Nè al becero nè al Re fo di cappello;
Non soffro dittatori, e quando penso
Mi piace di pensar col mio cervello.
Rido del volgo ignobile e melenso
Che grida: viva a questi e morte a quello!
Scenda dal trono o sorga dalla via
Sono nemico d'ogni tirannia.» Antonio Ghislanzoni
Quando
finalmente qualcuno si deciderà a scrivere un libro di storia
della letteratura capace
di non uccidere di noia l’anima degli studenti, mostrando il volto
inquieto di una scrittura nata nelle trincee, nelle fabbriche in
agitazione, nei bassifondi, sulle barricate, fra i fumi maleodoranti
della suburra e le esalazioni allucinate dell’assenzio? Anche
perché, parliamoci chiaro, non solo per gli studenti ma anche per
tanti professori e sedicenti esperti i nomi di Ferdinando Fontana,
Ada Negri, Mario Rapisardi sono quelli di illustri sconosciuti.
Eppure basterebbe dare una letta alle biografie di questi poeti
maledetti dell’Italia post-risorgimentale (dei famosi come degli
sconosciuti) per comprendere come si abbia a che fare con uomini e
artisti letteralmente immersi nelle problematiche, nelle battaglie e
nei sentimenti diffusi del loro tempo. Troviamo così uno Stanislao
Alberici-Giannini, un Eliodoro Lombardi, un Domenico Milelli, un
Luigi Morandi, un Vittor Luigi Paladini che vengono dritti dritti
dalla militanza garibaldina. E se Ulisse Barbieri conobbe il carcere
a 16 anni per aver affisso manifesti patriottici, Pompeo Bettini,
Pietro Gori, Carlo Monticelli e lo stesso Turati saranno in prima
fila nelle agitazioni socialiste, sindacali e anarchiche. Giovanni
Antonelli, dal canto suo, farà per tutta la vita la spola tra
manicomi e carceri, mentre la “poetessa del quarto stato” Ada
Negri, dopo una vita a cantare gli umili, diventerà la prima donna
membro dell’Accademia d’Italia per volere dell’amico Benito
Mussolini.
Vite border
line di
contestatori e libertari, fratelli maggiori dei piromani che pochi
anni dopo daranno fuoco all’italietta borghese. È da questi
fermenti, infatti, che si dipanerà il filo rosso
dell’altro Novecento italiano,
quello che vedrà come protagonisti i bohemien dimenticati
della scapigliatura, gli intelletti eretici de La
Voce e
di Lacerba,
gli alfieri del sacro teppismo anarcosindacalista, gli eroi
dell’arditismo, i poeti incendiari del futurismo e su su fino a
contaminare almeno in parte un certo “socialismo tricolore" riemerso qua e là nel dopoguerra. Punk
di un secolo fa, sessantottini ante
litteram (ma
più belli e più autentici), questi poeti maledetti anticipano
l’atmosfera elettrica di Fiume e non sono altro che i padri di
quegli Arditi così rievocati da Italo Balbo: «Io – disse un
giorno il grande aviatore – non ero in sostanza, nel 1919-1920, che
uno dei tanti: uno dei quattro milioni di reduci delle trincee… Un
figlio del secolo che ci aveva fatto tutti democratici anticlericali
e repubblicaneggianti: antiaustriaci e irredentisti esasperati in
odio all’Asburgo tiranno, bigotto e forcaiolo».
Avventurieri,
guasconi e scapestrati, figli di un’Italia ribollente di vita che
non sempre ha trovato adeguato spazio sui libri di storia. Un’Italia
che, mutatis
mutandis,
forse esiste ancora e che scalpita nelle pieghe della cosiddetta
“società civile” che tira avanti nonostante una politica troppo
spesso parruccona e ingessata.
E i balbettii imbarazzati che
accompagnano gli scialbi 150° dell’unità, che invece poteva
essere l’occasione per una svolta simbolica, lo confermano. Lo
stesso centenario del futurismo è apparso ai più come l’ennesima
occasione sprecata per ridare all’Italia un’avanguardia attuale,
uno spirito nuovo e creativo di cui
pure avremmo disperato bisogno.
Ma fuori dalle celebrazioni ufficiali c’è chi va oltre e ripesca –
stavolta però con l’occhio realmente rivolto all’oggi e al
domani – anche i fratelli maggiori di Marinetti & c. e sodali.
Sono i poeti dimenticati di Iannaccone. Sono gli scapigliati, di cui
si è potuto dire: «Nell’arte come nella vita, questi anomali
personaggi fanno loro il mito di un’esistenza irregolare e
dissipata come rifiuto radicale delle convenzioni correnti e delle
norme morali. Sono gli scapigliati. Alcolisti incalliti, musicisti,
poeti, pittori, combattenti, giornalisti e politici: questo il volto
rivoluzionario del nuovo genio artista. Cantano il bene e il male, il
bello e l’orrendo, declamano virtù e vizi, raccontano sogni e
realtà». E ancora, parlando di Emilio Praga: «Questo è il trillo
della delusione di un uomo in miseria distrutto dall’alcool suo
compagno di viaggio; un antico Keruac un anarchico integrale, insofferente alla morale, alla religione e
alla retorica; sarà lui il primo a cantare la “morte
di Dio”
ossia di tutte quelle costruzioni razionali e formali che così come
nella poesia anche nella storia del mondo hanno messo le catene
all’uomo ormai incapace di travalicare i limiti dell’esistenza
per assurgere alla vera conoscenza».
In
Francia il collettivo artistico-politico dedito a provocazioni
mediatiche e politicamente scorrette che ha per nome Zentropa non
si è forse dato come slogan «Amour,
absinthe, revolution»,
dove “absinthe”
sta appunto per “assenzio”? Torna in mente il Carme comunardo di
Domenico Milelli: «Ancor non seppero gli irti filosofi / noi pazzi,
o Assenzio, sotto il tuo labaro / schierati in giovani falangi
indomite / darem battaglia». Entusiasmo ingenuo e ribellismo
adolescenziale? Forse. Ma ne avremmo anche oggi un gran bisogno.
Anche
se poi non ci ha messo tanto a mettere i puntini sulle “i” quando
il nuovo Stato non ha mantenute quelle promesse di rinnovamento che,
insieme all’aspirazione unitaria, aveva mosso anime e corpi al
seguito del “generale” Garibaldi… (tratto da un art. di A. Sciacca)
***
Lettera indirizzata a Giuseppe Lipparini il 7 luglio 1911, che riporto: “ Credetemi, caro Lipparini, noi abbiamo inventato il “futurismo” per la gravezza paludosa dell'aria che ci sta attorno e ci corrompe e ci pervade entro le vene il sangue e le carni ed il cervello; abbiamo inventato il “futurismo” per bisogno ineffabile ed impellente di nuovo, ci siamo ribellati a tutto e a tutti perché volevamo scorgere, dopo l'empietà dell'incomposta distruzione, qualcosa la quale non fosse il putrido presente incolore, astioso, convinti magari di non aver niente da dire, se non parole di ira, accenti rotti di sdegno, sconvenienze; ma era fede profonda la nostra, ed ora si è capito anche dalle persone serie, era speranza d'invenire fra i rottami il segno vivo di ciò che volevamo.
E se non esistesse bisognerebbe crearlo un movimento simile.. e chiamatelo se più vi piace anarchismo”. Gesualdo Manzella Frontini