Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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domenica 25 gennaio 2015

Gino Raya - l'ira nemica continua a vivere oltre il rogo.



del prof. Pasquale LicciardelloIl 2 dic. 1987 Gino Raya lasciava questo discutibile mondo: un infarto perentorio ne aveva stroncato la pur solida fibra. Particolare non trascurabile, l’evento funesto capitava alla fermata di un bus, sulla strada, nel buio d’una gelida sera della Roma congesta di anonima folla, l’aria affocata negli odiatissimi veleni del traffico. La morte confermava, così, quella solitudine che aveva segnato la sua vita di studioso. Supplemento di conferma, Raya tornava, solo (a ottantun anni e mezzo), da una conferenza culturale.
“Oltre il rogo non vive ira nemica”, si diceva una volta; e Benedetto Croce citava la sentenza a suggello della sua teoria della Storia come pensiero e come azione. La Storia in fieri, in quanto azione, “giudica e manda”, combatte e condanna; ma come pensiero, cioè storiografia, non giudica, giustifica. Vale a dire, spiega (dispiegando ragioni). La dottrina si applica anche ai protagonisti della cultura? Certamente. Ma la pratica è altra cosa: quale, per esempio, si presenta nel nostro caso. No, a Gino Raya la massima non è stata applicata. Nei vent’anni dalla morte, nessun segno di corale attenzione è venuto dal mondo culturale”: né da quello accademico né dal giornalistico. Solo pochi amici ne hanno risvegliata la memoria in occasione del decennale: ma privatamente, lontano dal moltiplicatore mediatico. Il mondo ha continuato a ignorarlo. Gino Raya rimane un autore vitando, un maudit: l’“ira nemica” continua a vivere oltre il rogo. Espressione (tra l’altro) da prendersi quasi alla lettera, essendo stato, il corpo, cremato, per sua coerente volontà testamentaria di materialista convinto. Quasi un estremo gesto di rivolta contro il plurimo “disordine” etico-culturale, che quel divergente genetico aveva largamente contestato con un’indipendenza di giudizio gelosamente difesa perfino dentro la giovanile militanza crociana. Nonché usata, spesso e volentieri, con asprezza sferzante, specialmente contro i palloni gonfiati delle diverse categorie: letterati, scrittori, critici, pensatori, politici.

Varia e copiosa, perciò, la schiera dei nemici presi di mira dalla frusta rayana. Che talvolta è sottilmente ironica e tagliente non meno della barettiana, altre volte alquanto umorale. Non c’è dubbio: faceva ben poco per farsi “accettare”. Diceva, il fiero Pertini, che l’uomo di carattere ha sempre un brutto carattere: è proprio il caso del nostro amico e compianto maestro. Qui, brutto significa, essenzialmente, fiero, coerente, poco incline alla tolleranza pelosa (o magari soltanto pietosa). E basta, questo stigma caratteriale, a legittimare l’ottusa ostilità dei suoi persecutori? Ottusa, perché largamente preconcetta e personalistica; e perché consumata, in prevalenza, con la più miserabile delle armi: la “congiura del silenzio”. Anche ipocrita, quell’ostracismo, visto che degli studi verghiani del Nostro si servono tutti: e questo è il solo caso che costringa gli utilizzatori a citarne il nome. Non mancano, però, esempi di vero e proprio furto: ci si appropria di suoi giudizi critici su questo o quell’autore o evento culturale senza citarne la fonte. Un furto che il collerico saccheggiato in qualche caso denunciò con l’accusa di plagio.

Lo si è anche accusato di atteggiarsi a martire, e forse c’è stata una certa enfatizzazione del ruolo: ma questo, il poco gradevole ruolo, gli era stato imposto, e anno dopo anno confermato, vieppiù intossicandolo. Un circolo vizioso: più Raya approfondiva la sua divergenza (di critico e pensatore) e più crescevano ripulse e silenzi. Ma anche: più montavano questi chocs en retour più si inaspriva l’animo ulcerato dello scomunicato vitando. Il movimento ricalca, in piccolo, il feed back positivo della cibernetica: l’effetto retro-agisce sulla causa intensificandone la forza, e questo incremento causale rifluisce sugli effetti amplificandoli. E’ quanto accade nelle valanghe o negli incendi. Se si pensa che la chemio-dinamica dei fenomeni biologici si basa sul prevalere del feed back negativo (l’effetto retro-agisce sulla causa depotenziandola) a salvaguardia degli equilibri vitali, si può capire come e quanto la salute psico-fisica di un perseguitato di acuta sensibilità debba soffrire. Magari fino a certe esplosioni di narcisismo reattivo poco congruenti con la sobrietà del carattere (allergico all’enfasi e ai facili elogi). O fino ai saltuari dubbi insensati sugli amici più veri e devoti, a certi sprechi di spazio della sua rivista per inutili foto-riproduzioni di lettere verghiane. Legati, questi sprechi, a un sintomo ancora più allarmante: il masochismo da ritorsione, che lo induceva a rifiutare per la sua rivista testi validissimi di qualche devoto allergico a sue richieste di facili libelli d’ispirazione famista,

Ma con tutti i suoi limiti caratteriali egli mi appare ancora un Gulliver fra lillipuziani nel confronto con la media attuale e tardo-storica (l’ultimo mezzo secolo o più) dei baroni in cattedra e degli operatori culturali in genere. E sia detto non per negare valori eminenti fra quei “baroni” e fra questi “operatori”, ma per relegarne l’eminenza dentro i perimetri dell’acquisito e del consolidato. Come dire: quei valentuomini sono bensì gremiti di erudizione e capaci di spostare qualche tassello e virgola del contesto metodologico ereditato (crocianesimo, marxismo, strutturalismo, decostruzionismo,…) e nell’area critica di questo o quell’argomento; ma dove cercare, in quel folto di prevalenti carrieristi schierati, l’idea nuova, la proposta che ti fa saltare dalla sedia o cattedra che sia? Dove, il dissenso radicale e ben motivato dai “valori” correnti, nel nome di una meno pigra e più controllabile scienza del mondo umano che quei valori ridefinisca e ridimensioni? Anni fa un “consulto” di cattedratici del nostro ateneo si chiedeva quale novità reale, e insomma rivoluzionaria, si fosse verificata in quella cittadella del sapere (anzi Sapere): guardandosi in faccia quei valentuomini furono costretti a riconoscere che la novità stava tutta e soltanto nelle scandalose teorie rayane: famismo e conseguente critica fisiologica. E qui un marziano, immune dai meriti terrestri, si figurerebbe che da quel riconoscimento il destino del Raya abbia galoppato in trionfale corsa di contrito risarcimento. Ma noi siamo sul pianeta Terra.
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Per non millantare un copyright che non ci compete, riveliamo subito che quei marziani spettano alla scrittrice Pina Ballario, la quale, quaranta e più anni fa, scrisse questa scherzosa iperbole: “Gino Raya sarà, come Vico, apprezzato fra cento anni, dopo la epurazione fatta dai Marziani sulla terra. Non so perché si temono gli omini verdi dei dischi volanti. Io e gli amici miei sparsi un po’ in ogni parte del mondo li aspettiamo. E renderanno giustizia a Gino Raya” (“Gazzetta di Novara”, 23. 02, 1963)
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Si potrebbe persino chiedere dove stia l’eccellenza espressiva degli eminenti, baroni di cattedra e big della libera prosa, inventiva o giornalistica, tanto rari sono i veri campioni di stile: conosciamo fior di “emeriti” che “non sanno scrivere”. Vale a dire che sono capaci al più di una prosetta ammodino, ampollosa o asfittica, dove la correttezza sintattica resta confinata all’aspetto grammaticale, senza sfiorare quella più vera sintassi che è “monoblocco” di pensiero-passione profondo e fulgido stile di stretta fitness. Una sintesi che vuole estro, arguzia, ritmo sequenziale, originalità di immagini e agilità comunicativa (fuggendo come la peste le lungaggini le cacofonie e l’ingorgo ipotattico). Ebbene, questo binomio raro, sostanza ed eleganza, Raya lo realizzava in ogni suo scritto (e sia pure con l’inevitabile “più o meno” di ogni prova umana nel tempo); gli altri, quando sono al top, si fermano a rapsodici decori e calchi “brillanti”. Il prosatore Raya (sia critico che narratore) fa pensare, tra l’altro, alla “regola” di Ivo Andric: “una parola superflua non dovrebbe mai essere pronunciata”, e proprio perché “nulla più della lingua induce allo spreco e al peccato”. L’autore più lontano da siffatti sprechi e “peccati”: ecco il prosatore Raya. Una qualità che gli veniva riconosciuta dalle poche celebrità oneste e non prevenute. Parlando della rivista Narrativa (fondata dal Raya nel 1956, trasformata, nel 1966, in Biologia culturale), Maria Bellonci scriveva: “Pubblica racconti e scritti critici dove non una parola sia superflua o convenzionale o bugiarda, e dimostra […] l’assoluta coincidenza fra arte e morale” (Il Giorno, 26. 04. 1960). E Antonio Aniante, a sua volta, coglie nello stile rayano l’elegante sintassi qui segnalata, attribuendola “a una forte carica culturale, aggressiva, sadica, immaginosa”, declinabile in questi termini: “La carica culturale utilizza gli strumenti volta a volta più idonei, dalla scienza alla cronaca nera. La carica aggressiva spiega la schiettezza e la densità del dettato, che punta al suo tema senza preamboli complimenti mezzi termini in genere. Nel processo aggressivo-polemico si dispiegano due fenomeni: quello sadico e quello umoristico; entrambi connessi al senso del ritmo. Solo che il ritmo del sadico corrisponde ad un certo compiacimento impietoso, e il ritmo dell’umorista corregge la crudeltà del sadico dirottandola nell’arguzia o nella risata” (Antonio Aniante, Il famismo, Milano, Pan editrice 1977). Non ci vengono in mente che due soli nomi di scrittori paragonabili al Raya: Concetto Marchesi e Gesualdo Bufalino. In modi diversi, ma ugualmente eccellenti, ti deliziano con la loro arguzia, fantasia, discreta ma schietta sensualità, audacia traslativa, laica profondità di pensiero, ironia dissacrante e commossa saggezza. La loro prosa te la senti quasi in bocca, come una leccornia che seduce il palato. E sia detto senza nulla togliere alle buone scritture del nostro panorama letterario novecentesco.
Il titolo di Aniante ci riporta al maggiore contributo di pensiero osato dal Raya. Il quale, all’alba dei suoi cinquant’anni, comincia a sviluppare quella estrema reductio ad corpus che è la dottrina famista o biologia culturale. Testo fondamentale, La fame. Filosofia senza maiuscole (Padova, 1961, con prefazione di Luigi Volpicelli. 3a ed., Roma, 1974). Libro spregiudicato e geniale, che, risalendo, secondo un aggiornato metodo vichiano (“Natura di cose è nascimento di esse…”), la vicenda filogenetica, trova nell’innesco metabolico della primordiale chimica organica l’origine e la sostanza costante della vita nella sua infinita fenomenologia. Siffatta impostazione porta a includere in quell’unica matrice l’uomo intero, “dalla testa al calcagno” (come recita una celebre formula). Dunque, anche l’intera gamma dei fenomeni mentali e cosiddetti spirituali, con totale ripudio della millenaria interpretazione dualistica o platonizzante. Un itinerario, insomma, dove ogni parametro antropico specifico (razionalità, affettività, cultura, religione. arte…) viene letto come sviluppo fisiologico del corpo nelle sue strutture “nobili” (cervello, ecc.) e accostato ad analoghe e più elementari funzioni del mondo animale. Il punto focale dell’homo novus famista sta nell’unicità del primum movens di ogni sua azione, di muscoli o di pensiero. Il benservito spetta alla ragione come categoria metafisica e presunta motrice di pensieri “spassionati”, di teoresi libera dalle emozioni. Il famismo dice: nessuna azione o respiro senza il movente passionale, che ricondotto alla sua radice basale, è sempre una modalità della pulsione fagica, un appetito. L’unica razionalità possibile sta nell’autodisciplina tecnica della passione-appetito, che può rivolgersi a una pagnotta come a un libro, a un corpo o a un cuore, e cioè secondo una sterminata gamma di trasposizioni. In ognuna delle quale affiora la originaria bivalenza del rapporto fagico: gradire o rifiutare. Di qui la visione antropofagica dell’eros. Quella spinta originaria non può non agire in ogni emozione. La normalità del freno anti-incorporazione nell’amore non deve cancellare la ricorrente prova tragica del delitto passionale come metafora dell’ingestione; né i casi di regressione cannibalica verso il corpo bramato. In questa severa reductio biotrofica l’arte non può essere che danza, ossia mimesi ritmica dell’atto fagico comunque trasposto (dislocato, sublimato o mascherato).
All’uscita del libro era facile prevedere quanto si è puntualmente verificato: salvo pochissime, nobili eccezioni, il resto sono reazioni di indignato raccapriccio presso le anime timorate (ivi compresi i grandi Tartufi dotti e cattolici); di superciliose ironie nei campioni dell’accademia sedicente laica (così tributaria, in rebus, della secolare tradizione metafisico-religiosa: anche quando si autocertifica materialistica). Troppo sconvolgente, la Weltanshauung rayana, per la varia pigrizia mentale dell’intellighentsia maggioritaria, non solo italiana, ma planetaria. La quale risponde riconfermando ad augendum quei valori assolutizzati che Raya chiama maiuscole (per l’iniziale un tempo d’obbligo nei relativi lessemi). E che, purtroppo, stanno dimostrando una vitalità tetragona ai colpi dell’evidenza, moltiplicando l’orrore del mondo con le quotidiane stragi del terrorismo islamico e dell’altrettanto criminale stragismo indiscriminato dei cosiddetti Paesi civili e democratici, come gli Usa e certi loro satelliti. Che in entrambi i casi la catalisi religiosa operante nelle diverse forme del fanatismo strumentale sia evidente nel suo aspetto più cinico e catastrofico non turba i sogni del quietismo mammonico ammantato di sonanti ideali. La voce del fantasma rayano, così chiara e forte contro le maiuscole potenzialmente assassine, continua a gridare nel deserto.
*
Questo è l’uomo cui si continua a far torto anche da cenere. Gli universitari, quando gli proponi di fare qualcosa per ricordarlo, si defilano. Qualcuno perfino “scusandosi col dir non lo conosco”. Ma non è solo il mondo accademico a recitare de Raya il poco gagliardo ruolo delle tre scimmiette (“non vedo non sento non parlo”): il variegato e altrettanto discutibile universo giornalistico non è da meno. Anzi. Giornali che il Defunto onorò per decenni si guardano bene dall’onorarne le ricorrenze. Tra questi spicca per assenza ribalda La Sicilia, che Raya illustrò per oltre mezzo secolo con i suoi eleganti elzeviri e “Servizi speciali” (da anniversari celebri: veri densi saggi critici).
Ma i responsabili del quotidiano hanno fatto di peggio. Alla notizia della morte, mi si chiese il classico coccodrillo (ero il seguace più in, e collaboravo, come tale, a quelle pagine culturali dal 1974). Lo scrissi, contenendolo nelle nuove misure imposte dalla rinnovata redazione culturale. Lo portai, come al solito, ignorando che lo stavo mandando al macello. L’articolo fu squartato: un pezzettino-civetta in prima pagina, il “servizio”, sfigurato da tagli infelici, a pg.24, tra il vario ciarpame dell’Attualità. Eppure era uno schietto pezzo da terza pagina. La piccola infamia suscitò indignazione tra amici conoscenti alunni del mio liceo: tra questi, una animosa fanciulla (Mariagrazia Finocchiaro) scrisse una vibrata lettera di protesta al giornale, che, con “piacevole sorpresa” dell’autrice, la pubblicò (18. XII. 1987, “La parola ai lettori”; titolo La biografia di Gino Raya): unica, inattesa, goccia di gratificazione pubblica (o piuttosto di risarcimento) in quel mini-evento di ordinaria cialtroneria. Ancora mi chiedo come mai sia stata pubblicata la lettera. E per opera di chi. Qualcuno, in quel cafàrnao di nuovi Soloni e grilli parlanti, dovette accorgersi che la si era fatta grossa: non s’erano offese soltanto due qualificate firme del giornale, ma lo stesso quotidiano, sfregiato da quel sezionamento imbecille. Altra inevitabile domanda: in quale sacco gastrico ribolliva l’incomprensibile odio verso il binomio così seviziato?
E il suo paese natale, la sua piccola patria, Mineo, che tanto giusto onore tributa al grande Capuana (Monumento in piazza, fondazione, vie, ecc)? Cos’ha fatto per quest’altro suo figlio? Nulla, che io sappia: neppure, forse, intitolarne una via, una piazza, un vicolo. Non ci è capitato di vederne, nei nostri due approdi a quella attraente meta natalizia. Si vedono, bensì, i libri del Raya che si occupano di Don Lisi, tra le mille pubblicazioni esposte nel palazzo di famiglia; ma tutto finisce lì. Chi dicesse a quei distratti amministratori che per valore culturale e genialità Raya è molto più alto del maestoso monumento del pur bravo narratore e critico e professore e folklorista e burlone fotografo ex sindaco don Luigi, li farebbe sorridere di ironia e compassione. Diremo, “Ai posteri”? Ma quali? Quando? Risuonano le dolenti note del Leopardi che fantastica del Parini, o della gloria. Egli, però, l’Infelice di Recanati, da cenere, di gloria ne ha avuta da riempire il pianeta e i secoli. Raya si deve accontentare di una dispersa presenza in rete (in vari siti è possibile trovare i suoi libri), dove lo studioso italianista (e dantista in particolare) nel suo sito internet Literary gli rende giustizia inserendolo fra i suoi densi Profili letterari siciliani dei secoli XVIII-XX (in cui ospita perfino il modesto sottoscritto). Gli siano rese grazie: non è quanto spetterebbe all’Ostracizzato, ma il poco è sempre meglio del niente. Al relativamente poco dell’infaticabile Ciccia è doveroso aggiungere il nome di Paolo Anelli, precoce autore di un vibrante pamphlet sul “Caso Raya”: Il silenzio delle farfalle infilzate. Sottotitolo: “La danza della vendetta di Gino Raya” (Firenze, Atheneum, 1991). Una testimonianza che è sempre un piacere rileggere. Intanto chi avrebbe pronti, da anni, un paio di robusti saggi, non può pubblicarli: la pensione di prof. di filosofia nei licei non consiglia consistenti spese extra-domestiche. Quanto alla famiglia del Rimpianto, opaco silenzio sull’argomento.  GINO RAYA, A VENT’ANNI DALLA MORTE










sabato 25 febbraio 2012

Eco della Sicilia - Cinquanta Canti popolari siciliani raccolti e trascritti da F. P. Frontini -1883

« Tra gli artisti e compositori dell'Isola voi siete,
« se non il solo, uno dei pochissimi che comprendono la
« bellezza e la grazia delle melodie del popolo. Pur com-
« ponendone di belle e di graziose, Voi sapete apprezza-
« re queste vaghe e dolci reliquie d'un passato che non
« ebbe storia, e serbate a durevole monumento, delle
« note piene di sentimento squisito e di candore vergi-
« nale. Altri non penserà neppure a ringraziarvi dell'ope-
« ra patriottica da voi compiuta; io Vi ammiro ». Parole, sentite e quasi solenni. Giuseppe Pitrè




* parte di questa pagina l'ho scritta per wikipedia


Eco della Sicilia - Cinquanta Canti popolari siciliani con interpretazione italiana raccolti e trascritti per la casa Ricordi - Milano, nel 1883. La copertina è bizzarramente disegnata e colorita. Il Frontini intende dare un saggio delle più caratteristiche canzoni dell'isola. Tutte sono state raccolte dalla viva "voce", sia direttamente da lui, sia da altri prima di lui. Una parte provengono dalle Raccolte di Giuseppe Pitrè, sono di S. Torrisi la melodia 21, di Salvatore Pappalardo la 33, di Giovanni Pacini la 40, di B. Geraci la 41, di Martino Frontini la 42. Sono di Giovanni Meli le poesie 11, 17, 23, 40, di G. Guardo la 21 e 39, di G. Bianchi la 33. Dopo la prima strofa intercalata nelle note musicali, insime con la interpretazione, segue ad ogni pezzo il resto della poesia, testo ed interpretazione. La raccolta è dedicata a G. Pitrè; il quale vi scrisse la lettera intitolata: " Di una nuova Raccolta di Melodie popolari siciliane".(Vedi Pasqualino-Vassallo e Pitrè)


Critica 

Nella raccolta frontiniana Eco della Sicilia sono contenuti 50 canti popolari dei quali la parte più cospicua è costituita da canzoni catanesi, arie d'amore o canzonette burlesche, che, sebbene conservino intatti i caratteri etnofonici della melodia siciliana, lasciano trapelare; dalla forma e dalla sostanza melodica, un'origine prettamente cittadina e un'epoca ben determinata della loro genesi. Le forme dell'arietta settecentesca o dell'aria teatrale del primo ottocento costituiscono la base della loro struttura e il carattere del canto; possiamo anche aggiungere che un paio di esse è probabile non siano state del tutto sconosciute a Vincenzo Bellini. Delle autentiche cantilene del popolo e della gente di campagna solo pochi preziosissimi esemplari, sei o sette in tutto, si riscontrano nel volume.
In ogni canto siciliano non solo è riflessa l'anima del cantore, ma i caratteri della razza e l'afflato della terra a cui esso appartiene vi imprimono il loro segno indelebile. Anche senza sapere da quali Provincie dell'Isola i canti provengano non è diffìcile stabilire la località, se non addirittura il tempo, in cui essi nascono. Ogni canto è sempre legato ad una tradizione, ad un linguaggio melodico, ad accenti particolari, discorsivi, drammatici o espressivi, che rivelano i modi musicali delle antiche razze che si sono avvicendate in ogni luogo della Sicilia lasciando la loro impronta nei dialetti, negli usi, nei costumi, nelle musiche.
Il Frontini, spirito complesso e aristocratico, volle mostrare completamente tutta la natura musicale della gente etnea, attraverso le raffinate melodie cittadine e le spontanee cantilene campagnole.

Presentazione dell'autore 

Nel presentare al pubblico questa Raccolta di Canti Popolari Siciliani, intendo solamente dare un saggio delle più caratteristiche fra le canzoni dell'isola. Epperò, è da notare, che se qualche melodia del continente si riscontra fra quelle da me raccolte, non è da farmene una colpa. È risaputo, come molte delle più briose ed allegre canzoni del napolitano e dell'Italia meridionale, vanno e fanno il giro dell'isola con delle false forme dialettali; e così si dica anche di qualche patetica ed amorosa cantilena siciliana, che va nel vicino continente — da ciò, il facile inganno di crederle del paese ove si cantano. Devo, intanto, la mia più affettuosa riconoscenza all'illustre professore Cav. Giuseppe Pitrè da Palermo, che tanta parte ha speso al completamento della mia raccolta, che mi onoro dedicargli.(Francesco Paolo Frontini)

Canti 

  • In Eco della Sicilia......Spiriti e forme di un secolo eminentemente musicale vengono conservati nella loro lineare purezza attraverso la fedele trascrizione del raccoglitore. Il quale non volle adoperare quei fronzoli perfettamente inutili che adoperò un altro raccoglitore di canti siciliani venuto dopo di lui (fronzoli attraverso i quali è palese un vanitoso spiegamento di tecnica personale) ma seppe modestamente, saggiamente nascondersi dentro i canti dovuti ad autori che rimarranno eternamente ignoti ma eternamente vivi, poiché delle melodie di esse si è impossessato il vero, unico autore: il popolo. Arie e serenate di Catania romantica 3/12/1945, Francesco Pastura

  • La Rosa video
  • Canzuna di li Carriteri (Canzone dei Carrettieri) video
  • La Ficu (Il Fico)
  • Prupunimentu (Proponimento)
  • L'Amanti cunfìssuri (Lo Amante confessore) video
  • Serenata
  • La Figghia di lu massaru (La Figliola del massaio)
  • La Niespula (La Nespola)
  • Canzonetta villereccia (Mi votu e mi rivotu) video
  • Iu pri li fimmini (Io per le donne)
  • Lu Labbru (Il Labbro). Trascrizione di F. Paolo Frontini
  • Guarda chi sugnu pàllitu! (Guarda come son pallido)
  • Alla Fontana... Canto con Coro
  • Lu 'nguì, lu 'nguì, lu 'nguà
  • Pri tia diliru e spasimu (Per te deliro e spasimo). Canto appassionato video
  • Sacciu ca sugnu lària (So che non son vezzosa)
  • A Nici! "(A Nice!) Trascrizione di F. Paolo Frontini
  • Canzonettina.
  • Ciccina e Don Cocò (Cecchina e Don Nicolò)
  • Canto del carcerato
  • Palummedda (Colombella). Trascrizione di F. Paolo Frontini.
  • Ciuri, Ciuri (Fiorellini). Ritornello popolare
  • La Vucca (La Bocca). Trascrizione di F. Paolo Frontini video
  • Cianciu, Nici (Piango, Nice).
  • C è'na vecchia... (C'è una vecchia)
  • Mi lassasti in abbannunu (Mi lasciasti in abbandono) video
  • Giustizia
  • Cori, curuzza. Cantilena popolare.
  • Nici, ricordati (Nice, ricordati)
  • Canto de' Contadini Etnei (ad una o due voci)
  • Amuri, amuri! (Amore, amore). Cantilena dei Mulattieri. video
  • Serenata.
  • La fidiltà di li fimmini! (Fedeltà de le donne!) Musica di S. Pappalardo
  • Canzonetta popolare nella vendemmia
  • O svinturati giuvini (O sventurati giovani)
  • Mi mancanu li termini (A me mancano i termini)
  • Sunnu li fimmini (Sono le femmine)
  • Celu, comu mi lassi! (Cielo, come mi lasci!) Trascrizione di F. Paolo Frontini
  • Passioni (Passione). Trascrizione di F. Paolo Frontini video
  • Lu Labbru (Il Labbro). Musica di G. Pacini video
  • Sti silenzii, sta virdura (I silenzi, la verzura). Musica di B. Geraci.
  • Avvirtimentu (Avvertimento). Canzonetta. Musica di Martino Frontini
  • O Rosa virgini... (O Rosa vergine...)
  • Notturno
  • Lu Scarparu (Il Calzolaio). Canzonetta messinese.
  • Mi pozzu maritari (Mi posso maritar)
  • Lu Ritrattu (Il Ritratto)
  • Tùppiti, tìppiti e tappiti
  • Malatu p'amuri (Malato per amore) video
  • Trilla e trilla. Ritornello popolare. Nuova Canzone catanese

Bibliografia 

  • Pasqualino-Vassallo e Pitrè
  • Estratto dal volume - Pitrè e Salomone - Marino
  • Secoli di musica catanese: dall'Odeon al Bellini - Catania
  • Note critico-biografiche su Francesco Paolo Frontini - di Giuseppe Cesare Balbo, Catania - Ed. Francesco Battiato, 1905.

martedì 4 gennaio 2011

La canzone siciliana - canti popolari - L'amanti cunfissuri

da Eco della sicilia - Cinquanta Canti popolari siciliani con interpretazione italiana raccolti e trascritti, Ricordi - Milano - 1883.di Francesco Paolo Frontini.
Libera interpretazione dei ROBASICULA



lunedì 11 ottobre 2010

Antonino Gandolfo, mostra del pittore Catanese, ad Aci Castello il 28/10/2010, per il centenario.

« La sua arte, intese il compito di affrontare i problemi della vita additandone le miserie; egli cercò il dolore per stimolare la pietà e la riparazione sociale; fu poesia, fu opera altamente sociale».
« Basta citare i titoli delle sue opere migliori : Musica forzata — Il cieco - Una madre. — Al monte di pietà Il dolore ecc. per trovare in esse tutta l'anima vibrante dei sentimenti più belli ».








Disegno di A. Gandolfo, musica di Frontini
Ti tinci e sinni và!

giovedì 19 agosto 2010

Alessandro Abate pittore, note critiche di Gesualdo Manzella Frontini


Alessandro Abate appartiene all' ultimo ottocento e la sua attività si riversa in questo secolo, senza soluzione di continuità spirituale. Nato a Catania nel 1867, egli risentì gli ultimi guizzi del romanticismo, in ciò che di più caratteristico fu l'apporto di quella scuola, vale a dire nella teatralità di certi quadri, nella "composizione" convenzionale, nella cura dell'effetto, ottenuto a discapito della profondità psicologica.


L'innato senso pittorico e coloristico, però salvò il giovane artista dalla sciatteria e monotonia cromatica dei romantici.
Del resto egli si affaccia all' osservazione e allo studio dei maestri del tempo, sotto la guida sagace e geniale di un nobile pittore, che in quel tempo faceva scuola a Catania, e che lasciò segni incancellabili sulla personalità del suo giovane discepolo.
Parlo di Antonino Gandolfo, colorista vaporoso e umido, disegnatore efficace ricco di sentimento, e che talvolta, nelle trasparenti carni delle sue donne, vi dà il presentimento del cromatismo gioioso e vitale dello Spadini.
Ma il Gandolfo, che in un certo periodo della vita non rifuggì dal quadro sociale di derivazione continentale, certo degli Induno, fu disegnatore coscienzoso e attento, e al suo discepolo che si produsse anch' egli, nei primi anni, in quadri di vita quotidiana, istillò il rispetto di questo elemento primo ed essenziale, che per volgere di anni e di tende.....(testo non leggibile)..e di mete diverse, costituirà sempre, come per la poesia il ritmo, il (.... )mento primo
e la legge (...... )cibile della pittura. L'Abate passò poi a Napoli alla scuola del Marinelli , in seguito a Roma completò i suoi studi con Iacovacci. Ivi ottenne lusinghieri giudizi e riconoscimenti ufficiali.
A noi non interessa che in misura assai relativa il curriculum del nostro e lasceremo alla curiosità burocratica del lettore scrupoloso e pedante, in una nota, le notizie delle esposizioni e onorificenze e degli incarichi ricevuti, e delle più importanti ordinazioni passate e recenti.
Importa qui delineare il carattere dell'arte dell'Abate, fissarne i segni, espellere ciò che di spurio, di accademico, di giustapposto e di commerciale è nella sua molteplice attività e ricondurre all'effettivo valore la sua personalità artistica.

Il torto dell'Abate, è stato uno, se torto può chiamarsi uno stato di fatto che dipende da circostanze tiranniche di vita, ma che, purtroppo decidono spesse volte la sorte di un uomo, nella valutazione obbiettiva che ne farà la storia.
L'Abate, che indubbiamente à qualità di primo ordine e numeri eccezionali a suo vantaggi è rimasto troppo isolato nell'ambiente provinciale e chiuso della sua città, estraneandosi completamente dalle correnti e dagli spiriti nuovi, che da trent' anni a questa parte ànno percorso l' Italia, per influssi esterni o per movimenti interni. Così che egli è venuto a trovarsi in una posizione di inferiorità rispetto ad artisti di minor valore,
ma che sono stati toccati, scossi e rinnovati da tendenze molteplici, acquistando una sensibilità più moderna, e da gusti e anche da mode, che si sono seguite a volte troppo vertiginosamente. Con ciò non si dice che l'artista debba lasciarsi trascinare dal momentaneo isterismo del pubblico, spesso turlupinato e accarezzato nelle sue incoerenze superficiali e passeggere. L' arte non può essere una moda.
Ma avviene che l'isolamento, a meno che non si tratti del genio, può condurre alla cristallizzazione, alla maniera, o alla riproduzione a serie di se stessi. Per contro poi nei temperamenti fiacchi, la vita tumultuosa di un centro dinamico d'arte può determinare dispersioni fatali e irreparabili. L'Abate però si trova nelle privilegiate condizioni di non subire a fondo, fino al perturbamento, le influenze dei maestri coi quali si è trovato a contatto, o di cui à studiate le opere, e però gran lume sarebbe venuto alla sua arte in un centro di cultura e di vita artistica.
Egli avrebbe potuto, come gli è capitato talvolta, e come risulta da sue tele, sentire le tendenze varie ma riportarle, attraverso la elaborazione, al suo temperamento, come correttivo.
In altri termini le opere altrui non lo polarizzano, nè lo soffocano : egli sa vedere in orizzonti non suoi, non appena a questi egli arriva, per caso o per uno sforzo d'intuito.
E dico "per caso,, non per comodità espressiva, ma a ragione veduta, perchè gli accostamenti fra l'Abate a qualche pittore di maggiore e più spiccata e diversa personalità sono casuali, e non ànno lunga risonanza: trascorso il momento simpatico, in cui pare che egli abbia inteso un rapporto di affinità con l'oggetto del suo studio, egli lo abbandona.
Un altro e non meno serio effetto negativo sullo sviluppo della sua personalità, nelle condizioni d'isolamento in cui egli si è trovato, è dovuto alla mancanza di una critica illuminata e illuminante.
Cresciuto fra la stima dei suoi concittadini, unico superstite di un dignitosa tradizione pittorica (Rapisardi, Reina, Sciuti, Gandolfo) egli non à mai trovato chi lo avesse distolto o incoraggiato sulle varie strade su cui si è condotto per istinto e per indefinito malessere : è andato a tentoni.
Il ritrovarsi ch'egli fa di volta in volta e il riprendere la sua, la vera strada, lo deve al suo equilibrio o forse ai primi elementari, direi, essenziali insegnamenti avuti dal Gandolfo e dall'Accademia. La critica à fra l'altro la grande responsabilità di chiarire spesso all'artista l'artista, e però il critico è anche un collaboratore dell'artista.
Questi collaboratori l'Abate non à avuto.
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L'Abate à dovuto sottoporre alle esigenze della piccola e grande borghesia provinciale, le ragioni dell'arte, così che il sacrificio à nociuto alla sua opera, dando spesso la sensazione del mestiere e del commercialismo, là dove era soltanto necessità; della faciloneria e della superficialità, là dove era invece bisogno di piegarsi alle prestazioni d'opera a tempo, e di adattamento al gusto dei committenti. L'eroismo non è moneta corrente.
Lo storico dell'arte nostra che dovesse misurare domani le possibilità e le realizzazioni dell'Abate, dovrebbe poterne valutare, alla stregua di queste condizioni e considerazioni, tutta la vasta produzione, e con criterio unitario e lineare, selezionando, cogliere la vera natura e il carattere del nostro.
Nelle illustrazioni interposte o che seguono a queste note sintetiche ò voluto riprodurre qualcuna delle opere, che nulla aggiungono alla valutazione di questo artista, poco favorito dalla sorte e molto dalla natura, ma lo ò fatto a fine dimostrativo. Acquarellista, affreschista, decoratore, paesista e ritrattista, l'Abate à trattato il quadro di genere come il grande quadro sociale, la composizione allegorica o storico-allegorica, il soggetto religioso e la decorazione a grande stile di palazzi e chiese.
Quando si esce dal suo studio e si istituiscono confronti e parallelismi fra le sue produzioni se ne riporta un senso di fastidio, giacchè vorremmo potere annullare certi aspetti della sua attività, ignorarli, per ridurla a qualcosa di unitario, di sostanziale e organico : alla vera essenza.
Che per fortuna sua e con nostra soddisfazione, ciò che rimarrà di lui, di più suo, di naturalmente aderente al suo spirito è tanto, ed è tale, che non vale la pena di lasciarsi distogliere dai valori negativi.
Nè qui si tratta di un artista che non abbia linearità o abbia smarrito il senso dell'orientamento, o abbia ceduto per via, o abbia lasciato allo sbaraglio gli elementi costituitivi della sua individualità, ma di un caso non raro purtroppo della malefica opera della vita di provincia. L'innato buon gusto però non sempre si è piegato alla pacchianeria e alla richiesta e alle esigenze dei committenti, e la sua mitezza e delicatezza d' animo à saputo spesso resistere e ribellarsi. Sono seguiti allora felici periodi di libero respiro, in cui l'artista à lasciato cantare la sua anima e à creato opere belle e talune perfette.
Tralasciamo di occuparci di alcuni quadri, che pur sono piaciuti e non soltanto nell'ambiente provinciale.
Il più vasto allegorismo ricostituito a base dei più crudi element(.......)sti e realisti, non è stato vinto, ma appena attenuato dall'ab..(........ )ittorica, che à tentato di vaporizzare con la magia del colore la pesantezza e la piattezza del simbolo. La distribuzione delle masse e un vigore espressivo di grande rilievo, la sapienza prospettica, che non rifugge da ricordi classici, rimangono sopraffatte dalla teatralità e dalla superficialità e da una certa trascuratezza dei particolari, che è indice di fastidio nell'autore stesso.
Tralasciamo pure le grandi tele religiose, perchè riteniamo l'Abate troppo turgido di qualità pagane e troppo moderno spirito, perchè possa umiliare l'istintiva gioia della vita al mistico fervore e alla sottigliezza teologica o al romanticismo sentimentale di certi aspetti modernizzati di pittura sacra.
Infatti il sentimento della natura e della sanità, che chiameremo panteistica, che è la sorgente vera e profonda del suo temperamento, è stata travasata in alcuni quadri di questo genere che sono più riusciti.
La riprova di questo nostro apprezzamento è stato dichiarato da alcuni particolari notevoli e sottolineati nel martirio di Sant'Euplio e nella Apoteosi di San Martino.
E poi che questo sentimento profondo e largo della natura non poteva esprimersi compiutamente che in un soggetto, con cui potesse aderire e connaturarsi, richiamiamo l'attenzione del lettore sul "Poverello di Assisi „ (pag. 17) che, con la "Pietà „ (pag. 22) del mausuleo dei Caduti nella Chiesa di San Benedetto, sono i più severi e realizzati quadri religiosi dell'Abate.
A scanso di equivoci diremo che l'elogio alla Pietà ci è suggerito dalla umanità del dolore materno, espresso con colore drammatico sul volto della Madre e dall'armonia e dalla distribuzione delle masse, dalla velatura e diafanità dello sfondo, più che dal misticismo, che avrebbe potuto esigere un tale soggetto. Vi campeggia un raro intuito architettonico.

E che il religioso qui non esuli dal quadro è un corollario: chè noi abbia segnalato nell'Abate, quale una delle sue virtù principali, la profonda umanità: infatti i due termini umanità e religiosità coincidono e non sono contraddittori come superficialmente potrebbe apparire.
Alessandro Abate è un ritrattista documentario e un costruttore di tipi.
Abbiamo presentato una serie di teste piene di vigore e di carattere, in cui l'interiorità trasfigura il soggetto, dando alle linee del volto, talvolta in una pennellata, che sembra buttata giù o sfuggita al pennello indocile, una rivelazione psicologica. Giovani donne fiorenti, dalle cui carni salde e luminose traspira la vita e la sanità, illuminate da sorrisi invitanti, o sensualmente procaci e pensose , con occhi opachi e ardenti sotto malinconici veli di desiderio; bocche carnose, tumide, seni turgidi e morbidi e ricchi ; volti accaldati sotto capelli scomposti e disfatti. La loro essenza bacchica è appena frenata dalla castità ed onestà della razza. Il giuoco delle luci è in ragione diretta della sobrietà della pennellata, che non s'indugia, ma pare invigilata e affrettata, mentre risulta decisa, calcolata, sapiente.
Alessandro Abate è colorista ed è pittore genuino. Se in qualcuna di queste sue tele il ricordo del Mancini violento e sconcertante colorista, apparisce, subito l'equilibrio del nostro rientra nei propri limiti.
La pennellata dell'Abate allora non à pentimenti, egli si abbandona alla sua ispirazione, all'impeto, alla canzone della luce, alla forza del suo temperamento concretizzatore e dipinge con larghezza, ma senza esagerazione.
Avviene che questa forza espressiva vinca anche le ragioni tecniche, e così assistiamo alla visione di acquarelli che anno la consistenza, la saldezza e la sostanzialità dell'olio, e ad oli che sembrano acquarelli, sì fatta ne è la trasparenza.
Mi piace qui ricordare un quadro, Aci e Galatea (pag. 26) ove il mito acquista una sua evidenza lirica straordinaria, dovuta alla sinfonia vibrante dei colori, alla medi-terraneità interpretativa della natura e alla trasparenza.

Sullo sfondo aerato sorge l'Etna, resa impalpabile dal suo candore di neve, l'atmosfera è impregnata di profumo, che il colore assume tale una spiritualità da derivare dai fiori, e le acque del fiume e quelle del mare, che si fondono in una trasfusione di delicata e forte bellezza, cantano nel bacio di Aci e Galatea allacciati.
Il quadro fu offerto a S. A. il Principe di Piemente nelle sue nozze e fu lodatissimo dagl'intenditori. Credo che sia uno dei documenti più efficaci di dimostrazione del valore pittorico dell'Abate, e quale colorista e interprete della atmosfera dell'Isola, e paesista vasto, lirico e sinfonico.
Sotto questo aspetto l'Abate à detto una sua parola inequivocabile e personale.
I cieli azzurri inconsistenti dei paesaggi etnei e il vulcano che caratterizza la nostra terra, che la suggella in una sua gagliarda e solenne bellezza, àn trovato in Alessandro Abate il loro cantore eccezionale. C'è uno spirito dentro quelle tele, che non si contenta di osservare passivamente, ma vi si trasfonde e liricizza la visione.
Se poi vi soffermate a guardare le incassate teste dei suoi contadini e dei suoi popolani vi troverete tanto carattere e tanta radicata umanità, che non potrete concepirli facendo astrazione dall'anima dell'Isola, anzi della campagna etnea, di questa bruciata terra di forte, rude e generosa gente.
Volti gravi in cui c'è la rassegnazione con la volontà in armonia, pacatezza e aperto animo; l'Abate à ottenuto con esiguità di mezzi e con solo gioco di pennellate dense ed espressive direi, somatiche, i più vivaci e definitivi effetti : l'evidenza plastica risulta da sapienza di toni.
Questo conoscitore e maestro di disegno à bruciate tutte le conoscenze tecniche, e la vita nelle sue figure risulta complesso di fattori inscindibili: luce, linea, colore.
Era facile prevedere che la sua esperienza tripolina, in una atmosfera in cui il colore pare che consumi i volumi, dovesse sboccare in prove e in realizzazioni compiute.
Così infatti è avvenuto.
Lontano da ogni maniera decorativa, egli à saputo rendere l'animo, il significato, la vita della luce, l'ambiente della nostra colonia.

Ma era anche facile scivolare nel decorativo e nelle arbitrarie maniere oleografiche: ma l'Abate aveva tutte le virtù per intendere la sinfonia della luce africana : c'è riuscito : egli à inoltre colto il senso della vita di quella gente, lo spirito di quella terra che si avvicina alla nostra.
I suoi interni, le sue arabe, i suoi larghi paesaggi, vasti da togliere il respiro, da sopraffare, dicono meglio di qualsiasi discorso illustrativo, le ragioni della nostra discussione sul vero temperamento di questo saldo talento pittorico.
Il colore non è fine a se stesso, ma l'Abate guarda con gioia e con gioia si arrende al colore, che talvolta diventa volume, si risolve in volume, come il volume si risolve in luce e levità.
Per questa sua abilità molte opere decorative di largo respiro, in saloni monumentali, ricordano, oltre che per gli scorci audaci, il tripudio leggero e sensuale delle carni, il barocco glorioso del Tiepolo.
L'Abate è radicato alla sua terra, la sente e ne vive la paganità, è padrone di mezzi eccezionali di tecnica, à precise qualità ed è nella stagione matura delle grandi risorse e delle definitive opere.
I suoi ritratti lo dichiarono un psicologo avvertito.
La critica può attendersi opere ancora più compiute, se egli vorrà ridursi con fedeltà e solo alla sua vera natura e al suo istinto.
NOTE BIOGRAFICHE
Alessandro Abate è nato il 25 novembre 1867 da Carmelo e Giovanna Reitano a Catania.
Dai 15 ai 18 anni frequentò il corso di disegno e di pittura tenuto a Catania dal pittore Antonino Gandolfo. Si trasferì subito dopo a Napoli dove studiò all'Istituto di Belle Arti, restando contemporaneamente sotto la guida del prof. Vincenzo Marinelli.
Nel '93 ottenne dal Municipio di Catania la borsa di studio per un corso di perfezionamento a Roma presso il prof. Iacovacci, frequentando i corsi di studio di nudo presso 1'Istituto delle Belle Arti e i corsi del Museo Artistico Industriale, da cui ottenne la medaglia d'oro.
Nel '94 espose per la prima volta a Roma all'Esposizione Nazionale col quadro «Dolore e miseria » e successivamente nel '95 a Palermo, nel '97 a Milano.
Nel 1902 espose alla Quadriennale di Torino " E pur si muove n che fu acquistato all' Esposizione di Santiago nel Cile ; nel 1906 ancora a Milano e infine nello stesso anno all' Esposizione summenzionata di Santiago.
Dal 1907 è rimasto, tranne brevi parentesi, a Catania, dove à condotto a termine parecchie opere di notevole importanza, nella Chiesa dei Bianchi, in quella di Sant' Euplio, e in palazzi privati.
Nel 1927 ottenne il gran prix all'Esposizione di beaux arts di Parigi.
Recentemente è stato nominato da S. M. Vittorio E. III, motu proprio, Commendatore della Corona d' Italia.
Dal 1929 al 1931 lavorò ed espose alla Fiera di Tripoli. Nella stessa città eseguì per ordine del Governatore il grande telone del Teatro Reale, e un quadro allegorico "Le Colonie e la Patria ".
Adesso decora il Palazzo della Provincia di Siracusa, in seguito ad un concorso, e decorerà quello della Provincia di Catania.
ritratto di Francesco P. Frontini