Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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venerdì 25 aprile 2014

CAMENE di Gesualdo Manzella Frontini e Mario Scarlatta

"Camene" la rinomata rivista catanese che si stampava ad Acireale - n.1 - 1947
Estratto da « Memorie e Rendiconti » dell'Accademia di Scienze Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale - Serie III - Volume V - di Vito Finocchiaro - 1985


Il ricordo di Gesualdo Manzella Frontini è ritornato piacevole e grato alla mia mente con lo «speciale» di Gaetano Zappalà, «Don Gesualdo di Trezza», pubblicato su «La Sicilia» del 28 ottobre 1985, nella ricorrenza del centenario della nascita del letterato catanese. Definire letterato il Manzella Frontini è, forse, un poco riduttivo, anche se l'essere cultore della letteratura, e cultore come lo fu lui, è pregio non da poco. Riduttivo, nel suo caso, perché egli non fu soltanto un eccezionale, coltissimo conoscitore e profondo studioso dell'«insieme delle opere, pertinenti ad una cultura o civiltà, affidate alla scrittura», non un semplice fruitore delle opere altrui, ma un soggetto attivo, un protagonista del fatto letterario. Fu, infatti, scrittore, poeta e giornalista raffinatissimo, impegnato, espressivo e fecondo (dei suoi ottant'anni di vita ne dedicò più d'una sessantina allo scrivere!), un nome autentico a livello nazionale ed europeo, se è vero, com'è vero, che lo troviamo con Filippo Tommaso Marinetti tra i fondatori del futurismo, nel 1910 tra i firmatari del «Manifesto dei drammaturghi futuristi» dello stesso Marinetti (è con i poeti Gian Pietro Lucini, Paolo Buzzi, Federico De Maria, Enrico Cavacchioli, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni, Libero Altomare, Luciano Folgore, Giuseppe Carrieri, Mario Bètuda, Enrico Cardile, Armando Mazza, assieme ai pittori Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini ed al musicista Balilla Pratella) e tra le personalità che figurano nel «Manifesto delle avanguardie letterarie ed artistiche europee» firmato da Guillaume Apollinaire nel 1913 a Parigi (nell'elenco vi sono Marinetti, Picasso, Carrà, Matisse, Palazzeschi, Strawinsky, Papini, Soffici, tanto per fare dei nomi che dicono molto a tutti).

Laureato in lettere e diplomato in filologia, insegnante nei licei classici di Prato, Luino, Cassino e Catania («Cutelli» e «Spedalieri») nonché nel liceo dell'Istituto San Michele di Acireale, Gesualdo Manzella Frontini diresse i giornali romani «L'idea liberale» (1914), «Le fonti» (1918), «Corriere africano» (1930) e collaborò a numerosi giornali e riviste, tra cui «Delta», «Vita nova», «Popolo di Roma», «Anthologie», «Lavoro fascista», «Corriere emiliano», «Ausonia», «Misura», «La rassegna», «Il resto del Carlino», «Novella», «Corriere della sera», «Corriere di Sicilia», «Popolo di Sicilia», «La Sicilia», «L'ora», «Giornale di poesia», «La fiera letteraria» e «Poesia», la rivista di F. T. Marinetti. 
Fu autore prolifico e versatile, come si conviene a chi nutre molteplici interessi ed ha il desiderio intenso (direi meglio, figurativamente, la smania) di soddisfarli tutti. Scrisse, infatti, ben ventisei opere (e va da sè che mi riferisco a quelle pubblicate in volumi), spaziando dalla poesia al teatro, dai racconti alla letteratura ed alla retorica, dagli studi critici e dai saggi ai romanzi. Val proprio la pena di elencare i suoi libri (e lo farò in appendice, anche per ricordarne alcuni che oggi sono poco noti), divisi per sezioni, non senza notare che ognuna di queste l'Autore curò non episodicamente ma per lunghi periodi della sua intensa vita, con ampio respiro di continuità, dando corpo a coerenti sequenze temporali, che si avvertono particolarmente nei campi della poesia, della saggistica e della narrativa.

Non è, comunque, questa la sede, per chi, come me, non è un critico letterario né sa portare avanti con autorevolezza disquisizioni in chiave di puro estetismo, per approfondire il discorso su Gesualdo Manzella Frontini, scrittore ed operatore di cultura nel senso più largo dell'accezione. A me preme, invece, parlare della fugace conoscenza personale che ebbi con «don  Gesualdo  di Trezza»  e  dare  testimonianza  diretta  d'una delle sue attività più significative, che senza dubbio resta legata alla condirezione con Mario Scarlata della nuova serie di «Camene», la rivista di lettere, arte e scienza che, forse, resta la migliore del genere che sia stata pubblicata a Catania e tra le notevoli in campo nazionale.
Non è una esagerazione e lo dimostrerò in appendice, ripescando il sommario dei primi undici numeri della rivista. 
Dall'elenco delle firme dei collaboratori ognuno potrà farsi una ben precisa idea dell'altissima qualità di questo mensile di lettura e cultura, dedicato alle antichissime divinità italiche delle fonti e trapiantato a Catania per resurrezione, dopo una esperienza romana di cui peraltro non sono in grado di dire, negli anni immediatamente susseguenti alla seconda guerra mondiale, quando Manzella Frontini ritorna al Sud, nella sua città, avendo pensato che «al grecale che spira dall'Jonio, le nostre Camene avrebbero potuto ristorarsi e riprendere con più lena la via, e con più disinvoltura e speditezza» ....e perciò promettendo che «manterremo pulita ed accogliente la casa, e pure le intenzioni: una casetta chiara, netta, aerata, con giardino e terrazzina aperta a tutti i venti» (al di fuori della metafora, par quasi una profetica visione del reale, quando «Camene» non ci sarà più tra il rimpianto di molti: l'immagine precisa e matura della casetta, che lo avrebbe accolto ad Aci Trezza più tardi, negli anni del tramonto della vita!). 

Di «Camene» ha scritto recentemente, sia pure inserendo l'argomento nel panorama (molto ben descritto) della Catania degli Anni '40, Venero Girgenti, sempre in uno «speciale» de «La Sicilia», pubblicato pochi giorni dopo il ricordo di Gaetano Zappalà dedicato a «Don Gesualdo di Trezza». «"Camene" che scappa dal chiuso delle botteghe — scrive Girgenti — penetra nei salotti catanesi che aprono i battenti alla nuova cultura che ancora sa di macerie e di polvere da sparo, parla ora delle nuove attività letterarie, pubblica racconti e saggi critici, atti unici e notiziari di vita culturale con segnalazione di curiosità amene. Questa è "Camene", la nuova rivista letteraria alla quale non disdegna di inviare manoscritti il fior fiore della cultura nazionale». L'articolo, ricco di particolari interessanti e non conosciuti da molti, ha certamente richiamato memorie e nostalgie di quanti sono, chi più chi meno, avanti negli anni; soprattutto, vi è molto ben ricreato il clima fervido di iniziative del tempo descritto. Per quanto mi riguarda, confesserò che mi sono commosso, non tanto per il salto indietro negli anni, che pure è cospicuo (trentotto anni: una voragine per chi, allora, di anni ne aveva poco più di venti!), quanto per la rievocazione indiretta d'un fatto che pochissimi conoscono e che altri hanno dimenticato. 

Quanti sanno, quanti ricordano che «Camene», la prestigiosissima rivista della Catania di metà secolo, si stampava ad Acireale? Eppure, è la verità. I primi undici numeri della sua nuova serie videro la luce ad Acireale, nello Stabilimento tipografico «900» di Giuseppe Finocchìaro, mio Padre.
Di Papà ho parlato diffusamente in altra occasione offertami da «Memorie e rendiconti», quando ho scritto del settimanale acese «Libera parola» di cui Egli era editore (1), e non starò, quindi, a riproporre il personaggio se non per ricordare l'attrazione che su di Lui esercitava il mondo della cultura e dell'arte e come fosse sensibile al bello ed alla perfezione, grazie ad un gusto squisito che, in ogni occasione d'incontro, Ciccio Contrafatto, pittore affermato ed amico, non manca mai di sottolinearmi, con velato, sincero rimpianto. Non so effettivamente come, nell'estate del 1947, mio Padre si trovò a contatto con Manzella Frontini o se addirittura furono i due a stipulare gli accordi di rito. Ritengo, invece, che molto più probabilmente il Suo interlocutore per la parte venale del sodalizio dovette essere Mario Scarlata, l'altro direttore della rivista da rilanciare a Catania, il quale, senza dubbio, doveva essere l'amministratore, se non il finanziatore-editore, in quanto che lo ricordo nell'ufficio della tipografia (dove mi trattenevo, inesausto, per giorni intieri, dinanzi alla vecchia «Olivetti» per sfornare corrispondenze per il «Corriere di Sicilia» e per «La Sicilia» ed articoli e rubriche fisse per «Libera parola») alle prese con banconote ed assegni di conto corrente o accalorato, contro la propria natura, nella discussione sulle scorte di carta 
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(1) Il settimanale «Libera parola» nella riconquistata libertà acese (1945 -1948), Memorie e rendiconti dell'Accademia di scienze, lettere e belle arti degli Zelanti e dei Dafnici, Serie II - voi. V, Acireale, 1975, p.p. 57-69.
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(allora preziosissima e piuttosto scadente) disponibili in magazzino (ma, in proposito, non c'erano problemi: Papà aveva carta da stampare a non finire dato che, manager in chiave d'esagerazione com'era, aveva sempre provveduto, senza badare a spese, a reintegrarne le giacenze in deposito, cospicue fin dalla metà degli Anni '30, quando aveva intuito che per il prodotto sarebbero venuti tempi grami).
Mario Scarlata, legato a Manzella Frontini, oltre che da affinità culturali, da amicizia, era fisicamente e nel modo di fare l'opposto dell'altro. Corpulento e vestito con semplicità, attento fino alla pignoleria nel seguire il proto, nel rivedere le bozze e nell'assistere alla stampa, di pochissimi gesti, riserva-tissimo nel contegno e pacato nell'eloquio, faceva contrasto formale quanto stridente con il collega, piccolo, asciutto ed elegante (fu tra i primi che io ricordi con giacche aderenti e pantaloni garbati), piuttosto svagato in tipografia (tranne che nella impaginazione e nella scelta dei caratteri da utilizzare nei titoli), nervoso e scattante, estroverso. 
Se doveva incoraggiare gli straordinari, indispensabili in quanto che graficamente «Camene» si realizzava in un paio di giorni (mio Padre, in quel tempo, a parte il lusso di «Libera parola» che si concedeva, era impegnatissimo con le forniture alla S.G.E.S., la società elettrica di cui stampava le bollette, con le esattorie gestite dal Banco di Sicilia, che gli commissionavano le cartelle dei pagamenti e gli avvisi di mora ai contribuenti morosi, con le ricercatissime carte a rilievo «sistema Mazzei» affidatogli in esclusiva per la Sicilia e con le decine di clienti che avevano scoperto il piacere di reclamizzare le loro ditte commerciali con i primi tentativi delle stampe in quadricromia), se doveva incoraggiare un lavoro ancora poco retribuito come gli straordinari, Scarlata offriva alle maestranze il caffè della vicina e rinomata dolceria dei fratelli Bonanno in via Cavour, mentre Manzella Frontini se la cavava con battute e barzellette e ricordi di vita vissuta e fantasie, che piacevano quanto la bevanda aromatica. Gli operai della tipografia, tutto sommato, erano affezionati alla coppia dei «professori». Quando parlavano dei due, li chiamavano, irrispettosamente, «Cric e Croc» ed era simpatico l'accostamento che, sia pure con le debite proporzioni dal punto di vista delle fattezze fisiche, richiamava alla percezione immediata i personaggi di Stan,Laurei ed Oliver Hardy, Stanlio ed Ollio, i popolarissimi eroi cinematografici dei ragazzi della mia generazione, riscoperti dai giovani di oggi con estrema letizia.

Lo Stabilimento tipografico «900» viveva negli ambienti che, allora, erano quelli tipici delle imprese con spiccate caratteristiche artigianali. 
Era allogato a pianterreno del Palazzo Figuera dal bellissimo portale in pietra lavica, in via San Carlo, una delle strade più significative del centro storico di Acireale, nei pressi immediati della piazza San Domenico, dove troneggia Palazzo Musmeci, considerato (e credo a ragione) il più bel monumento barocco tra i numerosi che arricchiscono la città. Era sistemato in tre stanzoni, di dimensioni che ancor oggi ritengo enormi dopo averli rivisitati per appagare un vecchio struggimento, accolto con simpatia dal fabbro ferraio e dal carrozziere che ora si dividono i locali (ed uno di essi, l'artigiano Rosario Grillo, per dimostrarmi d'aver lasciato le cose com'erano, ha voluto farmi vedere, appiccicato ad un vecchio infisso, un ingiallito facsimile di scheda elettorale con la mia fotografia, stampato nel... 1952 in occasione della mia presentazione alle elezioni  comunali!).
All'ingresso c'era la polverosa legatoria, abbellita (si far per dire!) in un angolo da una gabbia in legno compensato e vetri, una sorta di guardiola pomposamente definita ufficio, legatoria di cui «re ed imperatore» era il signor Marcellino, un despota per i lavoranti e gli apprendisti, che resta, con il povero Ferdinando Somma di via Marchese di Sangiuliano, il miglior rilegatore di libri che ci sia mai stato ad Acireale. 
Poi, la sala macchine: l'ambiente più spazioso, dove erano sistemate, assieme ad antichi e pur efficienti residuati della ottocentesca tipografia dell'«Orario delle ferrovie» (una pedalina, una macchina piana di formato medio ed un'altra più grande, denominata iperbolicamente «la rotativa»), una «Neby» automatica, avveniristica creatura della Nebiolo di Torino (il meglio che c'era in Italia in fatto di industrie costruttrici di macchine per la stampa) ed una semiautomatica a mano, una specie di pedalina moderna, invero stressante per chi doveva lavorarci sopra otto ore al giorno. Infine, la sala della composizione, ricchissima di caratteri (naturalmente stile «900»!), di marmi per l'impaginazione, di compositoi a mano (venne, parecchio tempo dopo, la linotype, e fu un avvenimento perché di queste macchine compositrici in Sicilia ce n'erano pochissime) e di tirabozze, sala che era affidata a Mario Trovato, il proto, un tecnico da Italia del Nord più che un operaio del Sud, il primo di classe sociale (allora c'erano) diversa dalla mia con il quale io abbia discusso come se fosse un professore d'università. Il tutto presentava un ambiente che oggi sarebbe infrequentabile, pesante com'era di nerume, d'odore di piombo ed inchiostri, di pulviscolo di carta e persino di ragnatele, che mio Padre, il quale era superstizioso quel che basta, non fece rimuovere mai per una non dichiarata ma effettiva scaramanzia (e sarà magari un caso, ma vero si è che la Sua fortuna imprenditoriale decadde quando trasferì la tipografia in locali... asettici, avendo scoperto la litografia, che a metà degli Anni '50 per il Sud era ancora... erba fresca!). 
Nella stessa via San Carlo lo Stabilimento tipografico «900» aveva i magazzini: due, molto ampi, pieni di scaffalature sempre ricolme di risme di carta, ed uno più piccolo dove, assieme ai pezzi di ricambio delle macchine e delle latte di inchiostro e di solvente, Papà ricoverava la Sua «509» (Anni '30), che diventò una «Balilla» a quattro marce (Anni '40) ed infine una «1100» (Anni '50). E nella stessa strada, sopra la tipografia, abitava il padrone di casa, il signor Barbagallo, che ricorderò per la paziente tolleranza che con i suoi familiari aveva, sopportando fino alle 4 del mattino il rumore delle macchine, quando queste erano oppresse, come capitava di frequente, dal lavoro, smaltito dagli infaticabili fratelli Lanzarotti (oggi il cavaliere Peppino è un affermato imprenditore tipografico e carissimo mi resta il ricordo di Alfio e Sebastiano, prematuramente morti).

A questo punto, penso che, per l'amore d'essere obiettivo a tutti i costi, farei torto alla verità se limitassi la rievocazione dell'opificio (era appunto tale: una piccola industria) di mio Padre con il circoscriverla alle sole note di colore. La verità è che lo «stab. tip. 900» del ventennio, che corse a cavallo della guerra mondiale del '40, resta per Acireale, per la provincia di Catania e per la stessa Sicilia un punto di riferimento rappresentativo per la qualità dei lavori prodotti. 
Anche oggi, se ci ritroviamo tra le mani una rivista, un libro, un dépliant, una etichetta pubblicitaria qualsiasi stampati nella tipografia in questione, ebbene, teniamo un materiale d'assoluta dignità, il quale non sfigura affatto nel confronto con le cose che ora si stampano. Insomma, voglio dire che Papà creò una grafica per quei tempi impensabile in una buona parte dell'Italia non industrializzata e tuttora in grado di reggere il paragone. E se io nei confronti del concittadino Gaetano Maugeri, titolare dello affermatissimo Stabilimento tipolitografico Galatea di Acireale, nutro molteplici motivi di amicizia, di considerazione, di affetto e di stima, è perché in lui non vedo soltanto il continuatore in termini di perfezione d'una apprezzata tradizione familiare, ma l'autentico depositario dell'eredità artistica (che non ho saputo o non ho potuto o non ho voluto raccogliere) di mio Padre, dei Suoi desideri di realizzazione, delle Sue visioni anticipatrici dei tempi, del Suo amore per la carta stampata,
A dimostrazione dell'alto grado di efficienza della tipografia «900» concorre la scelta di Gesualdo Manzella Frontini e di Mario Scarlata, che non per caso vollero che «Camene» si stampasse ad Acireale. A Catania non mancava certo chi potesse farlo (potrei dire Conti, Costantino, gli stessi Strano non ancora esclusivamente dedicati alla stampa dei biglietti delle tranvie e delle autolinee, altri assai quotati di cui non ricordo il nome e me ne spiace perché me ne sfugge qualcuno di rilievo), ma qui, ad Acireale, da Giuseppe Finocchiaro c'era un «quid» esaustivo da prendere in considerazione, a prescindere da opportunità economiche, che poi non esistevano, dato che Papà il lavoro se lo faceva pagare bene nel tempo non sospetto del successo e dell'agiatezza.

Ma torniamo a «Camene» e vediamo com'era, a cominciare dal modo con cui si presentava. Di formato classico (cm. 17x24), il mensile aveva una copertina in cartoncino leggero (destinato via via ad ispessirsi), stampato a due colori, di cui il predominante era di volta in volta diverso, tranne il primo numero che fu ad un solo colore (il seppia) ed il nono a tre colori. La carta era di tipo «triplacolla», che, in quei tempi che correvano, era non di molto migliore di   quella usata oggi dai quotidiani, mentre le tavole in testo e fuori testo delle riproduzioni pittoriche (quando c'erano) venivano realizzate in carta patinata. Le pagine si mantenevano in media attorno alle trenta, trentadue (ma vi furono anche eccezioni di cinquanta-ses-santa facciate), realizzate in maniera molto fitta (con caratteri tipografici in cui predominava il «corpo 8», sia che fossero in tondo o in corsivo) e tuttavia opportunamente arieggiate da una titolazione generosa e da un'agile impaginazione.
Il prezzo della rivista nel giro di poco più d'un anno variò dalle settanta lire iniziali alle cento del decimo numero, con un lungo intermezzo fissato sulle novanta lire, e ci fu un numero speciale, l'undicesimo dedicato alla XXIV Biennale di Venezia, che ebbe un costo di trecento lire, appunto per la particolare ricchezza del fascicolo, impreziosito da testi critici d'assoluto valore e da 14 tavole riproducenti dipinti di De Pisis, Martini, Max Ernst, Van Gogh, Miluzzo, Carrà, Turner, Chagall, Lazzaro, Kokoschka, Rossi, Schiele, Guttuso, Ensor, Picasso, Moore, Peif-fer Watenphul, Bellini e Scipione. 
Altri numeri straordinari furono quelli dedicati alle rappresentazioni classiche di Siracusa del 1948 ed alla pubblicazione delle sei novelle ritenute meritevoli in esito al concorso intestato a Giovanni Verga (il premio di ben centomila lire non fu assegnato perché la commissione giudicatrice non aveva potuto trovare lavori che «garantivano o una vera e propria rivelazione o un narratore che, pur esperto, avesse dato il meglio di questa sua esperienza». Per la cronaca relativa al «Premio Giovanni Verga» c'è da dire che degli autori dei lavori segnalati solo quattro consentirono di svelare al pubblico i loro nomi: Alba Novella Volpi di Castel di Guido, Salvatore Fiume di Canzo, Francesco Manzella di Roma ed Aldo Carratore di Siracusa. 
Il che fa intuire che, molto probabilmente, qualche nome d'un certo peso, celato sotto gli pseudonimi degli altri due «segnalati», non dovette gradire il verdetto e preferì rimanere nell'anonimato per intuibili motivi (Dignità offesa? Faccia da salvare? Pura e semplice vanità delusa? Decida il lettore!).

Qualche curiosità spicciola si può anche trarre dal riquadro della gerenza, dal quale si apprende che la rivista aveva un responsabile nella persona di Carmelo Danese  (un signore che non mi pare d'avere mai visto in tipografia, evidentemente perché si fidava dei due direttori), ampia diffusione in campo nazionale (la distribuivano a Roma la D.I.E.S. e fuori Roma la STE di Milano) e sede di direzione, redazione ed amministrazione a Catania, al numero 1 di via Sisto, l'antica strada che unisce la via Etnea con la via Grotte Bianche.
Per quanto riguarda il contenuto di «Camene», come ho già detto prima, rimando il lettore al sommario generale che riporto in appendice, un sommario più illustrativo di qualsiasi recensione alla mia portata. Mi limito ad aggiungere che una bella specialità della rivista erano i puntualissimi, effervescenti pezzi d'apertura esplicativi della linea del periodico e sempre dovuti alla penna di Gesualdo Manzella Frontini (che, alle volte, non si firmava), e le rubriche fisse «Incontri e scontri», «Notiziario», «Indicazioni», «I libri del giorno». Notevoli i fuori testo, sia che fossero dedicati alla riproduzione di disegni (uno di Roberto Fasola nel numero 2) ed olii (uno di Salvatore Camilleri Mazzaglia nel numero 4), sia a lavori teatrali (nel numero 2 il terzo tempo di «Prigionieri di guerra» di Orazio Motta Tornabene, nei numeri 5, 6, 7-8 e 10 i tre atti de «L'apocalisse secondo San Giacomo»  di Mario Apollonio).

Questa era «Camene», la rivista di Gesualdo Manzella Frontini e di Mario Scarlata che, per dirla con Venero Girgenti, consentì a Catania di gettare le basi per una ripresa letteraria d'una certa importanza, che di lì a poco avrebbe meritato alla città l'attribuzione del ruolo di «capitale» della letteratura del tempo (verranno, poi, gli Anni '50, '60 e '70 e Catania cambierà, con la pelle, anche la faccia e diverrà «capitale» di chissà quali altre cose!).

APPENDICE
I
OPERE DI GESUALDO MANZELLA FRONTINI
POESIA; «Novissima Semiritmi»  (1904), «Le rosse vergini. Rime pagane»
(1905),  «Il  prisma  dell'anima»   (1911?),  «Sul  gigli  gocce  sanguigne»
(1920), «Il mio libro dai campi P.W.»  (1949). RACCONTI: «Le lupe» (1906), «Quando la preda è stretta» (1921). STUDI CRITICI E SAGGI: «La Lozana Andaluza» (1910), «Contemporanei e futuristi»   (1910),  «Mario  Puccini»   (1927),  «Il  Santo  mediterraneo»
(1931). TEATRO: «L'altro sangue»  (1922?), «Verso le ombre»  (1923), «La madre immortale» (1935). LIBRI DI LETTERATURA E DI RETORICA: «Note di letteratura» (1921), «Lingua e stile» (1931). ROMANZI: «Pupetta»   (1924),   «Il testamento di Giuda» (1925), «Circo Barum, naja e sciacalli» (1933), «Scale» (1935), «Crocifissi alla terra» (1953), «Sorte» (1961), quest'ultimo con presentazione di Bonaventura Tecchi.
VARIE: «Volare» (1927), «L'eroico imperiale» (1928), «Italia una e diversa,
tutte le regioni» (1923).
II
SOMMARIO DEI FASCICOLI DI «CAMENE»
SETTEMBRE 1947
Commento alla nuova serie — Camene.
Grandezza e pudore di Federico — Giovanni Centorbi.
Pentagramma della lirica di oggi — Giuseppe Villaroel.
Liriche di Heros Cuzari - Fernanda Regalia Fassy - Giacomo Falco.
Problemi e necessità della Scuola Nazionale di danze — Jia Ruskaja.
Notte di Natale (novella) — Marcello Gallian.
The Hollow Men (poesia) — T. S. Eliot (Trad. M. L. Faragò).
L'opera lirica in Gran Bretagna — Stephen Williams.
Dai  «Frammenti  di Saffo»   (trad.  di  Francesca  Acerbo).
Incontri e scontri. — Ore 21: musica - Gius. Grillo — Il teatro di ieri -
Giorgio Prosperi - La medicina ha scoperto l'anima - G. K. Apostolos. -
Vedetta - Notiziario - Indicazioni.

OTTOBRE 1947
Queste nostre «Camene» — g. m. f.
La figlia di Eleonora (novella) — Rosso di San Secondo.
Due Uriche di Saffo (trad. Mario Scartata).
I  segni di Roma nella musica sarda — Nicola Valle. Roma segreta — Adriano Grande.
Il  pittore Marcello Bonacci — Giusta Nicco Fasola.
Liriche di Federico De Maria - Maria Lilith - Lionello Fiumi.
Un ricordo di scuola (racconto) — Alba de Cespedes.
Questo cinema Yankee — Grigius.
Parliamo della rivista radiofonica — Mario Ortensi.
Il bozzetto «Nedda» nello svolgimento dell'arte verghiana — Ermanno Scuderi.
Incontri e scontri.
I libri del giorno (Tempo di uccidere di Ennio Flaiano — G. Manzella Frontini; Età della vendemmia di Fernanda Regalia Fassy — Pier Luigi Mariani; Foscolo, Manzoni e Leopardi di Gianni Gervasoni — Aurelio Corona; Storia e civiltà musulmana di Francesco Gabrieli — Emilio Beer; L'approdo intravisto di Paolo Rio — g. m. f. Indicazioni.

NOVEMBRE 1947
H. Miller & Ci al Confino di polizia — g. m. f.
Italia e Provincie — g. m. f.
Invenzione del personaggio — Lorenzo Giusso.
Un soldato di coscienza —  (novella) — Giuseppe Berto.
Isole di Grecia (poesia) di Kapetanakis (trad. Mario Scartata).
Vergine altera (poesia) di Antonino Machado (trad. di L. Fiorentino).
Profezia (poesia) di Phlippe Dumaine (trad. di L. Fiorentino).
Vedo le foglie agitarsi (poesia) di Armand Bernier (trad. L. Fiorentino).
Il cielo sulle labbra (poesia) di Armand Bernier (trad. L. Fiorentino).
Pagina di una diario — Valentino Bompiani.
L'innesto — Bonaventura Tecchi.
Liriche di Fulvio Longobardi - Nunù Zappala - Renzo Lo Cascio - Giovanni
Strano - Marussya. Destino della narrativa nord-americana — Gius. Grillo. 400mila passi — Virgilio  Lilli. Federico De Roberto — Rodolfo de Mattei. Il bambino (novella) — Milena Milani. Indicazioni. Il libro di un siculo-americano — Libero Bigiaretti.
I  libri del giorno (I pazzi a Taormina, di Massimo Simili — G. Manzella
Frontini; Giorno dopo giorno di Salvatore Quasimodo — Fulvio Longobardi). Notiziario.

DICEMBRE 1947
Orientamenti e no — g. m. f.
Andrè Gide «Premio Nobel» — Lionello Fiumi.
Federico Garcia Lorca — Giancarlo Vigorelli.
Liriche di Padre David M. Turoldo - Mario Stefanile - Giuseppe Villaroel -
Igor Man. Verga e la pace universale — Rodolfo De Mattei. Turno di riposo (novella) — Cesare Meano. La città con l'aureola — Fernando Palazzi. Incontri e  scontri.
La religiosità del «Prometeo legato» — Mario Scarlata. L'America era Los Angeles — Enzo Masso. Un libro di Theodor Storni — Pierre Jouvet.
II  libri del giorno (La romana di Alberto Moravia — Libero Bigiaretti). Indicazioni. Notiziario.

GENNAIO  1948
Uno scontro che è un incontro — g. m. f.
Funzione dello scrittore — Lorenzo Giusso.
Gli uomini non si odiano (racconto) — Dario Ortolani.
Nota di letteratura francese — Antonio Aniante.
Ermetismo poetico e critico — Arnaldo Bocelli.
Dopo (Giovanni Verga) — Aurelio Navarria.
Un grande lutto della poesia: Léon Paul Fargue — Lionello Fiumi.
Albe (poesia) di Léon - Paul Fargue (trad. L. Fiumi).
L'Italia e i poeti d'Europa — Laszlò Cs. Szabò.
Liriche di Alessandro Weores - Vittorio Csorba - Giulio Illyès - Miklòs
Radnoti - (tr. di Francesco Nicosia e Làszlò Tòth - Folco Tempesti). Un pomeriggio, Adamo (novella) — Italo Calvino. Motivi crepuscolari nella poesia di Saba — P. L. Mariani. I libri del giorno (Sole bianco di Dario Ortolani — G. Manzella Frontini;
Cavalli 8... uomini... di Luigi Fiorentino — Giuseppe Villaroel).
Notiziario.
Apocalisse secondo Gian Giacomo — Mario Apollonio.

FEBBRAIO   1948
Esito del Concorso per una novella, Premio «Giovanni Verga» 1947. Vi sono pubblicate le 6 novelle ritenute degne di segnalazione. Precede la relazione, segue il Bando di Concorso per il Premio «Giovanni Verga» 1948.

MARZO - APRILE 1948
L'ultima trincea — g. m. f.
Poesia di Ungaretti — Arnaldo Boccili.
Rievocazioni davanti un reticolato — Giani Stuparich.
Quartiere latino — Adolfo Sarti.
Richard Huch — Bonaventura Tecchi.
I tre momenti esistenzialistici — Leonardo Grassi.
La casa (novella) — Diotima.
D'Annunzio controluce — Giuseppe Villaroel.
Scirocco (racconto) — Arnaldo Fratelli.
Baudelaire e Solitude di Gaston Criel (tr. Nicola Grassi).
Siamo o non siamo cristiani? — Silvio D'Amico.
I   morti di Spoon River — Giuseppe Pistorio.
Il  disgelo — Gualtieri di San Lazzaro.
I libri del giorno  (Il sole è cieco di Curzio Malaparte) — G. Manzella
Frontini). Incontri e scontri. Notiziario.

MAGGIO 1948 
(Fascicolo dedicato alle rappresentazioni classiche di Siracusa). L'Oresteia di Eschilo a Siracusa — Raffaele Cantarella.
La scena di Cassandra nell'Agamennone di Eschilo — G. Manara Valgimigli. Le scene iniziali nelle tragedie di Eschilo — Francesco Guglielmino. Articoli   di:   Annibale  Ninchi;   Giovanna   Scotto;   Mario   Scartata;   Duilio
Cambellotti, G. Francesco Malipiero. Teatro alla luce del sole — Antonino Gandolfo.

GIUGNO   1948
Ogni uomo un fatto — G. Manzella Frontini.
Prosa o Poesia? — Mario Scartata.
Regia premeditata e regia improvvisa — Anton Giulio Bragaglia.
Pensieri dopo la commedia (racconto) — Cesare Meano.
L'ultimo libro di Marcel Arland — Aldo Capasso.
Lorenzo Giusso: L'anima e il cosmo — Renato Lazzarini.
Città felice (racconto) — Ottavio Profeta.
Parlare di sè — Guido Pannain.
Poesìe di Vincenzo Guarnaccia; Sandro Rossi; Eugenio Santaquilani.
Luca Feluca (racconto) — Aurelio Corona.
Il  mare — Gius. Grillo.
La prima stesura dell'«Amante di Gramigna» — Aurelio Navarria.
Rispettare troppo — Massimo Bontempelli.
Note su Sherwood Anderson — Enea Ferrante.
I libri del giorno (Per non morire di Aldo Capasso — Liliana Scalero;
I libri migliori — Dino Provenzal). Notiziario.

LUGLIO   1948
(fascicolo dedicato alla XXIV Biennale di Venezia)
Premessa — G. Manzella Frontini.
Rodolfo Pallucchini, Presidente della Biennale.
«Il novecento e la nuova secessione» — Luigi Ferrante.
Scipione — Giuseppe Marchiori
La sala di Gino Rossi — Leone Minassian.
De Pisis e Campigli — Guido Perocco.
Contemporanei italiani — Vittorio Bellini.
Pensieri per Arturo Martini — Gastone Breddo.
La pittura surrealista — Alvise Zorzi.
La pittura metafisica — Silvio Branzi.
Gli impressionisti — Umbro Apollonio.
Padiglione Guggenheim — Peggy Guggenheim.
Picasso — Italo Faldi.
Il padiglione del Belgio — Bruno Alfieri.
La fattoria di Chagall — Bruno Alfieri.
Egon Schìele — Helma Gironcoli.
L'arte tedesca «degenerata» — Max Peiffer Watenphul.
Violenza e luce di Turner — Geoffrey Grigson.
Oschkar Kokoschka — Jacopo Panozzo.
James Ensor — Leone Minassian.
La scultura di Henri Moore — Geoffrey Grigson.
Georges Braque — Raymond Cogniat.
..........................................................................................................
BIBLIOGRAFIA
Gaetano Zappalà, Don Gesualdo di Trezza, «La Sicilia», Catania, 29 ottobre
1985. Società italiana degli Autori ed Editori, Cronache cent'anni, Arti grafiche
Libra, Roma, 1983.
Lions club Catania Host, Catalogo della mostra della letteratura catanese tra le due guerre, Editrice Giannotta, Catania, 1977.
Venero Girgenti, Verga, gigante senza eredi, «La Sicilia», Catania, 2 novembre 1985.
Camene, nuova serie, Stabilimento tipografico «900», Acireale, settembre 1947 - luglio 1948.




martedì 12 giugno 2012

Gesualdo Manzella Frontini e la Catania "senza un piano e senza uno stile" .. (critiche del 1954)

Leonardo Sciascia, nel 1954 sulle pagine di “Venerdi Il caffè”, la rivista diretta da Giambattista Vicari e con la quale collaborava da qualche anno, curò l’inserto siciliano dell’Antologia Italiana.


.... a Catania se ci sarà il grattacielo, non ci sono ancora le fognature’. Il progetto del ‘grattacielo’ era il segno di una città che stava cambiando: e dei mutamenti che stavano cominciando a stravolgerne fisionomia e identità, ne dava criticamente conto, l’unico autore ‘anziano’ di quell’antologia, Gesualdo Manzella Frontini, scrittore e critico d’arte già famoso. 
‘Questa mia città’ – scriveva Manzella Frontini – ‘è venuta su a spalate progressive, sterrate oggi a destra e domani a manca, senza un piano e senza uno stile, e seguendo l’umore dei molti appaltatori di felice memoria. Intraprese l’età della crescenza poco curandosi dell’avvenire, fregandosene d’un carattere da perseguire. Ne è risultato un agglomerato di vie e quartieri, di case e di palazzi e muri di cinta e villini, di casermoni e di brutte imitazioni esotiche, di dislivelli incolmabili, disarmonici, contrastanti, stridenti’. Ma, continuava lo studioso catanese, che era stato futurista della prima ora, se si guarda entro il perimetro della città antica, settecentesca, apparirà sì ‘un disordinato crescere’ ma ‘grazziadio qui c’è ancora lo strapaese genuino, intimo: il dedalo di viuzze sonore di voci di bimbi, di richiami di donne, ci sono i carrettini colmi di poggetti di pesche e pere e agli e peperoni e pomodori davanti alle bocche spalancate dei bassi. Da quelle bocche vengono inattese apparizioni: donne discinte stanche d’amore e di figli fanno ressa attorno al rivenditore’. E continua Manzella Frontini a descrivere i tratti della Catania antica e popolare: in una stanza aperta a pianterreno ‘un fornello che odora di petrolio’ sventolato da una bimbetta stanca ‘che sventola finché il carbone divampi’; ‘l’osteria deserta e sapida di vino acido attorno all’oste sonnolento che sputa a volta a volta un suo amaro disdegno’; ‘la botteguccia cha fa mostra di sale e olio rancido, di nastrini e pepe, di pane e sapone’ e ancora la ‘chiesetta grande come un ciborio’ e due passi dopo, per la strada, in un gabbione, una ‘gallina che starnazza’, e un carretto dipinto e dei ‘monelli che fanno ginnastica sui raggi delle sue grandi ruote’.
Un mondo misero e modesto ma ancora autentico, che vive in un contesto urbano unico, di architettura spontanea e originale, che Manzella Frontini coglie e contrappone positivamente per l’umanità e la socialità che vi intravede alla nuova ma anonima e individualistica città che vi sta crescendo attorno. -
***
E così contro ‘i vecchi tromboni’ che malamente detengono il potere culturale, annotava Sciascia, a Catania ‘è stato possibile metter su questa piccola antologia, trovare dei giovani che lavorano in assoluta indipendenza e con avvertitissimo sentimento del tempo’ e aggiungeva: ‘a Palermo – dove le cose vanno peggio -, siamo sicuri, sarebbe stato assai più difficile’.


Tratto da: La freccia verde  - dove troverete tutto l'articolo.

martedì 29 maggio 2012

COSA É IL FUTURISMO ? Commento al decalogo di Gesualdo Manzella Frontini (1910)


COSA É IL FUTURISMO ? Commento al decalogo di Gesualdo Manzella Frontini



I. Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità — Il coraggio l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
E perciò, o signori critici, nessuna impennata: in ogni caso quest'affermazione è restrizione del mondo poetico non già allargamento di confini.
Senz'essere futurista la buon'anima di Tirteo piantava gli acuti speroni ai fianchi dei muscolosi guerrieri spartani cantando l'amor del pericolo e della temerità: l'abitudine all'energia erasi assimilata e s'esprimeva nella bellezza plastica di quei corpi, che il ginnasio aveva foggiati, mirando lontano ad un ideale di forza bella.
O gli speroni acuti del canto bronzeo volante di Tirteo.
O gli Hypothékai, o gli Embatéria.. pulsanti e forti di temerità !
Ma la critica non à il dovere di saper leggere le intime relazioni e le mutue rispondenze che trascorrono tra i balzi del tempo, legandolo in anella possenti e sotterranei la corona delle esistenze, ed in onde il mare agitato dei commovimenti umani.

IILa letteratura esaltò fino ad oggi, l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febrile il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
Meritatissimi schiaffi e meritatis-simi pugni, o pacifici borghesi, che avete condannato l' anima a far le pulci entro la berlina aperta agli scaracchi del primo venuto! Poi avete riso al Poeta che osava ribellarsi con incomposti movimenti ed impetuose scosse e divincolamenti, con la scusa ch'era ridicolo.
Per tutti i capelli di San Pietro, meglio, assai meglio il verso che avesse l'agilità d'un salto mortale, la sonorità d'uno schiaffo, la velocità appena percepibile d'una corsa e la persuasione.... d'un buon pugno alla Johnson, che la putrida velma verminosa d'un sonettaccio contemplativo, laudativo, inneggiante... alla cocolla o al panno chiazzato d'una qualunque bimba di clorotica salute!
Ed ora l'avete anche con me! Badate alla pesca e alle adunche branche dei granchi... (che serie di gruppi... gutturali-nasali) !
Io  non sono un avvocato futurista! Figuratevi che il Marinetti ad un
certo punto del suo proclama dice: « Ci opponete delle obiezioni?.. Basta! Basta! Le conosciamo... Abbiamo capito!.... La nostra Bella e mendace intelligenza ci afferma che noi siamo il riassunto e il prolungamento degli avi nostri. Forse!... Sia pure ! Ma che importa? Non vogliamo intendere!....
Guai a chi ci ripeterà queste parole in faccia!... » 
Ebbene io tante volte gli ò ripetuto in faccia quest' accusa ed ancora ritorno ad accusarli... Quindi non sono sospetto di... partigianeria.
Il   secondo comma del decalogo però mentisce: signori critici, e cosa mai cantava l'Unico, l'enorme, l'irriducibile Pindaro?
Inni, peani, ditirambi, epinicii! Eternità del Kallinicos, consacrata dalle ampie volate delle strofi palpitanti!

Voi, signori, che non avete osato parlare del Futurismo mentre dall'imo fegato la bile per la via dei polmoni v'urgeva irruenta alla gola, conglobata in triviali insulti, in fulminanti parolacce pesanti come un poema rapisardiano, voi, signori, avrete naturalmente inteso che gli epinicii di Pindaro esaltavano il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto... il lancio del disco, la lotta violenta corpo a corpo....
E allora anche Simónide e allora Pindaro furon futuristi?
Tutto ciò non potrà magari piacere al Marinetti, ma i signori critici non dicano che ò torto....
In tutti i casi si difenderanno, che ne àn diritto, distinguendo futurismo da futuristi! Io per tanto son con loro: Non tutti gli spartani eran valorosi e coraggiosi allo stesso modo; ne tutti i poeti di Italia àn cantato una Divina Commedia!...

III. — Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una nuova bellezza: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa, col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
Questioni di gusti. È stato forse determinato da alcuno, che ne abbia avuto formale incarico dall'Umanità, l'ambito entro cui la ispirazione dell'Artista s'abbia a contenere? Non può forse la fantasia del Poeta sferrare per l'eccelse plaghe dei cieli intentati ?
Un solo monito ed una sola legge: Seguire ed imporsi un sogno di bellezza. Allora quando sentirà intensamente ed in egual misura saprà riprodurre le  sue sensazioni, l'Artista à creato opera vitale, e gli uomini avranno da Lui preteso non ingiustamente e non oseranno chiedergli oltre.
Massimo Bontempelli elogiava l'automobile e la sua donna scalmanata nella corsa, quando ancora il futurismo non aveva proclamato i suoi diritti; ed il maltrattato Monti — or è molti anni — tesseva una sua classica ode al signor di Mongolfier, speranzosa e profetica, come tutto ciò che s'abbandona con fiducia al futuro.
Ciò non pertanto la Vittoria di Samotracia resterà a significare l'espressione d'uno stadio di bellezza oltrepassato, non condannato, nè irriso, e maraviglioso. Si deve per ciò incancrenire ed immarcire la energia nuova con innesti anacronistici? Non crediamo.

IV. — Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la terra, lanciata a corsa,  essa pure, sul circuito della sua orbita.
Bella ed efficace figura retorica per dire che tirate le somme pànta réi! Tutto scorre, si muove, agisce; che la dinamica par sia per sostituire, nella esatta concezione dell'universo, la statica, Energheia: ecco la decima Musa. Non è forse la filosofia bergsoniana che tanta fortuna solleva in Europa, poggiata sulla mobilità del reale ? E perchè solo ai futuristi, contro i cui petti luccicano occhi sgranati di sdegno e di irrisione, s'à da reclamare il foglio di via della loro origine?
Ma lasciate che gli episodi della vita si compiano, senza intralci: niente è più sacrilego ed infecondo che il sopruso e la violenza perpetrata a danno dell'entusiasmo.

V. — Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sforzo e munificenza, per aumentare l'entusiastuo fervore  degli  elementi primordiali.
Né alcun passatista, come direbbe il Marinetti, negherà l'approvazione a questo numero.... del proclama.
Infatti l'Artista è come certe ruote d'ingranaggio, le quali ànno un congegno tale da centuplicare il primitivo impulso e restituire una forza attiva, avendo ricevuto l'urto con l'energia latente. Egli elabora con ardore la materia grezza ed aumenta il fervore dell'elemento primo.

VI. — Non v'è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo.
Tutte le consorterie sono esclusiviste: il futurismo come tutti gli aggruppamenti letterari, che in buona fede credono d'avere risolto il problema estetico, é una consorteria, intesa nel senso benevolo ed originario della parola. Epperò io — il quale sono una quantità come un'altra, forse negativa per molti — sarò futurista quando il Marinetti avrà dichiarato esplicitamente le sue vere intenzioni nell'atto di dettare il proclama, or mai celebre, e quando per conseguenza avrà risciacquato nel puro lavacro originale l'unica etichetta che — in questo caso solo — avrebbe una ragione d'esistere, futurismo: cioè negazione di tutte le etichette, scuole, cenacoli, accademie, consorterie.. Proclama di grandi verità, benissimo sintetizzate in una felice, semplice e vecchia frase.... fatta: l'Arte è la Vita, per dire fra l'altro che il Passato anche glorioso non è la Vita, ma l' antitesi di essa.
Quando poi il carattere aggressivo imposto dal futurismo all'opera d'arte perchè possa essere un capolavoro, avesse avuto nell'intenzione dello scrittore significato di intensità suggestiva noi sentiremmo la verità alzar la voce a suo vantaggio: nè alcuno potrebbe dar torto.

VII. — Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perchè dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell' impossibile? Il tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo nell'assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente.
Questa mia è opera di divulgatore ed illustratore, cerchiamo perciò di ridurre in più democratica forma il pensiero dei miei illustri amici : né conto d'interpretare esattamente quello che àn voluto dire....
Noi siamo sul promontorio... cioè: Noi siamo il risultato di una somma d' esperienza tale da permetterci  un atteggiamento di superiorità innanzi alle vicende della specie. Noi abbiamo superato le possibiliià umane e ci avviamo energicamente a scassinare le porte dell' Impossibile, per trafugarne il mistero... Frattanto siamo l'assoluto onnipresente, cioè oltre la storia ed oltre... la Terra: nessun colore di tempo né di razza impronterà le nostre concezioni.
O io mi sbaglio, ed allora ò torto, o non mi sbaglio, allora non ò ragione, poiché m'è saltato sul naso il grillo di discutere anche questo.... degli articoli il più spurio, così come certi numeri di programma dai quali l'impresario s'aspetta un trionfo e vi cadono ch'è un piacere.
Qui i miei amici scattando sull'acciaro dei loro muscoli corsero per afferrare la mosca bianca da collocare sul làbaro e si trovarono d' aver colto un pappo.

VIII- —Noi vogliamo glorificare la guerra—sola igiene del mondo — il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
Sia gloria alla guerra... patriottica quand' essa si trascina dietro anche il militarismo, così leggero del resto in grazia delle corazzate di Terni ; sia laude al libertario che sul formidabile ordegno d'una macchina infernale pone il fiore rosso della propria vita per il più rosso fiore dell' Idea esaltata ; siano prodighi i Poeti di canzoni a chi muore per un sogno fantasioso...
Epperò — e vorrei scriverlo con tre p — permettete, o Marinetti, che entro l'alone d'un bel gesto io possa, e con me, le retroguardie del Futurismo, scorgere la linea incerta della concreta bellezza, la figlia prediletta dello spirito dell'uomo. E se di quest'uomo voi mi fate un clown che ridicolosamente vi balli sopra un filo di ferro per divertivi... la folla, questa è azione da dilettante, da snob, non da Grande Poeta, quale io sento che voi siete. Credete ch'io vi predichi morale?... Bel pulpito la sconfinata mia coscienza per una predica!...
È ch'io non capisco l'incomposto arrabbattarsi d'una falange geniale per un frivolo istinto di rappresaglia. Chè la vostra guerra — igiene del Mondo — ed il vostro militarismo mi sanno di tendenza antisocialista lontano.... molto lontano!
E credete voi sul serio che una scuola letteraria — come vi piace chiamare il futurismo—possa concretarsi su basi, le quali non abbiano nelle profondità dell'essere il primo e più forte piano? La sincerità, ecco la sola   igiene del mondo! tranne non vi sorrida una   umanità  che  sia  la  resultante degli invalidi, dello scarto delle leve e di vecchi e di donne..... Delle quali pare ci si debba guardare come dalla... spinite: del resto è caso tipico in cui la causa per l'effetto calza, e come calza. Scherzi a parte sotto certi aspetti il futurismo l'à piantata giusta sull' affare della donna.
I belati, i piagnucolamenti, i deliqui e gli svenimenti ci àn rammollita un pò la colonna vertebrale, ed è tempo che l'uomo ritrovi il midollo della sua naturale vigoria maschia di propulsore e dominatore, specie quando una innumere turba di suffragettes à imposto alla tradizionale serietà britannica una veste da camera mostruosa, per arrivare più svelta, in mutandine, a carpire l'arma micidiale e sovvertitrice: il voto!... E l'à carpita!
Nè centro dell'universo, nè macchina da far figli, e s'intende non a torto oggi dal futurismo messa alla gogna, quando s'inveschia a farla da pepe in ogni minestra... la più spiccia della mensa politico-sociale.
Dice il futurismo: meno carne e più... nerbo. E sia!

IXNoi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
La bufera degl'improperi s'è avventata contro l'innocente grido di rivolta, quado classicisti degni dell'umanesimo— e valga uno per tutti Ettore Romagnoli, mio illustre maestro—già da anni non pochi, s'armano dell'acuta amara satira, densa d'attico sale, per colpire la turba degli accademici, musoni topi miserabili, tignole bibliofile....
Dice: È la forma, il modo che offende !... Non li credete ! È che àn trovato da far bene il lor gioco su quattro audaci, audacissimi, ma giovani e di questi, alcuni ribelli per istinto, perché inesperti di.... materiale storico (ahi! quanto... materiale!) e ci si son messi col silenzio agghiacciante, coll'ironia sboccata e col ridicolo....
Ah, in quanto a questa positura di guerra benedetto tre e quattro volte e anche sette il futurismo del più irresistibile ed imponderabile futurista... Servirà anche dal suo canto a sbarazzarci la via troppo ingombra di materiale... 

X Noi canteremo le grandi folle agitate dal  lavoro, dal piacere o dalla sommossa ecc. ecc.
Cantate, cantate, o ardenti cicale, di questa estate rossa, purchè non veniate a schiacciarci innanzi le tignole raccolte fra i palinsesti o i codici adespoti e a gabellarci quell'esercitazione poco pulita per... un dattilo acatalettico in flagrante furto d' una sillaba!...
*Critica al Manifesto del Futurismo - Le Figaro - 20 febbraio 1909

***
(Critica...)
romanzo africano



Avendo finito di leggere, la mia grande curiosità gelosa s'era rilasciata in una stanchezza d'esasperazione.
Non ci si avvicina ad un libro d'un uomo d'ingegno, specie se quest'uomo è un nostro amico, con serenità né tanto meno con indifferenza. Anch'io ò creduto spesso alla cara illusione d'una critica impersonale, ma oggi più che altra volta, mi son trovato uomo di parte, chè se l'irritazione prodottami da «Mafarka-el-Bar» il romanzo futurista di F. T. Marinetti, mi fosse venuta da altri e per l'altra via, son certo che non avrei scritto queste note per paura dell'art. 295 del C. P.
Curiosità !
Io volevo sentire la prosa di romanzo del Marinetti, ma non potevo concepire fino a che punto possa trascinare il fanatismo d'una idea fissa o la coscienza della propria magnifica sostanza intellettiva, ed il Marinetti ch'è un milionario non avrebbe dovuto sprecare tanto fior di sangue e di nervi per colmare le mani, non piene mai, di coloro che àn bisogno esca onde dar fuoco alla paglia fumosa... soffocante.
D'un altro avrei forse detto che s'era sbagliato a suo mal grado, ma per il Marinetti ò la presunzione di affermare che Egli à scritto un libro per èpater le bourgeois (scandalizzare la borghesia).
Che si possa discutere un'opera di arte dal punto di vista della sua significazione etica e sociale, sebbene ancor oggi lo si pretenda e quel ch'è peggio lo si faccia, io non credo.

Infatti se, ad esempio, la Patria lontana del Corradini, di cui ò parlato, è stata posta allo strazio della discussione, anche da giovani di alti criteri d'arte, non è avvenuto già perchè la Patria lontana intenda combattere una battaglia, ma perchè il suo autore più che al titolo d'Artista, di cui d'altronde è degnissimo, tiene a quell'altro d'uomo d'azione.
Ed è per queste mie speciali vedute che io non indendo condannare a priori « Malarka », ma è pur troppo dalle stesse ch'ei vien condannato. Mi spiego.
Se un libro dovesse rispondere del corso ch'esso si compiace di assegnare ai valori della vita, e se dovesse subire lo strazio d'una inchiesta, ordinata a rivederne le alterazioni, nessun artista potrebbe dislacciarsi dalle strette tòrtili. L' artista crea, e la sua, ch' è in fondo una rievocazione dalle più scure ed insondate profondità dello spirito, è opera sacra, già che a volte parla strane voci per i mortali sensi degli uomini, mentre è in Lui una corrispondenza ideale con le forze occulte della natura.
Chi non à inteso ripetere almeno una volta nella sua vita che non è prudente richiedere all'Artista donde venga e a che miri ? Eppure c'è tanta gente la quale facendosi un dovere di appellarsi alla tradizione condanna le opere d'ingegno, cancellando ed insultando quella tradizione alla quale si appiglia perché la ignora, e vituperando d'immoralità tutto quanto non risponde ad una misura stabilita.
Ingenuità delle ingenuità, direbbe uno scrittore biblico, ma non è naturale che le opere d'arte siano tutte amorali se vogliono rispondere ad solo fine, all'Arte? E intendiamoci: amorali nel senso più comprensivo; vale a dire logiche nella loro logica fittizia, naturali nella loro artifiziosità di luci, di scorci e di profili per cui ne risulta una illusione di realtà più vera della verità stessa, poi che non suscettibile di decadenza; etiche nella loro etica opportunistica. Ma prima e sopra tutto pervase da quel senso di indefinibile e complessa elevazione ch'è nell'opera d'arte, cioè la bellezza.
E così non preoccupandomi della balorda ed imponderabile accusa di oltraggio al pudore, per cui il libro del Marinetti è stato sequestrato dalla Procura Generale di Milano, ritorno al mio pensiero: il romanzo del Marinetti non à ragione d'essere poi che non è opera amorale, ma tende sin dalle prime pagine ad una esaltazione che è poi una tesi.
Ripeto non ò il diritto di preoccuparmi della tesi, ma ò quello di sviscerare il valore quantitativamente, in ciò ch'è la sua ragione d'essere, la ragione estetica.
* *  *
Gran poema di barbarie, ove le parole son  orde  selvagge di negri, che rispondono al ritmo d'un fragoroso rombo di tuoni per lanciarsi nella mischia fulminei, sui cavalli sfrenati, il « Mafarka » nella sua prima metà, sarebbe bastato alla gloria d'un poeta primìparo. Infatti senza le posteriori volute avremmo dimenticato le inopportune fila della tesi esposte sin dall' inizio.
Procede il romanzo per grandi quadri non altrimenti d'un poema, epperò un sol pensiero di quella vita intensamente fittizia cui accennavo poco fa, troppo spesso mal frenato, mal chiaro entro il bronzo del periodo, traluce.
Bisogna oltrepassarsi per poter fissare tutti gli strati inferiori della vita senza rimpianti, e nessun mezzo migliore di temprare questa volontà di elevazione, che il rappresentare la bétise degli uomini, crudamente, nella sua debolezza e nella sua istintiva irruenza.
Questa la  sintesi  del  romanzo,  e questa io penso la ragione delle frequenti imaginì lussuriose e delle scene carnali e della macabra, maravigliosa tregenda fallica, Lo stupro delle negre, degna di chi à concepito Re Baldoria, vale a dire del poeta più imaginoso, visionario, originale contemporaneo.
Egli à mezzo di contrapporre cosi' la granitica tagliente volontà di dominio e di purezza, alla molle flessibilità di schiena degli esseri inferiori che s'armano di verga e per essa vivono battendo i fiori sanguigni delle due bocche femminee.
Intorno a « Mafarka », al fratello suo Magamol, che finisce miseramente con la promessa sposa Ourabelli-Charchar per essere stato morso da un cane idrofobo, intorno a Coloubbi, che pretende essere stata la madre e l'amante del figlio di Mafarka Gazourmah, poi che lo stato dionisiaco, in cui Egli concepì il mostro alato e lo fuse e gli die moto, pretende Coloubbi d'averglielo essa prodotto con un suo sguardo possente, s'agitano le turbe schiave di Mafarka e del suo rivale condottiero di negri Brafane-el-Kibir.
O, le arse e spasimose cavalcate pel deserto dietro un'ombra o dietro un sogno del Marinetti, truccato da re barbaro!.... O, le onde di sabbia infoncata che morde le carni lucide, l'ansito caldo dei petti larghi, le grida strazianti dei feriti, o i gemiti delle negre stuprate in un'orgia titanica! Pagine di impeto e di concezione superiore.
L'estetica del futurismo è puramente e semplicemente dinamica, ma nel suo condottiero assurge alle irrequietezze più folli dell'azione.
E può parere un controsenso che in questo romanzo del Marinetti manchi proprio l'azione del senso più elementare.
Vi manca infatti una linea di svolgimento, quando invece attorno a Mafarka tutto vive una vita intensa. Egli vuole, sa ottenere, s' oltrepassa ma non ci persuade, già che la sua volontà d'elevazione sconfina dal senso umano di visione del mondo. Almeno sino a quando non sarà più ridicolo pensare ad una ideale umanità che faccia dei figli « sans le secours de la vulve! » tranne che non si voglia pensare ad una serie d'esperienze ultravulvari....
M'ero proposto di non discutere il romanzo nella sua tesi.
Mafarka enuncia una sua serie di affermazioni, e nel discours futuriste arriva a questa conclusione « Il est possible de pousser hors de sa chair, sans le concours et la puante com-plicité de la matrice de la femme, un géant immortel aux ailes infail-libles! » Date a questa idea delle premesse e sottoponetela a conseguenze e troverete l'uomo-areoplano, l'uomo-macchina.
Per questo fine, solo per questo fine, ch'è il punto ultimo dalla vita mortale, l'eroe Mafarka-el-Bar acumina l'acciaio delle sue membra e lo stile della sua volontà di dominio sulla cute ossea delle schiene umane.
Gl'istinti primitivi della specie ricondotti alla espressione di una razza eroica: potremmo magari discutere sino a che punto gl' ideali della nuova società democratica si possano e si debbano anzi accordare con questi istinti: la loro contraddizione appar-rebbe meno irriducibile di quanto si pensa. Ma non sarà mai lo sforzo della gente universa teso alla conquista d'un sogno poetico ultra-umano, contro natura.
Belle le sante battaglie dell'ideale, ma fino a quando avranno premesse e finalità umane, come quasi tutti i capisaldi del movimento futurista, ma quando trascendono e danno un balzo a capofitto nell'irrisorio, quale il figlio inorganico di Mafarka,  allora non   entrano   nemmeno   nel   mondo delle visioni.   
E per questo e per ragioni meno fondamentali, ch'io non son uso apportare quando parlo d'un'opera d'ingegno non comune, Mafarka-el-Bar non è un libro riuscito.

***
Vedi anche:  

LA VERA STORIA DEL FUTURISMO, la parola a Gesualdo Manzella Frontini 


"Volare - Il tema della sfida allo spazio aereo attraverso il volo meccanico, con le relative opportunità che essa offre di avventura umana e di sogni imperiali, viene aggiudicato nella collana della Bemporad al poeta futurista Gesualdo Manzella Frontini. Il quale ha tutti i titoli, come futurista, anche se nel corso degli anni Venti viene prendendo le distanze da certe radicalizzazioni dei giovani compagni di strada e viene sottoscrivendo le riserve critiche degli ex futuristi fiorentini, Papini, Soffici, Palazzeschi, ma anche come fascista della prima ora, come reduce della Grande Guerra, come portatore di una fantasia estrosa e generosa, per confrontarsi con questa prova."
G. Manzella Frontini e Carlo Carrà