Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

martedì 28 aprile 2015

Scapigliati e Futuristi uniti dal "filo d'Arianna"

«Io sono partigiano del buon senso,
Nè al becero nè al Re fo di cappello;
Non soffro dittatori, e quando penso
Mi piace di pensar col mio cervello.
Rido del volgo ignobile e melenso
Che grida: viva a questi e morte a quello!
Scenda dal trono o sorga dalla via
Sono nemico d'ogni tirannia.» Antonio Ghislanzoni





Quando finalmente qualcuno si deciderà a scrivere un libro di storia della  letteratura capace di non uccidere di noia l’anima degli studenti, mostrando il volto inquieto di una scrittura nata nelle trincee, nelle fabbriche in agitazione, nei bassifondi, sulle barricate, fra i fumi maleodoranti della suburra e le esalazioni allucinate dell’assenzio? Anche perché, parliamoci chiaro, non solo per gli studenti ma anche per tanti professori e sedicenti esperti i nomi di Ferdinando Fontana, Ada Negri, Mario Rapisardi sono quelli di illustri sconosciuti. Eppure basterebbe dare una letta alle biografie di questi poeti maledetti dell’Italia post-risorgimentale (dei famosi come degli sconosciuti) per comprendere come si abbia a che fare con uomini e artisti letteralmente immersi nelle problematiche, nelle battaglie e nei sentimenti diffusi del loro tempo. Troviamo così uno Stanislao Alberici-Giannini, un Eliodoro Lombardi, un Domenico Milelli, un Luigi Morandi, un Vittor Luigi Paladini che vengono dritti dritti dalla militanza garibaldina. E se Ulisse Barbieri conobbe il carcere a 16 anni per aver affisso manifesti patriottici, Pompeo Bettini, Pietro Gori, Carlo Monticelli e lo stesso Turati saranno in prima fila nelle agitazioni socialiste, sindacali e anarchiche. Giovanni Antonelli, dal canto suo, farà per tutta la vita la spola tra manicomi e carceri, mentre la “poetessa del quarto stato” Ada Negri, dopo una vita a cantare gli umili, diventerà la prima donna membro dell’Accademia d’Italia per volere dell’amico Benito Mussolini.


Vite border line di contestatori e libertari, fratelli maggiori dei piromani che pochi anni dopo daranno fuoco all’italietta borghese. È da questi fermenti, infatti, che si dipanerà il filo rosso dell’altro  Novecento italiano, quello che vedrà come protagonisti i bohemien dimenticati della scapigliatura, gli intelletti eretici de La Voce e di Lacerba, gli alfieri del sacro teppismo anarcosindacalista, gli eroi dell’arditismo, i poeti incendiari del futurismo e su su fino a contaminare almeno in parte un certo “socialismo tricolore" riemerso qua e là nel dopoguerra. Punk di un secolo fa, sessantottini ante litteram (ma più belli e più autentici), questi poeti maledetti anticipano l’atmosfera elettrica di Fiume e non sono altro che i padri di quegli Arditi così rievocati da Italo Balbo: «Io – disse un giorno il grande aviatore – non ero in sostanza, nel 1919-1920, che uno dei tanti: uno dei quattro milioni di reduci delle trincee… Un figlio del secolo che ci aveva fatto tutti democratici anticlericali e repubblicaneggianti: antiaustriaci e irredentisti esasperati in odio all’Asburgo tiranno, bigotto e forcaiolo».

Avventurieri, guasconi e scapestrati, figli di un’Italia ribollente di vita che non sempre ha trovato adeguato spazio sui libri di storia. Un’Italia che, mutatis mutandis, forse esiste ancora e che scalpita nelle pieghe della cosiddetta “società civile” che tira avanti nonostante una politica troppo spesso parruccona e ingessata. 

E i balbettii imbarazzati che accompagnano gli scialbi 150° dell’unità, che invece poteva essere l’occasione per una svolta simbolica, lo confermano. Lo stesso centenario del futurismo è apparso ai più come l’ennesima occasione sprecata per ridare all’Italia un’avanguardia attuale, uno spirito nuovo e creativo di cui
pure avremmo disperato bisogno. Ma fuori dalle celebrazioni ufficiali c’è chi va oltre e ripesca – stavolta però con l’occhio realmente rivolto all’oggi e al domani – anche i fratelli maggiori di Marinetti & c. e sodali. Sono i poeti dimenticati di Iannaccone. Sono gli scapigliati, di cui si è potuto dire: «Nell’arte come nella vita, questi anomali personaggi fanno loro il mito di un’esistenza irregolare e dissipata come rifiuto radicale delle convenzioni correnti e delle norme morali. Sono gli scapigliati. Alcolisti incalliti, musicisti, poeti, pittori, combattenti, giornalisti e politici: questo il volto rivoluzionario del nuovo genio artista. Cantano il bene e il male, il bello e l’orrendo, declamano virtù e vizi, raccontano sogni e realtà». E ancora, parlando di Emilio Praga: «Questo è il trillo della delusione di un uomo in miseria distrutto dall’alcool suo compagno di viaggio; un antico Keruac un anarchico integrale, insofferente alla morale, alla religione e alla retorica; sarà lui il primo a cantare la “morte di Dio” ossia di tutte quelle costruzioni razionali e formali che così come nella poesia anche nella storia del mondo hanno messo le catene all’uomo ormai incapace di travalicare i limiti dell’esistenza per assurgere alla vera conoscenza».


La scapigliatura come modello esistenziale trasgressivo per la gioventù del terzo millennio?

In Francia il collettivo artistico-politico dedito a provocazioni mediatiche e politicamente scorrette che ha per nome Zentropa non si è forse dato come slogan «Amour, absinthe, revolution», dove “absinthe” sta appunto per “assenzio”? Torna in mente il Carme comunardo di Domenico Milelli: «Ancor non seppero gli irti filosofi / noi pazzi, o Assenzio, sotto il tuo labaro / schierati in giovani falangi indomite / darem battaglia». Entusiasmo ingenuo e ribellismo adolescenziale? Forse. Ma ne avremmo anche oggi un gran bisogno.
Anche se poi non ci ha messo tanto a mettere i puntini sulle “i” quando il nuovo Stato non ha mantenute quelle promesse di rinnovamento che, insieme all’aspirazione unitaria, aveva mosso anime e corpi al seguito del “generale” Garibaldi… (tratto da un art. di A. Sciacca)
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Lettera indirizzata a Giuseppe Lipparini il 7 luglio 1911, che riporto: “ Credetemi, caro Lipparini, noi abbiamo inventato il “futurismo” per la gravezza paludosa dell'aria che ci sta attorno e ci corrompe e ci pervade entro le vene il sangue e le carni ed il cervello; abbiamo inventato il “futurismo” per bisogno ineffabile ed impellente di nuovo, ci siamo ribellati a tutto e a tutti perché volevamo scorgere, dopo l'empietà dell'incomposta distruzione, qualcosa la quale non fosse il putrido presente incolore, astioso, convinti magari di non aver niente da dire, se non parole di ira, accenti rotti di sdegno, sconvenienze; ma era fede profonda la nostra, ed ora si è capito anche dalle persone serie, era speranza d'invenire fra i rottami il segno vivo di ciò che volevamo.
E se non esistesse bisognerebbe crearlo un movimento simile.. e chiamatelo se più vi piace anarchismo”. Gesualdo Manzella Frontini