Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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mercoledì 18 gennaio 2017

Luigi Capuana e "la politica anzitutto"


  • Ebbi rimorsi di non essermi sentito Siciliano abbastanza; di avere esagerato anch’io i difetti del carattere isolano, e di avere apprezzato equamente pregi e particolari ogni volta che, interrogato, avevo dovuto ragionare; ebbi rimorso di non aver difeso clamorosamente, e senza sciocche gonfiezze di amor provinciale, la Sicilia, quando l’avevo sentita mal giudicata o calunniata... cosa non rara purtroppo! (Capuana da L'isola del sole - proemio, Giannotta ed., Catania, 1914)



La vastissima produzione di letterato e di critico di Luigi Capuana è conosciuta universalmente (e la diversificazione in generi letterari numerosi nell'ambito di essa dà la misura delle qualità dell'Autore); meno conosciuta per taluni risvolti la dimensione politica, che il Nostro esplicò con grinta e con passione, pur con le pause degli anni vissuti a Firenze a Milano e altrove — per un trentennio, congiuntamente anzi strettamente intrecciata con l'attività letteraria.
Fu una vocazione o predisposizione, lontana nel tempo, risalente agli albori dell'Unità, se troviamo il Capuana nel maggio 1860, appena ventunenne, vice presidente del «Comitato di operazione di Mineo», insediatosi dopo lo sbarco di Garibaldi per il dissolvimento degli organi municipali (cfr. Gino Raya, Bibliografia di L. Capuana, Roma, 1969, p. 12). Il 30 giugno successivo, il presidente del Municipio portava a conoscenza del Capuana che il Governatore del distretto l'aveva nominato «Segretario Cancelliere di questo Consiglio civico». L'incarico, provvisorio, fu espletato egregiamente per tutto il semestre. L'11 agosto 1861 fu scelto dal Governatore come consigliere del comune (il Consiglio civico in questa fase non era ancora elettivo) ed invitato alla sessione che iniziava il 20 successivo (cfr. C. Zimbone, La Biblioteca Capuana, Catania, 1962, p. 62). Ancora qualche anno trascorso nel natio loco e poi l'espatrio a Firenze, dove rimase per cinque anni, fino al 1868.

Nell'agosto del 1868 (era rientrato a Mineo alla fine di giugno), la morte improvvisa del padre e «gli affari di famiglia» gli imposero di rimanere a lungo. Riprendeva i contatti con i conterranei e, in particolare, con Lionardo Vigo e con Mario Rapisardi. Nel 1870, nel corso dell'anno scolastico, dalla Giunta comunale fu nominato «ispettore scolastico municipale». Di questo incarico, adempiuto con senso del dovere, rimane il testo del lungo discorso pronunziato il 24 novembre 1870, giorno della solenne premiazione (Il bucato in famiglia, Catania, 1870, pp. 23). È questo il tramite, o il ritorno di fiamma, che lo traeva dal privato al pubblico.

Nelle elezioni amministrative, svoltesi nel corso dell'anno, venne eletto consigliere comunale: iniziava così il nuovo ciclo di attività amministrativa, al servizio della cittadinanza. Nel 1872, con regio decreto del 29 febbraio, venne nominato Sindaco di Mineo. Dopo pochi mesi il consiglio comunale fu sciolto e la gestione affidata al R. Delegato straordinario cav. Antonino Fassari inviato dalla prefettura (rimane una Relazione sulla tenuta dell'amministrazione del Comune di Mineo, Catania, 1872). Del nuovo consiglio, che tenne la prima seduta il 24 agosto 1872, fece parte il rieletto Capuana, che dopo venne nominato sindaco, sempre con regio decreto.
Le sindacature del Capuana durarono, in questa fase, poco meno di quattro anni. In una lettera («Mineo lì 2 marzo 1875») all'amico Giovanni Gianformaggio, Capuana lo informava della stesura di una relazione riguardante il periodo della sua amministrazione «Sto scrivendo la mia relazione al pubblico delle cose fatte nei quattro anni di sindacatura» (L. Capuana, Carteggio inedito, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Catania, 1973, p. 11). Le elezioni, che si svolsero nel luglio 1875, segnarono la sconfitta dell'amministrazione guidata da Capuana.
La quasi totalità dei biografi e degli studiosi sono convinti che le sindacature del Capuana furono solamente queste, specificando erroneamente la durata continua di cinque o di sei anni. Tutti omettono la sindacatura triennale dal 1885 al 1888. La testimonianza in tal senso nel Carteggio Verga-Capuana, edito da Gino Raya (Roma, 1984, pp. 274-275), ed è Capuana che in una lettera, inviata da Mineo il 9 agosto 1887 dopo il lungo sfogo confidava all'amico Giovanni: «Come Sindaco non ne posso più! ». Rimarrà in carica ancora un anno. Un cronista del quotidiano catanese Il TelefonoEco dell'Isola riferiva, nel novembre 1887, nella rubrica «Vediamo un po'», un incontro non comune. Lo stelloncino era titolato «Il Sindaco di Mineo»: « Luigi Capuana, il fortunato autore di Giacinta, è qui fra noi da parecchi giorni. L'ho incontrato al corso con Giovanni Verga» (a. I, n. 104, martedì 15 novembre 1887, p. 2).

*   *   *
Nel decennio intercorso fra le sindacature del 1872-1875 e l'ultima del 1885-1888, vi fu la fase propriamente politica allorquando il Capuana si convinse che la conquista della medaglietta fosse agevole nel Collegio elettorale di Militello in Val di Catania, che comprendeva anche il comune di Mineo. Nel primo decennio dopo l'Unità d'Italia, il collegio era stato conquistato agevolmente dal barone Salvatore Majorana-Cucuzzella. Nel decennio successivo, con inizio il 20 novembre 1870 fu rappresentato, per le successive cinque legislature, dal professore Salvatore Majorana Calatabiano, che cessò automaticamente il 13 luglio 1879 per la nomina a senatore. Questa l'occasione buona per l'inserimento (pensava il cav. Luigi Capuana).
Nelle elezioni indette per il 3 agosto 1879, Capuana ebbe due forti avversari: il barone Benedetto Majorana Ramingo, che sperava di ereditare l'elettorato di famiglia del padre Salvatore, già deputato, e Ippolito De Cristofaro dei baroni dell'Ingegno, che aveva compatti i voti degli elettori di Scordia.
Vinse quest'ultimo largamente, e il povero Capuana, buon ultimo, si dovette accontentare di appena 66 voti (su un totale di 532 espressi validamente). Le elezioni generali per la nuova legislatura si svolsero il 16 maggio 1880 e l'uscente De Cristofaro ebbe per competitore unico il Capuana che fu ancora una volta soccombente (De Cristofaro voti 421, Capuana 114). Dell'insuccesso vi è traccia incisiva nella lettera inviata da Verga pochi giorni dopo («Milano, 28 maggio 1880») «Temevo che tu fossi in collera con me, come l'amico Campi, per il fiasco elettorale»; della candidatura ampia pubblicità nel quotidiano catanese Il Plebiscito (a. 1, n. 102, del 10 maggio 1880, p. 2), che l'appoggiò calorosamente.

Dobbiamo ora considerare, e con indagine mirata, la terza ed ultima fase dell'attività politico-amministrativa di Capuana, che va dall'anno 1885 al 1892, così frenetica e convulsa nello svolgimento da meritare lo slogan «politica ad oltranza» (o, come si direbbe in Francia, «politique d'abord, tout d'abord»). Il sindaco Capuana, in sella dall'agosto 1885 è indaffaratissimo; non solo «per patrocinare il bilancio del Comune presso la Depurazione provinciale» (lettera a G. Verga del 3 dicembre 1885), ma per i nuovi pesanti obblighi sopravvenuti dal luglio '85 con la elezione a consigliere provinciale per il mandamento di Mineo. Subentrava al barone Francesco Spadaro, che era stato eletto nel 1861 e rieletto dopo per un quarto di secolo. Il cav. Luigi Capuana raccolse 214 voti e fu probabilmente presente alla prima seduta della sessione ordinaria del 10 agosto; dopo l'insediamento, fu eletto componente della 3a commissione Istruzione e beneficenza.
Ma le assenze, fin dai primi mesi, furono molto più numerose delle presenze. Aveva promesso a Federico De Roberto, in una lettera del 20 novembre '85, di occuparsi di un affare editoriale a breve scadenza «Me ne occuperò costì, appena dovrò venirci pel Consiglio provinciale». Anche Giovanni Verga sembra deluso per l'assenteismo e così gli scrive il 16 dicembre '85 «Fui sino dal Giannotta a chiedere di te, quando sfumarono le speranze di vederti in occasione delle sedute del Consiglio provinciale. Bel consigliere che fai! ». Esplicò una certa attività; nella seduta del 15 dicembre 1886 fece aggiungere due proposte: la prima «per dichiararsi provinciale la strada Fondacaccio-Mineo» e l'altra «per un sussidio all'osservatorio sismico meteorologico di Mineo» (sollecitata dall'amico Corrado Guzzanti). Dopo, negli anni successivi, le sue assenze divennero sistematiche, e sappiamo che per lunghi periodi soggiornava a Roma e nella primavera del 1888 divenne redattore del Corriere di Napoli, diretto da Edoardo Scarfoglio.

Trascorse così il quadriennio del mandato di consigliere e nelle elezioni successive, indette per domenica 27 ottobre 1889, il quotidiano Corriere di Catania, appoggiava il candidato Capuana per i suoi meriti di letterato, ma si esprimeva con cautela per il resto e con monito per l'interessato; «Quantunque dimorante a Roma il nome illustre ci obbliga a sostenerlo, e confidiamo che gli egregi amici nostri, i quali colà si sono messi in candidatura in opposizione al Capuana vogliamo ritirarsi. Del resto nella nuova legge è sancito il principio della decadenza ed ove il Capuana non rappresentasse gli elettori al Consiglio provinciale si farebbe sempre in tempo per soddisfare alle legittime aspirazioni dei cittadini di Mineo» (a. XII, n. 292, giovedì 24 ottobre 1889, p. 2).
La spada di Damocle della decadenza non turbò il nostro consigliere, che svolgeva la sua attività di scrittore e di giornalista a Roma, cosicché nei primi mesi del 1890 fu avanzata dal prefetto «la proposta di decadenza per le assenze ingiustificate alle sedute della sessione ordinaria». Essa fu posta all'ordine del giorno della seduta dell'8 aprile 1890. Parlarono a suo favore numerosi consiglieri: gli avvocati Eduardo Cimbali e Giovanni Auteri Berretta e, ancora, l'autorevole comm. Francesco Tenerelli senatore del regno. Perorarono efficacemente, sostenendo che le assenze del Capuana erano giustificate, in quanto dovute a malattia. Il prefetto Vincenzo Colmayer « custode della legge», pur non perfettamente convinto, tuttavia ritirò la proposta di decadenza.
Due anni dopo Luigi Capuana presentava formali dimissioni che furono accettate. Si chiudeva così definitivamente un ciclo di attività extra letteraria durato circa trent'anni. Si apriva un altro capitolo della vita di Luigi Capuana: aveva ottenuto dal ministro della P.I., nel novembre 1892, la nomina di professore incaricato dell'insegnamento di letterature straniere comparate presso il R. Istituto Superiore di Magistero femminile di Roma.
(La Sicilia, 29 novembre 1985) Sebastiano Catalano




domenica 27 novembre 2016

Salvatore Paola Verdura sommo civilista catanese.

Catania, in ogni tempo, ha espresso giuristi ed avvocati prestigiosi, che hanno onorato il suo Foro e la cui fama ha varcato i confini non solo della città ma della Sicilia. «Il foro di Catania in particolare non è inferiore al foro di Napoli, di Torino, e di Parigi, né nella scienza del diritto, né nella energia della difesa» (così, nel gennaio 1861, affermava nel discorso inaugurale dell'anno giudiziario il Procuratore generale avv. Gabriele Carnazza




Fra i grandi civilisti della seconda metà dell'Ottocento, un posto eminente occupò certamente Salvatore Paola Verdura (Catania, 1837 /20 luglio 1916). Ottenuta la licenza di procuratore nel 1858, a ventun'anni, fu attratto irresistibilmente dall'entusiasmo che destava — anche in Sicilia — l'imminente guerra contro l'Austria e fu, nell'anno successivo, tra i più infervorati nel corso delle manifestazioni patriottiche a Catania «il cui centro era il gabinetto di lettura Fanoj » (come ricorderà il Paola in una memoria — inedita — stilata quarantanni dopo verso la fine del secolo). Nel giugno 1860 lo troviamo a Palermo prendere parte ad una grande dimostrazione unitaria organizzata da Giorgio Tamajo e con le funzioni di segretario in una delle commissioni che preparavano il plebiscito. «Nel 1862, quando Garibaldi entrò in Catania feci il mio dovere di soldato nella Guardia Nazionale» (e durante il servizio avvenne l'incontro con Giovanni Verga, anche lui milite, e l'inizio di un'amicizia durata oltre mezzo secolo, fino alla morte del Paola: vedi « L'amico avvocato », La Sicilia, 25 gennaio 1981).
Diamo ora rapidi cenni sulla sua presenza nell'amministrazione comunale. Dal 10 giugno 1860, quando fu nominato con decreto del Governatore del distretto di Catania Vincenzo Tedeschi, componente del Consiglio civico, poi consigliere sempre rieletto fino al 10 agosto 1897 (ed assessore il 2 settembre 1874 e più volte dopo, ed ancora eletto in Giunta il 7 gennaio 1891), diede negli incarichi tutti prova di rara competenza e probità. Alla fine del secolo, lo troviamo presidente della commissione consiliare per la Circumetnea.

Il 26 gennaio 1861 conseguì la laurea (e la coeva iscrizione nell'albo degli avvocati) e quindi — dopo un periodo trascorso nella fucina del grande Filadelfo Faro (che venne definito «ultimo della pleiade degli insigni avvocati catanesi», e che nel 1884 — primo anniversario della morte — degnamente commemorò) —, ebbe inizio un'attività professionale di tale fulgore, che dopo un quarantennio fu definito il primo avvocato d'Italia. Nel gennaio 1875 (a seguito della legge 8 giugno 1874) gli avvocati catanesi elessero il loro primo consiglio e Salvatore Paola fu uno dei quindici componenti. Trentacinque anni dopo, nel 1910, fu eletto presidente dell'Ordine (il quinto della serie), incarico che mantenne per i sei anni successivi fino alla morte.
Le scarne notazioni che precedono non mettono appieno in risalto la statura del giurista e dell'avvocato, ma d'altra parte non mancano testimonianze, episodi, giudizi, espressi in vita o dopo la morte da personalità di primissimo piano. Abbiamo posto in risalto che Paola fu amico fraterno di Giovanni Verga, che ricorreva spessissimo ai suoi sapienti consigli ed aveva fiducia illimitata solamente in lui. In tutte le cause che si svolsero a Roma, Torino, Milano (per i diritti d'autore di «Cavalleria rusticana», anche se i patroni di Verga erano professionisti di quelle città, sappiamo dall'epistolario che il deus ex machina rimaneva Salvatore Paola, con le citazioni comparse e memorie che spediva da Catania. 

Lettera inedita di Giovanni Verga all' avv. Paola (per Malìa)

In una lettera — a tutt'oggi inedita — all'inizio delle vicende giudiziarie di «Cavalleria rusticana», Giovanni Verga esprimeva profonda delusione per la chiacchiera dei forensi (e va oltre adoperando spregiativamente « sproloquiavano ») e nel contempo riesce a mettere in buona evidenza la qualità di fondo > del Paola: la dialettica fine e sottile (rimarcata poi nella commemorazione del 30 luglio 1916, pronunziata da Gabriello Carnazza per incarico dell'Ordine forense):
«Milano, 27 maggio 1891 — O Paola! Anzi, o Turiddu Paola! Dove sei? dove eri ieri, mentre questi deputati ed ex ministri sproloquiavano delle ore per non dire nulla? Dov'è la logica serrata e stringente delle tue conclusioni, in luogo di questi volumi che nessuno legge e che è inutile leggere? [...] G. Verga».

Ed è ancora il Verga che riferisce, in una lettera del 1902 (che possiamo annoverare fra quelle di valore storico) inviata da Milano al Paola, un giudizio espresso dall'insigne giurista Emanuele Gianturco (nel 1901 ministro di Grazia e Giustizia):
«Milano, 16 ottobre 1902 — Carissimo Amico, l'altra sera, pranzando con Donna Elena Cairoli, seppi da lei, con gran piacere, che Gianturco in casa sua a Roma aveva parlato di te, con altri, come del 'primo avvocato d'Italia'. Il tuo nome cadde nel discorso a caso, e la Cairoli mi riferì le parole del Gianturco senza sapere affatto che io ti sono tanto amico (e neppure che io ti conoscessi); il che mi affrettai a dichiarare come puoi immaginare, perché dell'amicizia tua sono lieto e orgoglioso, e l'alta stima in cui ti hanno uomini come il Gianturco, e la fama che accompagna il tuo nome mi fanno piacere immenso.
Ti abbraccio tuo aff.mo G. Verga».

Catania e la Sicilia furono sconvolte dall'affare che ebbe per protagonista l'ex ministro Nunzi Nasi, accusato di peculato in danno dello Stato. E Catania si mobilitò: il 21 aprile 1907 con n comizio indetto dai partiti popolari e il 17 luglio successivo con una manifestazione di protesta per l'avvenuto arresto (oratore l'avvocato Giuseppe Simili). Ricordiamo ciò per due motivi: il caso giudiziario ebbe l'epilogo avanti la nostra Corte di appello (in sede di rinvio) e perché l'atto di appello a stampa («Sul diritto elettorale di Nunzio Nasi», Catania, Tip. del Popolo, 1913, pp. 33), presentato alla fine di gennaio, fu sottoscritto come primo difensore dal comm. avv. Salvatore Paola (e di seguito da ben quaranta avvocati catanesi, di cui sette docenti universitari).

Nonostante la fama e la deferenza della clientela altolocata, dei colleghi, dei magistrati, delle personalità politiche che lo ricercavano, non conobbe vanità e superbia: «Corretto, elegante e semplice nella conversazione, non parlava mai di cause e molto meno di successi; deviava, anzi, l'argomento» (così delineava il carattere e lo stile l'avvocato Salvatore Boscarino nell'ottima «Rievocazione» del 18 aprile 1936 al Palazzo di Giustizia).
E una consuetudine cara all'ultimo Verga viene ricordata da G. Poidomani, già vice prefetto di Catania, «sedeva al ' Circolo Unione ' con gli inseparabili amici avvocato Paola e prefetto Minervini». Ma la testimonianza e l'elogio più alto per l'avvocato provengono dalla Magistratura catanese: «Ebbe felice e fulmineo l'intuito, la visione chiara, netta, precisa della controversia, ed il suo parere conteneva la sentenza che inderogabilmente doveva chiudere il dibattito » (così il procuratore del Re Giovanni Binetti nell'Assemblea generale del 6 novembre 1916).
A un professionista eccezionale non poteva mancare un singolare privilegio: l'epigrafe sul marmo della sua tomba fu dettata da Giovanni Verga:

«Qui la salma / di / Salvatore Paola Verdura / e il cuore dei suoi / con la reverente memoria / di quanti ne conobbero / l'alto spirito e l'opera».
(La Sicilia, 21 luglio 1981) Sebastiano Catalano

martedì 22 novembre 2016

MARIO RAPISARDI POETA DELL'APOCALISSE

Il titanico creatore del poema Lucifero, il dissacratore di miti e di leggende, di santi e di credenze religiose, la cui potente fantasia nutrita di aneliti libertari raggiunge l'acme nel Canto decimoquinto con il trionfo di Lucifero e la morte dell'Eterno, conclude la vicenda di un luogo terrestre « [...] menre l'eroe discende sul Caucaso, ed annunzia a Prometeo la fine dell'impresa», e rivolgendosi infine al medesimo nell'ultimo verso del canto e del poema: «Levati, disse, il gran tiranno è spento!».



Non si direbbe, dopo l'exploit iconoclasta del 1877, che l'esordio poetico di vent'anni prima possa essere stato antitetico: il fanciullo, esile e timido, quindicenne — e «imbevuto, dalla puerizia, di cattoliche fiabe», come scriverà trent'anni dopo nell'«Avvertimento» ad una ennesima edizione del poema — aveva composto l'Ode a Sant'Agata, vergine e martire catanese (ispirata dalla festività e dalla devozione alla Patrona, nel febbraio 1859).
Per volere del padre, don Salvatore, patrocinatore legale, intraprendeva nel 1862 gli studi unversitari di Giurisprudenza (quando Giovanni Verga li aveva già abbandonati da un anno) per diventare avvocato e così ereditare la clientela paterna. La poesia e le pandette reclamavano dunque il suo tempo (ne concedeva molto alla prima e poco alle seconde). La Palingenesi (poema in dieci canti, Firenze 1868) gli procurò i primi riconoscimenti e i giudizi lusinghieri ed esaltanti (da quello notissimo di Victor Hugo a quello ignorato di Lionardo Vigo che, oltremodo entusiasta, inneggiava a Catania che ha un poeta-filosofo e stabiliva una similitudine con Vincenzo Bellini).

Naturale il dispiacere del padre, ormai certissimo di non vedere il figlio avvocato, che tuttavia un mese prima della morte — avvenuta a Catania il 15 gennaio 1871 — ebbe la gioia (e insieme la sorpresa) di apprendere che il ventiseienne Mario era stato chiamato, per titoli letterari, dal ministro della Pubblica istruzione Cesare Correnti con decreto emesso il 15 dicembre 1870, a dettare lezioni di Letteratura italiana nella Facoltà di Filosofia e letteratura (allora così denominata) del patrio Ateneo.
L'incarico nel primo quinquennio era precario, ossia rinnovato di anno in anno, e retribuito in maniera inadeguata ed insufficiente; e, quindi, la ricerca di un incarico di letteratura nel Liceo, su consiglio dell'amico Francesco Dall'Ongaro, letterato fiorentino. Il motivo vero della necessità di un'altra fonte di guadagno nell'autunno del 1871 — dopo il primo anno di incarico universitario — è il matrimonio già stabilito, e non lontano, con Giselda Fojanesi. La giovane maestrina fu raccomandata vivamente a Rapisardi, in una lettera del 23 aprile 1869, da Dall'Ongaro «Verrà probabilmente a Catania come maestra, una cara giovanetta Giselda Fojanesi. Dipende dal Consiglio comunale che non abbia impegni preventivi con altra. Se la mia nipote (nipote d'affetto) viene a Catania, voglio che trovi una famiglia amica nella vostra». Nei primi di settembre ebbe inizio il viaggio da Firenze, come scriveva da Firenze il 30 agosto 1869 Giovanni Verga alla madre: «[...] mercoledì mattina [...] mi metterò in viaggio colle signore Fojanesi e sarò a Catania sabato col treno della sera» (cfr. G. Raya, Bibliografia verghiana, Roma, 1972, p. 14).
Dall'ottobre successivo la Giselda insegnava in un educandato femminile della città, e dal 1870 era fidanzata con Rapisardi. I preparativi per l'imminente cerimonia nunziale e la partenza per Catania delle Fojanesi sono descritti dal medesimo Dall'Ongaro a Mario in una lettera dell'11 febbraio 1872. «Con quanto piacere avrei accompagnata fra le tue braccia la tua Giselda [...] Onde io l'accompagno co' miei voti e partecipo in ispirito al vostro contento. Ti scrivo queste righe, mentre la Giselda e la madre, e le mie donne si affaticano per apprestar la partenza».
Senza seguire i dettagli delle vicende ulteriori, diciamo che dal 1871, e maggiormente dal 1872, il peso gravante sulle gracili spalle di Mario si è perlomeno triplicato: la famiglia e il duplice insegnamento. Aveva, infatti, ottenuto dal novembre 1871 periodi di supplenze nell'anno scolastico 1871-72, e l'incarico annuale dal 1872-73 al 1874-75, di letteratura al Liceo «N. Spedalieri». L'insegnamento al Liceo lo abbandonò nel 1875, quando divenne straordinario di Letteratura italiana e gli fu conferito l'incarico di Letteratura latina. La poesia, inoltre, avviluppava la sua vita e richiedeva le più nobili energie intellettuali, da preservare e separere da quelle occorrenti per i compiti e le incombenze pur doverosi.
Nell'estate del 1876 il poeta era completamente assorbito in una complessa e gigantesca operazione di « assemblaggio » di ottave, sestine, quartine e terzine, fucinava, martellava e limava nelle ore notturne i versi — diventati man mano ben ottomi-laottocentosette — del poema Lucifero, a cui lavorava da ben quattro anni. Appunto dalla lettera di un amico fraterno apprendiamo che è del 1873 l'inizio della gestazione: «ho più fede nel suo Lucifero che nel discorso critico su Catullo, il quale non so veramente se le gioverebbe molto per conseguire una cattedra universitaria di Letteratura italiana» (Angelo De Gubernatis a M. Rapisardi, Firenze, 1 dicembre 1873).

Il 23 luglio di quel 1876 si svolsero a Catania (sindaco era l'avvocato Francesco Tenerelli) le elezioni amministrative per il rinnovo parziale del Consiglio comunale: da eleggere 14 consiglieri (il quinto annuale, aggiunti i deceduti e i dimissionari). Per il sistema elettorale allora vigente (maggioritario a scrutinio di lista), non vi erano liste precostituite da presentare entro termini prefissati.
Un settimanale dell'epoca: Gazzetta del Circolo dei Cittadini (che si pubblicava dal 1873 e vivrà fino al 1884), portavoce del sodalizio omonimo di professionisti, esponenti della media borghesia ed aristocratici, sistemato in locali eleganti della via Stesicorea, ritenne — di concerto con la «Società I figli dell'Etna» e con la «Società Operaia» di proporre una rosa o lista di candidati. Spiccavano fra essi Antonio Paterno marchese del Toscano, Francesco Tenerelli, Salvatore Di Bartolo, Mario Rapisardi poeta e docente universitario.
Un altro gruppo di candidati veniva proposto dal periodico La Campana, con sottotitolo « Organo del circolo cattolico catanese di S. Pietro», sorto nel 1875 e di chiara matrice clericale. Esponente di questa «lista» era il cav. Giuseppe Paterno Castello di Biscari e una nutrita schiera di professionisti. Le urne furono favorevoli ai candidati appoggiati dalla Campana e di essi furono eletti ben dodici. Dei candidati liberali, patrocinati dalla «Gazzetta», solamente due. E Mario Rapisardi? Di essi risultò il 7° dei non eletti, ottenendo ben 326 voti. Notevole quotazione per un candidato che non ha mosso un dito per farsi votare. Non vi furono, in questa prova elettorale, reazioni del Poeta in opposizione alla candidatura, proposta certamente senza preventivo avviso.
Il carattere difficile ed instabile del Poeta (le crisi esplosive dettate dall'ira si alternavano alle crisi depressive di tipo malinconico, che lo separavano da tutti in claustrale isolamento), gli rendeva la vita ancora più pesante nella scuola, nei rapporti con la stampa (di cui diremo in prosieguo) e di fronte alle candidature, non ricercate ma subite.

Rapisardi aveva già pubblicato Il Giobbe, trilogia, nel 1884, e nel 1886 era in pieno fervore per la raccolta poi denominata Poesie Religiose. Era uscito da un biennio di tormento e di angoscia, iniziato alla fine di dicembre 1883, allorché scoprì la relazione di Giselda con Giovanni Verga, ed attenuato dopo l'incontro e il conforto di Amelia Poniatowski, nuova compagna fino alla morte. I valori dell'amicizia intaccati e corrosi dopo quel trauma; ma nei confronti di due: Calcedonio Reina («Calcidonio, l'amico onde più gode l'animo mio [...]») e Niccolò Niceforo, lontano dalla città ma sempre vicino con la parola scritta, conservò la concezione quasi sacrale dell'amicizia. Un grande amico rimase Giovanni Bovio, docente e deputato.
In quell'atmosfera austera di lavoro, chiuso l'artiere fra i meccanismi del suo laboratorio non più artigianale, tutto era bandito. Nel mondo esterno, nella primavera del 1886 si parlava dell'imminente scioglimento della Camera dei Deputati, che fu poi sciolta il 27 aprile, e delle candidature. Da più parti si avanzò la candidatura di Mario Rapisardi. La proposta per la circoscrizione di Trapani, partì da un gruppo di Marsala con alla testa i giovani fratelli Federico e Vincenzo Pipitone e forse sollecitata o, più verisimilmente, sottoposta ed approvata da Giovanni Bovio, che in tal senso scriveva a Mario da Napoli il 4 aprile 1886 «Portano a Marsala la tua candidatura. Pipitone ti scriverà: lascia fare, non guastare le nostre speranze. A Montecitorio un tuo discorso sarà satannico».

Ma il Nostro non vuol sentirne della candidatura, nonostante le esortazioni dell'amico Bovio. E, per il tramite della stampa amica, comunicava la sua decisione irrevocabile: «Gratissimo a codesta egregia commissione elettorale, che ha proposta e raccomandata la mia candidatura, devo senza indugio dichiarare, che la debole salute, l'insufficienza degli studi, e l'indole mia alienissima da negozi politici mi vietano assolutamente accettare l'onorifica proposta». La dichiarazione apparve nell'Unione defeliciana del 9 maggio, n. 20 (con titolo «Mario Rapisardi non vuol essere deputato»), e reiterata nel n. 21 dell'11 maggio.
Le elezioni si svolsero il 23 maggio e il responso delle urne non fu favorevole alla lista che possiamo definire di sinistra, ma il Poeta — lontano dall'epicentro della lotta — ebbe un ottimo piazzamento con il secondo posto, dopo il marchese Ruggero Maurigi, deputato uscente. Qualcosa di nuovo dovette accadere, dalla dichiarazione di rifiuto alla giornata elettorale, se una diecina di giorni dopo, il 4 giugno 1886, inviava un messaggio entusiastico «Agli elettori della provincia di Trapani». Così esordiva «Raccogliendo 6.260 suffragi sul mio nome, e non ostante la mia pubblica e non certo ritrattabile dichiarazione di non potere assolutamente accettare la candidatura, voi avere provato, che la Democrazia di codesta nobile provincia [...] è degna di vincere, e vincerà». In realtà, dopo la fase di revisione, i voti risultarono un centinaio di più, cioè 6.369. Di questa candidatura, non voluta ma subita, rimane un residuo attivo ossia la composizione poetica «Per la mia candidatura» inserita nel volume Poesie Religiose, pubblicato a Catania nel 1887.
Da Trapani ritorniamo a Catania, dove negli anni successivi altri organi di stampa propugnarono ancora due volte la candidatura di persona che non voleva proprio saperne. A Catania il 10 novembre 1889 si doveva votare per il rinnovo dell'intero Consiglio comunale. Erano presenti diverse liste, proiezioni di altrettanti orientamenti politici ben diversificati (lista liberale progressista, lista democratica capeggiata da Giuseppe De Felice Giuffrida, lista dell'associazione monarchica).
Un periodico La Pietra infernale, con sottotitolo « Giornale custico, frizzante, anticancrenoso», sorto a metà del 1889, nel n. 17 del 2 novembre, presentava nella prima pagina «una lista spoglia di colore politico» e inseriva, fra gli altri, al 38° posto « Rapisardi prof. Mario » (e ripubblicava i 48 nominativi nel n. 18 del 6 novembre). Veloce e puntuale, naturalmente, il rifiuto del Poeta, affidato ad un periodico novissimo La Lotta, «Gazzetta elettorale», che nel n. 3 del 5 novembre 1889 riportava una dichiarazione ispirata da Rapisardi e titolata « I buoni si dimettono». Ecco la parte centrale: «[...] assolutamente ha desiderio di non essere scritto il suo nome in nessuna lista della città; sol perché egli vuol essere lasciato completamente ai suoi studi e all'arte. Anche se venisse eletto da qualsiasi partito, egli non solo non andrebbe una sola volta al Consiglio comunale, ma l'indomani della sua elezione rinunzierebbe recisamente».
Anche il d'Artagnan, il notissimo settimanale diretto da Nino Martoglio, nel supplemento al n. 29 del 25 luglio 1895 — in vista delle elezioni amministrative del 28 luglio — non rinunziò a proporre «la lista del d'Artagnan», e inserendo «Rapisardi prof. Mario» che occupava il 41° posto. Questa volta nessuna reazione.
Una disamina completa dei rapporti con la stampa catanese (e dell'influenza sulla stampa) rivelerebbe un aspetto assai interessante, con acquisizione di nuove conoscenze ed ulteriori collegamenti; tuttavia, essa ha bisogno di un'indagine di ampio respiro e di spazio adeguato, in quanto tali rapporti coprono un arco di quasi mezzo secolo. E la diversificazione nell'ambito di essa ci consente di distinguere: collaborazione con taluni quotidiani e molti periodici, la stampa amica e su posizioni ideologiche affini, e — infine — le testate che sono la trasposizione delle opere principali, ormai famose, a veicoli di diffusione del pensiero rapisardiano. Dopo quest'ampia premessa non possiamo che operare per sintesi e per settori.
La collaborazione alla Gazzetta della provincia di Catania, «Ufficiale per l'inserzione degli Atti amministrativie giudiziari», trisettimanale, che si pubblicava dal 1867, è documentata da una composizione titolata «Versi», dedicata a Francesco Dall'Ongaro, apparsa nel n. 116 del 29 settembre 1869.
Nel maggio 1870 a Catania, dalla trasformazione del settimanale omonimo (o continuazione, con titolo ridotto, del precedente) era sorto il quotidiano Gazzetta di Catania (« Si pubblica tutti i giorni meno il domani delle feste»), su tre colonne, di formato molto ridotto pari a un quarto della pagina del nostro quotidiano La Sicilia, diretto dall'avvocato Nicolò Niceforo, l'amico fraterno di Mario. E la collaborazione di M. Rapisardi vi fu (la collezione ai nostri giorni è molto lacunosa), se leggiamo una lunga recensione all'opera poetica Il Tasso di Sant'Anna (Catania Tipografia E. Coco, 1870) di Lucio Finocchiaro, poi avvocato illustre e deputato di Paterno dal giugno 1904 all'ottobre 1909 (anno V, n. 22, sabato 28 gennaio 1871, p. 2). E così ne L'Italia Artistica (anno I, n. 1, Catania, 26 gennaio 1872), fra i collaboratori letterari troviamo M. Rapisardi e Luigi Capuana. Ritroviamo la sua firma in calce al sonetto « Febbraio» nel Don Chisciotte (anno I, n. 8, Catania, 3 aprile 1881), diretto dal ventenne Federico De Roberto.
E collaborò anche a molti altri periodici, a La Frusta, « Giornale democratico», con un pezzo su Giordano Bruno (anno I, n. 3, 3 luglio 1885), alla rivista Arte con un sonetto (fase. 7-8 del 1885) a L'Etna, «organo dell'Associazione radicale», con «Il canto della ghigliottina» tratto dal Lucifero (anno I, n. 2, Catania 10 gennaio 1892). Altri periodici si occuparono di lui e dell'opera sua, come Il Piccone, settimanale, che nel supplemento letterario dedicava uno studio critico all'ode «Per Nino Bixio» (anno II, n. 1, 5 gennaio e n. 2 del 28 gennaio 1891), o come Per il Popolo, periodico socialista, che nel suo primo numero, in apertura, rende onore al Poeta dell'Umanità e riporta il programma delle onoranze del gennaio 1899 (anno I, n. 1, 22 gennaio 1899). L'Unione, defeliciana, vicina al Poeta, riporta in molti numeri unici dedicati al 1° Maggio versi suoi («Mattinata», versi di M. Rapisardi in «Numero unico 1° Maggio 1893 »).
Non erano però tutte rose, nel senso che molti erano i giornali che lo attaccavano e lo punzecchiavano e lo infastidivano, particolarmente in certi periodi della sua vita, se fu spinto a dedicare nel Canto VIII del Lucifero due ottave a « La babilonia delle gazzette»: «Che d'oro ingorde e a chi più paga addette/Ebber dal prezzo lor nome gazzette».
Un gruppo a sé stante nel vasto panorama delle riviste, è costituito dalla stampa che si ispirava al suo pensiero, mutuando man mano da una sua opera la testata, additandolo come profeta e caposcuola. Nel 1884 — Rapisardi ha appena quarantanni — la prima serie di Lucifero, «rivista scientifico-sociale», «tipografia Nazionale, in fol. di 4 pag. » (la scheda fu compilata dal bibliografo Orazio Viola nel suo Saggio del 1902, ma oggi non troviamo traccia di essa nelle Biblioteche della città).
Nell'ultimo decennio del secolo furono tre le riviste all'insegna rapisardiana. Giobbe, «Politico, letterario, teatrale» (anno I, n. 1, 27 giugno 1891), che nel «Programma» si ispira al positivismo di Augusto Comte e a M. Rapisardi, che a sua volta «ispirato a questi grandi princìpi, scrive l'immortale suo poema il Giobbe, vasta concezione che esprime l'arte, la scienza e la politica moderna». Dando vita al settimanale, la redazione, costituita da un gruppo di «riconoscenti discepoli», «invia all'illustre cantore del Giobbe un affettuoso saluto».
Nel 1894 ancora Lucifero, «rivista politico-sociale», che visse nel biennio 1894-1895. Della seconda serie rimane, purtroppo, un solo numero: anno II, n. 2, 7 aprile 1895 (Biblioteca Civica e Ursino Recupero). Infine una rivista di ampio respiro, in vita dal novembre 1898 al novembre 1900, che usciva con assoluto rispetto della periodicità quindicinale: Palingenesi, « rivista letteraria», diretta da Antonino Campanozzi, pubblicista, poi avvocato e nel 1909 deputato, vissuto fino al 1960.
La rivista pubblicava, in anteprima, prose e poesie di M. Rapisardi, inediti di Giovanni Bovio, ma era aperta ai contributi di esponenti di estrazione diversa, come i due sonetti di Gabriele D'Annunzio ospitati nel n. 7 dell'agosto 1900 (così come plaudiva, nel maggio 1899, alle «Onoranze a Gabriele D'Annunzio», dedicandovi due pagine di adesione).

Siamo all'ultimo decennio di vita. Rapisardi si trascinava stancamente, al punto che per la malferma salute deve interrompere, e poi cessare, le lezioni all'Università; sicché dal 1903 fu nominato un supplente, in persona di Giovanni Melodia, palermitano. La domanda, con la richiesta del supplente, doveva essere presentata dal docente al preside della Facoltà entro i termini stabiliti. All'inizio dell'anno accademico 1904/05 Luigi Capuana, Preside della Facoltà di Lettere e filosofia, con biglietto del 30 novembre 1904, ricordava garbatamente rivolgendosi con il «Lei» accademico al docente: «Illustrissimo Professore, La prego di sapermi dire se Lei riprenderà quest'anno il corso regolare delle sue lezioni; o se la Facoltà deve provvedere alla supplenza. Con profondo ossequio».
Era trascorso già il biennio di aspettativa, il massimo consentito dalla legge per gravi motivi di salute, e non era possibile trovare in sede un espediente valido per oltrepassare i limiti imposti dalla normativa vigente. Al ministero della Pubblica Istruzione erano orientati a pensionare il Poeta per raggiunti limiti di età ma nel 1905 l'intervento energico dell'amico on. Giuseppe De Felice Giuffrida e dell'on. Edoardo Pantano valse a scongiurare il pensionamento anticipato, sicché il Rapisardi potè conservare la titolarità della cattedra (con stipendio ridotto), fino alla morte (avvenuta durante l'anno accademico 1911/12).
Nessuna sorpresa, quindi, sull'immediata adesione del Poeta alla richiesta di De Felice per un contributo, anche minimo, da pubblicare nel quotidiano da lui diretto, in occasione del 1° Maggio 1910. «Roma, 24 aprile 1910. Illustre Amico, le sarò grato e riconoscente se vorrà mandarmi un verso, una frase o una parola, pel numero del 1° Maggio del Corriere di Catania. E la ringrazio».
Nell'ultimo anno di vita riceveva ancora qualcuno, ma ciò avveniva sempre più raramente. L'ultima visita nel ricordo di Giuseppe Villaroel, allora poco più che ventenne: «L'ultima volta che lo vidi era infermo da tempo. Affondato nella poltrona, con una coperta sulle gambe, pigolava. Cèrea la faccia smagrita, grigi e radi i capelli lunghi riversi sulle spalle, scarne e ossute le mani. La Poniatowski (l'affettuosa compagna che lo assisteva) entrò piano piano, gli pose sul tavolinetto, ingombro di libri e carte, una tazza fumante; e scomparve. 'Come state, maestro'. 'Parliamo d'altro ', disse, [...] » (G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Rocca San Casciano, 1954, p. 78).
Nel dicembre del 1911 l'aggravarsi della malattia fece temere imminente lo spegnersi della lampada della vita, sempre più fioca; ma la morte sopraggiunse nelle prime ore del pomeriggio del 4 gennaio 1912. I funerali, con la partecipazione di una folla immensa, avvennero in una giornata apocalittica ed indimenticabile di quel gennaio; riportiamo lo svolgersi di essi nella «ricostruzione» pittoresca e surrealistica di Antonio Amante (allora Antonino Rapisarda, dodicenne): «I funerali ebbero luogo in un pomeriggio da cataclisma; soffiava un furioso vento; la pioggia cadeva torrenziale; la città era allagata d'acqua di cielo e di mare; sardine e passeri venivano raccolti, morti o storditi, in Piazza del Duomo; la salma del Poeta, adagiata sulla carrozza del Senato [...] andava dondolandosi alla mercè delle raffiche nel Corso Stesicoro zeppo di popolo bagnato fradicio e in lagrime».

« Lucifero si è scatenato » commentava la plebe pia; e gli atei rispondevano in coro: «È la natura che si veste a lutto per la perdita di un sì inclito figlio». «[...] e fu al cospetto di tanto sinistro spettacolo, d'Apocalisse, che composi il mio fatidico sonetto, [..] » (A. Amante, Figlio del Sole, Milano, 1965, p. 463).

 Sebastiano Catalano (La Sicilia, 1984)