Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
Visualizzazione post con etichetta mafia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta mafia. Mostra tutti i post

martedì 3 gennaio 2017

LA MAFIA IN SICILIA - 1887


« Nuova Antologia » febbraio  1887, di Enrico Onufrio






1°) Allorquando avviene che le condizioni della pubblica sicurezza in Sicilia si riducono ad uno stato anormale, Deputati, Giornalisti, Governo, individui d'ogni taglia e d'ogni colore ne discutono e ne giudicano come di materia che essi a sufficienza conoscano.
Allora si risolleva la parola mafia, le si attribuiscono significati diversi, la si plasma in moltissime guise, e a (mesto modo si cade in un intricato labirinto di spropositi, che aumenta le difficoltà e riduce il problema ad  un  enimma.
Ultimamente, presentatasi l'opportunità di un'interrogazione in Parlamento da un Deputato siciliano, il Ministro degli Interni,  nel rispondere all'interrogante, si trattenne a parlare del malandrinaggio in Sicilia, e neppure egli potè dispensarsi dal proferire giudizi affatto erronei. Né questo può attribuirglisi a colpa, giacché ritengo fermamente, che nessuno può discorrere, con piena coscienza di causa, di faccende che ignora: sicché dal 1860 a questi giorni, tutti i Ministri italiani, che si sono intrattenuti sulla mafia siciliana, son cascati in errori madornali ed hanno resa più difficile la questione.
Si domanda da ogni parte: che significa mafia? quali sono gli individui che possono dirsi mafiosi? quali rimedii debbono mettersi in opera per ischiantare la trista radice?

2°) Ma prima di tutto bisogna determinare il vero significato di questa parola. Comunemente per mafioso s'intende in Sicilia chi ha del coraggio e sa darne le prove. Oltre a questo però il gregario della mafia dev'essere fornito di certi requisiti indispensabili: deve portare, per esempio il berretto o il cappello un pò a sghembo; i capelli devono terminargli a ciuffo sulle tempie; il suo linguaggio deve essere spiccio e conciso.
Probabilmente la mafia ha un'origine spagnola.
A quei tempi la braveria era all'ordine del giorno, e gli altolocati poggiavano la loro forza sulla bassa canaglia. Il mafioso siciliano ai tempi della dominazione spagnuola ha il suo riscontro nel bravo di Lombardia.
Ci sono naturalmente diversi generi di mafiosi, ma di questo parlerò in appresso. Dico per ora, che lungo il corso delle rivoluzioni siciliane, dal 1820 al 1860, la mafia seguì l'andazzo dei tempi, e non esito a confessare che moltissimi dei suoi gregari, impugnando le armi,   seppero   battersi   con   valore.
Però non abbandonarono la loro trista impronta. Al 1848, per esempio molte squadre di rivoltosi dalle varie contrade dell'Isola convennero in Palermo; ma appena scacciate le truppe borboniche molti di quei ribelli da soldati della patria si mutarono in ladri di piazza e la sera, appostati pe' canti delle vie meno frequentate, rubavano a man salva. Si dovette ricorrere all'estremo  rimedio   della   fucilazione.
Nei tempi che precessero la rivoluzione del 1860 i mafiosi potevano dividersi in tre categorie: camorristi,  ricottari  e briganti.
Parlerò successivamente di questi tre diversi generi di  galantuomini.

3°) I camorristi sono interamente spariti: ritengo che sieno già divenuti monopolio della tradizione. Per lo meno suppongo che pochi ne rimangano ancora. La camorra esiste sempre e dovunque, ma io qui intendo alludere alla camorra com'era a quei tempi organizzata in  Sicilia.
Il nome di camorrista deriva probabilmente da capo morra o mora, che è il gioco prediletto da quella gente e nel cui esercizio suole scegliersi talvolta un direttore o un capo. Infatti il camorrista è colui che s'impone agli altri per mezzo del suo coraggio e della sua forza fisica che gli hanno fruttata una grande autorità morale.
Non c'era un camorrista che fosse sprovvisto di coltello.
Quest'arma era chiamata con vocabolo del gergo, danno, ed era fornita ai detenuti dagli amici di fuori, nascosta  dentro un  pane  di  forma bislunga.
Il capo camorrista era anche sottoposto a quei pericoli che minacciavano i Governi dispotici. Spesso in grembo alla associazione avvenivano congiure ed ammutinamenti, ma l'audace monarca facea pagare ben cara la sua vita.
Di estrema audacia, provvisto grandemente di coraggio e di forza, valentissimo tiratore di coltello, egli non  periva  che  sui   cadaveri   di  parecchi  nemici.
Ecco in poche linee il quadro dei camorristi quali erano un tempo in Sicilia. Evasero tutti dalle carceri per la rivoluzione del 1860, ed impugnate le armi seminarono delle loro ossa i campi di Milazzo e del Volturno.

4°) Estinto non è ancora l'altro tipo della mafia: il ricottaro.
La missione del ricottaro è quella di essere strenuo paladino delle donne perdute e di farsene il difensore di fronte a coloro che vogliano su di esse esercitare dei soprusi. Ma la loro missione comunemente trascende, sicché si muta in quest'altra: esercitare le sopercherie più capricciose per semplice ambizione di prepotenza.
I ritrovi dei ricottari sono le taverne e le case, dove si eserciti un infame mercato e nelle quali ciascuno ha la  propria  amante.
Anch'essi adoperano un gergo stranissimo; vestono abiti dimessi, e mostrano dall'aspetto e dall'abbigliamento il loro strano e turpe mestiere. Essi odiano mortalmente due sorta di gente: il damerino detto don liddo, cioè lindo, pulito, e il birro.
Nel basso popolo di Sicilia l'odio alla Polizia è assai comune, e trae manifestamente la sua origine dai tempi antichissimi del dispotismo borbonico, in cui la sbirraglia, scelta dal grembo della più bassa canaglia, non aveva altra missione che di esercitare violenze e soprusi. Quest'odio verso la Polizia nella classe dei ricottari continua, poiché sono appunto i poliziotti che invigilano su loro, li perquisiscono e li conducono in domo Petri,  quando  occorre.
I ricottari esercitano la loro malaugurata carriera in età  giovanissima, comunemente dai diciotto ai ventiquattro anni. Molti di loro, dandosi all'omicidio e al furto, terminano la loro vita nelle carceri; moltissimi altri s'ingentiliscono coll'esperienza ed a proprie spese  imparano  a  divenir  galantuomini.
L'arma dei ricottari è il coltello, ed è questo il loro amico indivisibile; moltissimi ne diventano abili tiratori, e sanno riceversi e consegnare colla massima disinvoltura   delle  buone  coltellate.
Il linguaggio che essi adoperano è breve e conciso.
Nelle taverne il giuoco prediletto del ricottaro è il tocco.
Qual'è lo scopo del tocco? Nessuno. Non tralascio però di fare un'osservazione. Tanto nella società di camorristi, quanto nel tocco, abbiamo visto de' governi assoluti e dispotici. Il capocamorra e il sotto rappresentano due tiranni in piccolo.
Si avverta che le due usanze, a cui ho accennato, nacquero senza dubbio sotto il governo del dispotismo, e la bassa canaglia, che in faccia alle leggi allo Stato non godeva alcun diritto, pare che si fosse riunita in sé stessa per godere la voluttà d'un dominio e un'apparente indipendenza dagli altri corpi sociali.
La classe dei ricottari se non è distrutta è assai illanguidita nella sua forza d'un tempo. In epoche di continui rivolgimenti e trambusti, essa si agitava liberamente nell'ombra, adempiendo in tutto e per tutto al suo tristo programma. Ma oggidì un mutamento esiste. Il coltello del ricottaro nell'affrontare il don liddo teme la comparsa d'una rivoltella nascosta sotto l soprabito, e nell'affrontare la sbirraglia teme la giustizia  della  Corte  d'Assise.
Ad ogni modo il ricottaro in Sicilia non è spento.
Non è raro che un giovane perisca di ferite all'ospedale senza voler confessare il nome del suo feritore. Quel disgraziato comunemente è un ricottaro, che muore adempiendo scrupolosamente alla sua legge della omertà.

5°) Esiste ancora il brigante.
Parecchi individui che portano questo nome si aggirano attualmente per le campagne dell'Isola, lasciando fama delle loro prodezze. Il più famigerato di loro è Antonino Leone, Valvo, Di Pasquale, Lo Cicero, Capraro, Rinaldi, tutti masnadieri audacissimi, furono uccisi la maggior parte per vendette private o per invidia di mestiere. Capraro di Sciacca fu ucciso dalla pubblica forza. Egli abbandonato dai suoi compagni sostenne da solo due ore di combattimento contro un gran numero di soldati. Valvo fu assalito in una casa, dove trovavasi colla sua amante e morì combattendo. Di Pasquale fu ucciso da Leone per odio personale, Batindari trovasi attualmente in prigione. Egli resistette per parecchie ore contro gli assalitori; abbandonato dai compagni,  continuò  a  combattere;  ferito  gravemente, si diede alla fuga, per più di due miglia, dopo le quali cadde a terra sfinito.
Uomini di tale audacia si impongono facilmente a popolazioni d'intere campagne. Il brigante veramente famoso che rimanga in questi giorni, come dissi più sopra, è Leone, ma le bande di malandrini non mancano. Esse son formate di uomini che non esercitano il brigantaggio per mestiere, ma che si prestano volentieri di tanto in tanto a fare un bel colpo. Dopo la loro impresa essi lasciano il fucile del brigante ed impugnano spesso la zappa del contadino.
Alla distruzione del malandrinaggio in Sicilia sono inutili sino a un certo punto i soldati dell'esercito, e sono spessissimo, quasi sempre dannosi i cosi detti militi a  cavallo.
L'Onorevole Ministro degl'Interni, parlando della pubblica sicurezza in Sicilia, disse com'egli abbia speranza nel concorso delle popolazioni. Per popolazione non può intendersi che devastino le loro campagne uccidano il loro bestiame, incendino i loro boschi. Adunque prima di tutto fa d'uopo che ai proprietari s'infonda la fiducia col forte appoggio, colle promesse fondate, senza lasciarli poco dopo soli all'arbitrio dei briganti, che non dimenticherebbero di vendicarsi di quei proprietari che loro hanno dichiarata la guerra.
Inoltre è buono a sapersi, che l'anormalità della pubblica sicurezza in Sicilia non deriva soltanto da otto o dieci briganti che vanno attorno per le campagne; ma assai più da quei tali (e sono pur troppo in gran numero) che nascosti nell'ombra agevolano il brigantaggio e se ne fanno manutengoli. Costoro, i quali non hanno l'audacia di affrontare a viso aperto la battaglia e la morte, coperti dal mantello della loro vigliaccheria aiutano e fomentano il brigantaggio, formando quella congrega di faziosi che la mano forte del Governo potrebbe agevolmente comprimere. Dappoiché quei tristi sono come i corvi che si avventano sull'uomo, solo quand'esso è cadavere; coloro infatti, che esercitano il manutengolismo per ingordigia di denaro, chinano il capo e si mettono le mani in tasca, quando temono che la loro pelle possa andarne di mezzo.
Perché il Governo possa direttamente intervenire alla estirpazione del malandrinaggio, fa d'uopo che conosca il male negli elementi che lo compongono e negl'individui che lo rappresentano; sicché egli deve infondere intera la fiducia nei proprietari, ed affidare il reggimento delle provincie ad uomini del paese che sappiano, vogliano e possano fare. In quanto ai militi a cavallo io ne ritengo necessaria l'abolizione; ma se deve affidarsi alle truppe il servizio delle campagne, bisogna che si mettano alla loro testa delle guide coraggiose del paese, e che non abbiano punto l'onore di una   qualsiasi  relazione   col   brigantaggio.
Si è detto da moltissimi che la costruzione delle vie ferrate influirà in gran parte alla estirpazione del malandrinaggio, ed io ne convengo interamente. Ma credo altresì che una delle ragioni precipue dell'esistenza della mafia sia la questione economica intorno ai contadini siciliani. A ciò potrebbe provvedere benissimo una certa legge agraria presentata molto tempo addietro in Parlamento, e che credo trovisi attualmente sotto gli studii di una speciale commissione.
In Sicilia, per la maggior parte, la paga massima del contadino è venticinque soldi al giorno e nulla più. In inverno, quando piove, l'agricoltura si mette da parte e il contadino si muore di fame. In estate, in moltissimi paesi dell'Isola, il contadino non ha diritto che a mezza giornata di lavoro. Sicché ognuno può comprendere facilmente in quali misere condizioni versi la classe dei contadini in Sicilia. Venticinque soldi a giorno è il maximum della fortuna, a cui egli possa aspirare, ed un povero diavolo, prima di morire di fame, prima di prostituire le sue figlie, ama meglio farsi manutengolo di un brigante, o brigante egli stesso.
Ci vuole adunque da questo lato una riforma ed una riforma radicale.
Allorquando ai reggitori della cosa pubblica si presenta una quistione sociale, bisogna che essi l'affrontino e si studino in tutti i modi di risolverla. Un problema che oggi si offre per se stesso difficile, domani potrà essere irrisolubile  affatto.

6°) Riassumo brevemente le idee da me innanzi espresse. Ho  dimostrato  colla  storia  come  la  Sicilia  sino  al 1860 vivesse d'una vita tutta propria; e quindi intorno alla mafia nessuno estraneo all'Isola può farsi assai facilmente  un  concetto.
Alla mafia cittadina può provvedere benissimo una Polizia oculata ed onesta. Alla mafia campagnuola con tutte le sue diramazioni affini di manutengolismo è in obbligo di provvedere la mano energica del Governo.
Dopo ciò è inutile ripetere che il tempo saprà fare il resto, qualora cittadini e Governo concorrano entrambi ad agevolare lo sviluppo di que' benefici che la civiltà suole immancabilmente apportare.