Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

lunedì 23 marzo 2015

"Un santuario domestico" - Commedia rappresentata per la prima volta il 15 luglio 1893 - di Mario Rapisardi





Questa commedia, che aveva per titolo : La famiglia del signor Teofilo,(Col nuovo titolo Santuario domestico e riveduta di forti ritocchi, fu pubblicata nella « Rassegna Moderna » di Firenze, maggio-giugno 1899)  venne rappresentata per la prima volta la sera del 15 luglio 1893 dalla compagnia Pietriboni nel teatro Nazionale di Catania; e fu ripetuta per cinque sere di seguito.
Superfluo ricordare il pienone di quella prima recita e la festa del pubblico agli attori e all' autore che venivano a ogni fine di atto rievocati al proscenio; sebbene l'autore a quell' ora stava a letto, tranquillamente. Taglierini fatti in casa ? Forse. Peraltro, la commedia data dagli stessi attori fu ben accetta al pubblico di Messina e di Bari.
Quando la compagnia Paladini—Talli la rappresentò alla Commenda di Milano la sera del 19, agosto, l' esito parve contrastato. Al Valle in Roma, poi, il 28 novembre, com'era da   prevedersi, la commedia  ebbe   il tracollo. E qualcuno, gongolante, scriveva in un foglio romano: " Il pubblico, quello che c' era , rado , ma di buona volontà, urlò, fischiò, gridò: basta,,. Se non che il " pubblico „ non è la combriccola, tanto meno la plebe assoldata al solo fine di fischiare o di batter le mani in teatro, a seconda i casi.
In ogni modo , non tutta la stampa allora si mostrò benevola alla commedia del Rapisardi: anche prima che questa venisse portata sulle scene, essa tenne una condotta deliberatamente ostile. Già, mentre che alle cantonate di Catania si leggeva l'annunzio della prossima rappresentazione, i fogli locali quasi lutti tacquero : i corrispondenti dei vari giornali di fuori si divertivano a snocciolare sciocchezze, riservandosi, a commedia finita, il diritto di votare il sacco delle insolenze.
A sentire i giudizi dei giornali d'allora, c'è da strabiliare a dirittura.
Diamo fugacemente una scorsa.
La Sera di Milano del 19 luglio ha da Catania: " La famiglia del signor Teofilo è una commedia in 5 atti brevissimi, la cui forma è semplice spigliata naturalissima „. E il corrispondente, dopo d'aver fatto a modo suo il riassunto della commedia, conchiude: " In complesso, un pasticcetto insipido, ad onta della forma accuratissima „. Però il critico ufficiale dello stesso foglio, quando la commedia fu data a Milano, scriveva in data 20-21 agosto: " Si può anzi affermare che l' autore si deve esser sforzato ad evitare in tutto il lavoro quelle situazioni che avrebbero potuto forzare l' attenzione del pubblico con l'effetto della condotta scenica. Restava quindi all'autore una unica via, lo studio dei tipi ; ed è appunto a codesto che egli si è attenuto. E in parte è riuscito. Il sig. Teofilo, la sig.ra Eufemia, il marito di Adele sono tre tipi profondamente studiati che risaltano dal fondo del quadro , e dei quali è impossibile non ammirare la buona fattura. Data la base su cui il Rapisardi ha eretto il suo edificio, nulla di più vero , di più assolutamente umano di quei tre ignobili individui... E questi tre tipi sono altrettante miniature finissime, che si possono o no applaudire , ma che si è costretti ad ammirare „.
Eppure, la Tribuna del 24 novembre è dì parere contrario , e sentenzia : " Per fare l' Aristofane bisogna anzitutto esser sereni come lui. E proprio al Rapisardi manca la serenità. Aristofane era un grande artista, aveva dello spirito, creava dei tipi, faceva delle commedie,,.
Già il Diritto del 20 luglio aveva fatto in anticipo queste malinconiche riflessioni : " Auguriamo all'illustre scrittore buona ispirazione e buon successo ; ma non nascondiamo che l' entrata nella palestra teatrale di ingegni vigorosi i quali hanno esaurito la loro fantasia in altre forme dell' arte, non c' ispira che una mediocre fiducia. Essi porteranno forse in teatro delle idee — e ciò è utile—ma sarà una rara fortuna se riusciranno a mettere insieme delle commedie possibili „
Con più schiettezza, se non con più dialettica, si esprime il redattore dell' Imparziale di Messina del 3-4 agosto : " Tutti coloro che hanno a cuore la gloria del Poeta sperano che questa commedia data dal Pietriboni rappresenti né più né meno una buona azione, e le buone azioni vanno dimenticate „.
Proprio così: né più né meno!
A conti fatti, si direbbe che i signori critici qualche volta non sanno neanche loro stessi che cosa vogliono e che cosa scrivono.
*
Ma il mal animo verso l' autore si spiega facilmente.
Come si sa , il nome del Rapisardi è sonato sempre condanna a ogni ingiustizia, a ogni volgarità, a ogni menzogna: il Poeta con la sicurezza che gli dava la coscienza intemerata, con l'occhio fiso a un ideale sublime, giudicando gli uomini del suo secolo, sentiva di compiere la sua missione di poeta civile, e poco si curava delle loro piccole ire. Or, giusto in quel tempo che la sua commedia si accingeva a fare il giro dei teatri d' Italia, si stampava l' Atlantide. Già qualche cosa si era venuta apprendendo circa il contenuto del nuovo poema, col quale l' autore intendeva flagellare e cacciare i mercanti dal tempio, mentre che con la commedia osava penetrare nella santità del loro focolare domestico. Naturale che, allora  più che mai, il personale risentimento della gente magagnata doveva trovare uno sfogo. Così, dopo la pubblicazione dell' Atlantide , l' inevitabile insuccesso della commedia a  Roma.
I criccajuoli dovettero certamente cacciare dal fondo del cuore un eroico sospiro di soddisfazione. Non ultimo quel della Tribuna, il quale ebbe a ricordarsi che dodici anni prima aveva avuto negato dal Rapisardi l' ambito lauro di poeta, a mal grado del suo " affetto grandissimo ,.. Egli era per la seconda volta vendicato.E potè largamente scodellare nel suo foglio tutto quel ben di Dio, non peritandosi di falsare sinanco il titolo della commedia: Il signor Teofilo !
Ma, la famiglia del signor Teofilo veramente l'autore ha voluto presentare sulla scena,
C è riuscito ?
È appunto questo che bisogna indagare.
*
Già dal titolo si rileva abbastanza il contenuto, o meglio, lo scopo della commedia, scopo altamente morale: " una carica a fondo contro la famiglia borghese, covo di ogni turpitudine legale, che col nome e il prestigio di santuario domestico pretende di essere intangibile e sacro „.
Ecco. Il sig. Teofilo , vecchio usuraio che per accrescere la sua casa, sicuro dell 'aiuto del buon Dio, usureggia al cento per cento e dà in prestito al giornalista Giuliano quattromila lire, inducendolo a falsificare la firma del padre, ricco; non manca anche di corrompere i professori perchè passi all'esame il suo figliolo imbecille o sbuccione, il quale volentieri studia.... con la cameriera, con quella cameriera a cui egli, sebbene vecchio, fa la corte e regala dei gingilli. Con tutto ciò, egli non vuole assolutamente che succedano scandali, che comprometterebbero la pace del suo santuario domestico.
E questa è anche la preoccupazione di sua moglie, la signora Eufemia, donna, savia e prudente: salvare le apparenze. Essa nella sua gioventù ha saputo far sempre le cose per benino, giacché per lei sia appunto in ciò l'arte l' ingegno la dottrina e la virtù di una donna a modo. Sicché dopo trent'anni di matrimonio, ella può dire che la sua " reputazione, grazie al cielo, è senza macchia „. E vorrebbe che la figlia Adele seguisse il suo esempio, contentandosi della sorte: poco importa se essa non aveva trovate nel marito l' uomo dei suoi sogni.
Ma la figlia invece, pur essendo stata educata in collegio, è una aperta ribelle: si mostra imbevuta di idee moderne ; parla di emancipazione, discute anche troppo, sebbene rettamente. Vorrebbe che " la donna potesse disporre di sé come l' uomo, che fosse posta in condizione di potere svolgere tutte le facoltà che la natura le ha dato; e non esser costretta ad assuefarsi al matrimonio, come a vangar la terra, a portar una croce, a vivere nell'ergastolo „.
In verità, il marito avvocato Benintendi, che un tempo era stato l'amante della suocera, non è più giovane: ha quarantacinque anni; è sazio della vita; mentre la moglie è appena ventenne ed è assetata d'amore. Se egli trascura i doveri coniugali, sa però, da uomo pratico, far bene i suoi conti. Son prossime le elezioni politiche : è conveniente accettare una candidatura : poiché, " quando non si è più giovani e la vita non ci sorride più, i pazzi si uccidono, i volgari si ubbriacano, i savi si buttano alla politica ,.. E poi, come avvocato , non sente il rimorso di aver opinioni, né ha " la malattia degli ideali ... Fiuta il vento. Sa che " quando si afferra una deputazione, i clienti crescono qualunque ne sia il colore „. Finisce col darsi al partito dell'ordine. E già si costituisce in casa sua il comitato: il giornalista Giuliano mette a disposizione il suo giornale.
In questa occasione l' Adele, avendo conosciuto Giuliano, s'illude di trovare in lui amore e gli apre tutto il suo animo. Scoperto dai genitori l'idilio, essa non recede ad onta dei consigli della madre; anzi si attacca di più all'amante, e a lui, in un ultimo abboccamento, fa, delle proposte decisive e.... scandalose: fuggire subito da quella prigione ove sente che " l'anima è costretta a gemere a mentire a ingannare a disprezzarsi ,,. Vedendo che il giornalista è titubante e si schermisce accampando la prudenza, lo investe con la tagliente ironia della donna delusa, e infine, additandogli la porta, gli ingiunge di uscire.
L'avv. Benintendi, avuto sentore del fatto, pensa di chiedere al tribunale la separazione per incompatibilità; ma le elezioni sono imminenti, il giornale di Giuliano è il più letto è diffuso. Dà tempo. Frattanto si riunisce il comitato, si discute della campagna elettorale, si concorda col giornalista il lavoro strategico: alla fine gli amici si dividono con un " arrivederci a domani „.
Nel punto che l'avvocato stringe la mano al giornalista, l'Adele, a veder tanta abiezione, irrompe nella sala,'' convulsa, invano trattenuta dalla madre, e vuole smascherar tutti, cantare in faccia a ognuno il fatto suo : si mostra decisa ad andar via da quella casa, ad affrontare le tempeste della vita, a lavorare, a morire; " ma libera, libera, libera 1 „
Il sig.   Teofilo,  intanto, scandalizzato, raccomanda di non dir niente a nessuno.
*
Tale la trama dell' opera condotta con semplicità di mezzi, senza arruffio di episodi, senza effettacci di scene da fiera, senza bombe finali; ma con accurato magistero di forma, con nobilissimo sentimento d' arte.
E balzano vive dalla bene inquadrata tela le figure degli attori principali: personaggi finemente delineati, caratteri rigorosamente veri e profondamente-umani. Non si dimenticano. Il sig. Teofilo, un bruto, un usuraio che arricchisce rasentando il codice penale; la signora Eufemia, una toppona accivettata che finge untuosamente; l' avv. Benintendi, un raffinato amorale che pur, a un certo punto, si domanda se ha una coscienza ; l' Adele, una donnina nevrotica , che sente lo spirito dei tempi nuovi e ha il coraggio di romperla coi pregiudizi del mondo.
Né è a dire che la facilità e la brevità dell' azione ne scemi l'originale potenza e impedisca di ritrarre argutamente, non che con cruda naturalezza, tutto l' orrore di un ambiente sociale corrotto. L' ironia penetra sottilmente, pervade i meandri dell'opera, diventa all'ultimò ammonimento e insieme condanna.
E si ride, massime nei primi atti, ai motti di spirito onde scoppietta abbondantemente il dialogo fresco, colorito, spontaneo; si ride alla vena di comicità schietta che zampilla da certe situazioni; ma il riso non è pieno compiacimento che erompe dalle viscere in una festività sonora: è bensì contrazione leggiera che appena increspa le labbra, quasi l' atroce spasimo di un singulto che trattiene le lagrime.
Onde la commedia, nel suo intimo significato, assorge all' importanza del dramma. Si tratta, è vero, di una famiglia borghese, tutto orpello, tutta vernice di onestà e di santità; ma par di sentire per entro il sordo crepolio di una società che si sfascia, il fremito incomposto di una età che si rinnova, la squillante voce della coscienza moderna che si libera dalla catena delle convenzionali menzogne.
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Fu  detto che   questa commedia,   come tutte le altre opere, risente dei principi e del temperamento del Poeta, Ebbene: non è la sincerità il pregio peculiare di Mario Rapisardi? E che meraviglia se anche quest'opera porta tutta l' impronta del suo animo grande e generoso di tenace assertore e propugnatore imperterrito dell'elevamento morale della nazione e dell' umanità ?
Or è giusto convenirne che, com'egli ha dato all' Italia l'Atlantide, il poema satirico sociale, così la commedia satirica sociale non poteva darla altri che lui. - Alfio Tomaselli 

INTERLOCUTORI
Il Sig. Teofilo Caratòzzolo
La Signora EUFEMIA, sua moglie
Adele e ARIODANTE - loro figli
L' Avv. AURELIO BENINTENDI, marito d' Adele
Giuliano Della Spada, giornalista
Il Marchese e La Marchesa Del Gallo
ZAIRA, cameriera in casa Caratòzzolo
Un cameriere  in casa Benintendi.

(L' azione è in Italia, a' dì nostri)


mercoledì 18 marzo 2015

Federico De Roberto 1861/1927 "Il culto d’un popolo verso i grandi suoi morti ..."



"Il culto d’un popolo verso i grandi suoi morti è senza dubbio indizio della sua civiltà; ma, quando si pensi che molti di quei magnanimi a cui s’inalzano monumenti furono perseguitati e calunniati e odiati in tutte le maniere mentre durarono in vita, vien quasi voglia di conchiudere che molte che paiono manifestazioni di animi generosi non sono altro che misere ipocrisie, e gran parte di ciò che diciamo civiltà non è che industria d’inganni, onde un popolo si studia apparire quel che non è, non solo al giudizio degli altri ma di sè stesso.
Sarebbe perciò desiderabile, a decoro di una gente e ad onor vero dei grandi trapassati, che non ci si affaccendasse troppo a commemorare, a statuare, a monumentare coloro che furono grandi, e si guardasse invece di conformare i pensieri e le azioni nostre a quelle dei magnanimi, dico di coloro che tali furono veramente, non di tanti che prima e dopo morte usurparono tal nome, e fama e gloria ebbero di grandi non per fatti propri, ma per capriccio di fortuna che li pose in alto, e per adulazione di servi, che più adorano la fortuna che non rispettino la virtù.
Questa sarebbe da vero opera di nazione civile; ma i popoli, quantunque si dicano civili, seguiteranno probabilmente a far pompa di morti per coprire le miserie dei vivi: chè, inalzar marmi e bronzi costa soltanto danari, quando l’ingegnarsi di imitare i grandi costa tali sagrifici che, tranne pochissimi, nessuno è capace, non che di sostenere, d’immaginare". Mario Rapisardi

Convinto d'essere uno "scrittore fallito" ("Nulla resterà di me! Nulla"), De Roberto trascorrerà gli ultimi anni, specie dopo la scomparsa del Verga, preda del male oscuro dei nervi, di una desolata sconsolatezza.
[Catania,] Domenica, 6 [luglio 1902]
Ti scrissi ieri, Nuccia mia, ti dissi ieri la ragione del mio lungo silenzio, grave a te, grave a me altrettanto, e forse più, perché volevo e non potevo far molto per romperlo. Qualche cosa io vorrei pur fare per oppormi a questa lenta mina del mio spirito, della mia volontà; ma non ci riesco. Tutto mi pare inutile e vano. Non credo in niente, non spero in niente. Non ho che fare della mia vita, del mio pensiero. Sono un uomo che annega, sono un uomo perduto. Come descriverti ciò che accade in me, la confusione della mente, lo svanire della memoria, lo sfasciarsi dell'energia, le improvvise, irragionevoli, impeccabili irritazioni, le idee pazzesche che mi traversano il cervello, i silenzi che mi cuciono le labbra, le ansie, i furori impotenti, gli abbattimenti mortali? Spaventevole è che io abbia coscienza di queste cose, che io misuri a grado a grado questa rovina. Perdonami, compatisci, non mi rimproverare. Che posso fare? Io non ho saputo mai distrarmi al modo della folla: ora mi è tanto più impossibile. Del lavoro sono incapace. Le letture brevi non servono a niente; le lunghe mi confondono la testa. Questa città, questa gente, questi costumi mi sono odiosi ed esecrabili. Tu sei troppo lontana ed inarrivabile. Non posso far altro che piangere, come ho pianto, di me stesso, quasi fossi morto. Non posso far altro che guardare nel vuoto, immobile, con le mani in mano, come un fachiro come un mentecatto. Nuccia, fammi parlar d'altro; perché ti farei e mi farei troppa pena.   Che tu venga in Sicilia non lo credo: sarà una delle solite fantasie di quel tale. Ma se dovessi realmente compiere il viaggio, non venire a Catania con una compagnia odiosa e detestata. No, così non ti voglio vedere, qui, presso mia Madre. Avvertimi, piuttosto, e verrò io a trovarti, cioè a trovarvi!: Ma no: vedrai che non verrai: già tu stessa mi dici che la cosa è poco sperabile. E poi, è forse meglio non vederci niente che vederci così. - Sai quanto tempo ho impiegato, Nuccia mia, a scrivere questa paginetta? Un'ora e mezza; ho qui dinanzi l'orologio che misura lo scorrere del tempo omicida. - Non dire, Nuccia mia, che temi d'avermi dispiaciuto: lo vedi: tu sei la sola che riesci a trarmi da questa mia agonia: ne esco per troppo poco, è vero; non riesco ad altro che a fartene vedere l'orrore, è vero; ci ritorno subito, è anche vero; ma se non fossi tu, a chi aprirei il mio cuore, a chi mi confiderei? [Federico]
"La storia di un amore segreto dello scrittore è interamente conservato in un epistolario rimasto inedito per quasi un secolo, fra il De Roberto trentaseienne e la trentunenne Ernesta Valle, gentildonna residente a Milano, assidua habitué di elitari salotti (da Vittoria Cima a donna Virginia dei Borromeo, alla stessa Ernesta), moglie dell’avvocato siciliano, Guido Ribera. Fra sotterfugi, stratagemmi, astuzie, la corrispondenza si snoda dal 1897, periodo in cui iniziò la sua collaborazione al Corriere della Sera, fino al 1916: un carteggio che permette di seguire passo passo le tappe dell’itinerario scrittorio di De Roberto, negli anni più tormentati della stagione milanese, penetrando la sua officina nascosta, nella camera oscura dell’ispirazione, svelando progetti, fervori, traguardi, e soprattutto ansie, inquietudini, sconfitte". 

"Non è Nuccia che si prende questi chicchi; è Rico suo che glie li mette con la bocca nella bocca".



  • "L'artista si sente solo. Singolare ed aristocratico, vive a disagio in mezzo alla società democratica ed uniforme. Si sente da essa odiato come inutile, come superbo; e la disprezza. Pertanto le opere sue non si rivolgono ai più, ma ai pochi iniziati". F. De Roberto

Altro : 

Bibliografia di Federico De Roberto (1879/1955)