Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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venerdì 29 settembre 2017

Per canto e pianoforte il "Canto di Zilpa"


Musica di Salvatore Saya - parole di Mario Rapisardi



"Canto di  Zilpa"

Un paese io conosco ove non ride
Caldo e raggiante il sole; 
Ma quanto infido è il sol, tanto son fide
L'anime e le parole. 
Ivi oceani non son, non son vulcani,
Né abissi il suol nasconde; 
Non fiamme d'amorosi impeti umani,
Non mar d'ire profonde ; 
Ma deserti di fiori entro una blanda
Fascia di nivea luna, 
Laghi a cui fan gli azzurri ampia ghirlanda
Senz'onda ed aura alcuna. 
In palagi d'opàle e di coralli
Avvolti in roseo velo, 
Pallide giovinette intesson balli
Infra la terra e il cielo. 
Infra la terra e il ciel, come fragranza
Che il freddo aere molce, 
S'alza un canto di pace e di  speranza
Monotono ma dolce. 
O fratel mio, tal rigido paese
E qui dentro il mio core. 
O amico e difensor, bello e cortese,
Io non conosco amore.
                              Mario Rapisardi.
                                            (dal Giobbe, Lib. 2°).







* Natura ed Arte 1892/93

venerdì 20 gennaio 2017

«IL GIOBBE» DI MARIO RAPISARDI

Ma che ! " Voi solo — gli scrive Arturo Graf dopo la lettura del " Giobbe „ — in mezzo a tanta sciatteria e vigliaccheria tornate pur sempre con la mente ai grandi dolori, alle grandi lotte, alle faticose fortune dell'umanità, e tessete il verso di lacrime e di grida di ribellione e di canti di trionfo. Lasciate i rospi diguazzare e gracidare nella pozzanghera: lasciate che sputino la bava ond' hanno pieno il corpo! Il poeta d'Italia siete voi. Anzi, non pure d'Italia, ma un poeta voi siete dell'umanità; e coi dolori e con le speranze della umanità a cui li avete sposati, rimarranno i vostri versi, quando di quelli degli altri sarà spenta perfino la memoria „



Esaminando tutta l'opera poetica, che nel corso di circa vent'anni è venuta fuori dalla mente del Rapisardi, rilevasi tutto il travaglio del pensiero moderno in questi ultimi tempi. 
Sui canti della Palingenesi (primo lavoro poetico del catanese) aleggia un'alta idealità divina. Fra le malinconiche strofe delle Ricordanze si asside la triste ombra del dubbio. Prorompe, in seguito, il Lucifero, forte e audace poema del razionalismo, combattimento contro le parvenze e i fantasmi di cui era sgombro da poco l'umano pensiero. Ma ecco che, dopo tanta rovina di idoli, sparisce anch'esso l'ultimo idolo, che è Satana: la sua vita è brevissima; esso non rappresenta che un periodo passeggiero di facile rivolta, anzi  non esprime  che un  altro  grido  di  vittoria.
Sopraggiunge un nuovo e grande ideale: la scienza.

Il poeta vi si abbandona interamente, consacra il suo ingegno agli studi positivi e scientifici, rinsangua la sua mente già esausta di ogni ideale, e, illudendosi per avventura che la scienza possa essere elemento di fede, nella foga del suo nuovo amore, traduce il poema di Lucrezio Caro.
Adunque, fino a questo punto, il poeta ha percorso tutta la grande orbita del pensiero moderno.  Egli è stato teista, scettico, razionalista, positivista.  Il suo canto si è innalzato fra le azzurre idealità di Mazzini, di Quinet, di Victor Hugo; cadendo poscia da tant'alto, ha aleggiato sui campi della desolazione, tutto assorto come in una visione leopardiana. 
Poscia, inebbriandosi della abbagliante luce di magnesio, che mandavan le torce de' razionalisti, il Rapisardi lanciò anch'egli il suo dardo contro il debellato Olimpo. 
Seguì indi, come abbiam detto il periodo del sano e vital nutrimento: Spencer, Darwin, Stuart-Mill, Buchner, Feuerbach, gli forniscono il cibo agognato, ed egli, dopo sì lauto pasto, parve acquetarsi nel sereno soddisfacimento della scienza.


E adesso ecco venir fuori il Giobbe. Che cosa è dunque  questo  Giobbe?


Tre anni or sono, essendosi il Rapisardi accinto da poco a codesto poema, così brevemente piacevagli esprimermene il concetto: — Dopo l'epopea del diavolo, l'epopea   dell'uomo.
Dunque il Giobbe è il poema dell'uomo. Ma non basta.

Il Giobbe è il poema dell'uomo, pensato e scritto da un poeta che dell'uomo e delle sue sorti è conscio, che dell'umana sapienza è consapevole, e la cui mente è libera da qualunque idealità.
Il Rapisardi è stato teista, scettico, razionalista, positivista; e positivista rimane tuttavia; ma la scienza per lui non è fede, è esclusivamente conoscenza : egli dunque guarda i destini degli uomini e delle cose con la malinconia  serenità   del  chiaroveggente.
Hanno detto che il Giobbe sia il poema del dolore: il Rapisardi medesimo, illudendosi intorno all'opera sua, ha espresso tal pensiero in una breve prefazione. Ma questo dolore non è elemento estetico o sentimentale del poema; non scaturisce nemmeno da esso, o, se verso la fine in qualche modo vi alita, ha un tal carattere di subiettività e di fugacità che non lo si può chiamare parte inerente all'organismo del poema, che, essendo come un epilogo dell'opera umana, esprime le idealità fatali e meccaniche delle varie generazioni attraverso i secoli.

*
Esaminando il Giobbe, ancor questo è da notare: delle tre parti in cui dividesi il poema, la prima è affatto disgiunta dalle altre. Dirò anzi: il concetto sostanziale del poema svolgesi nelle ultime due parti. La prima parte è storica, è drammatica, è esclusivamente lavoro d'arte. Il poeta toglie dalla Bibbia la grandiosa figura di Giobbe, e, seguendo il testo biblico, la tratteggia ampiamente e splendidamente.
Solo quando giunge al punto delle famose lamentazioni, egli nella figura del patriarca incarna tutta l'umanità, e dalla bocca del vegliardo par che prorompa l'alta voce de' secoli.
Impadronitosi di questa figura di Giobbe, il poeta se ne serve per accompagnarla attraverso il faticoso procedere del pensiero umano, e, volendo scegliere un periodo che a noi personalmente interessa e la cui storia è completamente nota, egli svolge tutta la grande orbita del pensiero e della civiltà cristiana nel suo splendore, nelle sue battaglie, nelle sue sconfitte e nel suo decadimento, venendo fino alla morte dell'ultimo idolo, cioè di Satana, ed entrando poscia nel trionfale splendore  del  rinnovamento scientifico.
E la terza parte è tutta consacrata a questo grande e nuovo ideale del positivismo. E il poema, che nella prima parte è drammatico, nella seconda è allegorico, con molto ma debole elemento drammatico e con abbastanza di lirico, nella terza parte è affatto didascalico, o, per dir meglio, scientifico.
Nella prima parte il poeta è dominato dall'opera d'arte; nella seconda e nella terza è il concetto sostanziale che lo  conduce.
Verso la fine, Giobbe non è pago del grande sapere fornitogli dalla scienza; vuole andare più in là, si mostra scontento, vorrebbe rompere i limiti all'uomo assegnati  dalle  leggi   di   natura.   In  conclusione   Giobbe rappresenta  l'uomo  ormai  sciente,  non più  soggiogato da verun ideale, e che racquista la propria individualità. Questo è il Giobbe.


E  l'opera   d'arte?

Il Rapisardi, è noto, è grande artefice di versi, e, nel dar vita e forma ai suoi fantasmi d'arte, ha un'impronta di originalità incontestata. Nella seconda parte l'azione è varia e rapida; molte delle laudi e delle odi che vi son frammiste riescono interessantissime; il canto de' goliardi è come un allegro raggio di sole che balza fuori dalle mistiche tetraggini medievali, in cui si è dibattuto  per  lungo  tratto  il  poema:

O fanciulla che languida giaci 
Fra  le piume,  e sognando  sorridi, 
Il  ciel  suona  di  canti  e  di  baci, 
Freme  il bosco  d'amplessi  e  di nidi:


O fanciulla,  son rapide l'ore 
Della  gioia,  a  te  mormora  il  rio; 
Sorgi,  vieni,   ti  dice  il  cor  mio; 
O  l'amore,  l'amore,   l'amore !


Nella terza parte, sebben didascalica, tutta la gran vita della natura è così largamente ed epicamente tratteggiata, che obliasi affatto l'aridità dell'argomento, per tener  dietro  co'  sensi  innamorati  a  quella  larga  onda d'armonie.
Ma, sopra tutte, notevole è la parte prima. Ivi c'è il dramma, muovonsi figure umane, campeggiano sentimenti e passioni umane ; e per conseguenza c'è la vita, e la grande arte sfavilla. Con minuziosa maestria son descritti i vasti possedimenti di Giobbe:

.........Il vagabondo

Arabo  avventurier,  che  con la lercia 
Famiglia  e  col  destrier  fido  e  il  camello 
L'orme  inseguiva  della   sua  fortuna, 
Consistere  vedea  sui   verdi  colli 
Come un'immensa  candidezza,  e  tosto 
Riconoscea le innumerate gregge 
Di  quel  felice,   onde  suonava   il   grido 
Per   ogni   terra   orientale...


Rabbrividente per verità di colori e di immagini è la descrizione della morte degli animali colpiti dalla lue. Dolce e soave è la figura di Sara; bella e fiera quella di Zilpa. Spirano una fraganza tutta orientale le canzoni  di entrambe.  L'una dice così :

Ho  pregalo  pregalo,  e   il  ciel   s'è  aperto, 
E n'è disceso un giovine signor: 
D'erbe  si  copre l'arido deserto, 
Un   limpido   ruscel   corre   tra'   fior.

Neri ha i capelli come gran di pepe,
Ha  gli  occhi  di  gazzella   il  mio  fedel;
Il mare e il monte hanno i suoi campi a siepe,
I  padiglioni suoi levansi al ciel.

.......................
Bello è il mondo, ma bello anche è il mio core, 
Come  il sole il mio cor di  fiamme è pien: 
Resti  il sole  ed  il mondo  ara  al Signore, 
Regno   ed  ara   d'amor  solo   il  mio   sen.

Un vero quadretto di genere è la scena domestica in casa di Sara, con quella caratteristica figura di Anna, la vecchia nutrice. Questa Anna sembra veramente una figura dipinta da Giacomo Favaretto: il poeta la tratteggia minutamente, con intelligente maestria di coloritore. Guardate ad esempio questi graziosissimi tocchi di pennello. La vecchia Anna corre, e, nella corsa, perde un  zoccolo:

Sgusciato   nella   corsa  erale  un   grave 
Zoccolo,  ond'essa a questo ed a quel fianco 
Preso   e  tratto   a  ginocchio   il  grigio  sajo, 
Sul  pie  mal  fermo   balzellon  venia, 
Come  gallina  che correndo al cibo 
In  arruffato  canapel s'impigli.

Veramente epico è quel brano delle lamentazioni di Giobbe, dove, per la bocca del patriarca, favella l'umanità. Vorrei riportarlo per intero se le esigenze dello spazio  in  un  foglio  politico  non  fossero  veramente  ti ranniche. Io rimando gl'intelligenti alla lettura di tutto il poema.
Intorno al quale dirò solamente questo: esso segna nel campo filosofico l'ultima meta a cui l'umano pensiero, dopo tanto travaglio, artisticamente o scientificamente possa pervenire. L'arte s'è rivestita dell'ultima e nova idealità moderna dandole forma e drappeggiamento epico. I posteri, nello studiare l'agonia di questo nostro secolo strano e tormentoso, guarderanno certo a quest'orma artistica lasciata dal Giobbe. E se tale orma  sia  stata  lieve o  profonda,  essi  li  diranno.

* « Giornale di Sicilia », 8 febbraio 1884. E. Onufrio





LAUDA DI SUORA  - dal "Giobbe"
Musica di F. P. Frontini

Amore, amore non dammi riposo,
Amore, amore il mio seno ha corroso; 
Alzar le ciglia, e guardarlo non oso
Quel Dio pietoso, che me volse amare.

O santa piaga del lato di Cristo,
Da che al tuo sangue il mio pianto s'è misto,
Il paradiso dell' anima ho visto,
Al cui conquisto mi voglio affrettare.

Con le mie mani tremanti t'attingo,
Con labbra smorte ti bacio, ti stringo,
Del tuo colore quest' anima tingo,
E più la spingo e più vuol penetrare.

Il sapor dolce, la grata fragranza
Più sempre accende la mia desianza;
O mia dolcezza, mia sola speranza,
Mia sola amanza, in te vommi mutare.

Amore, amore, amor solo, amor santo,
Deh! com'è dolce morirti da canto,
Com'è suave distruggersi in pianto, 
E in un mar santo di luce affogare!