Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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lunedì 11 ottobre 2021

Protagonisti in Sicilia fine ottocento primi novecento

 




al piano Roberto Frontini - musica di F. Paolo Frontini "pensando alla Catania dell'ultimo Ottocento, anche senza chiudere gli occhi,
gli sembrava di sognare"
S. Fiducia


sabato 27 marzo 2021

ROBERTO RIMINI IL PITTORE CHE VISSE NEI LUOGHI VERGHIANI

 

E' impossibile contarli tutti, i dipinti, i disegni, gli affreschi e i graffiti di Roberto Rimini: molti sono ormai introvabili, ed egli non tenne mai un inventario della propria produzione. Molte centinaia di opere, certamente; forse migliaia. I soggetti, raggruppabili a cicli (la Calabria, Milo, Taormina, Vizzini, la Piana, Acitrezza), offrono innumerevoli divagazioni e scorci. Ma in tanta ricchezza di immagini c'è un tema che — è possibile accorgersene oggi, dopo tanti anni — risulta assente del tutto, ed è la tempesta: né tempesta sulla terra né sul mare, né tempesta d'anime né tempesta rissaiola. Il cielo è sempre limpido, tutt'al più appena coperto: il mare sempre quieto, semmai appena mosso: e nel volto degli uomini (contadini, maniscalchi, pescatori) mai si coglie turbamento, al massimo un intenso meditare o un velo di mestizia. Il turbamento, quando c'è (e c'è spesso), resta confinato nell'animo, non trabocca mai nel comportamento esteriore né nei lineamenti. Alle sue opere Rimini restituiva l'atmosfera pacata delle sue giornate e la serenità del suo cuore ridente (ridente per autocontrollo, anche quando, come a tutti accade, qualche preoccupazione s'insinuava in esso).

Del resto, così avviene più o meno scopertamente a ogni artista: di riprodurre — sulla tela, sul foglio bianco,, sul pentagramma — i propri stati d'animo più intimi, le vicende della vita. Guardate il Beato Angelico, il Caravaggio, Salvator Rosa, Toulouse-Lautrec; Francois Villon, Poe, la Lagerlòf, Kafka; Chopin, Bellini, Wagner. C'è sempre, più o meno evidente, una consonanza, per adesione o per reazione, tra la biografia e l'opera. In Rimini era assolutamente esplicita e coerente. E' più agevole constatarla oggi, che si sono compiuti, il 16 febbraio, dieci anni dalla morte.

Ci incontrammo per la prima volta nel 1953, quando egli presentò una « personale » al Circolo artistico di Catania e io andai a visitarla; e a bearmene, dovrò aggiungere. Come artista famoso, però, lo conoscevo da tempo. Rimini era per me un personaggio quasi mitico. Di lui mio padre, Vito Mar Nicolosi, possedeva alcuni oli e un grande dise­gno a sanguigna. Erano amicissimi. Nel 1928, quando mio padre pubblicò in una rivista teatrale, » Le maschere », che dirigeva, la commedia allora inedita di Verga, Rose caduche, Rimini vi collaborò con un ritratto a litografia di Verga; un altro del grande scrittore, a carboncino, ne avrebbe eseguito più tardi.

Così, quello del Circolo artistico fu quasi un incontro fra vecchi amici: per l'inter­posta persona di Vito Mar Nicolosi, io sapevo di lui, lui sapeva di me. Quel giorno stesso scorsi, del — per me — leggendario artista, la qualità essenziale: quella d'essere un fanciullo puro e sorridente, persino ingenuo, alieno dalle camarille, lontano dai sotto boschi mercantili, costituzionalmente incapace di ogni calcolo e politicantismo. Poteva essermi padre, ma mi sembrò, quello stesso giorno, un ragazzo indifeso, assai più giovane di me.

Così rimase sempre finché visse, fino al mattino del 16 febbraio 1971.

Un ritratto così semplice di lui — l'uomo-fanciullo, l'uomo lineare e probo con gli amici, l'allievo di maestri che conoscevano il mestiere come lo scultore Stanislao Lista



e il pittore Ettore Tito, l'artista dallo stile inconfondibile e unico (nonostante i molti tentativi di imitazione), maestro egli stesso — risulterebbe tuttavia monco e perciò, nel complesso, falso.

I suoi quadri, che sembrano tanto facili e istintivi, erano invece, sempre, il risul­tato di lunghe osservazioni e meditazioni. Prendeva « appunti » dovunque gli capitasse: su fogli di carta da disegno o da involgere, su fogli di giornale. Non restano più, di questi promemoria visivi (una ragazzetta, un contadino, un calafato, una barca capovolta, un cavallo alla sarchiatura), che pochi esempi: gli altri, appena utilizzati, e cioè trasfe­riti in un quadro, erano poi da lui stesso distrutti.

Restava a lungo assorto, ma non assente: costruiva mentalmente, della sua nuova tela, la struttura, la prospettiva, i piani, la tecnica (olio, pastello, tempera), i colori. Nulla infatti doveva risultare arbitrario nella produzione di un realista (come lo definì Raffaele De Grada) o di un verista (come la sua affinità narrativa e sentimentale con Verga indurrebbe a definirlo). Poi s'avvicinava alla tela candida, sempre pronta sul caval­letto, e cominciava a tracciare i primi segni, a carboncino. In sottofondo un giradischi mandava le note della Pastorale o della Bohème: Beethoven e Puccini erano i suoi grandi amori musicali, ma anche Wagner e Bach, anche Bellini e Giordano (non Verdi, o pochis­simo). E lui. a bassa voce, intonatissimo, canticchiava a sua volta: indifferentemente Rodolfo o Colline, Oroveso o Pollione.

Qualche volta faceva delle levatacce, all'alba, e partiva in auto con l'amico Enzo Maganuco (che stava al volante, poiché lui, odiando tutto ciò che è meccanico, non aveva mai imparato a guidare): oppure, in barca, rematore un marinaio fedele, entrambi appro­davano all'isola Lachea. Portavano con sé colori, pennelli, tele e cavalletti, andavano a dipingere in solitudine, in qualche angolo remoto di montagna o di mare. Erano i quadri dal vero, plausibili quanto quelli emersi dalla sua fantasia (e dalla fantasia di Maganuco, buon pittore anche lui).

Era « un uomo tranquillo », il Sean Thornton del film di Ford (esclusa però la rea­zione finale, impensabile nel pittore). Ma diventava inquieto in due occasioni ricorrenti: quando stava preparando una mostra personale e quando doveva consegnare un dipinto commissionatogli. Per il resto, poco o punto frastornato da vicende estranee alla sua arte, dipingeva e meditava i suoi quadri in un impegno, diremmo oggi, full time. Perciò produceva molto; e le sue opere, frutto di invenzione e meditazione, non erano mai « buttate giù » (oh, che pena gli artisti e scrittori che, senza rispetto per il loro pubblico, buttano giù un'estemporanea mercanzia, quasi che bastassero ad accreditarla il soffio di genio che presuntuosamente essi stessi si attribuiscono e la loro firma ipoteticamente illustre). Vendeva subito tutto ciò che produceva; nel suo studio, quando morì, non c'era nulla di vendibile, eccetto la tela incompleta cui stava lavorando. Ciò non toglie che alcune opere fossero allora, e siano tuttoggi, attaccate ai muri di casa, non alienabili: erano quadri di famiglia, la moglie, le figlie, le nipotine. Gesualdo Manzella Frontini. narratore e critico che gli fu molto amico e che negli ultimi anni visse come lui ad Acitrezza, scrisse nel 1956: « Rimini è forse il pittore che più vende in Italia, pochi cre­diamo raggiungano la cifra sua •.

Per lui posavano ragazzini e vecchi (i pescatori di Acitrezza lo chiamavano con ri­spetto - il professore »), uomini e donne, estranei e parenti: sempre con pazienza, ma quando la posa si prolungava troppo, qualcuno, specialmente le sorelle o una cognata, scappavano, lasciandolo indispettito e nervoso. Una volta, insolita esplosione, arrabbiato per una di queste fughe, egli con un colpo di pennello bucò la tela, distruggendola.

Solitario quando dipingeva nelle assolate campagne di Vizzini, Libertinia o Palagonia. perché avvicinarsi in quei deserti era disagevole, 

     collezione F. P. Frontini

diventava invece centro d'attrazione ad Acitrezza, dove trascorse i suoi ultimi vent'anni. Nugoli di ragazzini lo seguivano e lo precedevano, gareggiando nel portargli la tela bianca, il cavalletto, la tavolozza coi colori: sapevano che li avrebbe compensati, o gli erano grati perché egli aveva ritratto qualcuno dei loro familiari. Durante il lavoro lo attorniavano, estatica e silenziosa guardia del corpo. Al ritorno egli consegnava alla smaltellante compagnia cavalletto e colori, non la tela ancora fresca di pittura.

Era meticoloso. Vestiva abiti lindi e portava sempre la cravatta, anzi il cravattino. Soltanto nei periodi di massima intensiva produttiva, anziché la giacca indossava il pull­over o. più spesso, un cardigan grigio; e allora macchie di colore occhieggiavano su quegli indumenti. Se qualcuno, arrivando inaspettato a casa sua, lo sorprendeva in questa sciatta tenuta da lavoro, egli se ne doleva. Ma quando la visita era attesa, Rimini si preparava ad essa con rispetto e civiltà.

Fu incapace di cattiveria; incapace, anche, di ritorcere il male che taluno, volon­tariamente o inavvertitamente, poteva arrecargli. Mai disprezzò, lui che conosceva così a fondo il mestiere, chi non avendolo seriamente appreso lo esercitava con la presun­zione che è propria dei dilettanti. Più che essere un indifeso, giocava a sembrarlo; più che perdonare agli incapaci, ne sorrideva. Mai, nel nostro caro quasi ventennale sodalizio, Io sentii dir male d'un « collega ». anche il più mediocre. E tuttavia una piega all'angolo della bocca, un rapido lampeggiare degli occhi, una sola parola — non più d'una — equi­valevano a una bonaria ma inappellabile sentenza di condanna: con l'increspatura, il bagliore, la parola egli esercitava la sua ironia. Quest'arma docile e demolitrice era per lui arma di difesa, offesa e contrattacco.

Tollerante in tutto, era inflessibile — silenziosamente, ironicamente inflessibile — soltanto con gli artisti mistificatori e sbruffoni: un vero pittore tiene le distanze dai frodatori. Ma con civiltà, con rispetto formale.

Vero pittore era anche nel senso che la sua cultura non si fermava alla prospettiva. al colore, al panneggio, alla composizione e alla vivezza del tutto, cioè soltanto all'arte sua; ma dilagava, completandosi, nella letteratura, nella storia, nella musica, nell'attualità. Soprattutto la letteratura era il suo pascolo ineffabile; e fra i tanti autori dei quali parlava con competenza (Tolstoj. Manzoni, Foscolo, gli « scapigliati ») emergeva Verga, il suo Verga.



Singolare concordanza, egli visse una gran parte della sua vita in molti dei luoghi verghiani: Vizzini, la Piana di Catania, la città di Catania. Acitrezza, la montagna dell'Etna (lui a Milo, qualche personaggio a Fieri, a monte Ilice, a Nicolosi). I personaggi che Verga descrisse furono il coro e i solisti che Rimini dipinse. Anche il sole ardente, le solitudini sterminate, le masserie, l'aratro, la barca, l'uliveto affascinarono entrambi. E se c'è — se voi udite — una musica in Verga, quella stessa musica sentirete in Rimini.

Così, inevitabilmente, ai riscontri sentimentali s'affiancano esperienze di v.ta, di suoni e di immagini. Rimini fu un verghiano che non imitò Verga, pur ammirandolo scon­finatamente: lo fu, piuttosto, per nativa affinità artistica; non per calcolo meditato. Perciò si respira nei suoi quadri la stessa atmosfera, autentica e intatta, dei Malavoglia, di Mastro - don Gesualdo, della Roba, della Coda del diavolo, di Libertà, della Storia di una capinera, dell'Agonia d'un villaggio, delle Storie del castello di Trezza.

Anche il tratto del suo pastello e la pennellata sono verghianamente rapidi, essen­ziali e veri (o dovremo dire veristi?); e cosi il rifiuto del superfluo; così la drammaticità intima e riservata.

Qualcuno ha scritto che Rimini era un « poeta pittore della sicilianità » (Manzella Frontini). Federico De Roberto ne esaltò, fra l'altro, « la solidità della costruzione, la precisione delle linee del disegno ». Per Ugo Fereroni (in occasione della sua prima mo­stra catanese, 1927), « Roberto Rimini dava già la misura della sua statura d'artista e nel medesimo tempo la sua capacità di rimanere se stesso pur partecipando attivamente ai vari movimenti culturali » della sua giovinezza (liberty, espressionismo, astrattismo, futu­rismo. surrealismo). Vitaliano Brancati, parlando di lui che esponeva a una mostra collet­tiva, non esitò a proclamare: « Sembra che Rimini abbia avuto l'incarico di illuminare i quadri degli altri », tanto la luce dei suoi paesaggi era splendida e siciliana. Enzo Maganuco definì quella di Rimini « arte matura, doviziosa padrona di tecniche e di mezzi espres­sivi familiari solo ai maestri che all'esercizio dell'arte stessa hanno votato appieno la loro vita ». E Raffaele De Grada: « Ma anche quando il paesaggio si spopola di figure e si avverte che il pittore cerca l'angolo della pura fantasia... Rimini riesce a darci sensa­zioni nuove, sognate, eppure veramente realistiche del paesaggio siciliano ». Secondo Vito Librando, l'artista, pur cosi sereno e sorridente, « tratteneva in sé dubbi e ripensamenti molto di più di quanto sospettavano molti suoi ammiratori, più di quanto affiorava dalle terse e luminose marine, dai questi intensi dei suoi contadini e dei suoi marinai assorti nel lavoro quotidiano ». Ritratti fedeli: Roberto Rimini era davvero tutto ciò.

collezione F. P. Frontini

Morì ad Acitrezza dieci anni addietro, a ottantatré anni d'età, la mattina di martedì 16 febbraio 1971. Il giorno dopo, durante i funerali, faceva freddo e piovigginava. Centinaia di persone accorsero a salutarlo. I pescatori di Acitrezza, che per lui erano stati ispiratori e modelli, mandarono in mare i più giovani e si radunarono in chiesa, con gli altri amici del « professore ».

collezione F. De Roberto


SALVATORE NICOLOSI  (16 febbraio 1971)

mercoledì 6 gennaio 2021

"Eco della sicilia"1883 ed. Ricordi di F. P. Frontini - Coro Lirico Siciliano


Gesualdo Manzella Frontini (Delta - 1923)

La Città di Palermo - Assessorato alle Culture Il museo etnografico siciliano "Giuseppe Pitrè" e il Coro Lirico Siciliano presentano ECO DELLA SICILIA Frontini e Pitrè nell'In – Canto siciliano Artisti del Coro Lirico Siciliano Susanna La Fiura - soprano Antonella Arena - mezzosoprano Fabio Distefano - tenore Alberto Munafò - tenore Giulia Russo, pianoforte Accendiamo una luce al Museo Pitrè Canti popolari siciliani raccolti e trascritti da Francesco Paolo Frontini Un omaggio al forte e indiscusso legame sussistente tra Giuseppe Pitrè e Francesco Paolo Frontini, due illustri maestri che hanno dedicato grande attenzione al cuore popolare della Sicilia attraverso un lavoro di ricerca, studio e diffusione dei più pregevoli, armoniosi e mirabili canti della tradizione regionale che rischiano, ingiustamente, di scomparire. La Sicilia ai siciliani e al mondo. Un capodanno tutto "siciliano" quello firmato Coro Lirico Siciliano. CANZUNA DI LI CARRITTERI CANZONETTA VILLARECCIA - Alberto Munafò Siragusa MALATU P'AMURI - Antonella Arena L'AMANTI CUNFISSURI - Fabio Distefano LA ROSA - Susanna La Fiura LA FICU - Alberto Munafò Siragusa CIANCIU, NICI - Fabio Distefano LA VUCCA - Susanna La Fiura AMURI, AMURI - Cantilena dei mulattieri - Antonella Arena LU 'NGUI, LU 'NGUI, LU 'NGUA' - Susanna La Fiura MI POZZU MARITARI - Antonella Arena PRI TIA DILIRU E SPASIMU - Alberto Munafò Siragusa CANZONETTINA - Fabio Distefano CANTO DEL CARCERATO - Alberto Munafò Siragusa CELU, COMU MI LASSI! - Antonella Arena PALUMMEDDA - Susanna La Fiura MI LASSASTI IN ABBANNUNU - Alberto Munafò Siragusa MI MANCANU LI TERMINI - Antonella Arena CANZONETTA POPOLARE NELLA VENDEMMIA - Fabio Distefano A NICI! - Susanna La Fiura CANTO DE' CONTADINI ETNEI CIURI, CIURI


------------------------------------ Coro Lirico Siciliano grancoro@hotmail.it www.facebook.com/coroliricosiciliano Instagram: www.instagram.com/coroliricosiciliano/ Eco della Sicilia - Cinquanta Canti popolari siciliani con interpretazione italiana raccolti e trascritti, Ricordi - Milano - 1883.

http://frontini.altervista.org/canti_siciliani.htm


« Tra gli artisti e compositori dell'Isola voi siete,
« se non il solo, uno dei pochissimi che comprendono la
« bellezza e la grazia delle melodie del popolo. Pur com-
« ponendone di belle e di graziose, Voi sapete apprezza-
« re queste vaghe e dolci reliquie d'un passato che non
« ebbe storia, e serbate a durevole monumento, delle
« note piene di sentimento squisito e di candore vergi-
« nale. Altri non penserà neppure a ringraziarvi dell'ope-
« ra patriottica da voi compiuta; io Vi ammiro ». Parole, sentite e quasi solenni.



(...)Ma ciò che qui interessa e dal carteggio scaturisce chiaramente, è l'influenza determinante che, 
negli anni della sua formazione al Conservatorio di Palermo, ebbe sul Frontini l'incontro col Pitrè, l'uomo dotto e generoso che, intrattenendosi a ragionare con lui di canti popolari, gli comunicò succhi vitali pei suoi orientamenti futuri.
Prova di ciò sono le ben sei raccolte di melodie lasciate dal catanese, tutte riguardanti la Sicilia, e il loro alto valore scientifico, senza dire del libretto di Malìa, il capolavoro, musicato su testo di Luigi Capuana, in cui l'ambiente, caratterizzato da canti popolari, stornelli a risposta, danze, trovò, in un compositore spiccatamente congeniale alla poesia di popolo, un interprete di eccezionale merito e sensibilità.
Estratto dal volume - Pitrè e Salomone - Marino


venerdì 29 settembre 2017

Per canto e pianoforte il "Canto di Zilpa"


Musica di Salvatore Saya - parole di Mario Rapisardi



"Canto di  Zilpa"

Un paese io conosco ove non ride
Caldo e raggiante il sole; 
Ma quanto infido è il sol, tanto son fide
L'anime e le parole. 
Ivi oceani non son, non son vulcani,
Né abissi il suol nasconde; 
Non fiamme d'amorosi impeti umani,
Non mar d'ire profonde ; 
Ma deserti di fiori entro una blanda
Fascia di nivea luna, 
Laghi a cui fan gli azzurri ampia ghirlanda
Senz'onda ed aura alcuna. 
In palagi d'opàle e di coralli
Avvolti in roseo velo, 
Pallide giovinette intesson balli
Infra la terra e il cielo. 
Infra la terra e il ciel, come fragranza
Che il freddo aere molce, 
S'alza un canto di pace e di  speranza
Monotono ma dolce. 
O fratel mio, tal rigido paese
E qui dentro il mio core. 
O amico e difensor, bello e cortese,
Io non conosco amore.
                              Mario Rapisardi.
                                            (dal Giobbe, Lib. 2°).







* Natura ed Arte 1892/93

venerdì 26 maggio 2017

"DI UNA NUOVA RACCOLTA DI MELODIE POPOLARI SICILIANE" Eco della Sicilia 1883



                                 Mio caro Frontini,



Son degli anni parecchi che io, intrattenendomi con voi di canti popolari, vi esprimevo il desiderio che voi stesso, così profondo negli studi musicali come valente ne' letterari, vi applicaste a trascrivere quelle tra le melodie siciliane che per la loro grazia meritassero di veder la luce.
Le Melodie popolari siciliane che io misi in calce al II, volume de' miei Canti popolari siciliani mi avevano sempre più persuaso che molte di esse sono preziose e per l'arte musicale e per quella scienza che oggi tutti conosciamo col titolo inglese di Folk-Lore. Vedete, dunque, con che piacere abbia io accolta la notizia dell'incarico affidatovi dalla benemerita Casa Ricordi, di preparare la Raccolta, che ora fortunatamente pubblicate, e di cui avete avuto la gentile premura di farmi vedere le ultime prove di stampa. (• Questo scritto doveva precedere l'Eco della Sicilia; Cinquanta Canti po-polari siciliani con interpretazione italiana raccolti e trascritti da F. PAOLO Frontini. R. Stabilimento Ricordi. Milano [settembre, 1883). In-4*, pp. 148; ma non giunse in tempo, e perciò viene qui pubblicato come introduzione e complemento dì quel libro).

Le cinquanta melodie di questa Raccolta sono, per lo più , scelte con giudizio, e trascritte con la fedeltà voluta in così fatti lavori. Tutte meritano la qualificazione generale di siciliane, perché son nostre e perché l'elemento orientale dell'Isola non prevale nè sopraffa in esse 1' elemento meridionale ed occidentale. L'aver voi arricchito delle più caratteristiche tra le suddette mie cantilene la vostra raccolta, fa si che essa rappresenti non solo il canto etneo e messinese, ma anche il trapanese ed il palermitano, che son tanta parte della Sicilia.
Capite bene, egregio maestro, che io parlo non di quella melodia che nacque ieri, ed è l'espressione più o meno felice di un uomo, che con la grazia della sua ben trovata nota seppe scendere nell'animo del popolo; ma bensì del canto veramente tradizionale, della melodia qualche volta aritmica, e non di rado indocile d'un ritmo esatto e ben figurato, con la quale s'accompagna la ottava siciliana a rime alterne detta canzuna, e quegli stornelli, che volgarmente s' appellano ciuri, (fiori); tipi veri del nostro canto popolare. I nn. 9, 13, 20, 27, 28, 31, 32, cioè Mi vótu ' e mi rivótu suspirannu; Mamma, nun mi mannati all'àcqna sula; Amici, amici, chi 'n Palermu jiti; Giustizia, giustizia, mè signuri ! Cori, curuzzu: Amuri, amuri,chi m'ha' fattu  fari,'Nta sta vanedda, sono esempi genuini delle nostre cantilene; checchè possa esservisi intruso o commisto. Ed è a notare che anche i vari mestieri vi hanno la parte loro, i carrettieri, i campagnuoli, i fornai, le tessitrici. 
Sarebbe non pur curioso ma anche utile il ricercare , ciò che non potrebbe aver luogo in queste poche e fugaci linee, se e fin dove si estendano nel mezzogiorno d'Italia gli echi di queste cantilene, perchè io dubito non se n'abbia a riscontrare qualcuna nella vicina Calabria.
Certo è, però, che le nostre canzoni hanno un carattere speciale che si allontana dalle napolitane stesse.
La melodia della canzone ad ottava è, per avventura, la più divulgata e, vorrei dire, la melodia indigena del nostro popolino. Ma essa non trova sempre e dappertutto il favore di cui in certi luoghi ed occasioni gode l'aria o arietta. Là dove l'amante creda la canzone roba troppo antica, o non efficace abbastanza perchè faccia intendere alla sua bella che egli si spira per lei, l'aria è il canto preferito. Ed eccolo :

Pri tia diliru e spasimu
Cridimì, armuzza mia :
Riduttu su' fantasima,
Bedda, p'amari a tia.

La notti, o sia lu jornu,
Sempri pinsannu a tia,
Giru limura 'ntornu,
Bedda, p'amari a tia !

La canzone non ha i titoli di nobiltà dell' aria, e quando si vuol riuscire a qualche cosa di buono non si rinunzia alla attrattiva di tenere un notturno o una serenata d' amore, nella quale i migliori canti sieno di arie. La ragione di questa preferenza è tutta nel componimento, fattura non ispontanea di persone di lettere o mezzo letterate, le quali disdegnano la canzone come troppo umile a celebrar l'amore e le varie sue vicende. Novanta su cento arie riconoscono quindi un'origine meno modesta, meno oscura delle canzoni; e voi, caro Frontini, sapete che tra le arie popolari dell'Isola vi sono anacreontiche scritte dal celebre ab. Giovanni Meli, e messe in musica dal compianto vostro concittadino Giovanni Pacini, l'uno e l'altro imitati da una schiera di giovani poeti e di maestri siciliani.
Non occorre aver molte conoscenze d'armonia per vedere che dove la melodia delle arie e delle canzonette corre libera del  fren de l'arte » e dei legami di una successione armonica, abbandonandosi solo al sentimento che la ispira, essa e espressione genuina di popolo. Il cantore che ignora le regole dell'armonia, con due o tre accordi di chitarra o di sistro, o di scacciapensieri, o di piffero, secondo che si canti in città o in campagna, scioglie tutte le questioni d'arte e di scienza(Saggi di melodie pop. romane di A. PaRISOTTI, nella rivista di Letter. pop., fasc.III.  p.   190.).  A questa non volgare origine ed al carattere stesso delle melodie che arie rivestono, io non son lontano dell'attribuire la modernità e la limitata popolarità di queste melodie medesime, le più antiche tra le quali non saprei riportare  di la dagli ultimi del secolo passato; ed antiche, relativamente parlando, sono per me quelle dei nn. 1,  3, 5, 7,  15,  34 ecc.  La Rosa; La Ficu; l'amanti cunfissuri; La figghia di lu massaru; Pri tia diliru e spàsimu; 'Bedda mia, lu tempu vinni ecc.   Ed intanto , notate  differenza di gusti e di giudizi ! più la melodia è antica, e più per un cultore di tradizioni popolari è pregevole come cimelio d'arte o come documento dello spirito umano; più la melodia e le parole di essa sono moderne o recenti, e più sono gradite a' cantatori ed a' dilettanti di chitarra, di sistro, di scaccia pensieri, amanti di novità.
Io non so da chi, dove e quando sieno nate quelle che nella vostra Raccolta portano i titoli: Lu 'ngui; Ciccina e D. Cocò; Cum-mari Nina; Sunnu li fimmini; Cu la chitarra, e che formano i numeri  14, 19, 30, 37, 44, ecc. ma io le credo, e forse non m'inganno, recentissime; anzi la 39, Sunnu li fimmini, è una imitazione d'una non originale poesia dell'aretino Antonio Guadagnoli, dove son questi versi di satira, (cito di memoria):
In fin le femmine,                                                         
O belle o brutte, 
O vecchie o giovani,
Mi piaccion tutte;

e nella vostra questi altri versi:

O bianchi o niuri, 
O pallidetti,
Si sù brunetti
Pincunu cchiù.

La  17" da voi trascritta dalla bocca del popolo:

O bedda Nici,
Scuma di zuccaru,
E chi ti fici
Ca 'un m'ami cchiù ?

poesia, come sapete, del Meli, è composizione di A. Romano, col cui nome venne anche pubblicata o ripubblicata dall'editore signor Salafia nella Raccolta di Canzoni siciliane in chiave e voci diverse, con accompagnamento di pianoforte di diversi autori. La 40" dello stesso Meli, Lu Labbru;

Dimmi dimmi, apuzza nica, 
Unni vai cussi matinu? 
Nun cc'è cima chi arrussica 
Di lu munti a nui vicinu.

cosi cara, così dolce a tutti noi, è si del Pacini, come voi notate; ma gioverebbe vedere perchè altra ben diversa ne corra dello stesso maestro pubblicata prima d'ora nella cennata raccolta del
Salafia. Scrissi: davvero il Pacini l'una e l'altra ? ovvero ne scrisse, come io credo, una sola? E se così è, quale delle due è del Pacini?

L'elemento satirico è quello che più dà a divedere l'arte si del poeta e si dell'autore della musica, se pure versi e musica non sono d'una stessa persona.  Ma !a satira non è la più felice tra le composizioni popolaresche siciliane, perchè è quasi sempre occasionale, e, cessate le ragioni per le quali fu fatta, cessa la sua esistenza.   Sono soltanto le composizioni d'amore che trovano eco nell'animo di tutti e, come espressione d'un sentimento comune, hanno lunga vita in ogni tempo e in ogni luogo.

Per lo studio delle melodie popolari gioverebbe vedere se nelle cinquanta canzoni di questa Raccolta ve ne siano di non siciliane. Mi pare che qualche nota del Continente sia nel n. 46. Mi pozzu maritari, che richiama ad una canzone simile dell'Italia meridionale, e nel n. 45 di Messina, Catarina, Catarinella, che mi fa ricordare di una maliziosa canzonetta palermitana, da me ripetutamente udita quand'ero fanciullo, nella quale un calzolaio va a provar la scarpina nuova ad una sua cliente, con quel che segue...: ragione di velleità pornografiche, che io allora non capivo.
È risaputo, del resto, che molte delle canzoni nuove, le più vivaci, le più allegre ci vengono di fuori.senza nulla detrarre alla produzione naturale della Sicilia, e fanno il giro di tutta l'isola rimanendovi per degli anni nella forma originaria delle parole, riconoscibili sempre sono le mentite spoglie dialettali assunte saltellando di bocca in bocca siciliana. Ma sono canzoni d'amore, nè entrano mai, o rare volte entrano, a rallegrare le malinconiche serenate dei nostri contadini e dei nostri popolani, né restano lungamente nel repertorio del canzoniere siciliano.

Un'ultima parola e basta.

A voi che con tanta intelligenza vi siete occupato di musica popolare, non sarà sfuggita un'osservazione d'un certo significato. Fra le canzoni che nascono in città e quelle della campagna qualche differenza corre; nelle une prevale la tonalità minore, e non maggiore, come parve ad alcuno; nelle altre ha base la tonalità maggiore, e si cantano a coro. Se non che, la tonalità non ha regola fissa, cambiando a seconda di quello che deve esprimere; ma il minore campeggia sul maggiore, almeno per quel che è dato vedere su questi saggi. Quali ragioni psichiche e forse anche etniche concorrano a questi fatti, io non sono in grado di giudicare per ora; ed e a desiderare che qualche valente ingegno, intendente molto di arte musicale e di studi demografici, vi si applichi con intelligenza ed amore.

Tornando alla vostra pubblicazione, lasciate, caro Frontini, che io mi rallegri con voi, ed abbiatemi con affetto di stima Palermo, 26 settembre 1883.
Tutto vostro G. PITRÈ.





domenica 2 aprile 2017

PITRÈ, LA MUSICA POPOLARE E IL CARTEGGIO INEDITO COL MAESTRO F. P. FRONTINI





Nell'autunno del 1883 il giovanissimo Maestro catanese Francesco Paolo Frontini assolveva l'incarico, avuto un anno prima dalla Casa musicale Ricordi, di preparare una raccolta di melodie popolari siciliane.
La raccolta, formata di cinquanta canti corredati di « interpretazione » italiana, uscì col titolo Echi della Sicilia e recò dedica di « affetto e riconoscenza » « all'Illustre Professore Cav. Giuseppe Pitrè », cui, difatti, l'autore, dando inizio al lavoro, si era manifestato bisognoso di consiglio e di aiuto:  « Mi troverei in un mare di confusione — aveva scritto da Catania il 4 ottobre 1882 — s'Ella col suo più che valevole appoggio non volesse aiutarmi ».
Per spiegarci il coraggio, la confidenza sia pure rispettosa, onde il Frontini si rivolgeva a studioso celebre qual era già il Pitrè, dobbiamo ricordare ch'egli lo aveva avuto professore di lettere nel Collegio di musica — oggi diciamo Conservatorio — della capitale siciliana, presso il quale aveva compiuto i suoi studi. Di recente poi si erano incontrati a Catania dove il Pitrè era stato in visita con la moglie.  La preghiera di aiuto non era rimasta nel generico, anzi, in quella stessa prima lettera, si era concretata in richieste precise: al Frontini occorreva da una parte il seguito di alquante arie, di cui con le melodie aveva trovato il testo della sola prima strofe nella raccolta dei Canti siciliani, dall'altra l'intero testo di canti di cui aveva trascritto personalmente la musica. 
I problemi, però, come suole, si moltiplicarono, nascendo si può dire l'uno dall'altro, cosicché, non appena il Pitrè (sul momento impedito da motivi di salute) potè rispondergli, soddisfarlo in quanto possibile nelle richieste, assicurarlo della sua volontà di cooperare, il dialogo epistolare fra i due studiosi divenne così ricco e, in particolare da parte del Frontini, così frequente, da apparirci oggi fonte di vivo interesse per la storia retrospettiva degli studi di musica popolare in Sicilia, come pure per la ricostruzione del ruolo avuto in essi dai personaggi di cui ci occupiamo.

Diciamo intanto che il carteggio, nello stato in cui è giunto a noi posteri, è, purtroppo incompleto, come prova l'assenza di lettere esplicitamente ricordate in quelle possedute. Serba, tuttavia, il meglio e l'essenziale e questo può mitigare il rammarico di ciò che è andato perduto o disperso.
Le lettere del Frontini, in numero di 22, vanno dal 4 ottobre 1882 al 1° ottobre 1891 e sono custodite nella Biblioteca del Museo Etnografico « Pitrè » alla Favorita di Palermo; quelle del Pitrè, 9 soltanto (e tra esse alcune sono cartoline), vanno dal 6 novembre 1882
al 2 gennaio 1915 e fanno parte dei carteggi del Maestro Frontini posseduti dai figli a Catania.
Il Pitrè, felice di vedere che l'antico discepolo si fosse accinto a fare ciò che « tante volte (ve ne ricordate? ) » aveva raccomandato nelle conversazioni letterarie al Collegio palermitano, rispondeva ai vari quesiti. Pel caso prospettatogli, di una melodia di canzone ad ottava mancante del testo, suggeriva di supplire con quella di altra ottava: « la melodia è una per mille »; si dichiarava in grado di fornire qualche altra aria popolare, « ma — chiariva con semplicità — io non so scrivere le note » e le sole parole non avrebbero gran che interesse. 
Con calore consigliava di non occuparsi della romanza Supra 'na navicella, ch'era un'imperfetta importazione estera, ossia di voler dare « una raccolta di arie genuinamente siciliane, caratteristiche ». Questo il contenuto della prima lettera del 6 novembre 1882. A giro di posta, l'8 novembre, ringraziando vivamente, il giovane Maestro motivava la sua insistenza nel desiderare altre strofe dei canti di cui possedeva le melodie con le esigenze del « canto in sala », il quale, se di brevissima durata, delude; consentiva in pieno nella necessità di pubblicare « vere arie e canzoni popolari siciliane » e pertanto chiedeva ansiosamente se le canzoni da lui raccolte fossero « siciliane o sicilianizzate », infine sollecitava consigli.
Purtroppo noi non potremo commentare qui, una per una le lettere; diremo che il lavoro del Frontini, febbrile come fu, giunse piuttosto rapidamente alla fine. Al termine del gennaio 1883 egli inviò al Ricordi le prime venti canzoni raccolte, alla metà di febbraio ne mandò delle altre raggiungendo il numero di trenta ( tutte, sperava, genuine siciliane) e, pur desideroso di poterne raccogliere altre ancora, giudicò venuto il momento di procurarsi un autorevole presentatore. E chi più autorevole del Pitrè?
Senza esitare, misurando i « vantaggi immensi » che gli avrebbe arrecato la condiscendenza di colui al quale si rivolgeva, lo pregò « caldamente » di volere scrivere « due parole di prefazione ad essi canti » allo scopo di rendere interessante la « piccola raccolta », di farle « acquistare un merito » che — diceva con sincera modestia — pel momento non aveva. 
L'indugio della risposta non lo disarmò. Recatosi a Milano ai primi di maggio di quell'anno 1883 per seguire da vicino il lavoro di composizione tipografica e di correzione delle bozze, il giorno 6 replicava la preghiera accompagnandola con quella di volere accettare la dedica che si era permesso di fargli dell'opera.
Perchè, vien fatto di chiedersi, tanto ritardo da parte del Pitrè?



In verità il Frontini gli aveva chiesto due parole di prefazione, ma il Pitrè non era uomo da prendere la cosa alla lettera, stendendo qualche riga affrettatamente. Onde quando scrisse giustificando il ritardo e mostrandosi ben disposto ad accogliere l'istanza del suo giovane amico, la prima cosa che fece fu quella di chiedere dilucidazioni su ciò che la prefazione avrebbe dovuto contenere o forse sul modo della sua impostazione; ci esprimiamo dubitativamente perchè la cartolina che avrebbe dato il testo genuino, manca e della sua esistenza e contenuto desumiamo notizia dalla risposta del Frontini in data Milano 20 maggio.
Da questa risposta comincia una fase nuova, forse la più importante, del carteggio in esame per la quale ci troviamo anche più sensibilmente a contatto di due competenze distinte che collaborano sentendo indispensabile questa collaborazione, determinandone il raggio.
A volta di corriere il Frontini precisava non essere necessario entrare a parlare minutamente di ogni canzone, di ogni cantilena, di ogni melodia, lavoro lunghissimo; bastava « far rilevare che le nostre canzoni hanno « un carattere speciale che si allontana dal lombardo e « dal napolitano, mentre si avvicina moltissimo allo spagnuolo e all'arabo, e come infatti in Mineo si cantano « delle cantilene che in origine sono arabe, e che io — « diceva — ho poste nella raccolta ».
Proseguiva dissertando da tecnico sulla differenza di tonalità che passa fra le canzoni che nascono in città e quelle delle campagne. « Nelle prime predomina la « tonalità minore, (e non la maggiore per come taluno « ha voluto dire », forse per l'influenza del clima o delle « vicende politiche, e sono per lo più canzoni erotiche e « satiriche, mentre nelle seconde ha quasi base la tonalità maggiore, fatte poche eccezioni, e si cantano in « coro ». 
Faceva però notare che « la tonalità, nelle nostre canzoni [e qui non è chiaro se « nostre » equivalga a « siciliane » oppure si riferisca alle canzoni raccolte], non ha una regola fissa, cambia a secondo di « quello che debba esprimere, ma il minore campeggia « sul maggiore, almeno da quanto ho potuto vedere ».
Faceva successivamente notare che poesie e musiche di autore comprese nella raccolta erano bensì di autore, ma dal popolo erano state fatte proprie; suggeriva di avvertire il lettore che se nella raccolta avesse mai rilevato la presenza di qualche canto sicilianizzato ( ossia non proprio siciliano ), la colpa non era tutta di chi aveva raccolto: « i veneziani cantano la Ciccuzza di Napoli, « i lombardi il Mastru Raffaele, i romani la Rondinella amabile dei lombardi; intendo che la musica è l'istessa, « ma le parole sono cambiate ».
Infine accennava all'interpretazione, alla traduzione cioè in italiano delle cinquanta canzoni pubblicate, traduzione — spiegava — voluta dall'editore « per avere maggiore sviluppo nella vendita ». Mostrando bella sensibilità in materia, diceva a proposito di essa: « comprendo benissimo che perdono molto di quella poesia « caratteristica, di quei vocaboli che racchiudono centomila parole, ma lo scopo è di far conoscere la musica, « e poi, posso assicurarle che la traduzione non è maluccia ».  Tale sua assicurazione cadde nel vuoto. Allorché nei primi di luglio, essendo egli sempre a Milano, ebbe alfine dal tipografo le prime prove di stampa della raccolta e si affrettò, il 7 luglio, a spedirle al Pitrè pregandolo: di correggere quanto di erroneo avesse trovato nella grafia siciliana, di comunicargli le sue impressioni sulla musica e sulla traduzione italiana, di mandargli il testo della prefazione; una cartolina di risposta lo mise in grave inquietudine. L'impareggiabile intenditore di poesia popolare siciliana e sincerissimo amico, preannunziava sì, una prefazione sotto forma di lettera, prometteva un articolo che sarebbe comparso nell'« Archivio delle tradizioni popolari », ma nella maniera più esplicita si mostrava scontento della « interpretazione » per la quale usava addirittura l'epiteto di scellerata. Tutto ciò si deduce dalla risposta (28 luglio) del Frontini, datata da Catania: la cartolina del Pitrè (che oggi manca nel carteggio) gli fu rinviata colà, essendo giunta a Milano quando egli ne era già partito. In quella risposta il Frontini si affrettava a manifestare la sua costernazione, a richiamarsi di nuovo al fatto che la raccolta doveva essenzialmente servire a far conoscere la musica delle canzoni siciliane, soprattutto a scongiurare di non far parola dell'« interpretazione » nè nella lettera-prefazione nè nell'articolo ideato per l'« Archivio », senza di che grave sarebbe stato il danno suo e dell'editore.
Dalle lettere successive di agosto e settembre — ce ne sono rimaste tre del Frontini, una del Pitrè — ricaviamo che sull'argomento la discussione continuò incalzante. Il Frontini (lettera del 1° agosto) si indusse a confessare che le traduzioni appartenevano non a lui raccoglitore, bensì a « diversi giovani suoi amici » i quali godevano della stima del paese; che a lui in principio di carriera, premeva serbare la stima del Ricordi, acquistata con le fatiche del « povero suo giovane ingegno »; a ribadire che la raccolta non doveva essere considerata cosa letteraria, nata com'era per fare conoscere le melodie.
« Ripeto — diceva — che la interpretazione ai canti popolari è un pretesto, direi quasi una polvere gettata « negli occhi per fare invogliare le persone a comperare la raccolta. È mia idea che tutti coloro per i quali « il dialetto siciliano è lingua araba, poco si cureranno « se l'interpretazione è orribile, è scellerata — prova ne « sia la raccolta dei canti napoletani che hanno avuto « un'accoglienza festosa — come ancora i siciliani poco si cureranno delle parole italiane, cantandole in « dialetto ».
Occorrerà appena far notare che il maestro catanese era stato più felice quando aveva affermato l'impossibilità di tradurre bene quei vocaboli che racchiudono in sè « cento mila parole ». Ma ora il caso si era quasi fatto personale e quindi comprendiamo perchè il principio teorico, fondamentalmente giusto, subisse una attenuazione, venisse subordinato in certo modo allo aspetto pratico del caso stesso.
Il Pitrè mandò finalmente il 3 agosto la lettera-prefazione — sette e più pagine della sua minuta caratteristica scrittura — e la accompagnò con un proscritto rassicurante:
« Ricevo or ora la vs. del 1° corr.
« Resto inteso. Vedete se v'ho contentato. Scrivetemi subito, e ditemi che vi pare di queste paginette. « Fatemi poi rivedere le stampe di esse ». E il Frontini, nell'esprimere il giorno 14 la sua profonda gratitudine, prometteva l'invio delle bozze, senza lontanamente sospettare che l'editore non avrebbe acconsentito a pubblicare lo scritto perchè troppo lungo e avrebbe obbligato lui a scrivere su due piedi alcune parole di presentazione (lettera Frontini 22 settembre 1883).
La rapida presentazione premessa ai testi spiegò il proposito dell'autore: « intendo solamente dare un « saggio delle più caratteristiche fra le canzoni dell'isola » e prevenne con appropriate spiegazioni eventuali dubbi o critiche del lettore: « Epperò, è da notare, che « se qualche melodia del continente si riscontra fra quelle da me raccolte, non è da farmene una colpa.
« È risaputo, come molte delle più briose ed allegre canzoni del napoletano e dell'Italia meridionale, « vanno e fanno il giro dell'isola con delle false forme « dialettali; e così si dica anche di qualche patetica ed « amorosa cantilena siciliana, che va nel vicino continente — da ciò, il facile inganno di crederle del paese « ove si cantano ».
Il nome del Pitrè figurò non solo nella dedica riconoscente, posta, come dicemmo, in fronte all'opera, ma anche nelle ultime parole della presentazione che rinnovavano l'espressione della « più affettuosa riconoscenza » per l'illustre professore di Palermo « che tanta parte ha speso al completamento della mia raccolta ».
Alla sua volta il Pitrè gradì molto sia la dedica sia il dono del libro e, « sensibilissimo a tanta bontà ed affetto », il 23 settembre scriveva: « Certo, Voi non avreste potuto farmi cosa più gradita di questa, che porta « il Vostro nome ed offre documenti preziosi al Folk-lore « siciliano ». Soggiungeva, con fare conciliante e cortese: « Nessun male che la mia prefazioncina non sia andata. « Essa, in forma di articolo, andrà nell'Archivio per le « tradizioni popolari, rivista autorevole, per la quale il « Vs. libro verrà conosciuto in tutta Europa ». Pertanto chiedeva gliene restituisse il testo per poterlo inserire, con lievi modifiche, nel fascicolo del periodico che era in corso di stampa. Prometteva altresì un annunzio dell'opera nel « Giornale di Sicilia », il più autorevole dei giornali siciliani che « in questi giorni si tira ( incredibile, ma vero) a 14 mila esemplari! ».
Il fatto che però gli scottava era quello doloroso della interpretazione italiana: « non vi dissimulo — diceva — che Voi vi siete accollata una grande responsabilità tacendo che essa non vi appartiene. Leggete il « fasc. II, anno II, dell'Archivio, e vi troverete un mio « articolo severissimo pel De Meglio. Come potrò comportarmi nel fase. Ili a proposito della interpretazione, alla quale dovete far da Cireneo? Io metto la faccenda nelle vostre mani, specialmente per questo precedente creato da me senza volerlo. Qualunque cosa « però possa recarvi dispiacere, intendiamoci caro Frontini, io non la farò ». Al che il Frontini rispondeva in ansia il giorno dopo, 24 settembre: « che dirle? pensi « che comincio or óra, a fare i primi passi colla casa Ricordi, ed un articolo fulminante, mi manderebbe a « gambe per aria. Però, quanto Lei farà, sarà ben fatto ».
Invece dell'originale autografo, che volle trattenere per « pregiato ricordo », egli ne mandò al Pitrè una copia, sicché l'originale, rimasto fra le carte del Frontini, ci mette in grado di determinare l'entità delle modifiche apportate al testo rispetto a quello definitivo pubblicato nell'Archivio. Tralasciando piccoli ritocchi formali, diremo che esse consistettero da un lato nel taglio di qualche esempio e di un passo riguardante poesie e melodie di autore dal Frontini raccolte dalla bocca del popolo, dall'altro nell'aggiunta metodica del rinvio ai canti e melodie della raccolta cui veniva riferendosi nel corso della trattazione. Una nota apposta nella prima pagina chiari che lo scritto, destinato primieramente a precedere il lavoro del Frontini, non essendo giunto in tempo (ma ormai sappiamo che la causa fu un'altra ) veniva pubblicato quivi « come introduzione e complemento » del medesimo.


Non sembri superfluo che ora, benché a disposizione di tutti nella stampa, si riferisca l'inizio di questa « introduzione » che recò il titolo: Di una nuova raccolta di melodie popolari siciliane (« Archivio », II, fasc. III, lug.-sett. 1883, pp. 435-440). 
 « Son degli anni parecchi che io, intrattenendomi con voi di canti popolari, vi esprimevo il desiderio che voi stesso, così profondo negli studi musicali, come valente ne' letterari, « vi applicaste a trascrivere quelle tra le melodie siciliane che per la loro grazia meritassero di veder la luce ». L'esordio, interessante per questo richiamo ai colloqui palermitani, introduce acute considerazioni intorno alla musica popolare tradizionale, ai problemi connessi con la raccolta e lo studio della medesima. Onde fa meraviglia che lo scritto appaia quasi del tutto dimenticato anche in questo nostro tempo in cui l'esigenza di raccogliere le melodie della poesia popolare è stata autorevolmente caldeggiata da tanti studiosi, e apposite istituzioni sono sorte anche presso di noi, oltre che all'estero, per soddisfarla col ritmo più sollecito e nel modo migliore.
Tornando al tema, cioè al contenuto dell'importante scritto, vediamo che il Pitrè, mentre gode del fatto che una sua antica viva aspirazione cominci a divenire realtà, si compiace della fedeltà di trascrizione di quelle cinquanta melodie siciliane presentate dal Frontini e anche della felice scelta fattane rispetto alle aree di provenienza, in guisa cioè che l'elemento orientale dell'Isola non abbia sopraffatto quello meridionale e occidentale; che, col canto etneo e il messinese, siano anche rappresentati il trapanese e il palermitano.
Nel giudicare della bontà e genuinità delle melodie, dà molto peso all'origine, al tempo, alla tradizione:
« Capite bene, egregio maestro, — diceva — che io « parlo non di quella melodia che nacque ieri, ed è la « espressione più o meno felice d'un uomo che con la « grazia della sua ben trovata nota seppe scendere nell'animo del popolo; ma bensì del canto veramente tradizionale, della melodia qualche volta aritmica, e non « di rado indocile d'un ritmo esatto e ben figurato, con « la quale s'accompagna la ottava siciliana a rime alterne detta carmina, e quegli stornelli che volgarmente si « appellano ciuri ( fiori ) : tipi veri del nostro canto popolare ».
Via via, conversando con l'antico discepolo, problemi d'interesse più generale, gravi interrogativi sulla genesi, la provenienza, la cronologia, la diffusione di queste cantilene popolari sembrano risorgere nel suo pensiero e, cercando di risolvere quelli, di rispondere a questi, viene fissando, senza averne l'aria e, anzi, conservando il tono semplice di amichevole conversazione, i criteri fondamentali che, secondo il suo modo di vedere, debbono presiedere alla scelta e trascrizione della musica popolare.
Fin dalla sua prima edizione dello Studio critico sui Canti popolari siciliani (1868) il Pitrè, ben lo sappiamo, aveva affermato: « Il canto, o meglio la parola « non isposata alla melodia, non è l'espressione intiera « della poesia veramente popolare. La melodia ha un « grandissimo ufficio nel canzoniere del popolo: senza « la quale il canto è un puro ed ozioso esercizio. Ecco « perchè s'incontrano gravi difficoltà nel raccogliere e « copiare de' canti con la sola ripetizione orale di chi li « sa, e perchè volendoli avere nella loro interezza bisogna fare che il cantatore associi la melodia alla « poesia ».
Nuovi spunti di meditazione, pur fra concetti magari discutibili oggi, la lettera-prefazione può offrire, dunque, a chi ne legga per intero il testo.
Intanto è notevole che la melodia tradizionale, per quanto riguarda la Sicilia, egli la trovi, oltre che in quella onde si accompagnano la canzuna e lo stornello, in quella anche cui danno ispirazione i mestieri, i carrettieri, i campagnoli, i fornai, le tessitrici, sebbene la più originale, tipica, « indigena del nostro popolino » rimanga quella della canzone ad ottava; molto più notevole il suo osservare che le « arie » usate per un notturno o per una serenata, novanta su cento riconoscono un'origine moderna e meno oscura; che numerose sono le anacreontiche del Meli musicate da valenti maestri arrivate al popolo; che, anche senza molte conoscenze-d'armonia, è facile riconoscere le melodie genuine del popolo dalle altre in cui è palese il « fren de l'arte ».
Il cantore di popolo, lo aveva fatto osservare il Parisotti (studioso delle melodie popolari romane) con due o tre accordi di chitarra, o di sistro, o di scacciapensieri, o di piffero, secondo che si canti in città o in campagna, scioglie tutte le questioni d'arte e di scienza. L'elemento satirico giova più d'ogni altro a fare riconoscere il poeta e il musico di popolo da quelli d'arte, ma — notazione acutissima questa — la « satira non è la più felice tra le composizioni popolaresche siciliane, perchè è quasi sempre « occasionale e, cessate le ragioni per le quali fu fatta, « cessa la sua esistenza ».
Di qualche sfumatura napoletana in qualcuna delle melodie presentate dal Frontini, egli diceva non doversi fare meraviglia considerato che da Napoli appunto venivano da vario tempo molte delle canzoni nuove, le più vivaci, le più allegre; esse però non si diffondevano tra i contadini, né restavano a lungo nel repertorio del canzoniere siciliano.
Con le ultime righe egli toccava l'argomento tecnico delle tonalità maggiore e minore, dicendosi sicuro che il fatto, degno di rilievo, non sarà sfuggito a chi « con tanta intelligenza » si è occupato di musica popolare. Secondo lui, non sono estranee ad esso ragioni psichiche e forse anche etniche; ma quali fra esse, almeno pel momento, non sa. Nella stesura manoscritta vediamo espresso in proposito il voto che qualche valente ingegno, esperto così di arte musicale, come di studi demografici, si applichi con intelligenza ed amore a risolvere il problema; in quella a stampa non se ne trova cenno, forse per delicatezza, perchè non suonasse tacita accusa di incompiutezza al lavoro del Frontini; e nulla affatto si dice, tanto nell'una quanto nell'altra, della famosa « interpretazione » italiana, proprio come quest'ultimo aveva ardentemente desiderato. Nella sua consueta probità, il Pitrè mantenne, infatti, la promessa di non volere far nulla che potesse recargli dispiacere.
Nonostante l'interesse dimostrato pel lavoro del Maestro catanese, nonostante la serietà scientifica del contenuto delle sue lettere e, in particolare quello della lettera-prefazione, la suggestiva ipotesi di un Pitrè conoscitore di musica non può menomamente farsi strada. Fin dal primo incontro epistolare, egli aveva detto con franchezza al Frontini che le note musicali non sapeva scriverle; le melodie pubblicate a corredo dei suoi Canti popolari furono per lui trascritte da tal Carlo Graffeo; il Tiby, pubblicando nel 1957 il Corpus di musiche popolari siciliane del Favara ha parlato come di cosa notoria di un Pitrè profano di musica (p. 4, nota 1 ). Maria D'Alia Pitrè, del resto, a una mia domanda sull'argomento, rispondeva esplicitamente: « Mio padre non conosceva la musica, non si occupò in modo particolare e diretto di nessuno strumento. Ma amò molto la musica » (cartolina da Roma, 10 febbraio 1952).
Che per la lettera-prefazione il grande demologo si avvalesse e, in qualche caso ripetendo alla lettere le sue parole, di nozioni fornitegli dallo stesso Frontini (mi riferisco al passo sulle melodie, maggiore e minore), che qualche problema posto fosse lo sviluppo di uno spunto offertogli da lui ( accenno alle cause della prevalenza della tonalità minore sulla maggiore), non sono fatti che oscurino il suo merito o la sua dirittura. Con estrema semplicità egli seppe sempre apprendere da tutti, come con immensa modestia seppe sempre ricambiare elargendo i frutti della sua dottrina, del suo meraviglioso sapere.
Al Frontini continuò « a dare »; e come, uscita la raccolta, gli aveva fornito nomi di studiosi stranieri ai quali riteneva utile farla conoscere ( lettera 23 settembre 1883 ), così, poco appresso, apprendendo con piacere vivissimo che l'antico discepolo si proponeva di continuare lo studio delle « nostre » caratteristiche cantilene, forniva quante notizie poteva di bibliografia sull'argomento. Erano notizie non seccamente informative, ma criticamente orientative. In Italia non era stato fatto gran che, (in Francia invece era uscita un'opera in due volumi, della quale, momentaneamente, non riusciva a ricordare l'autore): la raccolta del Salafia, per altro di prezzo esagerato, non aveva alcun valore per gli studi demologici. Assai buono appariva un articolo di Alessandro Parisotti sulle melodie popolari romane; da rintracciare un vecchio opuscolo di Mariano Grassi da Acireale sulle melodie popolari siciliane. Prezioso eventuale consigliere avrebbe potuto essere per lui il Maestro Marchetti di Roma, a parere suo « il più intelligente raccoglitore di melodie popolari in Italia ».
L'interessante lettera del Pitrè cui ci riferiamo è del 25 gennaio 1884 e fu spedita a Sesto S. Giovanni, da dove il Frontini gli aveva scritto ( e inviato il proprio ritratto ) essendo tornato in Lombardia per le sue nozze con la signorina milanese Matilde Moroni.
Qualche anno dopo, ecco un episodio significativo della stima che il palermitano nutriva per il Maestro catanese. Questi gli aveva chiesto il 21 dicembre 1886 un articolo di usi e costumi di Natale e Capodanno per un Numero unico ideato da alcuni suoi amici. Di fronte a un margine di tempo così ristretto, altri si sarebbe schermito o addirittura rifiutato. Il Pitrè, invece, ad appena cinque giorni di distanza, spediva quanto chiestogli con l'accompagnamento delle seguenti poche parole: « Ho fatto per voi quello che non fo da un pezzo « per nessuno, sofferente come sono per gli occhi e sopraffatto da brighe d'ogni genere. Vi mando pochi appunti, informi, come vedete, perchè... perchè..., ve « l'ho a dire? siete stato molto crudele nel chiedermi « uno scrittarello sul Natale proprio alla vigilia di Natale ». Rimbrotto pienamente meritato; dal tono semicordiale, però, reso paterno e quasi amabile nella sua pur evidente fondatezza.
Seguirono anni di silenzio, ma di indefessa operosità pel Frontini che veniva preparando una raccolta musicale dei canti natalizi siciliani. L'11 settembre 1890, appunto per avere in proposito qualche consiglio pertinente, ne scriveva al Pitrè scusandosi di non essersi fatto vivo « per tanti anni » e accennando all'interesse che riteneva avrebbe avuto la pubblicazione, dato che fino allora nessuno aveva pensato di farne una del genere. Fu un lavoro lento, amoroso, attentissimo che, quando uscì, alla fine del 1893, in bella edizione per pianoforte e canto, a cura della Casa Giudici e Strada di Milano, suscitò la più sincera ammirazione nel grande palermitano il quale, ringraziandolo del dono, il 1° gennaio 1894 gli scriveva così:
« Tra gli artisti e compositori dell'Isola voi siete, se non il solo, uno dei pochissimi che comprendono la bellezza e la grazia delle melodie del popolo. Pur componendone di belle e di graziose, Voi sapete apprezzare queste vaghe e dolci reliquie d'un passato che non « ebbe storia, e serbate a durevole monumento, delle note piene di sentimento squisito e di candore verginale. Altri non penserà neppure a ringraziarvi dell'opera patriottica da voi compiuta; io Vi ammiro ». Parole, sentite e quasi solenni.
L'ultimo scritto del carteggio è una breve cartolina del 2 gennaio 1915 con la quale il Pitrè ringraziava con effusione l'amico di un gentile telegramma (riteniamo di rallegramenti per la nomina di Senatore ). Diceva fra l'altro: « Mi fa poi tanto piacere di sapermi ricordato da Lei! ».

Prima di concludere gioverà dire che altre missive di argomento vario non mancano nel carteggio, fra le quali due di condoglianze per la morte delle rispettive madri, datate quella del Frontini 1° ottobre 1891 e quella del Pitrè 29 novembre 1908, come pure non mancano nel corso delle lettere accenni ad amici comuni, per esempio, in quelle dei primi tempi, al Canonico Castorina di Catania, o anche riferimenti a fatti di vita ordinaria, e così via.
Ma ciò che qui interessa e dal carteggio scaturisce chiaramente, è l'influenza determinante che, negli anni della sua formazione al Conservatorio di Palermo, ebbe sul Frontini l'incontro col Pitrè, l'uomo dotto e generoso che, intrattenendosi a ragionare con lui di canti popolari, gli comunicò succhi vitali pei suoi orientamenti futuri. Prova di ciò sono le ben sei raccolte di melodie lasciate dal catanese, tutte riguardanti la Sicilia, e il loro alto valore scientifico, senza dire del libretto di Malìa, il capolavoro, musicato su testo di Luigi Capuana, in cui l'ambiente, caratterizzato da canti popolari, stornelli a risposta, danze, trovò, in un compositore spiccatamente congeniale alla poesia di popolo, un interprete di eccezionale merito e sensibilità.