Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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sabato 27 marzo 2021

ROBERTO RIMINI IL PITTORE CHE VISSE NEI LUOGHI VERGHIANI

 

E' impossibile contarli tutti, i dipinti, i disegni, gli affreschi e i graffiti di Roberto Rimini: molti sono ormai introvabili, ed egli non tenne mai un inventario della propria produzione. Molte centinaia di opere, certamente; forse migliaia. I soggetti, raggruppabili a cicli (la Calabria, Milo, Taormina, Vizzini, la Piana, Acitrezza), offrono innumerevoli divagazioni e scorci. Ma in tanta ricchezza di immagini c'è un tema che — è possibile accorgersene oggi, dopo tanti anni — risulta assente del tutto, ed è la tempesta: né tempesta sulla terra né sul mare, né tempesta d'anime né tempesta rissaiola. Il cielo è sempre limpido, tutt'al più appena coperto: il mare sempre quieto, semmai appena mosso: e nel volto degli uomini (contadini, maniscalchi, pescatori) mai si coglie turbamento, al massimo un intenso meditare o un velo di mestizia. Il turbamento, quando c'è (e c'è spesso), resta confinato nell'animo, non trabocca mai nel comportamento esteriore né nei lineamenti. Alle sue opere Rimini restituiva l'atmosfera pacata delle sue giornate e la serenità del suo cuore ridente (ridente per autocontrollo, anche quando, come a tutti accade, qualche preoccupazione s'insinuava in esso).

Del resto, così avviene più o meno scopertamente a ogni artista: di riprodurre — sulla tela, sul foglio bianco,, sul pentagramma — i propri stati d'animo più intimi, le vicende della vita. Guardate il Beato Angelico, il Caravaggio, Salvator Rosa, Toulouse-Lautrec; Francois Villon, Poe, la Lagerlòf, Kafka; Chopin, Bellini, Wagner. C'è sempre, più o meno evidente, una consonanza, per adesione o per reazione, tra la biografia e l'opera. In Rimini era assolutamente esplicita e coerente. E' più agevole constatarla oggi, che si sono compiuti, il 16 febbraio, dieci anni dalla morte.

Ci incontrammo per la prima volta nel 1953, quando egli presentò una « personale » al Circolo artistico di Catania e io andai a visitarla; e a bearmene, dovrò aggiungere. Come artista famoso, però, lo conoscevo da tempo. Rimini era per me un personaggio quasi mitico. Di lui mio padre, Vito Mar Nicolosi, possedeva alcuni oli e un grande dise­gno a sanguigna. Erano amicissimi. Nel 1928, quando mio padre pubblicò in una rivista teatrale, » Le maschere », che dirigeva, la commedia allora inedita di Verga, Rose caduche, Rimini vi collaborò con un ritratto a litografia di Verga; un altro del grande scrittore, a carboncino, ne avrebbe eseguito più tardi.

Così, quello del Circolo artistico fu quasi un incontro fra vecchi amici: per l'inter­posta persona di Vito Mar Nicolosi, io sapevo di lui, lui sapeva di me. Quel giorno stesso scorsi, del — per me — leggendario artista, la qualità essenziale: quella d'essere un fanciullo puro e sorridente, persino ingenuo, alieno dalle camarille, lontano dai sotto boschi mercantili, costituzionalmente incapace di ogni calcolo e politicantismo. Poteva essermi padre, ma mi sembrò, quello stesso giorno, un ragazzo indifeso, assai più giovane di me.

Così rimase sempre finché visse, fino al mattino del 16 febbraio 1971.

Un ritratto così semplice di lui — l'uomo-fanciullo, l'uomo lineare e probo con gli amici, l'allievo di maestri che conoscevano il mestiere come lo scultore Stanislao Lista



e il pittore Ettore Tito, l'artista dallo stile inconfondibile e unico (nonostante i molti tentativi di imitazione), maestro egli stesso — risulterebbe tuttavia monco e perciò, nel complesso, falso.

I suoi quadri, che sembrano tanto facili e istintivi, erano invece, sempre, il risul­tato di lunghe osservazioni e meditazioni. Prendeva « appunti » dovunque gli capitasse: su fogli di carta da disegno o da involgere, su fogli di giornale. Non restano più, di questi promemoria visivi (una ragazzetta, un contadino, un calafato, una barca capovolta, un cavallo alla sarchiatura), che pochi esempi: gli altri, appena utilizzati, e cioè trasfe­riti in un quadro, erano poi da lui stesso distrutti.

Restava a lungo assorto, ma non assente: costruiva mentalmente, della sua nuova tela, la struttura, la prospettiva, i piani, la tecnica (olio, pastello, tempera), i colori. Nulla infatti doveva risultare arbitrario nella produzione di un realista (come lo definì Raffaele De Grada) o di un verista (come la sua affinità narrativa e sentimentale con Verga indurrebbe a definirlo). Poi s'avvicinava alla tela candida, sempre pronta sul caval­letto, e cominciava a tracciare i primi segni, a carboncino. In sottofondo un giradischi mandava le note della Pastorale o della Bohème: Beethoven e Puccini erano i suoi grandi amori musicali, ma anche Wagner e Bach, anche Bellini e Giordano (non Verdi, o pochis­simo). E lui. a bassa voce, intonatissimo, canticchiava a sua volta: indifferentemente Rodolfo o Colline, Oroveso o Pollione.

Qualche volta faceva delle levatacce, all'alba, e partiva in auto con l'amico Enzo Maganuco (che stava al volante, poiché lui, odiando tutto ciò che è meccanico, non aveva mai imparato a guidare): oppure, in barca, rematore un marinaio fedele, entrambi appro­davano all'isola Lachea. Portavano con sé colori, pennelli, tele e cavalletti, andavano a dipingere in solitudine, in qualche angolo remoto di montagna o di mare. Erano i quadri dal vero, plausibili quanto quelli emersi dalla sua fantasia (e dalla fantasia di Maganuco, buon pittore anche lui).

Era « un uomo tranquillo », il Sean Thornton del film di Ford (esclusa però la rea­zione finale, impensabile nel pittore). Ma diventava inquieto in due occasioni ricorrenti: quando stava preparando una mostra personale e quando doveva consegnare un dipinto commissionatogli. Per il resto, poco o punto frastornato da vicende estranee alla sua arte, dipingeva e meditava i suoi quadri in un impegno, diremmo oggi, full time. Perciò produceva molto; e le sue opere, frutto di invenzione e meditazione, non erano mai « buttate giù » (oh, che pena gli artisti e scrittori che, senza rispetto per il loro pubblico, buttano giù un'estemporanea mercanzia, quasi che bastassero ad accreditarla il soffio di genio che presuntuosamente essi stessi si attribuiscono e la loro firma ipoteticamente illustre). Vendeva subito tutto ciò che produceva; nel suo studio, quando morì, non c'era nulla di vendibile, eccetto la tela incompleta cui stava lavorando. Ciò non toglie che alcune opere fossero allora, e siano tuttoggi, attaccate ai muri di casa, non alienabili: erano quadri di famiglia, la moglie, le figlie, le nipotine. Gesualdo Manzella Frontini. narratore e critico che gli fu molto amico e che negli ultimi anni visse come lui ad Acitrezza, scrisse nel 1956: « Rimini è forse il pittore che più vende in Italia, pochi cre­diamo raggiungano la cifra sua •.

Per lui posavano ragazzini e vecchi (i pescatori di Acitrezza lo chiamavano con ri­spetto - il professore »), uomini e donne, estranei e parenti: sempre con pazienza, ma quando la posa si prolungava troppo, qualcuno, specialmente le sorelle o una cognata, scappavano, lasciandolo indispettito e nervoso. Una volta, insolita esplosione, arrabbiato per una di queste fughe, egli con un colpo di pennello bucò la tela, distruggendola.

Solitario quando dipingeva nelle assolate campagne di Vizzini, Libertinia o Palagonia. perché avvicinarsi in quei deserti era disagevole, 

     collezione F. P. Frontini

diventava invece centro d'attrazione ad Acitrezza, dove trascorse i suoi ultimi vent'anni. Nugoli di ragazzini lo seguivano e lo precedevano, gareggiando nel portargli la tela bianca, il cavalletto, la tavolozza coi colori: sapevano che li avrebbe compensati, o gli erano grati perché egli aveva ritratto qualcuno dei loro familiari. Durante il lavoro lo attorniavano, estatica e silenziosa guardia del corpo. Al ritorno egli consegnava alla smaltellante compagnia cavalletto e colori, non la tela ancora fresca di pittura.

Era meticoloso. Vestiva abiti lindi e portava sempre la cravatta, anzi il cravattino. Soltanto nei periodi di massima intensiva produttiva, anziché la giacca indossava il pull­over o. più spesso, un cardigan grigio; e allora macchie di colore occhieggiavano su quegli indumenti. Se qualcuno, arrivando inaspettato a casa sua, lo sorprendeva in questa sciatta tenuta da lavoro, egli se ne doleva. Ma quando la visita era attesa, Rimini si preparava ad essa con rispetto e civiltà.

Fu incapace di cattiveria; incapace, anche, di ritorcere il male che taluno, volon­tariamente o inavvertitamente, poteva arrecargli. Mai disprezzò, lui che conosceva così a fondo il mestiere, chi non avendolo seriamente appreso lo esercitava con la presun­zione che è propria dei dilettanti. Più che essere un indifeso, giocava a sembrarlo; più che perdonare agli incapaci, ne sorrideva. Mai, nel nostro caro quasi ventennale sodalizio, Io sentii dir male d'un « collega ». anche il più mediocre. E tuttavia una piega all'angolo della bocca, un rapido lampeggiare degli occhi, una sola parola — non più d'una — equi­valevano a una bonaria ma inappellabile sentenza di condanna: con l'increspatura, il bagliore, la parola egli esercitava la sua ironia. Quest'arma docile e demolitrice era per lui arma di difesa, offesa e contrattacco.

Tollerante in tutto, era inflessibile — silenziosamente, ironicamente inflessibile — soltanto con gli artisti mistificatori e sbruffoni: un vero pittore tiene le distanze dai frodatori. Ma con civiltà, con rispetto formale.

Vero pittore era anche nel senso che la sua cultura non si fermava alla prospettiva. al colore, al panneggio, alla composizione e alla vivezza del tutto, cioè soltanto all'arte sua; ma dilagava, completandosi, nella letteratura, nella storia, nella musica, nell'attualità. Soprattutto la letteratura era il suo pascolo ineffabile; e fra i tanti autori dei quali parlava con competenza (Tolstoj. Manzoni, Foscolo, gli « scapigliati ») emergeva Verga, il suo Verga.



Singolare concordanza, egli visse una gran parte della sua vita in molti dei luoghi verghiani: Vizzini, la Piana di Catania, la città di Catania. Acitrezza, la montagna dell'Etna (lui a Milo, qualche personaggio a Fieri, a monte Ilice, a Nicolosi). I personaggi che Verga descrisse furono il coro e i solisti che Rimini dipinse. Anche il sole ardente, le solitudini sterminate, le masserie, l'aratro, la barca, l'uliveto affascinarono entrambi. E se c'è — se voi udite — una musica in Verga, quella stessa musica sentirete in Rimini.

Così, inevitabilmente, ai riscontri sentimentali s'affiancano esperienze di v.ta, di suoni e di immagini. Rimini fu un verghiano che non imitò Verga, pur ammirandolo scon­finatamente: lo fu, piuttosto, per nativa affinità artistica; non per calcolo meditato. Perciò si respira nei suoi quadri la stessa atmosfera, autentica e intatta, dei Malavoglia, di Mastro - don Gesualdo, della Roba, della Coda del diavolo, di Libertà, della Storia di una capinera, dell'Agonia d'un villaggio, delle Storie del castello di Trezza.

Anche il tratto del suo pastello e la pennellata sono verghianamente rapidi, essen­ziali e veri (o dovremo dire veristi?); e cosi il rifiuto del superfluo; così la drammaticità intima e riservata.

Qualcuno ha scritto che Rimini era un « poeta pittore della sicilianità » (Manzella Frontini). Federico De Roberto ne esaltò, fra l'altro, « la solidità della costruzione, la precisione delle linee del disegno ». Per Ugo Fereroni (in occasione della sua prima mo­stra catanese, 1927), « Roberto Rimini dava già la misura della sua statura d'artista e nel medesimo tempo la sua capacità di rimanere se stesso pur partecipando attivamente ai vari movimenti culturali » della sua giovinezza (liberty, espressionismo, astrattismo, futu­rismo. surrealismo). Vitaliano Brancati, parlando di lui che esponeva a una mostra collet­tiva, non esitò a proclamare: « Sembra che Rimini abbia avuto l'incarico di illuminare i quadri degli altri », tanto la luce dei suoi paesaggi era splendida e siciliana. Enzo Maganuco definì quella di Rimini « arte matura, doviziosa padrona di tecniche e di mezzi espres­sivi familiari solo ai maestri che all'esercizio dell'arte stessa hanno votato appieno la loro vita ». E Raffaele De Grada: « Ma anche quando il paesaggio si spopola di figure e si avverte che il pittore cerca l'angolo della pura fantasia... Rimini riesce a darci sensa­zioni nuove, sognate, eppure veramente realistiche del paesaggio siciliano ». Secondo Vito Librando, l'artista, pur cosi sereno e sorridente, « tratteneva in sé dubbi e ripensamenti molto di più di quanto sospettavano molti suoi ammiratori, più di quanto affiorava dalle terse e luminose marine, dai questi intensi dei suoi contadini e dei suoi marinai assorti nel lavoro quotidiano ». Ritratti fedeli: Roberto Rimini era davvero tutto ciò.

collezione F. P. Frontini

Morì ad Acitrezza dieci anni addietro, a ottantatré anni d'età, la mattina di martedì 16 febbraio 1971. Il giorno dopo, durante i funerali, faceva freddo e piovigginava. Centinaia di persone accorsero a salutarlo. I pescatori di Acitrezza, che per lui erano stati ispiratori e modelli, mandarono in mare i più giovani e si radunarono in chiesa, con gli altri amici del « professore ».

collezione F. De Roberto


SALVATORE NICOLOSI  (16 febbraio 1971)

giovedì 6 novembre 2014

Filippo Liardo (Leonforte, 1 maggio 1834 – Asnières, 19 febbraio 1917) è stato un pittore italiano

Disegno di F. Liardo - Collezione Francesco Paolo Frontini

FILIPPO LIARDO
Nacque a Leonforte da Salvatore e da Rosalia Pappalardo, catanese, il 1° maggio del 1840. A venti anni lo troviamo a Palermo, avviato alla pittura; ma era quello il sessanta, l'anno dei Mille, e Liardo, indossata la camicia rossa, tra una schioppettata e l'altra, gettò le basi del quadro "Il bombardamento di Palermo" col quale, cinque anni appresso, tenterà la conquista di Parigi.
Sebbene in un volume uscito in Francia nel 1803, "Nos peintres, dessinés par eux mèmes", egli abbia tracciato un vivacissimo ritratto di se stesso, poco conosciamo del periodo che va dai primi tentativi palermitani al viaggio a Pariggi. 
Sappiamo solo che, promosso ufficiane sul Volturno e sciolto l'Esercito garibaldino, Liardo rimase a Napoli a studiare, probabilmente iscritto in regola a quell'Accademia; che nel '64 espose a Firenze e che l'anno appresso si presentò a Parigi col "Bombardamento" anzidetto e con un gran numero di disegni colti dal vero durante la meravigliosa Epopea. Il successo gli arrise e i maggiori giornali illustrati del tempo:"L'illustrazione" di Londra e "Le monde illustre" ai quali si aggiunse poi "La vie elegante", lo presero come disegnatore-reporter, a fianco dello spagnolo Daniel Urrabieta y Vierge, il famoso illustratore del "Pablo di Segovia" e dei primi capitoli del "Don Chisciotte". Nel '66 rieccolo ancora in Italia, dove segue le sorti garibaldine nel Trentino (un ritratto ad olio del Generale ed una mirabile raccolta di disegni di guerra furono il frutto di quella sfortunata campagna), e nel '70 a Roma, dove dipinse tre ritratti di principesse di Casa Borghese. Dopo, si stabilì definitivamente a Parigi e vi morì settantenne; pare in miseria.
Come disegnatore di riviste e di giornali illustrati, Filippo Liardo fu un osservatore della realtà brioso, tal'altra lirico, sempre acuto e, per necessità di cose, velocissimo, inquantochè il pubblico chiedeva sempre più forti e nuove sensazioni e l'avvento dell'istantanea e delle riproduzioni fotomeccaniche era ancora di là da venire. Come pittore, ligio all'insegnamento del primo Morelli,ne seguì le orme nobilissime e si accostò ai maggiori esponenti del periodo aureo della pittura francese.
Dei quadri non dispersi nel periodo della Comune, il migliore di quelli conservati in Italia è "La sepoltura garibaldina", oggi nella Galleria d'Arte moderna di Palermo. Sala G
N.266 - Filippo Liardo:  "La bufera" - proprietà, senatore Pasquale Libertini.
Estratto dal catalogo:"MOSTRA RETROSPETTIVA DELLA PITTURA CATANESE"
Catania - Castello Ursino 1-31 ottobre XVII - XVIII
"La sepoltura garibaldina"

***

F. Liardo



sabato 25 ottobre 2014

Zenone Lavagna il pittore votato a grandi cose. Nato a Biancavilla il 14 febbraio 1863

Nato a Biancavilla il 14 febbraio 1863, Zenone Lavagna aveva quattro fratelli (Natale, Salvatore, Antonino e Francesco), e una sorella : Maria. Non si può qui non accennare a Salvatore : medico, letterato e commediografo, che ha lasciato un volume (Camene, Catania 1959) in cui sono raccolti quattro suoi lavori teatrali, tra cui « Thamar », definito da Federico De Roberto « per il disegno e la vigoria di tocco un vero poema drammatico », e « Agata » rappresentata con successo al Teatro Massimo Bellini e all'Anfiteatro Gangi.
Ancora ragazzo, Zenone Lavagna si era fatto notare per le sue spiccate attitudini artistiche. Condotto quindi dai genitori a Catania, qui fu affidato al pittore e pastellista insigne Angelo D'Agata, da poco ritornato da Firenze dove aveva frequentato l'Accademia di Belle Arti. Lo studio del D'Agata era al secondo piano della sua casa in via Madonna del Rosario.
Ottenuto in seguito ai suoi progressi un sussidio dal paese natio, Zenone Lavagna poté recarsi a studiare all'Istituto di Belle Arti di Napoli. Ammesso al corso di figura, divenne ben presto allievo prediletto di Domenico Morelli. Conseguito il diploma passò a Roma per perfezionarsi alla scuola del nudo. E a Roma s'iniziò la sua vita di pittore errabondo. Infatti, oltre che in Svizzera (Zurigo e Locamo) e in Germania, soggiornò ora a Milano, ora a Pallanza, ora a Venezia, ora a Catania, ora a Palermo, dove, colpito da un male inesorabile, spirò nel marzo del 1900 a soli 37 anni.
nudo di donna, collezione Frontini

Al lavoro originale di creazione alternava lo studio delle opere dei grandi maestri, dei quali soleva copiare noti capolavori che poi rivendeva per poter vivere.
A Napoli aveva dipinto fra l'altro una Testa di giovinetta e un'altra Testina (pure di giovinetta), che sono due notevoli pezzi di pittura non foss'altro per il possente rilievo delle loro figure e per la soavità espressiva dei loro occhi.
Quando Zenone Lavagna, dopo aver soggiornato all'estero e in mezza Italia, venne a Catania, mise lo studio, aiutato certo dal fratello Natale, allora Curato della chiesa di S. Cosimo e Damiano, nella chiesa della Confraternita di S. Giacomo, nel medesimo spiazzo della Madonna dell'Aiuto e della Casa di Loreto (« prototipo — dice Guglielmo Policastro — del Santuario Lauretano»). E lì andavano a trovarlo Giovanni Verga e Federico De Roberto, Luigi Capuana e Mario Rapisardi, Calcedonio Reina e qualche volta anche Giuseppe Sciuti, tutti suoi amici e ammiratori del suo genio e della sua arte. Sciuti, dopo aver visto alcune sue tele, gli predisse successo e grandezza. « Voi farete cose grandi », gli disse. E quel vaticinio si sarebbe avverato se il giovane e tra i nostri maggiori pittori dell'Ottocento non si fosse spento allorché il di lui meriggio stava per scoccare, come scrisse Saverio Fiducia in questo stesso quotidiano nel gennaio del 1954.
Giovanni Verga soleva accompagnarsi a Zenone Lavagna e soffermarsi a guardarlo mentr'egli fermava su tela o su tavolette angoli della Catania della fine del secolo. Uno di quegli angoli (un quadretto di cm. 23 x 16) mi fu regalato or son molt'anni, assieme ad una figura terzina di nudo dello stesso Zenone, dal di lui fratello e mio indimenticabile amico dottor Salvatore. Tale quadretto rappresenta l'antica chiesetta di Santa Maria degli Angeli, edificata nel 1383 e assegnata poi ai PP. Cappuccini e tuttora esistente, ma abbandonata, nei pressi dell'icona della Madonna del Conforto, o d' 'u pani cottu, come la chiama il popolo, lungo la via Cifali, che sarebbe stato più giusto chiamarla Cibele.

Fra le opere più importanti di Zenone Lavagna, oltre quelle già citate, sono da ricordare : un ritratto del Card. Dusmet, che dovrebbe esistere alla Curia Arcivescovile ; l'Arabo, una testa trattata con una tecnica comune, sì, ad altri pittori del suo tempo, ma che tuttavia si distacca e differenzia dalla pittura coeva per una personale impronta e vigoria di disegno, impasto e tocco ; il Monaco, che è il ritratto di un noto frate catanese soprannominato Pisasale; i ritratti della Madre e della Signora Concettina. Questi due ritratti segnano, fra l'altro, il passaggio dell'arte di Zenone Lavagna ad una tecnica, per cui essi hanno per lo studioso una rilevante importanza. Si tratta di una nuova tecnica che andò poi sviluppandosi ed evolvendosi attraverso audacie coloristiche che se nell'Ottocento potevano sembrare ed erano tali, ora mostrano invece quanto fossero avveniristiche e precorritrici.
Accanto a codesti due ritratti stanno l'Opera che, ispiratagli dall'omonimo romanzo zoliano, figurò nel 1895 alla Triennale di Brera; Peccato e Perdono, che raffigura un pittore davanti il cavalletto in atteggiamento triste e pensoso con a fianco la modella compresa dell'afflizione del maestro; di Mater Admirahilis, nonché di paesaggi, quali, ad esempio, 77 lago di Como e Rio di Venezia. A proposito di Mater Admirahilis, che è una delle migliori e più avvenenti opere di Zenone Lavagna e della pittura dell'Ottocento non soltanto catanese, essa fu tuttavia respinta da una Mostra religiosa torinese, ma poi, nel 1898, accettata ed esposta alla Mostra Internazionale di Venezia ed acquistata dal cav. Francesco Parisi per la sua Galleria veneziana. Il titolo a codesta opera fu dato da Calcedonio Reina.
Un'opera veramente singolare è la tela che rappresenta : a destra Cristo in croce, a sinistra la Madonna straziata dal dolore e nello sfondo il panorama di Gerusalemme. A parte la bellezza delle figure animate di verità e poesia, la singolarità di questa tela, oltre che nella grandiosità (metri quindici per dieci), consiste nel fatto che mentre il fondo è azzurro le figure sono bianche, un bianco, però, che, col passare degli anni, si è un po' oscurato. Eseguita nel 1896 appartiene alla chiesa madre di Belpasso e viene esposta una volta l'anno dalla domenica delle Palme a Pasqua . A proposito della Pasqua, ecco un particolare che mi è stato raccontato dall'amico belpassese prof. Venero Girgenti. Un tempo, quando la gloria suonava di mattina, verso le ore undici, i ragazzi che affollavano la chiesa fuggivano a gambe levate per andare a prendersi 'i Cicilia, cioè i cuddura ccu l'ova.
A questo punto mi corre l'obbligo di ringraziare non soltanto l'amico Girgenti, bensì, per le notizie gentilmente favoritemi, il parroco Padre Giuseppe Vasta e il signor Antonino Lavagna, pronipote di Zenone, figlio del quasi novantenne nipote Giuseppe, che porta il nome del nonno.
   
nudo di donna 2, collezione Frontini

Ma non possiamo chiudere queste brevi note su Zenone Lavagna senza accennare al suo San Francesco di Paola.
È un'opera firmata. Nessun dubbio, quindi, che sia sua. Ma perché, vien fatto di chiedersi, perché sotto la firma l'artista ha scritto : « dal Tiepolo di Venezia », se non ha nulla che la faccia somigliare a quella del Tiepolo? Proprio nulla. Né l'atteggiamento della figura, ispirata e solenne nel Tiepolo, conclusa invece in una mistica compostezza nel Lavagna ; né la luce che, mentre nel Tiepolo non investe solamente l'immagine del santo ma tutto il quadro, nell'opera del Lavagna è crepuscolare e lo sguardo del santo traluce appena dalle palpebre socchiuse ; né, infine, lo sfondo, grigio nel Lavagna, splendente invece e rallegrato da alcuni angeli nel Tiepolo. Che Zenone Lavagna abbia visto il San Francesco di Paola del Tiepolo e gli sia venuto l'estro di trattare anche lui il medesimo soggetto, questo sì. Ma che poi lo abbia fatto a modo suo, anche questo non si può negare. E così il suo San Francesco di Paola è suo, tutto suo. Se qualcuno avesse dei dubbi, non ha che da andare a Venezia a vedere, nella chiesa di San Benedetto, quello del Tiepolo e poi venire a casa mia a vedere quello del Lavagna. Sì, perché ce l'ho io da circa quarantanni.
Era andato a finire, attraverso chi sa quali e quanti passaggi, nella botteghina di un caro vecchietto nei pressi di San Placido. Me ne parlarono, data l'amicizia che ci legava, il pittore prof. Benedetto Condorelli e il dott. Salvatore Lavagna, fratello, come già detto di Zenone.
Andammo insieme, ricordo, e io comprai il quadro. Lo feci incorniciare e da allora l'ho sempre tenuto nel mio studio.

* « LA SICILIA », 9 marzo 1977. di Francesco Granata
* Catalogo illustrato della « Mostra retrospettiva della pittura catanese » organizzata nell'ottobre del 1939 in Castello Ursino dal quotidiano « Il Popolo di Sicilia ».







lunedì 7 maggio 2012

Il pittore Natale Attanasio - Catania 1846 - Roma 1923

 Natale Attanasio — Artista, pittore di solida fama, nato in Catania il 24 dicembre 1846

Da ragazzo dimostrò una spiccata attitudine al disegno e alla colorazione, ed ottenne dal Comune una borsa di studio per frequentare a Napoli l'Accademia. Fu allievo del Morelli e riuscì artista di gusto fine e di genialità notevole.
Nel 1881 espose a Milano due lavori: Un accattone alla porta della chiesa e La Sibilla in ritardo, giudicati una buona promessa.
Due anni dopo presentò alla Mostra di Roma un altro quadro che fu premiato, e nel 1884 portò al­l' Esposizione di Torino due grandi lavori: Le pazze in orazione che oggi trovasi nel museo civico di Catania, e Bernardo Palissy nell' atto che riesce ad inventare una nuova maniera decorativa della ceramica.
Dal 1886 al 1889 fu docente di disegno nella Scuola d'arte e mestieri di Catania.

Per commissione del Municipio di Catania eseguì i ritratti dei Sovrani d'Italia, Umberto I e Margherita di Savoja, che decorano una delle sale del Palazzo civico.
I lavori dell'Attanasio sono sparsi in molte città d' Europa. Le sue opere si snodano su una tematica di dolore e di disperazione.
Si ricordano con queste tele: Il pensiero dominanteLagrime e delittiLe vittime Ricchezza e miserieCorinna L' Orfana dell'Annunziata Una figlia dell'Etna Dopo la messa.
All' Esposizione di Venezia presentò il quadro Lachryme rerum(Le pazze in orazione - il capolavoro). 

Attanasio, che aveva allora trentott'anni si era defintivamente stabilito nella capitale e in un manicomio femminile studiava le espressioni e gli atteggiamenti delle ricoverate, annotandoli, di volta in volta, in uno schizzo a matita o a pastelli colorati. Ne son rimasti, di questi « appunti », centinaia. Un neuropsichiatra può distinguervi a colpo d'occhio la paranoica, la psicastenica, la ne­vrotica, la schizofrenica. Il quadro fu esposto a Torino nell'84 e otto anni dopo a Palermo, Attanasio  sperava che la acquistasse la Galleria d'arte moderna di Roma; ma le trattative non andarono e regalò il quadro al Comune di Catania, la tela si trova al Castello Ursino.
(Suonatrice di krar)
All'Esposizione Nazionale di Palermo, presenta nel 1892: Una cucina economica e Una scuola industriale.
Inoltre ha eseguito molti ritratti anche per commissione di personaggi stranieri.

(I parenti dei carcerati)

Bibliografia
* La Sicilia intellettuale - Catania 1911 
* Enciclopedia di Catania - ed. Tringale

ritratto di Federico De Roberto

venerdì 11 novembre 2011

Per il centenario di Calcedonio Reina (Catania, 4 febbraio 1842 – Catania, 10 novembre 1911) è stato un pittore e poeta italiano


Ntra lu burgu e la marina
C'è un pitturi arrinumatu,
Vecchiu, pricchiu, strascinatu,
Lenzi lenzi la fracchina,
'Nzaimatu, scarcagnatu...
Cu' po esseri ? 'Nduvina ! (di Mario Rapisardi)
 

Maestro Calcidonio

di Mario Rapisardi

Ei fu nella città di Catana, antichissima e famosissima di Cicilia, uno dipintore chiamato Maestro Calcidonio ; il quale e per lo ingegno singolare e per la maniera bizzarra del dipingere e più ancora per la continenza e abito del vivere, fu veramente straordinario e quasi mirabile huomo del tempo suo.

Da fanciullo dette opera alle lettere latine, perciocchè suo padre che era uno cerusico sapientissimo volea piuttosto farne uno dottore che uno artefice ; ma conciosiacosacchè il maestro che gli leggeva lettere era uno calonaco, di molta reputazione appresso dei più, ma di poca scienza e di neuno giudicio, e più gonfio di vento che di dottrina, si che pareva all' aspetto, e tale era nell'animo, uno otre di quelli che Eolo diede ad Ulisse? siccome pone in suo dittato il sommo poeta Omero, così intervenne che il fanciullo prese in odio sì fatto quella prima disciplina, che tanto imparò di umanità quanto quello suo precettore cognosceva ebraico, che mai non lo seppe.

Venuto intanto all'età della discrezione, e avuta qualche notizia delle umane lettere, egli si diede assai felicemente al trovare; e molte rime trovò che furono stimate indizio di buon ingegno. Diede anche mano allo studio della musica e con tal buona disposizione ed ardore, che pareva a tutti dovesse presto riuscire uno musico eccellente.

Ma quello di che maggiormente si piacque fu l'arte del disegnare e dipingere : per l' amor della quale fatta stanza nella meravigliosa Partenope, presto dette argomento di bene sperare ; e, istudiando i modelli dei famosi artefici e ritraendo dal naturale e ispeculando certe sue invenzioni, egli venne in poco a formarsi una sua tal maniera, che non era uno che veduto una volta una sua tavola non dicesse poi vedendo qualche sua nuova storia: ella è opera di Maestro Calcidonio ; tanto era propia e singolare la sua maniera.

Tra le opere ch' egli condusse, degnissima di memoria per la novità e bizzarria dell'invenzione è quella che rappresenta dua giovani amanti che si abbracciano e baciano in uno cimiterio intra due lunghe file di ataùti e di scheletri che pare li guardino non senza invidia di tanta felicità. E un' altra ne fece che è uno scheletro, o sia la morte incappata in uno grande lenzuolo, seduta in uno trono in mezzo d'una grande camera vuota, e tutta intenta a ricamare una coltre nella quale sono scettri, tiare, corone ed altri simiglianti emblemi di potere mondano. E ora pingeva uno giovinetto cieco sicut mors ficcante uno dito nell'occhiaia d'uno teschio; ora una pulzella che porta in voto uno cuore; ora una giovane donna in paramenti nuziali con una testa di morto in uno vassoio con certi occhi spiritati che è uno terrore; e altre simiglianti allegrezze, dalle quali, non che allettar compratori, era più facile trovare chi inorridito se ne fuggisse.

E per questo non fu ignuno che mai gli committesse o gli comperasse una storia; che tutti sapevano quanto ei fusse terribile dipintore ; e avrebbono piuttosto volsuto ricevere in casa la versiera che uno suo spaventoso dipinto. Della qual cosa egli molto a ragione si rammaricava accusando li huomini di poca discrezione e di molta lussuria : avvegnachè secondo il suo giudicio questa loro avversione procedesse unicamente da ciò, che altro nell'arte eglino non gustano che le delizie della carne, e tutto ciò che spetta alla salvazion dell'anima, come viziosi e senza continenza, trascurano.

E non meno che nel dipingere ei fu nuovo e fantasioso nel rimeggiare. I versi che egli andava scrivendo su per li sgualciti e unti fogliolini, raccattati per le vie, non erano mai secondo retorica, nè di purgato stile, nè di puro dettato: aveano si una certa misura, ma non sempre tale che uno accigliato Aristarco vi potesse trovare i debiti piedi. Ma sì vaghe erano le invenzioni sua, e sì nove e inaspettate le immagini, che a leggere le sue rime tu sentivi nel quore, come un misterioso colloquio di spiriti, e romore di ale e scroscio di acque e stormire di fronde, e ti lampeggiava sugli occhi come un barbaglio di lampi, sì che credevi essere trasportato per incanto in un mondo nuovo, e più tosto tra fantasime di sogni, che tra persone vere. E il succedersi delle immaginazioni, e delle incomposte ma originali armonie ti dava come un giramento di cose, da farti venire la vertigine e il capogirlo.

E ora faremo uno brieve ricordo dei costumi e portamenti suoi, che furono quasi tutti istravaganti.

E primamente dirò che tanta fu la sua continenza così nel mangiare e nel bere come nelle altre cose corporali, che ben l' aresti detto uno santo anacoreta di Dio. E del molto che in questo proposito potrei riferire, basti solamente questo: che in città popolosissima e voluttuosissima ei viveasi quasi in uno deserto, senza altra compagnia che dei suoi pensieri; e poco pane bigio e pochissimo pesce salato, o un po' di pillacchera, che gli tenea luogo di fagiani e di starne nelle più straordinarie solennità eragli cibo sufficiente.

E mai occorse vederlo in compagnia di femmine, altro che per intento dell'arte; ma delle femmine ei si valea poco anche in questo, piacendosi più dipingere idee che uomini, e più anime che carne; onde fu detto con qualche fondamento di vero, essere egli troppo stratto dalle condizioni del vivere e in specialità dalla ragione dei tempi sua, che tutto riduceano a materia, anche l'anima immortale, giusta li epicurei: che è una grande istoltezza e bestemmia. Or tornando al proposito della continenza di Maestro Calcidonio, aggiungo, che tanta era la sua virtù in domare la concupiscenza della carne, che di qualsiasi femina ei si tenesse gnuda dinanzi per iscopo dell'arte, ignuna egli toccò mai con le mani in qualtivogli parte del corpo; e questo parea meravigliosa continenza agli amici...

Aveva egli fra i pochi uno amico, uomo assai loico e istrutto nella filosofia naturale e morale, ma più dedito alle umane lettere che alle divine; il quale era uno grande incredulo, il quale diceva che Dio non fosse e tutti lo chiamavano il Marabise (1), che non sapeano che sì chiamare. Ora costui, quale uomo incredulo e mondano, non volle mai aggiustar fede alla istraordinaria castità di maestro Calcidonio, del quale e' soleva dire essere uno mangiapulzelle; ma questo era una diabolica malignità del Marabise.

Circa gli altri costumi di questo singolar dipintore, dico che egli conducea meschina e misera vita, non già che egli fusse povero, ma più tosto per istracuraggine delle cose temporali non disgiunta da una certa passione di avarizia, onde ei solea dire essere più tosto da prezzare il danaro che la sanità; che questa, non ostante i medici, tanto o quanto si suole recuperare, ma il danaro una volta andato non più si racquista.

Abitava in fra poveri, in poverissima stanza a uno soffitto altissimo, più simigliante a uno trespolo da pappagallo che a una casa d'uomo; per giungere al quale bisognava arrampicarsi per più centinaia di gradi tutti sbocconcellati e sdrucciolevoli per lo gran sudiciume, e passare indi per anditi e andirivieni umidi e puzzolenti, che ti parea esser drento a uno budello di maiale. E la casa era come uno covile con arazzi di muffa, tappeti di polvere, portiere e cortine di ragnateli. Una seggiola con tre gambe, uno strapunto di strame, uno tavolino zoppo con due piè e qualche rozza ed imbrodolata stoviglia erano i nobili arredi di quella magione ; e tele, colori, pennelli, stracci e ciabatte gittati e sparsi per ogni parte, che parea uno naufragio.

E in tanta lautezza egli se ne stava solo, non volendo neppure con una fante divider tanto bene, e questo, diceva il Marabise, era il più generoso atto di carità cristiana, che mai gli vedesse praticare.

Stranissimo era oltre ciò il vestire, si che spesso il vedevi in giro con uno stivale di vacchetta e uno zoccolo, uno berrettone di pelle di gatto sul capo e una palandrana fino alle calcagna, che l' aresti preso per uno masnadiero inseguito dal bargello. E nel mutar dei panni ei non guardava alle stagioni, che tutte le stagioni ed i climi ei soleva portarli addosso ad un tempo solo; così che mentre le brache facevano agosto in Garamanzia, il corpetto e la giubba segnavano dicembre per li Britanni.

Anfanava per le vie più frequenti in siffatto arnese; con le mani intrecciate sul petto come in atto di contrizione e di prece, ma le guardature sospettose e quasi ferine, ch'ei gittava qua e là su la gente, e un certo suo proprio ghignare come di satiro lascivetto persuadean tosto esser l'animo suo più lontano dalla pietà che non fosse per avventura dall'odio e dal disprezzo dell'uman genere.

Al conversare era piacevole e motteggevole molto; ma non patìa, che altri tale il tenesse, temendo non la piacevolezza sua fusse malignamente presa per giulleria: tanto che dettogli uno dì una bambinetta, appresso alla cui madre egli era dimestico molto: Restate ancora, maestro Calcidonio, che senza di voi la brigata non ride-; egli s'ebbe tanto a male di ciò, che afferrata con impeto la fanciulla stava per isfracellarla; onde accorsa la madre alle grida e ripresolo gravemente del fatto, non ei si ristette; anzi con maggior veemenza di collera: Voi siete peggior della putta, le gridò, malvagia briccona che Dio vi mandi il cacasangue a tutte e dua. E come furioso partissi di quella casa, nè più volle rimettervi il piede.

Ma oltre a queste furie e bizzarrie, Maestro Calcidonio era il più dolce e diritto uomo che al mondo fosse, e tale almeno, se non da buttarsi nelle fiamme per amor di Dio e del prossimo, da non torcere un capello a chicchessia e da attendere alle faccende sua, che furono mai sempre di fare onore al suo nome e alla sua gente con opere di colore e di inchiostro.

E perciocchè nel presente secolo uno huomo che abbia pochi e leggeri vizj uniti a molte e sincere virtù è cosa piuttosto singulare che rara, per questo ho volsuto scrivere questo brieve comentario a onore del suo ingegno e ricordo perpetuo della sua virtù.


(1) è facile capire come con questa voce che in dialetto lombardo significa « uomo di mal affare », il Rapisardi scherzando alluda a sè stesso. O che non forse il « rinnegato » Carducci aveva osato chiamarlo « cattivo soggetto » ?

* chi meglio di Mario Rapisardi poteva interpretare l'animo del suo migliore amico.



*approfondimento QUI

martedì 14 giugno 2011

Calcedonio Reina (Catania, 4 febbraio 1842 – Catania, 10 novembre 1911) è stato un pittore e poeta italiano


Singolarissimo ingegno nelle molteplici sue manifestazioni. Sul frontespizio delle sue raccolte di versi suole egli aggiungere al proprio nome il titolo di pittore : reciprocamente, non è possibile considerare le sue tele senza chiamarlo poeta. Del poeta egli ha l'alata fantasia, la vivace immaginazione, le invenzioni originali, i lampi rivelatori. 

L'arte sua non si può ascrivere a nessuna delle scuole conosciute, delle categorie definite; quando pare che egli si accosti a qualcuna, tosto con un colpo d'ala se ne dilunga, trascorre ad un genere opposto, serbando sempre un suo proprio indelebile e impareggiabile carattere. 

Il simbolismo della Cucitrice eterna, della Tentazione,Vendetta di Rettile, dà luogo al realismo delle Compagne d'una volta, del Filtro d'amore, al romanticismo della Tentazione, al preraffaellismo della Maddalena e Giuda ; ma il preraffaellismo, il romanticismo, il realismo,il simbolismo, non sono voluti dall' autore, non sono da lui cercati tanto meno studiati : sono invece modi che il suo spirito ha naturalmente ed istintivamente assunti nel dar forma ai fantasmi che lo agitano. 

Tanto è vero, che questi modi diversi si dànno in lui la mano, come non sarebbe possibile se egli si fosse ascritto, sia pure una volta tanto, a qualcuna di queste scuole.




Calcedonio Reina (Catania, 4 Febbraio 1842 - 10 Novembre 1911)

Avviato dal padre, lo scienziato prof. Euplio, alla medicina, studiò contemporaneamente, e da solo, pittura. Il Morelli, visti alcuni suoi lavori, lo ammise fra i suoi discepoli. Temperamento malanconico e mente versatile, si dedicò alternativamente alla pittura ed alla poesia, i suoi numerosissimi dipinti incontrarono scarsa fortuna per i motivi tristi che vi erano raffigurati. Nel 1871 ritornò a Napoli e lo stesso anno fu presente all’Esposizione di Napoli con molti quadri. Egli partecipò a parecchie esposizioni: alle mostre della Promotrice "Salvator Rosa" dal 1873 al 1904: nel 1873 con Sicut mors caecus; nel 1875 con Cuor malato; nel 1877 con Teclam, acquistato dal suo intimo amico Mario Rapisardi; nel 1880, con Dama bianca; nel 1882 con Amore, trovasi nel Museo Civico di Catania, dove pure è conservato Amore e Morte, esposto nel 1881 a Milano; nel 1888, con Il ragno del chiostro, acquistato da re Umberto I. All’Esposizione tenutasi in Napoli nel 1877 presentò: Accaduto nel corretto; Miserere; a Torino, nel 1880, Amore e morte, predetto; a Roma, nel 1883, Per Montecarlo, andato distrutto; a Berlino, nello stesso anno, alla Prima Esposizione d’Arte Italo-Spagnola, La Tentazione; a Palermo, all’Esposizione Nazionale del 1891-92: Campagne di una volta ed Espiazione; a Milano nel 1897, alla Triennale di Brera, Vendetta. Oltre che del Rapisardi, fu molto amico del Verga. Pubblicò un volume di poesie, "Canti della Patria".

Sue opere sono visibili presso Banco di Napoli e Galleria Nazionale di Capodimonte(NA) .

Per G. Barbera," la sua figura fu tra le più interessanti nel panorama artistico meridionale " .

Poesia e musica
Romanze
   Destati, versi di C. Reina, musica di Francesco Paolo Frontini, Lucca, 1878
   Abbi pietà, versi di C. Reina, musica di Francesco Paolo Frontini, Ricordi, 1885
   Folchetto,versi di C. Reina, musica di Francesco Paolo Frontini, Ricordi, 1885
   Orientale, versi di C. Reina, musica di Francesco Paolo Frontini, s.m.napolitana, 1898
   Serènadè Arabe, versi di C. Reina, musica di Francesco Paolo Frontini, Carisch
  


Produzione letteraria

   I canti della patria — versi — Firenze 1872.
   Per la morte del padre — elegia — Napoli 1877.
   Chiaroscuri — versi — Catania 1885.
   La Fata e la Mara
   I notturni
   Leggende reali — Napoli 1894.
   Sa Kuntàla — dramma di Calidasa ridotto a scene liriche in 4 parti, messo in musica dal Maestro S, Malerba Catania 1896.
   Opsara — leggenda drammatica — Catania, 1898.
   Dio — Affermazione dell' incredulità e della Filosofia — Catania 1900
   Vincenzo Bellini — (1801-1835) con un'ode di Mario Rapisardi, 1902.
   Caronda e le sue leggi — Catania, 1906.
   Voci dello spirito — Catania 1907


" pittore strano e poeta gentile, uomo di antica temperanza, anima abbrutita dall'Ideale". 
( di Mario Rapisardi )


Mario Rapisardi - da Giustizia
La cucitrice
(per un dipinto di Calcedonio Reina)


Seduta sopra un trono d'ossa, alla scialba luce
Del tramonto, in un vasto campo la Morte cuce,
Infaticabilmente cuce, avvolta in un bianco
Lenzuolo, incoronata d' asfodeli: al suo fianco
Una forbice acuta dal pernio adamantino,
Dall'affilate lame d'acciajo; sul cuscino
Di porpora, ove adagia i piedi ischelitriti,
Che mostran dalla veste Candida i gialli diti,
Una civetta immota dagli occhioni ritondi
Di topazio; lontano per gli spazj profondi
Un suon d'orgie e di fieri gemiti. Ed ella, sopra
Le ginocchia piegando il teschio, affretta l'opra:
Un'ampia coltre nera di velluto, che ingombra
Con ricchi ondeggiamenti l'arido piano. L'ombra
S'avanza, ed ella cuce : infaticabilmente
Mena tra le falangi rigide il rilucente
Ago d'acciaro; e l'aureo fil che mai non si spezza
Tira tira con alta mano al lavoro avvezza.
E più e più s'addensano, s'addensan l'ombre;ed ella
Assidua sgobba al raggio d'una vermiglia stella.
L'opera è presso al fine; e già fornita; scocca
Un'ora; ed ella, a un ghigno dilatando la bocca,
Balza, la coltre stende, gli stinchi scricchiolanti
Agita al ballo, c l' aure empie di strilli e canti.

-Voi che in seta ed in velluto
Sbadigliando le groppe adagiate,
E su lane istoriate
Strascinate augusti il piè,

Voi che in morbido origliere,
Aspettando del sole il saluto,
Vi crogiate, vi crogiate
Come papi e come re;

O paffuti e tondi eroi,
Che dal lombo d'Anchise calate,
O dall'anca d'un droghiere,
E il mestiere di godere
Con gran plauso esercitate,
O paffuti e tondi eroi,
Qui posate, qui posate :
Quosta coltre e ben da voi!

-

Alla plebe, alla bordaglia,
Che a servire ed a piangere è nata,
Altra sorte ha il ciel serbata
Di lei degna, oscura e vil:

Per lei, viva e morta infame,
C'è la forca, il baston, la mitraglia,
C'è la fame, c'è la fame
Che la porta al nero asil.

O paffuti e tondi eroi,
Che dal lombo d' Anchise calate,
O dall'anca d'un droghiere,
E il mestiere di godere

Con gran plauso esercitate.
O paffuti e tondi eroi,
Qui posate, qui posate:
Questa coltre è ben da voi ! —

Così canta per l'alta notte.Alle voci strane
Sbucano sperisierati dalle marmoree tane
(Tane che sembran reggie) da' casini, odorosi
Di muschio e di godute carni, da' clamorosi
Teatri, dalle bische, ove in abito nero
Di matrona panneggiasi la Frode, e con austero
Volto di gentiluomo il Furto infila i guanti;
Dalle tradite alcove sbucano i tracotanti
Figli della Fortuna, sfatti dall' ozio, bianchi
Dalla veglia, d'amore sazj, di danze stanchi,
Tumidi e sofferenti di cibo e di piacere,
(Poveretti, il destino li ha dannati a godere !);
Si affrettano, si pigiano, s'abbandonano vinti
Dal sonno, o dalla ferrea Necessità sospinti,
La nel campo deserto, ove con man secura
Li ravvolge la Morte nell' ampia coltre oscura.