Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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lunedì 23 novembre 2020

Ugo Fleres giovane poeta, testimonianza di un amico 1888

 



ritratto in fototipia


Testimonianza di un amico 1888 

 A me che gli chiedevo più particolari notizie della sua vita, Ugo Fleres ha in questi giorni risposto col sonetto che qui riferisco :

« Son messinese ed ho ventinov'anni ; 

scriver di me mi sembra uggioso assai ; 

credo esser nato all'arte e, ov'io m'inganni, 

spero convinto non restarne mai.

Delle mie gioie come degli affanni 

non soglio far pubblici bandi e lai : 

di tal superba timidezza i danni 

nell'altrui noncuranza io già provai.

Stampo su pei giornali e non li leggo, 

studio senza patenti e professori ; 

idolatro la musica e non suono.

Disegno un poco e tra i pittor' non seggo ;  

scrivo a diluvio e mancan gli editori : 

ecco pur troppo, amico mio. qual sono ».

Proprio così: nessun ritratto poetico fu mai più somigliante di questo per la parte morale. Ugo Fleres, uno degli spiriti artistici  meglio dotati che io  mi  abbia  conosciuto,  costretto dalla vita all'articolo o al pupazzetto quotidiano su pe' giornali, ha viva la fede dell'arte come se ogni giorno per la prima volta ei s'avviasse, nel segno di lei, verso le regioni ideali dove essa regna incontaminata. E l'arte, che lo riama, lo domina così gelosamente che non gli consente pensiero il quale non sia di lei : soffiano violenti o mordaci nelle redazioni de' giornali i venti della politica; il Fleres o non se n'accorge o cerca subito sottrarsi all'impeto loro ne' suoi sogni diletti. — No, non ne parliamo! mi   diceva  giorni   sono,   uscendo   meco   dal Fracassa. Non ne parliamo : tanto, che giova? Io a queste cose  non  ci voglio pensare, per avere il diritto di non arrabbiamoci ! — E ripigliammo a chiacchierare d'arte. Svelto e corretto disegnatore, intelligente di musica,  egli passa la vita tra pittori e maestri;  ed  Uriel, ch'è lo pseudonimo suo nel Fracassa, ha nome di critico onestissimo ed acuto. Ma Ugo Fleres lascia ad Uriel giornalista il diletto e la cura dei concerti e delle esposizioni, e, quando può, si dà tutto alla poesia. Chi non conosce la vita romana in genere, e le necessità dei giornali, non può intender quanto amor vero per l'arte, quanta   forza  di  tenace  volontà  attestino  le novelle e i versi dell'amico mio: né io li giudico; ma vorrei che   molti ne  lo  stimassero com'io lo stimo.


Nato nel decembre del 1857 a Messina, il Fleres studiò nelle scuole e nell'istituto tecnico; o piuttosto non studiò punto, ma s'industriò per conto suo nel disegno e nella poesia. La famiglia, credendo trarne miglior frutto, lo mandò a Napoli; si desse alla pittura: ed egli invece passò allora le giornate in biblioteca. Venne a Roma che non aveva diciassette anni; e cominciò ad effondere, qui la parola è propria, la sua giovinezza in dipinti ed in drammi. Mi scusi il Fleres se io non riesco a trattenermi dal sorridere e dal far sorridere il lettore rammentando, come mi è riescito saperli, que' suoi tentativi: un melodramma; Fingal, tragedia; i Vespri siciliani, tragedia; David, tragedia; Il paradiso degli assassini, dramma sul Vecchio della Montagna; Spartaco, tragedia; Raivallac, dramma; Diogene e Frine; varii Proverbii; tutto ciò in versi. Più, in prosa: Giordano Bruno, dramma; e di nuovo in versi: Labbra maledette, episodio della vita del Goethe; Roscio e i suoi comici, commedia d'argomento antico. Né basta: ridusse il Formione di Terenzio che, letto agli amici del Fracassa, non parve adatto alle scene ; e a Cesare Rossi presentò un dramma in martelliani, II Cieco, e il Rossi lo rifiutò; ma tanto gli piacque la disinvolta modestia dell'autore (il quale lo ringraziò persuaso del giudizio) che, caso raro, divennero buoni amici. E dire che inoltre il Fleres aveva già scritto un poema in isciolti I Saturnali, ed un altro poemetto d'argomento indiano ! « Le cateratte del cielo si apersero, dice la Bibbia, e piovve per quaranta giorni e per quaranta notti di seguito ».

Io non mi meraviglio punto che un giovane dell'ingegno del Fleres, e nelle condizioni sue, scrivesse tanto ; ma sì che non pubblicasse ; che a mano a mano che sfogava quella esuberanza di vena e di fantasia, non crescesse in lui la vanità dell'autore; che egli si facesse anzi giudice sempre più severo di se medesimo. E questo è per me migliore indizio di buona indole artistica che non quello della facile produzione. Fatto sta che di tanti scartafacci, donde io scommetto che a ben frugarli sarebbe da trarre assai di buono, il Fleres non fece altro conto. Al teatro ha ormai rinunziato: la compagnia Maggi ha una sua. commedia in tre atti Eredità vincolata, e Luigi Arnaldo Vassallo vuol ridurgli per le scene un dramma satirico, pure in tre atti, Le vittime ; ma egli afferma che, o bene o male che vadan le cose, non vi si proverà di nuovo.

Presentato a quei del Fracassa, prima che nascesse il giornale, da G. Aurelio Costanzo, che lo stimava come debbono stimarlo quanti lo conoscono, vi cominciò la serie ormai sterminata de' suoi articoli, con certe appendici su La musica dell' occhio, che anche oggi qualche intelligente rammenta. Ed entrato così ne' giornali, d'allora in poi ha scritto e scrive, come i giornali richiedono, affrettatamente ma non mai, sia pur in argomento lieve, contro l'animo suo. Rammento, su tal proposito, curiosi dialoghi tra lui e Beppino Turco: quando il Fleres ha ereduto concedere molto alle necessità del giornale sforzando la lode, sembra al direttore che egli abbia fatto, come si dice nelle redazioni, una stroncatura. Buttato giù l'articolo o il pupazzetto (quanti sorridono sulle figurine del Fracassa non sanno che spesso le debbono ad un gentile poeta !) corre a casa e si ripone a' suoi studi, proseguiti sempre con pertinacia e con fede mirabili. È un autodidatta, il Fleres ; e può tenersene; che pochi, usciti dalle università, han la coltura varia ed elegante di lui.

Messe da parte quelle molte opere della prima gioventù, soltanto per le insistenze di Angelo Sommaruga diè alla stampa i suoi Versi, nell'81. Non già che al Sommaruga importasse molto di lui poeta ; ma volle così procacciarsi la famigliarità d'un disegnatore abile ed agile per la sua Bizantina. A quel libretto accennò con lode il Carducci ; il Fleres oggi lo rinnega, perchè di que' versi gli spiace l'ideale artistico, e l'esagerazione di modernità, o modernismo che dir si voglia, troppo palese. Può rinnegarlo perchè già ha dato molto di meglio. Non parlo delle Profane Istorie, edite due anni fa, e troppo poco curate dal pubblico che avvezzo ai sapori grossi non ha gustato, come doveva, questi sottili ; né del romanzo Extollat uscito ora in luce pe' tipi del Triverio, o dell'altro romanzo Vortice che tra breve ci darà il Tropea di Catania, o delle novelle che stampa il Battei di Parma; il Fleres è per questa parte abbastanza noto al pubblico che ne cerca con curiosità le scritture ne' giornali letterarii. 

 Qui

Ma vo' dire qualcosa, con molta indiscrezione, di due lavori di lunga lena, in versi, cui l'amico mio attende; singolari   lavori  e, tralasciando ogni altra ragione, degni di lode perchè lontani da quanto oggi dà l'Italia in fatto di poesia. Vi sembra piccolo merito in arte, quello di serbare fattezze proprie ? Quale possa essere il pregio dei versi del Fleres, certo non mancherà loro l'originalità. Egli è infatti lo scrittore più ricco di fantasia narrativa che sia oggi tra'giovani: inventare e narrare è un bisogno dell'indole sua artistica, ed  egli inventa con incredibile varietà, e spesso narra con efficacia derivata dalla schiettezza della rappresentazione anzi che dalla vivezza sfacciata de' colori. Se la forma, a lavoro compiuto, risponderà al valore intimo della poesia, il Fleres avrà, nella Giovinezza del   Cid e nel  Don  Juan, fatto opera come poche  ne  vediamo da un pezzo. Ora che la lirica tiranneggia la nostra poesia, oh come mi piace ascoltare la voce di un giovine che osa narrare largamente, pianamente, le belle avventure degli amori e delle armi ! Nel racconto oggettivo all'antica  infondere l'osservazione psicologica alla moderna ; questo l'ideale d'arte che sta innanzi ad Ugo Fleres; il quale per ciò non va in cerca d'argomenti nuovi ma li accetta dalla tradizione. Ha così in pronto La Giovinezza del Cid; e sta lavorando gli ultimi canti del suo Don Juan. Il primo è un poemetto in dieci canti; gli ottonarli alla spagnuola sono variamente rimati canto per canto in istrofette sonanti o soavi, secondo che narrino le battaglie del Cid o i sospiri di Chimena. Il Cid, per vendicare suo padre dello schiaffo che ne ebbe, uccide il padre di Chimena: il re, meravigliato del valore del giovane, lo salva dal supplizio mandandolo a combattere gl'Infedeli; egli torna vittorioso ; Chimena, nella quale l'ammirazione divenne amore e spense l'odio per l'uccisore del padre, andata a chiederne al re vendetta, lo accetta invece marito. I lettori avranno modo di giudicare tra breve dell'analisi sottile che il Fleres ha fatto de' sentimenti di lei ; qui odano soltanto come dolcemente essa invochi il ritorno dell'eroe giovinetto:

«  Non hai già la rinomanza

come un falco in pugno stretta? lungo tempo non t'avanza per attingere la vetta de la gloria ? e non t'affretta de' miei baci la speranza? »

Di più lunga lena è il Don Juan, romanzo in versi che, a lavoro finito, saranno più di quindicimila, in una trentina di canti : ottave, terzine, sonetti, serenate, rime sempre a dovizia e rime buone. Il Fleres non è, né vuole essere, un cesellatore ma un aèdo moderno ; non s'indugia sul verso per amore del verso in sé, ma lo studia insieme con gli altri perchè soltanto dalla compagnia abbia la forza propria e l'effetto che deve. Neppure qui giudico : ma, come ho potuto ascoltando dall'amico a pezzi e bocconi, così riferisco del Don Juan quel che rammento o, quasi di nascosto, ne ho spigolato.

Don Juan  Tenorio,  gittate  sopra  un' isola deserta, è salvato, dopo nove anni, da una nave veneziana; e racconta al padrone di essa. Paolo Targa, e all'equipaggio come il padre suo lo imbarcò per mozzo, com'egli educato a vita signorile, si ribellò al capitano, e come ne fu punito con quell'abbandono.

«  All'erma isola pochi marinai mi recarono taciti vogando, mi baciaron, partir;  solo restai.

Solo, lì solo, io che in Siviglia, quando m'arrideva la vita, e amici e fanti avevo al mio piacere, al mio comando ;

solo, e la barca dilungava, e innanti a me, nel tempo e nello spazio, il mare, il consorzio dei flutti minaccianti ».

Questo il primo canto: nel secondo siamo a Roma. Si fa gran festa nel Vaticano (l'azione si svolge a' tempi di Leone X); l'ambasciatore di Venezia, ch'è Paolo Targa, il quale ama Lucrezia, figlia del marchese Oliviero, assalito da questo, manda l'amico suo Don Juan a rapire la signora per conto di lui, essendo ormai inutile ogni cautela. Mentre il palazzo dell'ambasciatore è assediato dalle genti di Oliviero, Don Juan corre sotto le finestre di Lucrezia:

« A pie della finestra dov'è il lume, egli tosto si fa tra l'alberata, e canta, come è veneto costume, il ritornello d'una serenata. Lucrezia il canto conoscer presume, e la finestra è schiusa, è spalancata: Juan lascia le note e dà di piglio ad un imminentissimo consiglio ».

Bisogna fuggire subito; e fuggono. Ma il canto III ce li descrive spersi per la campagna romana, mentre volevano riparare nella villa di Lucrezia. In un bosco, la sera, essa narra al suo rapitore per procura, l'amore di Paolo e come essa fu costretta a sposare Sesto, conte di Marmora. Don Juan profitta dell'occasione, ed ha con lei la sua prima avventura. L'avere ogni volta chiarito come egli riesca a piegar gli animi femminili e averlo rappresentato, corrotto ed ingenuo ad un tempo, ma nella varietà incessante dei casi unico e coerente in sé, sarà, ove il pubblico trovi che l'autore vi sia riuscito, il pregio maggiore di questo singolare romanzo.
Quando Paolo va alla villa per trovarvi Lucrezia, e sa ch'ella è fuggita con Don Juan, si accorda col marchese Oliviero alla vendetta comune. Raggiungono a Nemi i due amanti; Don Juan uccide in duello il marchese, e Lucrezia lo maledice:
«  Juan, la vita tua torbida scorra di tradimento in tradimento, come va la fiumana rea di forra in forra.
Juan, l'infamia penda sul tuo nome; ogni umano dolor ti dia tortura e ti trascini a morte per le  chiome,
dèmone della mia colpa e iattura  ».
Navigando co' Gitani (siamo al canto V) Don Juan s'innamora di Paquita; e seco la porta nel suo castello dove, sotto il nome di Don Pablo, ricupera l'immenso suo patrimonio.

Nel canto VI, in un ballo nuziale si scopre : nel seguente, così si dichiara ad un'altra bella, a Consuelo, ed è sfidato dall'amante di lei, il primo espada, Esteban :
« Segnorita, il cappel del vincitore sarebbe pésto in mezzo allo steccato se colto non lo avessi io, come un fiore che una dama al suo damo abbia lanciato.

Ma di renderlo a voi non mi dà cuore, se un guiderdone non mi fa beato, e convien ch'esso sia d'alto valore ; un bacio, per esempio, od uno Stato.

Così parla Juan a una procace bruna che morde, udendolo, il ventaglio, e, da cotanto ardir vinta, si tace ».

Ma accorre Esteban, e sfida l'insolente. Si battono; il povero espada è ferito. Qui gli eventi s'intrecciano per modo che non è facile esporli in breve ; né mi è consentito di accennarli tutti. « Le donne, i cavalier, l'armi gli amori » han ritrovato nel Fleres uno che si compiace del canto pieno e delle gioconde fantasie : la varietà dei tipi di donna che egli ha immaginati è incredibile ; noto tra i ricordi che mi si affollano una candida Velina, un'appassionata Dolores, una nobile Maria. E una folla d'altre persone, menestrelli, corsari, zingari, cortigiane, sicarii, cavalieri, pescatori ; fra i personaggi di nome storico, Leone X, il cardinal da Bibbiena, e la famosa Imperia. Il romanzo finisce con la scena dell'invito alla statua, e col volo terribile di Oliviero e di Don Juan sopra le turbe di pellegrini che si accalcano per le vie di Roma, verso i regni misteriosi della Morte.
Ed ora vorrei poter dare qualche altro saggio del libro, tanto ricco di fantasìe e copioso di rime. Ma lo spazio mi manca: né altro aggiungerò che un'ottava pour la bonne bouche. Don Juan, ospite d'un convento, ha sedotta la badessa e tutte quante le monache: l'episodio è trattato con una delicatezza che non si poteva maggiore; e chi conosce il Fleres sa che nel suo romanzo neppure un verso si troverà dove l'arte sia offesa da rappresentazioni poco degne di lei. Le monache, in quella strana vita tutta sogni di amore in che le ha precipitate il giovine bellissimo, non trovano pace :

« Caldo era il tempo ed ascendeano a sera le peccatrici su la torre annosa, sì come fanno le palombe a schiera se il vespro tinge i culmini di rosa : ed esalava qual da una cunziera la dolce lor malia peccaminosa, ma in nube di rimorso e di sgomento s'avvolgeva poi grave in sul convento.  »

Non affretto un giudizio che per più ragioni mi sarebbe oggi difficile : ma mi sia conceduto un augurio che m'esce dall'animo. Abbia presto Don Juan un editore, ed Ugo Fleres quella attenzione del pubblico ch'egli, artista onesto e valente, per tanti conti si merita.


Grafica:

Abilissimo nell'arte del disegno, Ugo Fleres ha pubblicato anche una preziosa raccolta di riproduzioni di lavori artistici intitolandola: 

La galleria nazionale in Roma (1896). 

Collaborò a Il Travaso delle Idee, «giornale umoristico sulla falsariga del Don Chisciotte e del Fracassa». Proprio sul Don Chisciotte, che era diretto da Gandolin, Ugo Fleres illustrò un articolo - intervista di Emilio Faelli a Luigi Pirandello intorno alle traduzioni del poeta delle Elegie romane

L'editore Loescher, che era disposto a stampare le elegie tradotte da Pirandello, morì prima che il progetto fosse stato realizzato e il libro venne comunque stampato dall'editore Giusti di Livorno con una ventina di disegni di donne romane realizzate dello stesso Fleres .

Innumerevoli poi sono gli articoli, le poesie, le novelle che ha scritto per le Riviste d'arte.




La canzone della spola, versi di Ugo Fleres, musica di Francesco Paolo Frontini Forlivesi 1905


http://frontini.altervista.org/ugo_fleres.htm







domenica 20 aprile 2014

Tommaso Cannizzaro e Mario Rapisardi, i poeti amici.

Luigi Vita, valente direttore della rivista messinese Battaglia Letteraria, così scriveva, nel vano tentativo di rivendicare l'alto valore del poeta e letterato peloritano Tommaso Cannizzaro, deplorando il poco onore che in genere gli si rende dalla sua stessa città natale: Cannizzaro dovrebbe essere letto, studiato, ammirato assai più, non solamente dai suoi conterranei messinesi, ma da tutti i siciliani.
 
Giustamente il Vita sottolinea che Tommaso Cannizzaro fu onorato di stima e di amicizia da scrittori quali Victor Hugo, Carducci, Mario Rapisardi, G. A. Cesareo, Giovanni Pascoli, Luigi Capuana, Arturo Graf ed altri simili: il riconoscimento da parte dei Grandi è sempre quello che uno scrittore più ambisce e che largamente lo compensa della incomprensione dei superficiali e degli indotti e dei lettori frettolosi.
Opportuno è ripubblicare, qui, un magnifico sonetto che M. Rapisardi scrisse per l'amico T. Cannizzaro e che si legge tra le Foglie sparse, edizione Sandron.

A TOMMASO CANNIZZARO
Tommaso, invan dove la pugna ferve 
Richiami il tuo commiliton canuto, 
Che, libero fra tante anime serve, 
Per l'onore dell'arte ha combattuto.

Ben ei freme al pensier che di proterve 
Menti uno stuol di vanità pasciuto 
D'ogni pura bellezza ha il fior polluto, 
E alle turpi sue voglie Italia asserve.

Ferito al petto, in solitario loco,
Il sangue ultimo ei perde, e ala sua vista
Discolorasi il mondo a poco a poco.

Ma troppo del suo danno ei non si attrista, 
Se l'idea, che il temprò dentro al suo foco, 
Per opra tua novo splendore acquista.

Versi del Cannizzaro scritti per il Rapisardi , sono quelli che il poeta messinese pubblicò nella rivista catanese Istituto di Scienze lettere e arti del 30 Gennaio 1899 e intitolati A Mario Rapisardi, in occasione delle onoranze a Lui: in occasione, cioè, delle onoranze che Catania tributò al suo grande Poeta, allora poco più che cinquantenne, col plauso degli uomini più insigni d'Europa; onoranze di cui segno più duraturo rimase il busto bronzeo del Rapisardi nel giardino Bellini, opera dello scultore Benedetto Civiletti. In questi versi, il Cannizzaro esortava il festeggiato Cantore di Giobbe e di Lucifero a non badare al cavallo della gloria che nitriva alla sua porta, e gli faceva notare che i massimi poeti — l'Alighieri non escluso — non ebbero riconoscimenti e festeggiamenti, ma persecuzioni, incomprensioni, livori, povertà, esilio e che il poeta deve essere « odiato dai contemporanei e dimenticato dai posteri» (anche dai posteri?). Ma vediamo i versi di Cannizzaro:
« Del tuo quieto ostello a le severe porte
il cavai de la gloria odi, o Mario, nitrir,
esso ti attende, e — inforcami, — grida superbo e forte
—  del canto altero Sir. 
Io ti trarrò per selve di lauri maestosi 
dove i venturi secoli un peana a inalzar
verranno su la fulgida urna dei tuoi riposi
—  Mario, non l'ascoltar! 
Volgigli il tergo e lascia ch'ei corra ove più voglia 
dove la vana sete di fama il porterà:
a lui tu nega il varco della modesta soglia dove la Musa sta ... »
Evidentemente Cannizzaro esagerava: Rapisardi non fu mai avido di lodi e di onori: « Poco il biasimo e men la lode apprezzo » scrisse nell'epistola poetica ad Andrea Maffei, nel mandargli una copia del Lucifero. E in una delle Poesie religiose, dedicata a Felice Cavallotti, scrisse di sé:

« Io, che tutta donai la mente al Vero,
Né più mi tocca il cuor biasimo o lode ... ».

Ma che egli dovesse mostrarsi sordo e indifferente al cavallo della gloria, che finalmente nitriva alla sua porta, era troppo.
Rapisardi, rispondendo ai versi e ad una lettera del Cannizzaro, per ciò così gli scriveva nel febbraio del 1899:
« Il cavallo della gloria ha dunque nitrito alla mia porta, ed io, dovevo secondo te cacciarlo via a suon di pedate? Oh, perché, amico mio? Io credo aver fatto qualcosa di più gentile.
Mi sono affacciato allo sportello, in mutande e berretto da notte, e ho detto: Pegaso mio, io ti sono grato del cortese invito; ma, credimi, io non ho più voglia di inforcare le tue groppe e di caracollare per le regioni fragorose della gloria.
Certo non mi vergogno di averti un giorno desiderato (oh, perché dovrei vergognarmene, se i più nobili e fieri spiriti, non esclusi l'Alighieri e l'Alfieri, ti hanno ardentemente desiderato?); ma ora, credi, ho altro per la testa; e il mio vecchio cuore, a parte gli acciacchi e i disinganni dell'età, non ha palpito alcuno per tutto ciò che non si riferisce alla giustizia e alla pace degli uomini ». Coerentemente con questa affermazione, più tardi, nel maggio del 1906, in prefazione all'edizione Nerbini del suo Lucifero, scriveva di sé che « vicino ormai a dissolversi nell'infinito, nel fluttuare di tante idee, nel tramonto di tanti idoli, nella furia fragorosa di sì strane correnti artistiche e letterarie, egli rimaneva fermo in quei princìpi che aveva finalmente riconosciuti per veri, aspirava l'aura dei nuovi tempi, s'inebriava al sentore delle nuove battaglie, ringiovaniva alla certezza del trionfo della Giustizia e della Libertà ».
Chiudendo la lettera suddetta al Cannizzaro, il Rapisardi incalzava: « Mi parli di una gloria fatta di oblio ... dici che del poeta ha da essere obliato persino il nome, salvo poi a lasciar l'ufficio di ripeterne il canto alle foreste, al cielo e al mare. Mio caro amico, te lo confesso: codesti a me paiono indovinelli.
E tali, credo, li avrebbe stimati anche il povero Antero, che, nonostante il suo ascetismo, forniva gentilmente le proprie notizie biografiche ai suoi traduttori e credeva che l'essere onorato e stimato dai contemporanei era pure qualcosa ».
La chiusa della lettera accenna ad Antero de Quental, poeta portoghese, di cui il Cannizzaro, conoscitore sicuro di lingue moderne, tradusse in italiano i sonetti.
La lettera è a pag. 343-44 dell'Epistolario del Rapisardi edizione 1922 dell'editore Niccolò Giannotta di Catania, curata dal Dottor Alfio Toma-selli, il quale, dopo la morte del Poeta etneo, sposò la di lui amica e ispiratrice Amelia Sabernich Poniatowski.
Coerente con questo suo modo strano di concepire l'attività del poeta, il Cannizzaro pubblicava le proprie opere senza nome, o con pseudonimi: « Versi francesi di un anonimo »,« Le quartine di Umar Chayyàm recate in italiano dal traduttore dei sonetti Camoése di Anthero de Quental ». Ragion per cui il De Amicis, scrivendogli, lo invocava: « Gentilissimo Innominato ». E motto abituale del Cannizzaro era: « Nascondi la tua vita, diffondi le tue opere ». Qualcosa di simile pensava il Cesareo quando diceva, a noi suoi scolari nell'Ateneo di Palermo, che quello che resta di un poeta è la sua poesia; la quale, mentre è la sua gloria, è anche la sua giustificazione ».



Morto il Rapisardi, nel gennaio del 1912, il Cannizzaro non mancò di scriverne e notò, tra l'altro, che « Mario Rapisardi visse solitario come un eremita e morì come un filosofo antico, i cui ammaestramenti ci restano quale eredità preziosa che maturerà i suoi frutti nelle generazioni future ».

Ma scrivendo del poco onore in cui il Cannizzaro è tenuto dai messinesi, e dai siciliani in genere, non si può tacere il nome illustre di un altro poeta e letterato messinese cui sembra inflitta una simile incomprensione:   Giovanni Alfredo Cesareo.
Forte e fecondo poeta, che ha pagine degne del Foscolo, e critico saggista paragonabile al De Sanctis, egli è tuttora sottovalutato in Sicilia e in Italia. E non mi risulta che la sua Messina gli abbia eretto un busto; né glielo ha eretto Palermo, dove fu a lungo maestro insigne di Letteratura Italiana.

Per il Cesareo, come per il Cannizzaro e per il Rapisardi e per G. A. Costanzo si aspetta ancora la critica serena e chiaroveggente che assegni loro il posto preciso, cui hanno diritto, nella storia della letteratura moderna.

Bibbliografia
*Articolo apparso in rivista « Battaglia letteraria » di Messina, Gennaio-Febbraio 1967 e in rivista « Palaestra » di Maddaloni (Caserta), Luglio-Settembre 1967.
* Saggi e discorsi di Ignazio Calandrino.

domenica 29 aprile 2012

Edoardo Giacomo Boner e i suoi anni catanesi. 1893

(Messina5 marzo 1866 – Messina28 dicembre 1908) è stato un poetascrittore e giornalista italiano.





Quando, nell'ottobre del 1893, Edoardo Giacomo Boner venne nella nostra città il suo nome era già abbastanza noto.
Si sapeva che oltre ad essere un buon narratore (i « Racconti peloritani » ne erano una prova sicura) egli era un letterato, versato anche nelle scienze e ricco di dottrina e d' ingegno, che aveva al suo attivo libri come « Leggende boreali » (1886), che De Amicis aveva trovate «interessantissime», e come «L'Italia nell'antica letteratura tedesca » (1887), che dimostrava non solo la sua profonda conoscenza della lingua e letteratura italiana e tedesca, ma ben anche la sua grande erudizione e le sue notevoli qualità di scrittore.
Ma più di tutto si sapeva che Boner era un poeta (le edizioni dell'editore milanese Quadrio, « Novilunio » — 1884 — e « Plenilunio » — 1889 — erano state nelle mani di tutti) e questo bastava a renderlo caro particolarmente ai giovani, che di poesia e di poeti son sempre stati ghiotti, forse perché la giovinezza è poesia essa stessa.
Boner allora non aveva ancora pubblicato « Musa crociata » i cui versi oltre ad un giudizio del Pascoli («Boner ha straordinari l'ingegno, la fantasia, la dottrina, la vena e l'abbondanza del sentimento, ma semina rovesciando il sacco, non attingendovi con la mano ») gli frutteranno una lettera (21 luglio 1899) di Giovanni Verga che merita di essere riportata : « Musa crociata fa onore non solo al suo ingegno ma anche al sentimento che le ha ispirato i bei versi e me ne congratulo maggiormente con l'amico e col poeta di questi tempi piccini per tutto ciò  ch' è  sentimento  e poesia ».
Ma a non pochi grossi calibri delle patrie lettere, tra cui Tommaso Cannizzaro, Luigi Capuana, Giovanni Alfredo Cesareo, Domenico Ciampoli, Federico De Roberto, Giovanni Gentile, Francesco Guglielmino, Sabatino Lopez, Concetto Marchesi, Luigi Natoli, Enrico Panzacchi, Giovanni Pascoli, Giuseppe Pipitone Federico, Girolamo Ragusa - Moleti, Mario Rapisardi,  Giovanni Verga, ecc., non erano sfuggiti i versi giovanili boneriani di «Novilunio » nè quelli più maturi di «Plenilunio», che nella Prefazione lo stesso Boner definiva « un pò meno scialbi, un pò meno freddi (di quelli di « Novilunio »), ma sempre fiori d'ombra schiusi alla luna », nè quelli che, col titolo appunto di «Versi, 1880 - 1892 », egli aveva dato alle stampe a Girgenti nel 1893, alla vigilia cioè del  suo  trasferimento  a  Catania.
Ma in questa sede non tanto interessa conoscere l'opera di Edoardo Giacomo Boner, che, del resto, essendo vasta e complessa meriterebbe un lungo e meditato discorso (1), quanto parlare dei suoi anni catanesi e, naturalmente, di quella parte dell' opera sua che qui balzò alla luce della sua anima e del suo pensiero, o che, comunque, dalla nostra città fu ispirata ed essa canta ed esalta  nelle  sue  bellezze  e  nei  suoi  grandi.
*
Ancora diciassettenne, avendo alcuni affari sbagliati del padre (un commerciante di gran talento ma sfortunato, trapiantatosi dalla natia Svizzera tedesca in Messina, dove sposò, in seconde nozze, Anna Larini, che fu la madre del Nostro) gettato la famiglia in gravissime ristrettezze economiche, Edoardo Giacomo Boner fu assunto, grazie alla sua già matura conoscenza del tedesco e di altre lingue estere, dall' Istituto « Dante Alighieri » di Messina per insegnarvi lingua  tedesca.
E Boner insegna e continua a studiare. Iscritto infatti alla facoltà di lettere di quella Università, egli è nello stesso tempo insegnante e studente. Studia dunque e insegna e, per guadagnare di più e poter così aiutare la famiglia, viaggia, anche, durante le vacanze. Viaggia per incarico di importanti ditte industriali di Messina che apprezzavano la sua serietà e la sua perfetta padronanza delle lingue estere. Viaggia per guadagnare, ma, viaggiando, segue dei corsi di letteratura tedesca, latina e neolatina presso le Università di Lipsia e di Berlino e approfondisce la sua conoscenza delle lingue e letterature straniere e affina sempre più la sua preparazione e la sua cultura.
Finché, nel 1892, conseguita frattanto (nel 1890, presso l' Università di Napoli) l'abilitazione all' insegnamento della lingua tedesca negli Istituti Tecnici, e nel 1891 (presso l'Università di Roma) quella per l'insegnamento delle lettere italiane nei Licei, passa ad insegnare tedesco all' Istituto Tecnico « Michele Foderà » di Girgenti, con lo stipendio annuo, aggiungo per i curiosi,  di  L.   1920.
A Girgenti, a 28 anni, comincia dunque la vera e propria carriera scolastica di Edoardo Giacomo Boner ; quella carriera che nel 1906 lo porterà a conquistare — primo in graduatoria ad unanimità di voti — la cattedra di letteratura  tedesca  nell'Università  di  Roma.
Un anno appena Boner insegnò a Girgenti ; ma se in seguito egli scriverà (Le Siciliane, p. 8) questi  versi :
« Salve, o Girgenti, eremo asil che adoro ! 
Vigor tu desti e luce al pensier mio, 
E da te appresi,  altera in tua sfortuna, 
Esser tra mie sfortune altero  anch' io »
vuol dire che quel breve soggiorno deve avergli insegnato qualche cosa e lasciato nell' animo suo un dolce ricordo e impronte indelebili.
Da Girgenti, nell'ottobre del 1895, Boner passò a Catania.
*
Appena Edoardo Giacomo Boner ebbe notizia del suo trasferimento da Girgenti a Catania, avendo qui dei parenti, pensò di incaricare un d'essi, precisamente il cugino marchesino Giovanni Palermo, di procurargli una camera mo-bigliata comunque fosse, purchè il fitto non superasse le lire venti mensili.
Il marchesino si mette subito all' opera. E dopo non poco girare trova. Trova non già la solita stanza in famiglia, bensì una davvero bella e decorosa camera in casa di persone dabbene, arredata con un certo lusso, naturalmente di gusto ottocentesco, e, fra l'altro, a breve distanza da quell' Istituto Tecnico « Carlo Gemmellaro » in cui appunto il Boner dovrà insegnare. Insomma, una camera ideale secondo il cugino, per cui egli è lieto e felice.  Tanto  che,  giunto il poeta a Catania, lo accoglie a braccia aperte, lo accompagna, lo presenta. Tutti sono contenti. E Boner, apparentemente soddisfatto, si installa in quella bella camera e, per riposarsi del lungo viaggio,  va  addirittura   a  buttarsi  sul  letto.
Ma trascorso qualche giorno, una grande sorpresa attendeva il marchesino recatosi a trovare il cugino.
— Il professore ? risponde la padrona. Ma ha lasciato la camera il giorno dopo del suo arrivo. Non aveva ancora nemmeno riposta la biancheria nei cassetti del comò. Né tirato fuori i libri  dalle  casse  e   dalle  valige.
E, allo stupore del cugino, soggiunge : — Ma possibile che lei non sapesse niente, che non sappia nulla ? Andando via, il professor Boner ha detto che era obbligato da gravi motivi a raggiungere  subito la famiglia a Messina.
La sorpresa del marchesino Palermo è grandissima. Non sa che cosa dire, che cosa rispondere a quella povera signora visibilmente contrariata, quasi offesa. E se ne va confuso, mortificato, offeso anche lui. Da un cugino come Boner poteva egli aspettarsi un fatto simile ? E non sapendo che fare, gli scrive a Messina. Ma il giorno appresso chi ti incontra in via Stesicoro-Etnea ? Proprio Boner. Il quale, alla meraviglia e al risentimento del cugino, risponde con l' aria più naturale che « non essendo riuscito a sopportare quella stanza bella si ma terribilmente imbottita di tende, di divani, di tappeti, di mobili e senza luce nè aria nè vista », aveva là per là inventata la scusa del richiamo urgente della famiglia e, chiamata una carrozzella che passava, vi aveva caricato su tutti i suoi bagagli e, gridato al cocchiere: «in piazza Manganelli», era  scappato  via.
Era avvenuto questo. Che lo stesso giorno del suo arrivo, andato in giro per la città, aveva scoperto, attraverso chi sa quali indicazioni, una cameretta tutta bianca di calce e piena d' aria e di luce al quarto piano di un palazzone sito appunto all' angolo di piazza Manganelli e via Recalcaccia ;  l' aveva subito presa in  affitto e vi si   era   andato   ad  allogare  a  precipizio  felice  e contento.
Il poeta, il romantico nutrito di studi classici, la mente e l'anima piene, affollate di miti, di leggende, di favole, di fantasmi, aveva bisogno, per stare a suo agio e ispirarsi, di una grande finestra (altro che la stanza insaccata in quel budello di Corso Vittorio Emanuele) che sovrastasse e dominasse la città e dalla quale si potesse liberamente contemplare il cielo e, di là dalla interminabile e grigia fuga dei tetti, anche il mare, l'immensa   glauca   distesa   dello  Jonio :
« Del mar fisando i ceruli perigli, 
Quante volte sognai,  là,  su quel molo, 
A le  biond'albe,  a'  vesperi vermigli! ». (Le Siciliane, p. 12)
Desideroso infatti com'era, avido, anzi, d'aria, di libertà, di paesaggio, e insofferente delle aule chiuse, polverose, mefitiche, il professor Boner preferiva condurre i suoi alunni all' aperto, ora in  uno, ora in un altro sobborgo :
« Tutto  è  fuori un  giocondo  inno  all' aprile 
E olezzan  fior,   cantano  augelli ...» (Versi, p. 35)
E là, toltasi, se faceva caldo, non solo la giacca, ma anche la camicia e la maglia, e rimasto a torso nudo, incominciava a parlare. Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Foscolo, così, a capriccio, secondo gli dettava l'estro, erano i suoi temi prediletti e preferiti.
Cominciava piano, una parola dopo l' altra, quasi le soppesasse e misurasse. Poi, a mano a mano che andava addentrandosi nell'argomento, parlasse in italiano o in tedesco, s' accalorava talmente da durare ore e ore a parlare, senza stancarsi, con una foga da ispirato, che finiva immancabilmente col trascinare i suoi giovani ascoltatori all'entusiasmo e alla commozione. Erano quelli — mi diceva il povero Benedetto Condorelli, caro e indimenticabile amico, che aveva conosciuto Boner ed aveva preso da lui delle lezioni  private  di  lingua italiana   —  le più belle e proficue lezioni del professor Boner, anche se fuori programma, anche se in una materia che non era quella d'obbligo che lui doveva insegnare.
E avveniva sempre che alle sue lezioni non solo non mancava mai un solo scolaro, ma, a quelle all' aperto, si contavano spesso degli « uditori » che si mescolavano agli allievi per ascoltare la dotta, bella, alata parola di Edoardo Giacomo Boner.
Concetto Marchesi, che gli fu collega al Liceo   « Maurolico » di Messina,  disse che   « di città in città,  di scuola in scuola, Boner fu adorato dai discepoli come  nessun  altro mai ».
Parlatore e improvvisatore formidabile, davvero dotato dalla natura, gli bastavano pochi appunti essenziali, che nemmeno scriveva, ma elaborava a memoria, per fare qualunque discorso su qualsiasi argomento. Francesco Guglielmino, che lo aveva acclamato più volte, ricordava Boner oratore con parole veramente ammirevoli. Memorabile è rimasto il discorso « fortemente suggestivo, altamente poetico, ricco di evocazioni, di   voli   lirici,   di immagini squisite, smagliante nella forma e nei concetti » da lui improvvisato al Giardino Bellini il 22 gennaio del 1899, davanti ad una folla di letterati ed artisti, in occasione dello scoprimento del mezzobusto in bronzo di Mario Rapisardi, opera dello scultore palermitano  Benedetto  Civiletti (2).

* * *


Gli anni che Edoardo Giacomo Boner trascorse in Catania, dal 1893 al 1895, erano gli ultimi di quel sec.   XIX° (oh quanto   stupidamente disprezzato e forse da coloro che segretamente più lo invidiano) e la nostra città viveva uno dei momenti più fulgidi della sua esistenza e della sua storia. Fervidissima e piena d'iniziative la vita industriale e commerciale per cui la città prendeva sempre maggiore impulso e sviluppo ed importanza. In gara con questa, la vita dello spirito era addirittura incandescente. In ogni attività Catania brillava di luce propria intensissima. Dappertutto, in letteratura e in arte, uomini di primo piano : Verga, Rapisardi, Capuana, De Roberto, Gaetano Ardizzoni,  Lucio Finocchiaro, Antonino Gandolfo, Natale Attanasio, Epifanio Licata, Giuseppe Sciuti, Francesco Di Bartolo, Giulio  Moschetti,  Francesco  Paolo  Frontini.
Anche la chiesa, per le grandi virtù del Cardinale Dusmet, raggiunse allora uno splendore inusitato.
In un clima letterario ed artistico che perfino Firenze ci invidiava, attorno ai maggiori ora nominati, viveva, lavorava, prosperava una pleiade di scrittori, di poeti, di letterati, di artisti, di giornalisti, di musicisti, di uomini politici, dal cui ingegno sprizzavano e s'irraggiavano scintille di sapere, d'arte, di poesia, di vita, di bellezza, da richiamare l'attenzione, l'interesse, l'ammirazione del mondo.
In siffatto ambiente, la cui temperatura raggiungeva sovente gradazioni da altiforni, trascorse i suoi anni catanesi Edoardo Giacomo Boner, alternando l'insegnamento e lo studio all'attività creativa.
Qui infatti furono concepite, se non scritte, non poche delle poesie di «Le Siciliane». E non importa se questo volume, in cui il Boner versò il meglio della sua produzione poetica, anche se in una lettera (8 gennaio 1900) a Mario Rapisardi lo chiamò « ultimo fardelletto di sciocchezzuole versificate », non importa se apparve nel 1900, quando cioè egli aveva da circa cinque anni lasciato la nostra città.
E se a far uscire il Giannotta da una indecisione che tormentava Boner fu Mario Rapisardi, che consigliò al suo editore di pubblicare senz'altro il libro di Boner («ma cos'ha contro di me che continua a rifiutare le mie offerte di pubblicazioni?»), vuol dire che l'opera doveva valere, che il Rapisardi non era certo di facile contentatura, nè proclive alle raccomandazioni non meritate.
Ma non è questo che può interessare ai Catanesi. Ai Catanesi possono interessare i versi, veramente commossi e ammirati, che Boner ha scritto in   « Periplo »   per  la loro  città :
« Catania  è qui,  vaghissima fanciulla,
Che fra 'l suo mar distesa e il suo cratere,
Su le sue  lave al sol canta e si culla».
Ai Catanesi possono interessare i versi che nella stessa lirica Boner ha scritto per il loro Bellini:
« Ma perchè all'appressar de la Montagna 
In cor mi suona il pianto  d'Adalgisa 
E Amina per le vane aure si lagna? 
Torno all' infanzia  mia  di fedi arrisa, 
Vedo  le stanze,  odo  i soavi  accordi 
Onde l'anima mia fu pria conquisa,
 E su quel mar di sogni e di ricordi 
Tu splendi ancor, Bellini,  angel vocale, 
Moderator  d'edenici arpicordi. 
Parmi che  immense apra il tuo genio l'ale 
Su questi lochi, a te propizia  culla, 
E ogni aura, ogni onda, è un tuo spiro immortale ».
Ai  Catanesi   possono interessare i versi che Boner ha scritto  per il loro  Giardino  Bellini : 
« Or qui nel riso  di acclivi pergole, 
Di culte aiole,  di chioschi ombratili, 
Sonando i lai divini Etna, del tuo Bellini, 
Pompeggiar cocchi, monili splendere 
Tu vedi, e baldi trascorrer  giovani, 
E frotte di fanciulli chiassose in lor trastulli».
Ai Catanesi, infine, possono interessare ì tre atti in armoniosissimi martelliani della commedia «Bellini», la cui prima idea indubbiamente germogliò in lui mentre risiedeva nella nostra città.
Pubblicata nel 1903 nella vallardiana «Natura ed Arte », con illustrazioni di Riccardo Salvadori (3), questa commedia di Edoardo Giacomo Boner (purtroppo rimasta ignorata nonostante il tema suggestivo e i pregi letterari) dimostra, tra l'altro, quanto fosse vasto e versatile il suo ingegno, se egli poteva dedicarsi alla narrativa, alla poesia e al teatro, mentre non trascurava, tutt' altro, di coltivare severi studi scientifici e lo studio delle lingue e letterature straniere, particolarmente le tedesche.
L'azione si svolge in tre luoghi lontani nel tempo e nello spazio.  Il primo atto a Napoli, in casa di Maddalena Fumaroli (primo grande e sfortunato amore di Bellini) all' indomani del felice esordio del giovane musicista («'u guaglione») al Teatro San Carlo con lo spartito di « Bianca e Fernando». E si assiste al nascere di quell'idillio che non ebbe meriggio.  Il secondo atto ha luogo a Milano cinque anni dopo. Bellini è già celebre. Ma i milanesi, che già avevano applaudito «Il Pirata», «La Straniera», «La Sonnambula», alla prima di «Norma», la sera del 26 dicembre 1831 al Teatro La Scala, la fischiano clamorosamente. Tutto l'atto è imperniato su quel solenne fiasco (4). Intorno a Bellini, perchè a lui più vicini e cari allora, sono Giuditta Turina, Felice Romani, Francesco Fiorimo Il terzo atto si svolge a Puteaux a quattro anni di distanza dagli eventi del secondo atto. Col trionfo dei « Puritani » al Teatro degli Italiani a Parigi, la sera del 25 gennaio 1835, Bellini ha conquistato la gloria. Ma la malattia, che da tempo lo mina, e il dolore per la recente scomparsa della Fumaroli sovrastano la gioia del trionfo. Ed ecco, improvvisa e fulminea, la scena del trapasso del Cigno catanese, con la  quale la commedia finisce.
Edoardo Giacomo Boner era un assai fine letterato e poeta per ammannire uno di quei polpettoni che di solito i commediografi o drammaturghi imbastiscono attorno ai grandi nomi e fatti della storia e dell' arte. Egli ha invece semplicemente sceneggiato, ma con grazia inimitabile, tre tappe o momenti, della vita artistica ed amorosa di Vincenzo Bellini, scegliendoli tra i più salienti e densi di significato e di destino e, perciò stesso, di contenuto drammatico. Ha così scritto un' opera che aderisce compiutamente al mito romantico di Vincenzo Bellini.
E saputo e risaputo che Bellini amò molte donne e che molte donne amarono lui. Ma appunto per ciò, forse non uno solo degli amori di Vincenzo Bellini attinse alle profonde misteriose radici dell'amore e del dolore. Nessuna donna, nemmeno la Turina, che si può dire fu la musa vivente del nostro Cigno, riuscì ad attanagliare, ad avvincere, a possedere compiutamente l'anima belliniana, perennemente rapita da ben altri miraggi, da ben altre visioni, da ben altre armonie. La vita amorosa di Bellini, e tanto meno, si capisce, quella artistica, non poteva dunque offrire sufficiente materia al commediografo ; ne ha però offerta moltissima al poeta. Tanto meno poteva offrirne al trageda e al drammaturgo. Non è forse, quindi, senza valore e significato, il fatto che il Boner, che aveva prima chiamato « dramma » questo suo lavoro teatrale (5), poi, pubblicandolo interamente, lo chiamò « commedia » . E la commedia, piace osservarlo, finisce con la morte del protagonista.
Due cose son certe : la prima, che anche in quest' opera, Edoardo Giacomo Boner rimane essenzialmente un poeta, e non soltanto per la stesura in versi dell'opera stessa, bensì per la concezione, per l'impostazione e per lo svolgimento ; la seconda, che questa commedia bone-riana è un nobilissimo omaggio del grande messinese non solo a Vincenzo Bellini, ma anche alla nostra città,  patria di Bellini.
E la nostra città — non per sdebitarsi di tanto omaggio — ma per dimostrare, sia pure a mezzo secolo di distanza, di averlo gradito e apprezzato,  voglia far semplicemente apporre, sulla acciata dello stabile di Piazza Manganelli dianzi ricordato, una piccola lapide marmorea che ricordi che in quella casa abitò, dal 1893 al 1895, Edoardo Giacomo Boner, poeta, scrittore, letterato, maestro messinese (1864-1908). Data propizia sarebbe quella del 28 dicembre 1958, cinquantenario del terremoto di Messina in cui il Boner morì. 
Amante del bello e di ogni bellezza artistica, naturale, fisica, eccetera, Boner sentiva profondamente il fascino delle donne, e di esse facilmente s'invaghiva.
E com'era al sommo della felicità mentre durava l'illusione d'amore, così, quando questa svaniva, l'amaro della delusione lo abbatteva tremendamente continuando ad addolorarlo, a tormentarlo, ad intontirlo, ad avvilirlo e scoraggiarlo per anni ed anni, per cui gli « pareva di non poter più credere nè più fidare in nessuna donna al mondo ».
Quanto sconforto e quanta sfiducia nell' avvenire traspaiono da qualche lettera sua al « caro e grande Mario » .
Decisamente, Edoardo Giacomo Boner non ebbe  fortuna  in amore, anzi fu uno sfortunato.
Per rifarsi della seconda delusione dovettero passare ben sei o sette anni e quando finalmente si sentì guarito e potè riversare tutta la passione e tutto l'amore di cui era capace l'animo suo nella vaghissima Graziella Arena, ecco l'avverso destino tendergli l'agguato più feroce e inaspettato. Tornato infatti, nel dicembre del 1908, da Roma a Messina per trascorrervi le vacanze natalizie e poscia, il 3 gennaio, passare a nozze, la notte del 28 veniva travolto, e come lui anche la sua dolce Amely (Graziella), dal cataclisma che doveva fare della bella Messina « un feretro grande ».
In una poesia al mare della sua infanzia («Sul mare», Le Siciliane, p. 143) così Boner chiudeva una  sua invocazione : 
« Ma  presso a te, ma presso
Le tue salse fragranze,  e l' armonia
Posi la spoglia mia.
E là,  per tutto e sempre tu lo stesso,
Là, de la sepoltura
Ne la gran pace oscura,
Cantami ancora le tue canzoni, o mare.
E il dio  dei poeti lo esaudì.
* * *
Verga, Rapisardi, Capuana, De Roberto, Francesco Guglielmino, Sabatino Lopez, allora a Catania, conobbero Boner e come amarono l' uomo, ammirarono il poeta e ne apprezzarono il grande ingegno e l'immensa cultura. « Era di una cultura che quasi faceva spavento » ha scritto di lui Sabatino Lopez.
Grazie a quella sua immensa cultura, Edoardo Giacomo Boner poteva insegnare qualunque materia e, all' occorrenza, sostituire qualsiasi collega.
A Catania, al « Gemmellaro », mentre reggeva la sua cattedra di tedesco, insegnò anche, in sostituzione di altri colleghi, francese e italiano ; e italiano insegnò anche nel Ginnasio « Spedalieri » e nel Liceo «Cutelli». Contemporaneamente fu lettore di lingua tedesca nell' Università : incarico conferitogli per interessamento di Mario  Rapisardi.
L'amicizia tra il Rapisardi e il Boner incominciò nel 1883. Ce lo dice lo stesso Boner in una sua lettera al Rapisardi (la prima) datata Messina, lì 15 giugno ' 84 : « Avendo avuto il bene di conoscerla personalmente l'anno trascorso...». 1884: «anno infaustissimo» per Mario Rapisardi, come lui stesso lo definì in un epitaffio apposto alla fine del ms. della traduzione  delle Odi di Orazio.
Dalle lettere di E. G. Boner a M. Rapisardi, pubblicate da Sebastiana Cannavò (6) — quelle del R. al B. andarono disperse tra le macerie della casa in Messina dove Boner trovò la morte — la corrispondenza sarebbe  cessata nel 1905.
E l'amicizia? Durò ancora? E, del resto, perchè non doveva durare ? Sta di fatto questo : che nell' unica lettera riguardante Boner compresa nell' Epistolario Rapisardiano, così Mario Rapi-sardi scrive (aprile 1911) al «Comitato per le Onoranze a E. G. Boner: Non sarò l'ultimo dei soscrittori per un ricordo marmoreo al nostro caro Edoardo, che io stimavo ed ammiravo fraternamente ». E, con una punta di sarcastica amarezza, soggiunge : « Ma per il buon successo dell'opera nostra, prego offrire la presidenza delle Commissioni a persona più autorevole e meno siciliana di me. Tutto ciò che muove da questa infima Italia non trova facili simpatie negli uomini letterati appartenenti al cervello e al ventre della nazione (7).
Una parentesi. Ritrovati in circostanze prodigiose, a diciotto mesi dal terremoto, i resti del Boner (la testa staccata completamente dal corpo) nel punto designato da una fanciulla (certa Carmelina Alibrandi) che aveva visto in sogno il poeta, essi furono tumulati nel Cimitero di Messina a spese del Comune.
Nel 1911, per dare un assetto decoroso alla tomba, sorse il Comitato di cui alla lettera del Rapisardi ora riportata. Nel medesimo tempo tale Giuseppe Portaro pubblicò un racconto garibaldino «Camicia rossa» «a beneficio di un ricordo marmoreo a G. Edoardo Boner in Messina» (8).
Ma tale ricordo marmoreo, ossia una lapide (opera dello scultore calabrese Vincenzo Jerace) raffigurante il Poeta e il momento del miracoloso ritrovamento delle sue spoglie, e recante la seguente epigrafe :

«EDOARDO  G.  BONER
VISSE PEI SUOI FANTASMI
DI POESIA E D'AMORE
E PEI CARI DISCEPOLI
PERÌ NEL TERREMOTO DEL XXVIII DICEMBRE MCM VIII
MESSINA NEL CUSTODIRE ED ONORARE LA SALMA
QUASI PER PRODIGIO SOTTRATTA ALLE MACERIE
VUOLE TRAMANDARE
IL CULTO DI UN'ARTE PURA E GENTILE
LA PIETÀ D'UNA GLORIA INFRANTA
A GENERAZIONI MENO SVENTURATE»

fu realizzato soltanto nel  1927.   E la   parentesi è chiusa.
« Durante il suo soggiorno catanese — scrive la Cannavò (9) —- il Boner non tralascia occasione per recarsi presso il Rapisardi, là, al Borgo, nella casa da cui si gode la vista dell' Etna maestoso e dell' immensa distesa azzurra dell' Jonio che s'infrange spumeggiante contro la scogliera lavica di Aci Castello. Ivi i due passano ore lietissime in comunione di pensieri ; i vecchi amici frequentatori della casa ricorderanno le loro lunghe partite a scacchi ».
Cordiali furono i rapporti del Boner, oltre che col Rapisardi e col Verga, anche col Capuana e con Federico De Roberto e col fratello del De Roberto, Diego, altro brillantissimo ingegno scomparso immaturamente. Col Lopez furono addirittura fraterni.
Non solamente Lopez e Boner si vedevano tutti i giorni a scuola, dato che, come s' è detto, insegnavano entrambi al « Gemmellaro », ma a-bitavano nel medesimo stabile, presso una certa Signora Sani che Sabatino Lopez, pur dopo mezzo secolo, ricordava ancora e con tanta simpatia. « Abitavamo — mi scriveva fra l'altro nel 1937 — dalla signora Sani, che era una tanto brava Signora continentale, vedova che rimase a Catania e ci maritò bene due figliuole. Lui, Boner, però, abitava al piano di sopra, uno o due, non rammento ».
Anche i pasti prendevano insieme nello stesso ristorante, il Savoja, che era in via Mancini, in uno stabile allora di proprietà Mollica, ora di un grande Istituto bancario.
Sabatino Lopez volle bene a Boner fin dal loro primo incontro a Catania e ne seguì con gioia l' ascesa sino alla cattedra universitaria romana, e ne conobbe e ammirò l' opera, dai primi versi alle ultime pubblicazioni dense di dottrina e di sapere. E deve averne pianto la morte accoratamente se, quando nel 1946, accolte dalla Civica Amministrazione di Messina le istanze di chi scrive (10), si intitolò a E. G. Boner la via delle Fabbriche, così tra l'altro mi scriveva : «Ma più ancora la ringrazio per avermi dato notizia che finalmente la Città di Messina ha intitolalo a Edoardo Giacomo Boner, il poeta insigne e l'uomo tra i più buoni e colti che abbia mai conosciuto, la via in cui egli abitò e morì. Tanti anni ormai e ne provo dolore come di una morte di ieri ».
Una sola opera del Boner, cosa strana davvero, ignorava Sabatino Lopez : la commedia « Bellini ».
Difatti, quando, accingendomi a scrivere di essa, io lo pregai di darmi delle notizie, egli mi rispose con insolita laconicità: «Non conosco il « Bellini » e quindi non posso darle alcuna notizia ».
Ma, scritto e pubblicato l'articolo, anzi gli articoli, sulla commedia boneriana (11) e mandatigli i giornali : « La commedia o dramma di Boner — mi scrisse — oggi innanzi a un pubblico pagante e vario non troverebbe favore perchè non siamo più abituati al verso martelliano. E, per la verità, salvo che per un breve e lieve componimento, oggi, ci sembra intollerabile. Peccato ! Le sue osservazioni sono giustissime circa i mutamenti, direi quasi i pentimenti del Boner. Accade, del resto, frequentemente, che i ritocchi, in parte giovano e in parte guastano ».
*
Ho sin qui parlato di Edoardo Giacomo Boner, tratteggiato, soffermandomi sugli anni da lui trascorsi in Catania, la sua figura di poeta, di scrittore, di studioso, di maestro ; illuminato, attraverso qualche episodio, il suo carattere e il suo temperamento originale ; accennato alla sua sfortuna amorosa, alle sue amicizie, alla sua fine e al prodigioso ritrovamento della sua salma ; ma un ritratto di lui non è ancora uscito dalla mia penna. In verità, non 1' ho nemmeno tentato. Perchè? Perchè il ritratto di Edoardo Giacomo Boner l'ha tracciato, in una lettera scrittami il 30 novembre 1937, Sabatino Lopez ed io ho voluto riservarmelo per chiudere queste mie note. Eccolo, schizzato in punta di penna, ma somigliante e vivo, come poteva tracciarlo soltanto Sabatino Lopez che il Boner conobbe, amò, pianse : « L'ebbi collega e gli volli bene fino dal giorno che l'incontrai a Catania. Semplice, affabilissimo, in cordiale dimestichezza con gli allievi, che lo adoravano ; con gli occhietti miopi e, penso, affaticati dai lunghi studi ; con la sigaretta in bocca, sempre; era di una coltura che quasi faceva spavento. Glielo dicevo, e lui rideva. Poeta, lirico e scienziato, sognatore e pratico, cuore e mente aperti a ogni sano palpito e ad ogni bellezza, fu onore di Messina, che amò e predilesse. Anche la sua fine rende più cara e pietosa la sua memoria ».
                                                                                                               Francesco Granata  (1957 - tratto da Catania vecchia e nuova)

* scritta per wikipedia, biografia qui 

***
« ..Edoardo Boner era stato travolto sotto il peso di due piani. La sua casa era spiombata per largo tratto sulla strada arrovesciandosi tutta e accomunando le sue con le macerie di altre case. Il cumulo delle rovine giungeva all'altezza del secondo piano, fino alla dimora di Edoardo. Qua e là carte, documenti, lettere, frammenti di libri, fradici di piova e di fango, attestavano lo scempio brutale che nella furia delle ruine e dei predoni avean patito le cose più care di quell'anima innamorata. Tra i rottami stava, mezza nascosta, una cassetta di zinco scoperchiata in mezzo a un fascio di bigliettini rosei e azzurri, di mano femminile. Eran documenti di amori lontani che l'acerbo rimpianto del poeta non aveva voluto disperdere e che ora stavano su in alto ad accertare il viandante che il poeta si sfaceva là sotto. Della suppellettile domestica, della casa, nessuna traccia; solo poco più in alto, fra due muri squarciati, l'angolo di uno stanzino, intatto. Mi arrampicai fin lassù e vi trovai, poiché piovigginava, un rifugio. Che pace là dentro, in mezzo a quell enorme silenzio di devastazione!. Quell'angolo pareva aspettasse anzi che l'ultimo colpo di piccone, il compimento della mano dell'uomo. Conteneva ancora il lavabo con il catino dell'acqua bianca di sapone, lo spazzolino pei denti, la bottiglia dell'acqua Magone che odorava di lavanda e un asciugamano ancor umido e arrotolato, attaccato al muro. Quel luogo, tutto pieno di una suggestione di vita, mi dava l'impressione certa di un'attesa. Qualcuno dovea là ritornare, fra poco. E l'allucinazione si coloriva, si arricchiva, sin che m'avvenne di chiamare con impazienza: Edoardo! Scosso dalla paura balzai fuori inciampando e barcollando come se tutte le midolla si dissolvessero nel sudore che mi colava abbondante... »
(Commemorazione - Rivista d'Italia - ottobre 1909. Concetto Marchesi)

Lettera al comitato per le Onoranze di Edoardo Giacomo Boner, di Mario Rapisardi. aprile 1911

Non sarò l’ultimo dei soscrittori per un ricordo marmoreo al nostro caro Edoardo, che io stimavo ed ammiravo fraternamente.
Ma per il buon successo del l’opera nostra, prego offrire la presidenza delle commissione a persona più autorevole e meno siciliana di me.
Tutto ciò che muove da questa infima Italia non trova facili simpatie negli uomini letterati appartenenti al cervello e al ventre della nazione.