* del prof. Pasquale Licciardello - Il 2 dic. 1987 Gino Raya lasciava questo discutibile mondo: un infarto perentorio ne aveva stroncato la pur solida fibra. Particolare non trascurabile, l’evento funesto capitava alla fermata di un bus, sulla strada, nel buio d’una gelida sera della Roma congesta di anonima folla, l’aria affocata negli odiatissimi veleni del traffico. La morte confermava, così, quella solitudine che aveva segnato la sua vita di studioso. Supplemento di conferma, Raya tornava, solo (a ottantun anni e mezzo), da una conferenza culturale.
“Oltre il rogo non vive ira nemica”, si diceva una volta; e Benedetto Croce citava la sentenza a suggello della sua teoria della Storia come pensiero e come azione. La Storia in fieri, in quanto azione, “giudica e manda”, combatte e condanna; ma come pensiero, cioè storiografia, non giudica, giustifica. Vale a dire, spiega (dispiegando ragioni). La dottrina si applica anche ai protagonisti della cultura? Certamente. Ma la pratica è altra cosa: quale, per esempio, si presenta nel nostro caso. No, a Gino Raya la massima non è stata applicata. Nei vent’anni dalla morte, nessun segno di corale attenzione è venuto dal mondo culturale”: né da quello accademico né dal giornalistico. Solo pochi amici ne hanno risvegliata la memoria in occasione del decennale: ma privatamente, lontano dal moltiplicatore mediatico. Il mondo ha continuato a ignorarlo. Gino Raya rimane un autore vitando, un maudit: l’“ira nemica” continua a vivere oltre il rogo. Espressione (tra l’altro) da prendersi quasi alla lettera, essendo stato, il corpo, cremato, per sua coerente volontà testamentaria di materialista convinto. Quasi un estremo gesto di rivolta contro il plurimo “disordine” etico-culturale, che quel divergente genetico aveva largamente contestato con un’indipendenza di giudizio gelosamente difesa perfino dentro la giovanile militanza crociana. Nonché usata, spesso e volentieri, con asprezza sferzante, specialmente contro i palloni gonfiati delle diverse categorie: letterati, scrittori, critici, pensatori, politici.
Varia e copiosa, perciò, la schiera dei nemici presi di mira dalla frusta rayana. Che talvolta è sottilmente ironica e tagliente non meno della barettiana, altre volte alquanto umorale. Non c’è dubbio: faceva ben poco per farsi “accettare”. Diceva, il fiero Pertini, che l’uomo di carattere ha sempre un brutto carattere: è proprio il caso del nostro amico e compianto maestro. Qui, brutto significa, essenzialmente, fiero, coerente, poco incline alla tolleranza pelosa (o magari soltanto pietosa). E basta, questo stigma caratteriale, a legittimare l’ottusa ostilità dei suoi persecutori? Ottusa, perché largamente preconcetta e personalistica; e perché consumata, in prevalenza, con la più miserabile delle armi: la “congiura del silenzio”. Anche ipocrita, quell’ostracismo, visto che degli studi verghiani del Nostro si servono tutti: e questo è il solo caso che costringa gli utilizzatori a citarne il nome. Non mancano, però, esempi di vero e proprio furto: ci si appropria di suoi giudizi critici su questo o quell’autore o evento culturale senza citarne la fonte. Un furto che il collerico saccheggiato in qualche caso denunciò con l’accusa di plagio.
Lo si è anche accusato di atteggiarsi a martire, e forse c’è stata una certa enfatizzazione del ruolo: ma questo, il poco gradevole ruolo, gli era stato imposto, e anno dopo anno confermato, vieppiù intossicandolo. Un circolo vizioso: più Raya approfondiva la sua divergenza (di critico e pensatore) e più crescevano ripulse e silenzi. Ma anche: più montavano questi chocs en retour più si inaspriva l’animo ulcerato dello scomunicato vitando. Il movimento ricalca, in piccolo, il feed back positivo della cibernetica: l’effetto retro-agisce sulla causa intensificandone la forza, e questo incremento causale rifluisce sugli effetti amplificandoli. E’ quanto accade nelle valanghe o negli incendi. Se si pensa che la chemio-dinamica dei fenomeni biologici si basa sul prevalere del feed back negativo (l’effetto retro-agisce sulla causa depotenziandola) a salvaguardia degli equilibri vitali, si può capire come e quanto la salute psico-fisica di un perseguitato di acuta sensibilità debba soffrire. Magari fino a certe esplosioni di narcisismo reattivo poco congruenti con la sobrietà del carattere (allergico all’enfasi e ai facili elogi). O fino ai saltuari dubbi insensati sugli amici più veri e devoti, a certi sprechi di spazio della sua rivista per inutili foto-riproduzioni di lettere verghiane. Legati, questi sprechi, a un sintomo ancora più allarmante: il masochismo da ritorsione, che lo induceva a rifiutare per la sua rivista testi validissimi di qualche devoto allergico a sue richieste di facili libelli d’ispirazione famista,
Ma con tutti i suoi limiti caratteriali egli mi appare ancora un Gulliver fra lillipuziani nel confronto con la media attuale e tardo-storica (l’ultimo mezzo secolo o più) dei baroni in cattedra e degli operatori culturali in genere. E sia detto non per negare valori eminenti fra quei “baroni” e fra questi “operatori”, ma per relegarne l’eminenza dentro i perimetri dell’acquisito e del consolidato. Come dire: quei valentuomini sono bensì gremiti di erudizione e capaci di spostare qualche tassello e virgola del contesto metodologico ereditato (crocianesimo, marxismo, strutturalismo, decostruzionismo,…) e nell’area critica di questo o quell’argomento; ma dove cercare, in quel folto di prevalenti carrieristi schierati, l’idea nuova, la proposta che ti fa saltare dalla sedia o cattedra che sia? Dove, il dissenso radicale e ben motivato dai “valori” correnti, nel nome di una meno pigra e più controllabile scienza del mondo umano che quei valori ridefinisca e ridimensioni? Anni fa un “consulto” di cattedratici del nostro ateneo si chiedeva quale novità reale, e insomma rivoluzionaria, si fosse verificata in quella cittadella del sapere (anzi Sapere): guardandosi in faccia quei valentuomini furono costretti a riconoscere che la novità stava tutta e soltanto nelle scandalose teorie rayane: famismo e conseguente critica fisiologica. E qui un marziano, immune dai meriti terrestri, si figurerebbe che da quel riconoscimento il destino del Raya abbia galoppato in trionfale corsa di contrito risarcimento. Ma noi siamo sul pianeta Terra.
*
Per non millantare un copyright che non ci compete, riveliamo subito che quei marziani spettano alla scrittrice Pina Ballario, la quale, quaranta e più anni fa, scrisse questa scherzosa iperbole: “Gino Raya sarà, come Vico, apprezzato fra cento anni, dopo la epurazione fatta dai Marziani sulla terra. Non so perché si temono gli omini verdi dei dischi volanti. Io e gli amici miei sparsi un po’ in ogni parte del mondo li aspettiamo. E renderanno giustizia a Gino Raya” (“Gazzetta di Novara”, 23. 02, 1963)
*
Si potrebbe persino chiedere dove stia l’eccellenza espressiva degli eminenti, baroni di cattedra e big della libera prosa, inventiva o giornalistica, tanto rari sono i veri campioni di stile: conosciamo fior di “emeriti” che “non sanno scrivere”. Vale a dire che sono capaci al più di una prosetta ammodino, ampollosa o asfittica, dove la correttezza sintattica resta confinata all’aspetto grammaticale, senza sfiorare quella più vera sintassi che è “monoblocco” di pensiero-passione profondo e fulgido stile di stretta fitness. Una sintesi che vuole estro, arguzia, ritmo sequenziale, originalità di immagini e agilità comunicativa (fuggendo come la peste le lungaggini le cacofonie e l’ingorgo ipotattico). Ebbene, questo binomio raro, sostanza ed eleganza, Raya lo realizzava in ogni suo scritto (e sia pure con l’inevitabile “più o meno” di ogni prova umana nel tempo); gli altri, quando sono al top, si fermano a rapsodici decori e calchi “brillanti”. Il prosatore Raya (sia critico che narratore) fa pensare, tra l’altro, alla “regola” di Ivo Andric: “una parola superflua non dovrebbe mai essere pronunciata”, e proprio perché “nulla più della lingua induce allo spreco e al peccato”. L’autore più lontano da siffatti sprechi e “peccati”: ecco il prosatore Raya. Una qualità che gli veniva riconosciuta dalle poche celebrità oneste e non prevenute. Parlando della rivista Narrativa (fondata dal Raya nel 1956, trasformata, nel 1966, in Biologia culturale), Maria Bellonci scriveva: “Pubblica racconti e scritti critici dove non una parola sia superflua o convenzionale o bugiarda, e dimostra […] l’assoluta coincidenza fra arte e morale” (Il Giorno, 26. 04. 1960). E Antonio Aniante, a sua volta, coglie nello stile rayano l’elegante sintassi qui segnalata, attribuendola “a una forte carica culturale, aggressiva, sadica, immaginosa”, declinabile in questi termini: “La carica culturale utilizza gli strumenti volta a volta più idonei, dalla scienza alla cronaca nera. La carica aggressiva spiega la schiettezza e la densità del dettato, che punta al suo tema senza preamboli complimenti mezzi termini in genere. Nel processo aggressivo-polemico si dispiegano due fenomeni: quello sadico e quello umoristico; entrambi connessi al senso del ritmo. Solo che il ritmo del sadico corrisponde ad un certo compiacimento impietoso, e il ritmo dell’umorista corregge la crudeltà del sadico dirottandola nell’arguzia o nella risata” (Antonio Aniante, Il famismo, Milano, Pan editrice 1977). Non ci vengono in mente che due soli nomi di scrittori paragonabili al Raya: Concetto Marchesi e Gesualdo Bufalino. In modi diversi, ma ugualmente eccellenti, ti deliziano con la loro arguzia, fantasia, discreta ma schietta sensualità, audacia traslativa, laica profondità di pensiero, ironia dissacrante e commossa saggezza. La loro prosa te la senti quasi in bocca, come una leccornia che seduce il palato. E sia detto senza nulla togliere alle buone scritture del nostro panorama letterario novecentesco.
Il titolo di Aniante ci riporta al maggiore contributo di pensiero osato dal Raya. Il quale, all’alba dei suoi cinquant’anni, comincia a sviluppare quella estrema reductio ad corpus che è la dottrina famista o biologia culturale. Testo fondamentale, La fame. Filosofia senza maiuscole (Padova, 1961, con prefazione di Luigi Volpicelli. 3a ed., Roma, 1974). Libro spregiudicato e geniale, che, risalendo, secondo un aggiornato metodo vichiano (“Natura di cose è nascimento di esse…”), la vicenda filogenetica, trova nell’innesco metabolico della primordiale chimica organica l’origine e la sostanza costante della vita nella sua infinita fenomenologia. Siffatta impostazione porta a includere in quell’unica matrice l’uomo intero, “dalla testa al calcagno” (come recita una celebre formula). Dunque, anche l’intera gamma dei fenomeni mentali e cosiddetti spirituali, con totale ripudio della millenaria interpretazione dualistica o platonizzante. Un itinerario, insomma, dove ogni parametro antropico specifico (razionalità, affettività, cultura, religione. arte…) viene letto come sviluppo fisiologico del corpo nelle sue strutture “nobili” (cervello, ecc.) e accostato ad analoghe e più elementari funzioni del mondo animale. Il punto focale dell’homo novus famista sta nell’unicità del primum movens di ogni sua azione, di muscoli o di pensiero. Il benservito spetta alla ragione come categoria metafisica e presunta motrice di pensieri “spassionati”, di teoresi libera dalle emozioni. Il famismo dice: nessuna azione o respiro senza il movente passionale, che ricondotto alla sua radice basale, è sempre una modalità della pulsione fagica, un appetito. L’unica razionalità possibile sta nell’autodisciplina tecnica della passione-appetito, che può rivolgersi a una pagnotta come a un libro, a un corpo o a un cuore, e cioè secondo una sterminata gamma di trasposizioni. In ognuna delle quale affiora la originaria bivalenza del rapporto fagico: gradire o rifiutare. Di qui la visione antropofagica dell’eros. Quella spinta originaria non può non agire in ogni emozione. La normalità del freno anti-incorporazione nell’amore non deve cancellare la ricorrente prova tragica del delitto passionale come metafora dell’ingestione; né i casi di regressione cannibalica verso il corpo bramato. In questa severa reductio biotrofica l’arte non può essere che danza, ossia mimesi ritmica dell’atto fagico comunque trasposto (dislocato, sublimato o mascherato).
All’uscita del libro era facile prevedere quanto si è puntualmente verificato: salvo pochissime, nobili eccezioni, il resto sono reazioni di indignato raccapriccio presso le anime timorate (ivi compresi i grandi Tartufi dotti e cattolici); di superciliose ironie nei campioni dell’accademia sedicente laica (così tributaria, in rebus, della secolare tradizione metafisico-religiosa: anche quando si autocertifica materialistica). Troppo sconvolgente, la Weltanshauung rayana, per la varia pigrizia mentale dell’intellighentsia maggioritaria, non solo italiana, ma planetaria. La quale risponde riconfermando ad augendum quei valori assolutizzati che Raya chiama maiuscole (per l’iniziale un tempo d’obbligo nei relativi lessemi). E che, purtroppo, stanno dimostrando una vitalità tetragona ai colpi dell’evidenza, moltiplicando l’orrore del mondo con le quotidiane stragi del terrorismo islamico e dell’altrettanto criminale stragismo indiscriminato dei cosiddetti Paesi civili e democratici, come gli Usa e certi loro satelliti. Che in entrambi i casi la catalisi religiosa operante nelle diverse forme del fanatismo strumentale sia evidente nel suo aspetto più cinico e catastrofico non turba i sogni del quietismo mammonico ammantato di sonanti ideali. La voce del fantasma rayano, così chiara e forte contro le maiuscole potenzialmente assassine, continua a gridare nel deserto.
*
Questo è l’uomo cui si continua a far torto anche da cenere. Gli universitari, quando gli proponi di fare qualcosa per ricordarlo, si defilano. Qualcuno perfino “scusandosi col dir non lo conosco”. Ma non è solo il mondo accademico a recitare de Raya il poco gagliardo ruolo delle tre scimmiette (“non vedo non sento non parlo”): il variegato e altrettanto discutibile universo giornalistico non è da meno. Anzi. Giornali che il Defunto onorò per decenni si guardano bene dall’onorarne le ricorrenze. Tra questi spicca per assenza ribalda La Sicilia, che Raya illustrò per oltre mezzo secolo con i suoi eleganti elzeviri e “Servizi speciali” (da anniversari celebri: veri densi saggi critici).
Ma i responsabili del quotidiano hanno fatto di peggio. Alla notizia della morte, mi si chiese il classico coccodrillo (ero il seguace più in, e collaboravo, come tale, a quelle pagine culturali dal 1974). Lo scrissi, contenendolo nelle nuove misure imposte dalla rinnovata redazione culturale. Lo portai, come al solito, ignorando che lo stavo mandando al macello. L’articolo fu squartato: un pezzettino-civetta in prima pagina, il “servizio”, sfigurato da tagli infelici, a pg.24, tra il vario ciarpame dell’Attualità. Eppure era uno schietto pezzo da terza pagina. La piccola infamia suscitò indignazione tra amici conoscenti alunni del mio liceo: tra questi, una animosa fanciulla (Mariagrazia Finocchiaro) scrisse una vibrata lettera di protesta al giornale, che, con “piacevole sorpresa” dell’autrice, la pubblicò (18. XII. 1987, “La parola ai lettori”; titolo La biografia di Gino Raya): unica, inattesa, goccia di gratificazione pubblica (o piuttosto di risarcimento) in quel mini-evento di ordinaria cialtroneria. Ancora mi chiedo come mai sia stata pubblicata la lettera. E per opera di chi. Qualcuno, in quel cafàrnao di nuovi Soloni e grilli parlanti, dovette accorgersi che la si era fatta grossa: non s’erano offese soltanto due qualificate firme del giornale, ma lo stesso quotidiano, sfregiato da quel sezionamento imbecille. Altra inevitabile domanda: in quale sacco gastrico ribolliva l’incomprensibile odio verso il binomio così seviziato?
E il suo paese natale, la sua piccola patria, Mineo, che tanto giusto onore tributa al grande Capuana (Monumento in piazza, fondazione, vie, ecc)? Cos’ha fatto per quest’altro suo figlio? Nulla, che io sappia: neppure, forse, intitolarne una via, una piazza, un vicolo. Non ci è capitato di vederne, nei nostri due approdi a quella attraente meta natalizia. Si vedono, bensì, i libri del Raya che si occupano di Don Lisi, tra le mille pubblicazioni esposte nel palazzo di famiglia; ma tutto finisce lì. Chi dicesse a quei distratti amministratori che per valore culturale e genialità Raya è molto più alto del maestoso monumento del pur bravo narratore e critico e professore e folklorista e burlone fotografo ex sindaco don Luigi, li farebbe sorridere di ironia e compassione. Diremo, “Ai posteri”? Ma quali? Quando? Risuonano le dolenti note del Leopardi che fantastica del Parini, o della gloria. Egli, però, l’Infelice di Recanati, da cenere, di gloria ne ha avuta da riempire il pianeta e i secoli. Raya si deve accontentare di una dispersa presenza in rete (in vari siti è possibile trovare i suoi libri), dove lo studioso italianista (e dantista in particolare) nel suo sito internet Literary gli rende giustizia inserendolo fra i suoi densi Profili letterari siciliani dei secoli XVIII-XX (in cui ospita perfino il modesto sottoscritto). Gli siano rese grazie: non è quanto spetterebbe all’Ostracizzato, ma il poco è sempre meglio del niente. Al relativamente poco dell’infaticabile Ciccia è doveroso aggiungere il nome di Paolo Anelli, precoce autore di un vibrante pamphlet sul “Caso Raya”: Il silenzio delle farfalle infilzate. Sottotitolo: “La danza della vendetta di Gino Raya” (Firenze, Atheneum, 1991). Una testimonianza che è sempre un piacere rileggere. Intanto chi avrebbe pronti, da anni, un paio di robusti saggi, non può pubblicarli: la pensione di prof. di filosofia nei licei non consiglia consistenti spese extra-domestiche. Quanto alla famiglia del Rimpianto, opaco silenzio sull’argomento. GINO RAYA, A VENT’ANNI DALLA MORTE