Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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giovedì 6 novembre 2014

Guglielmo Policastro, studioso e scrittore di storia catanese (Catania 1881-1954)



Distillò in una quantità enorme di volumi, opuscoli e articoli i segreti di mille archivi, spesso mai prima esplorati. La biografia del marchese Antonino di San Giuliano fu la sua prima opera di vasto impegno; la seconda fu una Storia del Teatro siciliano (che è del '24). Le sue maggiori fatiche, che lo impegnarono in un estenuante lavoro ventennale, sono Catania prima del 1693 (nel 1693 la città fu ineramente distrutta dal terremoto), Catania del Settecento (ossia dopo la ricostruzione) e Bellini, rispettivamente del 1952, del 1950 e del 1935. Altre biografie, altri studi egli dedicò ai siciliani (Musco, Francesco Di Bartolo, Angelo Majorana, Gioacchino Russo, Orlando, Natale Attanasio) e, più raramente, a italiani d'altre regioni (Mussolini, Oriani, Bissolati, Boselli). Collaborò al Marzocco, alla Lettura, a Matelda, al Resto del Carlino, al Popolo di Sicilia, al Popolo di Roma, al Bollettino della Sera (New York), eccetera. Non ignorò il teatro (Oltre il potere umano, Il ponte della vita, 17 sicretu di Puddicinedda, 'U misi di maiu) né la narrativa (Il cortile di San Pantaleo e Inutilità del bene, romanzi) e la poesia. Prima che morisse, l'amministrazione comunale di Catania gli affidò l'incarico di ricostituire l'archivio storico, distrutto, con tutto il palazzo comunale, dall'incendio sedizioso del 14 dicembre 1944; ma riuscì solo ad accingersi all'opera. Pochi giorni prima di spirare potè mettere invece la parola « fine » a uno studio su Bellini a Parigi e a Londra. - s. Nic.

(1909) LA FONTE
Come un sottile stelo di cristallo, 
fiorito in cima in un azzurro giglio, 
dal centro de la vasca, ov'è un groviglio 
mostruoso di rami di corallo, 

rapido s'erge, un cerulo zampillo 
che scrosciando ricade, poi con roco 
romore ne la conca che trabocca 
d'acqua, ov'un cigno vaga dal tranquillo 
occhio e si sciacqua, or sì, or no, per gioco. 
Canta la fonte sonora con bocca 
una lieta canzone: i lilla a ciocca
olezzano , a l'Intorno ne l'aiuole 
tra l'umor de la vasca e il caldo sole, 
e mirano de l'Acque il dolce ballo.
                                                   Guglielmo Policastro.

***

Ricordo di Policastro
La mia amicizia con Guglielmo Policastro nacque quando io, reduce dalla guerra 915-918, venni dalla mia Giarre, dove ero nato nel 1895, a stabilirmi a Catania. Lui era già maturo e noto. Era nato nel 1881. Io, invece, giovane ancora e agli inizi della mia attività pubblicistica. Poi, a mano a mano che l'amore per la vita e la storia di Catania mi avvicinava e legava sempre più a lui, i nostri rapporti divenivano più stretti e cordiali. Avveniva tra me e Guglielmo Policastro quel che nel medesimo periodo avveniva tra me e Saverio Fiducia. Due miei grandi amici, uno migliore e più caro dell'altro.                          ,
Poi, quando egli mise mano alla selezione e alla raccolta dei suoi articoli, disseminati qua e là in giornali e riviste, per la stampa dei suoi due volumi su Catania, ed io, valendomi di rari preziosi documenti, mi ero già occupato della storia dei Monasteri e della chiesa delle Clarisse in Catania, Guglielmo Policastro, che quei miei articoli aveva letto, mi espresse il desiderio di averli messi a sua disposizione. Inutile dire che fui felice di accontentarlo.
*   *   *
È noto che mentre altrove, dopo il terremoto del 1693, la vita continuò a svolgersi e a fluire senza scosse, a Catania invece, a causa appunto del cataclisma che l'aveva ridotta una immensa e spaventosa montagna di macerie e rovine seppellendovi sotto ben 16.050 abitanti dei circa 25.000 che la popolavano, secondo la relazione del Duca di Camastra, la vita si fermò tra lutti e lacrime dei superstiti. I quali, però anziché scoraggiarsi e fuggire, pensarono, seguendo l'esempio dei loro progenitori, di fare rinascere la loro città così come nel corso dei secoli, altre sette volte fino ad allora era caduta ed era risorta. Infatti, prima ancora che spirasse il triste secolo, la nuova Catania incominciò a delinearsi nelle strade, nelle piazze, nei palazzi, più grande e più bella di quella scomparsa. In una gara meravigliosa tra nobiltà e popolo, tra civili e religiosi, a mano a mano che la città si ripopolava e risorgevano chiese, monasteri, palazzi, ville, scuole, eccetera, la vita, la cultura, la religione il commercio rifiorivano come, ad ogni primavera, rifiorisce la natura.
È stato quindi merito di Guglielmo Policastro quello di aver calato il suo volume « Catania nel Settecento » in quello che fu per Catania il secolo d'oro, così straordinariamente fecondo di intraprendenza, d'iniziative, di coraggio e d'amore, in una parola di opere, senza di che non poteva certo risorgere dalla tremenda catastrofe del 1693. In altre parole, con questo suo libro Guglielmo Policastro ha tessuto un vasto e persino suggestivo diorama della Catania settecentesca.
Certo, non si può parlare di « Catania nel Settecento » di Guglielmo Policastro senza accennare al volume di Francesco Fichera: « G. B. Vaccarini e l'architettura del Settecento in Sicilia ». Il Fichera, però, in questa sua magistrale opera che spazia fra l'altro in tutta l'Isola nostra con frequenti richiami e rilievi non solo artistici e architettonici, bensì biobibliografici, da quel grande architetto e studioso che era, guarda e studia Catania principalmente, più che dal punto di vista storico, da quello dell'architettura e dell'arte, facendo continuo riferimento alle opere del Vaccarini, a cui attribuisce anche la chiesa di Santa Chiara, appartenuta, crediamo, sempre alle Clarisse e mai alle Benedettine, e dovuta all'architetto Giuseppe Palazzotto, come con documenti alla mano ha potuto dimostrare nel 1942 il sottoscritto, vivente l'arch. Fichera (1).
Accanto a « Catania nel Settecento » bisogna ricordare un'altra opera storica del Policastro, cioè « Catania prima del 1693, così notevole e diremmo indispensabile per chi voglia vedere e studiare Catania come era appunto prima del Settecento.
E « Bellini »? Ricco di notizie e avvenimenti anch'esso, nonché di illustrazioni documentarie, per cui meritava una edizione migliore e più degna, « Bellini » è un libro che fa palpitare il cuore dei catanesi, anche perché contiene delle parole (p. 102) rivolte da Vincenzo alla sua mamma veramente commoventi. Parole che oggi, purtroppo, i figli, tranne rare eccezioni, non sanno dire alle proprie mamme.
In seguito Guglielmo Policastro scrisse anche « Bellini a Parigi ». Quanto lavoro, ricordo, e quante faticose, pazienti, instancabili e anche dispendiose ricerche gli costò. Ma con sua grande amarezza non fece in tempo a vederlo stampato. Il manoscritto lo conserva, tra le carte del padre, il figlio avvocato Rosario.
Topo di biblioteca e soprattutto assiduo instancabile ricercatore d'archivio, Guglielmo Policastro, qualificato « diligentissimo » dal maestro Francesco Pastura, un altro grande catanese che, prima di scomparire, ebbe la forza di portare a compimento  il suo « Bellini secondo la storia », elevando all'immortale musicista il monumento più alto e solenne, Guglielmo Policastro, dicevamo, ha lasciato tra i suoi lavori più importanti diversi opuscoli, uno più pregevole dell'altro. Si tratta di: « La Cappella musicale del Duomo e l'Oratorio sacro in Catania nel 1600 », « La musica ecclesiastica in Catania sotto i benedettini (1091-1565) », « Cento anni di attività musicale a Catania e nel Convento di San Nicolò l'Arena », « Musica e teatro nel Seicento nella provincia di Catania », « I Teatri del '600 in Catania »: tutti argomenti che nessuno aveva trattato con tanta messe di notizie e di particolari di prima mano e con tanto zelo. E per dire della loro importanza basti il fatto che furono tenuti presenti dal Pastura nella elaborazione del suo prezioso volume: « Secoli di musica catanese ».
Ma Guglielmo Policastro, ingegno versatile e multiforme, che spiegò la sua attività letteraria, storica, giornalistica, collaborando ad una infinità di giornali e riviste, anche esteri, si occupò anche di teatro. Al teatro infatti diede « Il Teatro siciliano », un volume interessante e utile per la conoscenza di autori, attori e teatri della Catania ottocentesca, compresi quelli delle marionette. Al teatro diede inoltre ben cinque sue commedie, tre in lingua: « Il ponte della vita », « Oltre il potere umano » e « Il cortile di San Pantaleo », e due: « U misi di maju » e « U sicretu di Puddicinedda » in dialetto siciliano. « Oltre il potere umano » fu rappresentato con successo nel 1909 nel nostro Teatro Sangiorgi.
*   *   *
Nato nel 1881 e avviato dal padre all'avvocatura, ben presto invece Guglielmo Policastro abbandonò l'università per il giornalismo. Venne così a trovarsi nella scia luminosa di Giuseppe De Felice («Corriere di Catania»), di Giuseppe Simili («Sicilia»), di Carlo Carnazza (« Giornale dell'Isola »), di Paolo Arrabito (« Gazzetta della Sera »), nonchè del marchese di Sangiuliano e di altre eminenti personalità del mondo politico, giornalistico, della cultura e dell'arte.
E fu proprio all'inizio della sua carriera pubblicistica ch'egli scrisse e pubblicò i suoi primi saggi biografici. Nel 1909 « De Felice » con prefazione di Napoleone Colajanni e un giudizio di Leonida Bissolati. Nel 1912 « Un uomo di Stato: il marchese Di Sangiuliano », con prefazione dello storico Francesco Guardione. Nomi, quelli di codesti prefatori, che bastano da soli a dare la misura del concetto in cui fin d'allora era tenuto Guglielmo Policastro.
Ricordo che spesso, nei momenti di scoraggiamento dovuti agli attacchi del male che ne minava la forte fibra se la prendeva col destino. Diceva che il destino gli era stato avverso. Ma ciò non era vero. Chi non ha qualche cosa da rimproverare al proprio destino?
Che egli non aveva potuto mettere la parola fine o non aveva potuto vedere stampati « Bellini a Parigi », « L'Ottocento musicale di Catania » e « Il Teatro Comunale di Catania », tre lavori ai quali aveva lavorato o stava lavorando con l'impegno e la passione che soleva mettere in tutto ciò che faceva, questo sì, era vero. Ma non pensava, o dimenticava che « per meritare la riconoscenza degli studiosi in genere e dei catanesi in particolare » — come alla sua morte, l'8 agosto 1954, scrisse di lui Saverio Fiducia — bastavano e bastano « Catania prima del 1693 », « Catania nel Settecento » e « Bellini ». - di Francesco Granata 

* Enciclopedia di Catania
* LA SICILIA », 13 agosto 1976.  



sabato 25 ottobre 2014

Zenone Lavagna il pittore votato a grandi cose. Nato a Biancavilla il 14 febbraio 1863

Nato a Biancavilla il 14 febbraio 1863, Zenone Lavagna aveva quattro fratelli (Natale, Salvatore, Antonino e Francesco), e una sorella : Maria. Non si può qui non accennare a Salvatore : medico, letterato e commediografo, che ha lasciato un volume (Camene, Catania 1959) in cui sono raccolti quattro suoi lavori teatrali, tra cui « Thamar », definito da Federico De Roberto « per il disegno e la vigoria di tocco un vero poema drammatico », e « Agata » rappresentata con successo al Teatro Massimo Bellini e all'Anfiteatro Gangi.
Ancora ragazzo, Zenone Lavagna si era fatto notare per le sue spiccate attitudini artistiche. Condotto quindi dai genitori a Catania, qui fu affidato al pittore e pastellista insigne Angelo D'Agata, da poco ritornato da Firenze dove aveva frequentato l'Accademia di Belle Arti. Lo studio del D'Agata era al secondo piano della sua casa in via Madonna del Rosario.
Ottenuto in seguito ai suoi progressi un sussidio dal paese natio, Zenone Lavagna poté recarsi a studiare all'Istituto di Belle Arti di Napoli. Ammesso al corso di figura, divenne ben presto allievo prediletto di Domenico Morelli. Conseguito il diploma passò a Roma per perfezionarsi alla scuola del nudo. E a Roma s'iniziò la sua vita di pittore errabondo. Infatti, oltre che in Svizzera (Zurigo e Locamo) e in Germania, soggiornò ora a Milano, ora a Pallanza, ora a Venezia, ora a Catania, ora a Palermo, dove, colpito da un male inesorabile, spirò nel marzo del 1900 a soli 37 anni.
nudo di donna, collezione Frontini

Al lavoro originale di creazione alternava lo studio delle opere dei grandi maestri, dei quali soleva copiare noti capolavori che poi rivendeva per poter vivere.
A Napoli aveva dipinto fra l'altro una Testa di giovinetta e un'altra Testina (pure di giovinetta), che sono due notevoli pezzi di pittura non foss'altro per il possente rilievo delle loro figure e per la soavità espressiva dei loro occhi.
Quando Zenone Lavagna, dopo aver soggiornato all'estero e in mezza Italia, venne a Catania, mise lo studio, aiutato certo dal fratello Natale, allora Curato della chiesa di S. Cosimo e Damiano, nella chiesa della Confraternita di S. Giacomo, nel medesimo spiazzo della Madonna dell'Aiuto e della Casa di Loreto (« prototipo — dice Guglielmo Policastro — del Santuario Lauretano»). E lì andavano a trovarlo Giovanni Verga e Federico De Roberto, Luigi Capuana e Mario Rapisardi, Calcedonio Reina e qualche volta anche Giuseppe Sciuti, tutti suoi amici e ammiratori del suo genio e della sua arte. Sciuti, dopo aver visto alcune sue tele, gli predisse successo e grandezza. « Voi farete cose grandi », gli disse. E quel vaticinio si sarebbe avverato se il giovane e tra i nostri maggiori pittori dell'Ottocento non si fosse spento allorché il di lui meriggio stava per scoccare, come scrisse Saverio Fiducia in questo stesso quotidiano nel gennaio del 1954.
Giovanni Verga soleva accompagnarsi a Zenone Lavagna e soffermarsi a guardarlo mentr'egli fermava su tela o su tavolette angoli della Catania della fine del secolo. Uno di quegli angoli (un quadretto di cm. 23 x 16) mi fu regalato or son molt'anni, assieme ad una figura terzina di nudo dello stesso Zenone, dal di lui fratello e mio indimenticabile amico dottor Salvatore. Tale quadretto rappresenta l'antica chiesetta di Santa Maria degli Angeli, edificata nel 1383 e assegnata poi ai PP. Cappuccini e tuttora esistente, ma abbandonata, nei pressi dell'icona della Madonna del Conforto, o d' 'u pani cottu, come la chiama il popolo, lungo la via Cifali, che sarebbe stato più giusto chiamarla Cibele.

Fra le opere più importanti di Zenone Lavagna, oltre quelle già citate, sono da ricordare : un ritratto del Card. Dusmet, che dovrebbe esistere alla Curia Arcivescovile ; l'Arabo, una testa trattata con una tecnica comune, sì, ad altri pittori del suo tempo, ma che tuttavia si distacca e differenzia dalla pittura coeva per una personale impronta e vigoria di disegno, impasto e tocco ; il Monaco, che è il ritratto di un noto frate catanese soprannominato Pisasale; i ritratti della Madre e della Signora Concettina. Questi due ritratti segnano, fra l'altro, il passaggio dell'arte di Zenone Lavagna ad una tecnica, per cui essi hanno per lo studioso una rilevante importanza. Si tratta di una nuova tecnica che andò poi sviluppandosi ed evolvendosi attraverso audacie coloristiche che se nell'Ottocento potevano sembrare ed erano tali, ora mostrano invece quanto fossero avveniristiche e precorritrici.
Accanto a codesti due ritratti stanno l'Opera che, ispiratagli dall'omonimo romanzo zoliano, figurò nel 1895 alla Triennale di Brera; Peccato e Perdono, che raffigura un pittore davanti il cavalletto in atteggiamento triste e pensoso con a fianco la modella compresa dell'afflizione del maestro; di Mater Admirahilis, nonché di paesaggi, quali, ad esempio, 77 lago di Como e Rio di Venezia. A proposito di Mater Admirahilis, che è una delle migliori e più avvenenti opere di Zenone Lavagna e della pittura dell'Ottocento non soltanto catanese, essa fu tuttavia respinta da una Mostra religiosa torinese, ma poi, nel 1898, accettata ed esposta alla Mostra Internazionale di Venezia ed acquistata dal cav. Francesco Parisi per la sua Galleria veneziana. Il titolo a codesta opera fu dato da Calcedonio Reina.
Un'opera veramente singolare è la tela che rappresenta : a destra Cristo in croce, a sinistra la Madonna straziata dal dolore e nello sfondo il panorama di Gerusalemme. A parte la bellezza delle figure animate di verità e poesia, la singolarità di questa tela, oltre che nella grandiosità (metri quindici per dieci), consiste nel fatto che mentre il fondo è azzurro le figure sono bianche, un bianco, però, che, col passare degli anni, si è un po' oscurato. Eseguita nel 1896 appartiene alla chiesa madre di Belpasso e viene esposta una volta l'anno dalla domenica delle Palme a Pasqua . A proposito della Pasqua, ecco un particolare che mi è stato raccontato dall'amico belpassese prof. Venero Girgenti. Un tempo, quando la gloria suonava di mattina, verso le ore undici, i ragazzi che affollavano la chiesa fuggivano a gambe levate per andare a prendersi 'i Cicilia, cioè i cuddura ccu l'ova.
A questo punto mi corre l'obbligo di ringraziare non soltanto l'amico Girgenti, bensì, per le notizie gentilmente favoritemi, il parroco Padre Giuseppe Vasta e il signor Antonino Lavagna, pronipote di Zenone, figlio del quasi novantenne nipote Giuseppe, che porta il nome del nonno.
   
nudo di donna 2, collezione Frontini

Ma non possiamo chiudere queste brevi note su Zenone Lavagna senza accennare al suo San Francesco di Paola.
È un'opera firmata. Nessun dubbio, quindi, che sia sua. Ma perché, vien fatto di chiedersi, perché sotto la firma l'artista ha scritto : « dal Tiepolo di Venezia », se non ha nulla che la faccia somigliare a quella del Tiepolo? Proprio nulla. Né l'atteggiamento della figura, ispirata e solenne nel Tiepolo, conclusa invece in una mistica compostezza nel Lavagna ; né la luce che, mentre nel Tiepolo non investe solamente l'immagine del santo ma tutto il quadro, nell'opera del Lavagna è crepuscolare e lo sguardo del santo traluce appena dalle palpebre socchiuse ; né, infine, lo sfondo, grigio nel Lavagna, splendente invece e rallegrato da alcuni angeli nel Tiepolo. Che Zenone Lavagna abbia visto il San Francesco di Paola del Tiepolo e gli sia venuto l'estro di trattare anche lui il medesimo soggetto, questo sì. Ma che poi lo abbia fatto a modo suo, anche questo non si può negare. E così il suo San Francesco di Paola è suo, tutto suo. Se qualcuno avesse dei dubbi, non ha che da andare a Venezia a vedere, nella chiesa di San Benedetto, quello del Tiepolo e poi venire a casa mia a vedere quello del Lavagna. Sì, perché ce l'ho io da circa quarantanni.
Era andato a finire, attraverso chi sa quali e quanti passaggi, nella botteghina di un caro vecchietto nei pressi di San Placido. Me ne parlarono, data l'amicizia che ci legava, il pittore prof. Benedetto Condorelli e il dott. Salvatore Lavagna, fratello, come già detto di Zenone.
Andammo insieme, ricordo, e io comprai il quadro. Lo feci incorniciare e da allora l'ho sempre tenuto nel mio studio.

* « LA SICILIA », 9 marzo 1977. di Francesco Granata
* Catalogo illustrato della « Mostra retrospettiva della pittura catanese » organizzata nell'ottobre del 1939 in Castello Ursino dal quotidiano « Il Popolo di Sicilia ».