Unione » aveva propinato l' elisir delle più folli speranze al giovanetto audace, che osava dedicargli un suo volume di novelle anticipato da una prefazione che annunziava il crollo di tutte le tradizioni e di tutte le regole e la rivoluzione più interessata e inesorabile della sintassi. Vale la pena di trascrivere la lettera illuminata dal grande sorriso di quel galantuomo fine e ironico.

Egregio Sig.  Manzella, La  ringrazio del volumetto che ha voluto mandarmi  « per   un   giudizio »   ma io non  mi sento vocazione nè veste di giudice, e men che meno dopo quel po' di roba che dice avanti « ai miei critici ». Senta, per quella simpatia che mi ispira il suo ingegno di cui dà in queste prime novelle una magnifica promessa — glielo dico subito — nelle illusioni dei suoi vent'anni ci son passato anch' io — e anche per la simpatia che Ella mi dimostra dedicandomi una di queste sue novelle, lasci stare i titoli e sottotitoli violenti, le prefazioni gonfie e vuote — ne ho anch'io sulla coscienza — i propositi fatui di rinnovazione e di resurrezione, e lavori, e faccia e rifaccia con gelosa e incontentabile autocritica. Ella è giovane, beato lei, ha dell'ingegno, e può fare. Questo glielo dico un po' bruscamente forse, e forse pei intonarmi allo stile della sua prefazione, ma sinceramente, e badi che non faccio complimenti, e il lieto pronostico che faccio a lei non fo a tutti. Così la mia franchezza anche sgarbata, le si mostra più sincera e le farà piacere. 
Buon augurio a lei  G. Verga.

Figurarsi. Il giovanetto, che slittando sulle sferzate del Maestro, si adagiava, compiaciuto, sulle parole buone, dettate certo dalla cordialità dell' artista arrivato, s'era collocato capo gruppo.
In quella lettera del Verga c'era stato indubbiamente lo zampino del Capuana, che se amava quel trio di scapestrati ribelli, fedelissimi uditori e appassionati delle sue lezioni, di tanto in tanto, se l' occasione si dava, non risparmiava qualche stretta di martinicca.  Tant'è i tempi stringevano e bisognava bruciare le tappe. Il giornale ci voleva.
E una sera, il giovane fu incaricato di redigere un manifesto ch'egli indirizzò « alla gioventù contemporanea e agli artisti giovani». Bisognava parlare chiaro e forte, rompere il sonno agli indolenti, menar le mani, lanciar sassi, non importa se taluno senza indirizzo preciso. Anche a Palermo c' era odor di battaglia. A Messina si era lavorato di lena già qualche anno prima con la rivista « Ars Nova » ove collaboravano giovani preparati solidamente, acuti e aggiornati. Fermento, ch'era in fondo, il sintomo di quella nuova Italia che si annunziava in crescenza portentosa, dopo l'equivoco torpore del passaggio inavvertito del secolo giovane sul vecchio. 
Strabiliati i professori, ch'erano stati chiamati — i nostri vecchi professori del liceo — a fiancheggiare l'opera dei giovani, ma che in realtà avrebbero dovuto, paziente milizia in borghese, impedirci audaci sconfinamenti.
Il manifesto ne uscì stroncato, mutilato, scapitozzato, roba da far pena. Noi ci vendicammo facendone stampare un'edizione ufficiale per tranquillizzare gli spiriti diffidenti di taluni amministratori del « Circolo Artistico » e risparmiare la dignità e l'onorata divisa dei nostri ex-professori; e un'edizione alla macchia che ci affrettammo a lanciare fra gli amici e i conoscenti della Penisola, mentre qualche copia riservata veniva fatta scivolare nelle tasche degli accoliti e dei novizi, che guardavano a noi come a gente di gravi propositi. Il manifesto s'infiorava di simili frasi:
« Parta dalla terra del sole, dalla città ardita sotto l'incubo del minaccioso possente ubero di fuoco, o fratelli giovani, dispersi fra le ruine d' Italia, la voce di rinnovamento»; affermava la necessità di « risvegliare le virtù della razza » e si proponeva « senza preconcetti, scuole, formalismi, di seguire l' istinto vergine da ogni tocco d'imitazione». «Noi siamo la vita e il futuro, oltre ogni teoria per un fine di rinnovamento: noi  rechiamo in noi l'avvenire».
A Luigi Capuana fu fatto leggere il manifesto stampato alla macchia, l'edizione integrale. 
Il Maestro parve perplesso. Forse in cuor suo si doleva di talune contingenze di carattere pratico, per le quali non aveva accettato la direzione del periodico «Critica ed Arte», che poi durò un anno e che nell'ordinamento e nel carattere programmatico, specie nei primi numeri, fu il giornale più aderente alla famiglia di cui era il rappresentante : disaccordo dichiarato, profondo, congenito, simpaticamente incongruente. Atteggiamenti e pezzi prefuturisti fra articoli e novelle barboge, talvolta  mattoni   eruditamente  deprimenti,  poesie di Tommaso Cannizzaro e folgorazioni  stellari del Marinetti.
Frattanto, era nata la « Voce » e con più scaltri aggiornamenti e con più diretti contatti si aggrediva da ogni parte la resistenza passiva dei detentori di quella cultura che si esauriva in sè stessa, senza mete, senza ideali. Per qualcuno di noi però tutto ciò aveva importanza fino ad un certo punto, che ritenevamo 1' arte dovesse rimorchiare o almeno aprire la via alla politica, e non farsi rimorchiare.  Il giornale era morto.
Ed ecco improvviso sul nostro cielo teso nella stanchezza, grave sui nostri spiriti (propositi di evasione scoppiavano qua e là definitivi) guizzare un giorno il fulmine futurista. Marinetti da Parigi lanciava il suo Manifesto e voleva uccidere il chiaro di luna.
Quella sera ci trovammo tutti, e l'autore dell' appello « alla gioventù contemporanea e agli artisti giovani » ebbe il suo quarto d' ora di rivincita. Sembravamo impazziti. Conoscevamo Marinetti. Egli faceva sul serio, e chiedemmo d'essere con lui e ci affidammo alla sua sapienza tattica e al suo impeto, che ci sapeva del vulcano poderoso, il quale avevamo chiamato a testimonio delle nostre intenzioni e del nostro programma distruttivo. Marinetti rispose con una lettera, che oggi ha un interesse documentario, che narra un programma realizzatosi nella storia.
« Caro Collega, ho trovato nel vostro invito agli artisti giovani e alla gioventù contemporanea un fervido e magnifico grido di riscossa, genialmente lanciato alle forze virili della letteratura, perchè esse si manifestino « senza scuole, preconcetti e formule, seguendo l'impulso vergine d' ogni tocco di imitazione » : questo è infatti uno degl'impulsi che hanno prodotto il nostro Movimento Futurista, ma non la sua essenza distruttiva e ascensionale, che non abbiamo inventata nè voi, nè io, come nessuno ha inventato — permettetemi lo scherzo — le instancabili forze vulcaniche che screpolano la vostra Isola divina. Io  mi sono accontentato di dare la formula esplosiva e incendiaria di un ammasso di sorde rivolte, di nause profonde, di disgusti feroci contro il culto del passato, l'impero dei morti, la tirannia dei professori, dei politicanti astuti, pacifisti e conservatori. Il futurismo non è altro che una parola facile e leggera da sventolate dovunque il genio creativo trionferà delle strettoie scolastiche, dovunque il sangue irruente sarà sparso prodigalmente per una idea ; dovunque si lotterà senza paura per distruggere quotidianamente tutto ciò che agonizza in noi, per meglio abbracciare l'irruente futuro. Senza paura, dico, senza guardarci alle spalle, camminare, correre velocissimamente nella polvere  dispersa dei nostri morti. Senza paura, dico, poiché l'Italia è disgraziatamente ancora un paese di vigliacchi, di uomini seduti in poltrona a sognare, o a collezionare francobolli. Disprezzo del passato, libertà assoluta a tutte le follie, a tutte le ebbrezze del sangue ; tutti i diritti alla gioventù, e, ai vecchi, soltanto quello di morire. Ecco il programma che il nostro sangue c' impone ! La guerra, presto ! Domani, speriamo; contro l'Austria, naturalmente, poichè da tempo siamo infastiditi dalle sue insolenti gomitate!... La guerra, poichè tutto infradicia, si avvilisce e si mummifica nella pace!... La guerra, con la immensa fiammata d'entusiasmo, di disinteresse e di eroismo, coi suoi crolli, con le sue rovine, con la sua congerie di prudenze calpestate, di legami infranti, di esistenze capovolte. Futurismo vuol dire ancora : liberazione dai rancidi sentimentalismi che appestano la letteratura, liberazione dalla tirannia dell'amore, che schiaccia e  falcia  le  migliori  forze  dei  popoli  latini.
Come vedete, nulla ho inventato: ho semplicemente espresso in una forma violenta le idee che ribollono nella migliore parte della gioventù italiana. In Italia, dove non si fa, ahimè, che del personalismo, disprezzando i pensieri degli uomini, per non giudicarne che le facce, gli abiti, e la borsa, il Futurismo fu accolto da un uragano di insolenze, accusato di bluf, di reclamismo ad oltranza. In Francia, invece, in Inghilterra, nell'America del Nord e nel Giappone il Futurismo fu salutato da una salve di applausi, suscitando discussioni e controversie che ne assicurano ormai il trionfo. Questo tenevo a dirvi, caro collega, per la simpatia che io nutro per il vostro ingegno novatore, e per le alte idealità che ci sono comuni. Vostro  Marinetti
Prima di questa lettera c'era stato un momento di perplessità avvilita, ma poi vinse in noi l'impetuoso temperamento siciliano. E cominciò lo scambio ininterrotto torrenziale di corrispondenza fra il giovane e l'Apostolo.
Catania   divenne   stazione collegata d'irradiazione futurista. I bombardamenti marinettiani esaltanti l'originalità l'ingegno il coraggio dell'isolano seguivano   agli   articoli   a  catena,  che  dal quotidiano della città spazzavano finalmente, lanciati a serie, l'aria morta e suscitavano curiosità; interesse, irrisione  e  perfino  un duello. Cari giorni indimenticabili in cui si viveva per mille, nella illusione di vedere crollare il vecchio mondo fra le convulsioni. 
E all'Università che cosa avveniva?
Molti  colleghi   vollero  dignitosamente  dimostrare il   disappunto,   fischiando   il   Futurista, e furono battuti dal  gruppo esiguo, e non soltanto metaforicamente. Marinetti prometteva una sua prossima visita :  bastava  questo per esaltare il collega lontano  —  che  fra  l'altro anche gli amici si dissipavano:   la   vita   diventava   impossibile.   Questo mio   vecchio popolo catanese, satrapo di tante civiltà, esperiente e ironico, quando non esalta irride. Ma era bello restar solo, disdegnoso: adorno zavorra. E finalmente scoppiò l'ultima bomba che sconvolse molte posizioni avversarie.
Il propagandista instancabile,  che attendeva la visita della pattuglia futurista nel suo paese, ov'era quasi solo a difendere,  sentinella  morta,  il movimento, osò una sortita in campo nemico con un audace mossa tattica, servendosi di un mascheramento, che proteggeva moralmente  l'avanzata.
Si era pubblicato allora allora  «l'Incendiario » del Palazzeschi,  ed ecco sulla terza pagina del quotidiano un articolo dedicato a «Luigi Capuana, sempre giovane» .  Il Maestro aveva infatti talune idee personalissime sulla funzione stimolatrice e quasi  precorritrice  della critica.
Pochi giorni dopo con grande meraviglia dello stesso autore dell'articolo, perveniva al giornale, col nulla osta per la pubblicazione, la lettera che pubblichiamo, quasi integralmente, e della quale il Marinetti fu entusiasta.

« Caro Manzella Frontini. Voi lusingate gentilmente la mia vanità chiamandomi in pubblico «sempre giovane». Grazie. Mi avete fatto ricordare di quando ero giovane davvero e un po' ribelle, come e quanto poteva permettermelo la mia indole tranquilla, alquanto scettica nonostante gli entusiasmi che mi spingevano a lavorare. Se ora l'età mi consiglia di tenermi in disparte, il ribelle di di una volta si compiace però di stare a guardare e ad ascoltare quel che fanno e dicono i giovani vostri pari; e soltanto il timore di sembrare ridicolo, come tutti i vecchi che hanno la velleità di mostrarsi galanti a dispetto degli anni, m'impedisce di mescolarmi alle vostre discussioni e di manifestare quel che penso intorno alle opere, versi e prosa, che le traducano in fatto.
Ma nell'intimità di questa lettera di ringraziamento posso prendermi la libertà di dirvi che la notevole spiegabilissima esagerazione del loro programma non m'impedisce di approvare nel giusto valore i Futuristi. Se avessi cinquant'anni di  meno,   mi  dichiarerei  uno  di  loro.
E evidente che essi chiedono cento per ottenere almeno venti ! Sono giovani di grande ingegno: e se fanno un po' di chiasso, questo dimostra  che intendono il  loro  tempo.
In un certo modo il Manifesto del Futurismo mi sembra una fierissima satira al pubblico distratto e alla pedanteria che vorrebbe continuare a baloccarlo con le vecchie formule retoriche, classiche o romantiche, non significa niente. 
Che Marinetti e i suoi amici siano dei matti da legare è tale enorme sciocchezza da non potersi attribuire saviamente neppure ai loro oppositori, Marinetti è un raro poeta, un fortissimo artista. Chi ha scritto « Roi Bombance » e « La ville Charnelle » dev'essere preso molto sul serio.
Buzzi, Cavacchioli, De Maria, Palazzeschi e gli altri, chi più chi meno, han dimostrato di voler tentare nuove vie, e fan prevedere che, presto o tardi, sbarazzandosi facilmente dell'esuberanza - chiamiamola così - giovanile, daranno geniali e notevoli frutti di arte elevata e sincera.
So che Marinetti e i suoi apostoli verranno a Palermo e, forse, a Catania. Credo che da noi non avverrà la indecente gazzarra di Napoli e di altri posti. 
Chi non combatte idee e uomini per partito preso, dovrebbe cavarsi il cappello davanti a questi coraggiosi giovani che hanno cultura ed ingegno da vendere. E, dopo tutto questo, lasciatemi invidiare la vostra  reale giovinezza.
Cordialissimi  saluti dal vostro
Aff.mo  Luigi  Capuana

Lo sbaraglio fu completo fra gli universitari, la vittoria passò ingagliardendo i tiepidi e convinse perfino coloro che per temperamento non avrebbero mai piegato il capo carico di morte formole  e  di sorpassati pregiudizi. La lettera del Capuana fu riprodotta dal Marinetti in migliaia di esemplari e divulgata in tutto il mondo.
Il lievito spirituale di quel movimento già dava sul suolo di Tripoli quella prodigiosa fermentazione, che sarà più tardi evidentissima nella falange del  volontarismo futurista del  '15.
G. Manzella Frontini

* Tratto da Catania rivista del comune 1955 - articolo gentilmente offerto da Teodoro Reale.







lunedì 24 febbraio 2014

Manoscritto di Luigi Capuana, da Saghe & Seghe col senno e con la mano. 1887

All'antica e gloriosa tradizione del genere comico-realistico è ascrivibile il gaio libello, ideato come gioco privato, di Luigi Capuana, Federico De Roberto e Francesco Ferlito, Saghe & Seghe col senno e con la mano, edito su carta pregiata, in soli quattro esemplari, «autograficamente numerati & firmati», uno per ciascun autore ed uno per il munifico editore-stampatore Michele Galatola, di cui residua soltanto il secondo che ora si pubblica. Un cimelio bibliografico che può a ben ragione definirsi «unico». Scaturito dalla mai sopita propensione alle burle di Capuana cui inaspettatamente si associava la complicità derisoria e ironica di De Roberto e del serioso avvocato Ferlito, il «sublime volume» è da leggere come evasione intellettuale dei tre sodali (cui certo non mancava lo spirito salace dei siciliani dell'area orientale), gioiosi d'impegnarsi in una sapiente birichinata alla Rabelais, destinata a suscitare ilarità segrete e compiaciute. (Sarah Zappulla Muscarà)


Saghe & Seghe
L. Capuana, F. De Roberto, Francesco Ferlito

 manoscritti inediti - per ingrandire cliccare

AI   TRE,   IL   QUARTO.

Dunque che fate?
Ve lo menate ?
Nulla stampate,
Nulla mandate !
O ve ne state
Come d'estate
Le sciagurate,
Moltiplicate,
Cicale aurate
Sotto le ombrate
Rame sacrate
D' ulivo ?
Andate !
Non meritate
Che riceviate
Epistolate ! Però sappiate
Che mie giornate
Non son passate
Senza volate
Ver le lasciate
Cataniate
Spiagge bruciate.
Ahi! Sospirate
Con iterate
Brame, ho cercate,
0 mareggiate
Spiaggie, le andate
E le tornate,
Con scarrozzate,
Per le sfilate
Dalle innovate
Vie riboscate
E allineate.

Ho invan cercate Le riposate All' ombreggiate E statuate E pitturate Sedie villate, Quando udivate, Ombre fidate, Le addottrinate Nostre parlate, Spesso sporcate Da ricordate Belle chiavate! Oh Ferlitate, De Robertate, Galatolate, Capuanate ! Volteggiavate Come iridate Farfalle nate Nelle irrorate Siepi frondate!
E voi,  cantate Delle ammirate Figlie ignorate Nidificate Nelle siepate, Rispondavate Alle scapate Nostre risate Con gorgheggiate Ben musicate Perrotteggiate !
Deh, mi lasciate!

Deh, non seccate Le prolassate Mie cordonate, O desiate Belle giornate ! E voi, rimate Epistolate, Laggiù volate; Le addormentate, Triumvirate Genti svegliate; Gridate, urlate, Coi piè pestate, Bestemmiate, Finché stampate Voi non vediate Quelle cazzate Intitolate Saghe segate Tanto aspettate ! Ed annunziate Che d'illustrate Raffaellate Saranno ornate, Qui preparate Con impensate Arti : e annunziate Che, terminate, Le rime in ate Con birbonate, Le addormentate Triumvirate Genti lasciate Insalutate.

***


L'ARTE
Sonetto Liminare
All' Illustrissimo neo-novelliere sciccoso Signor de Roberto (Federico).

O Federico, l'ideal che ride 
Al monocolo tuo serenamente, 
Tanto spazio di ciel da te divide 
Quanto non puote misurar la mente.

Eppur ansio l'affissi, e non s'elide
La tua speranza nel fallir sovente ;
E il raggio che in quel vetro si divide    
Ti si rifrange in cor potentemente.

Beato te che l'Arte ancor lusinga
Coi maliardi suoi fantasmi! Al mio    
Stanco cervello tanto ben si niega.

Ben verrà dì ch' anche per te si tinga 
Di nero quel fulgor, luce di Dio....        
L'Arte dunque che è mai?.. L'arte?.. Una sega!


Scritto il 1° Giugno 1887 nell' Albergo Musumeci in Catania, dopo aver pagata la nota salata dell'albergo {circostanza attenuante) Luigi   Capuana
N. B.—L'autografo inestimabile fu consegnato allo sciccoso novelliere dallo stesso archeologico Autore, come testimonianza di affetto, di rispetto, etc, etc, etc.


Altro:

La Morte di Giovanni Verga - di Federico De Roberto