Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

domenica 20 aprile 2014

Necrologio per Giuseppe Pitrè - 1916

Foto del 25/01/1884 di F. P. Frontini

******
Di Luigi Sorrento - 1916















Tommaso Cannizzaro e Mario Rapisardi, i poeti amici.

Luigi Vita, valente direttore della rivista messinese Battaglia Letteraria, così scriveva, nel vano tentativo di rivendicare l'alto valore del poeta e letterato peloritano Tommaso Cannizzaro, deplorando il poco onore che in genere gli si rende dalla sua stessa città natale: Cannizzaro dovrebbe essere letto, studiato, ammirato assai più, non solamente dai suoi conterranei messinesi, ma da tutti i siciliani.
 
Giustamente il Vita sottolinea che Tommaso Cannizzaro fu onorato di stima e di amicizia da scrittori quali Victor Hugo, Carducci, Mario Rapisardi, G. A. Cesareo, Giovanni Pascoli, Luigi Capuana, Arturo Graf ed altri simili: il riconoscimento da parte dei Grandi è sempre quello che uno scrittore più ambisce e che largamente lo compensa della incomprensione dei superficiali e degli indotti e dei lettori frettolosi.
Opportuno è ripubblicare, qui, un magnifico sonetto che M. Rapisardi scrisse per l'amico T. Cannizzaro e che si legge tra le Foglie sparse, edizione Sandron.

A TOMMASO CANNIZZARO
Tommaso, invan dove la pugna ferve 
Richiami il tuo commiliton canuto, 
Che, libero fra tante anime serve, 
Per l'onore dell'arte ha combattuto.

Ben ei freme al pensier che di proterve 
Menti uno stuol di vanità pasciuto 
D'ogni pura bellezza ha il fior polluto, 
E alle turpi sue voglie Italia asserve.

Ferito al petto, in solitario loco,
Il sangue ultimo ei perde, e ala sua vista
Discolorasi il mondo a poco a poco.

Ma troppo del suo danno ei non si attrista, 
Se l'idea, che il temprò dentro al suo foco, 
Per opra tua novo splendore acquista.

Versi del Cannizzaro scritti per il Rapisardi , sono quelli che il poeta messinese pubblicò nella rivista catanese Istituto di Scienze lettere e arti del 30 Gennaio 1899 e intitolati A Mario Rapisardi, in occasione delle onoranze a Lui: in occasione, cioè, delle onoranze che Catania tributò al suo grande Poeta, allora poco più che cinquantenne, col plauso degli uomini più insigni d'Europa; onoranze di cui segno più duraturo rimase il busto bronzeo del Rapisardi nel giardino Bellini, opera dello scultore Benedetto Civiletti. In questi versi, il Cannizzaro esortava il festeggiato Cantore di Giobbe e di Lucifero a non badare al cavallo della gloria che nitriva alla sua porta, e gli faceva notare che i massimi poeti — l'Alighieri non escluso — non ebbero riconoscimenti e festeggiamenti, ma persecuzioni, incomprensioni, livori, povertà, esilio e che il poeta deve essere « odiato dai contemporanei e dimenticato dai posteri» (anche dai posteri?). Ma vediamo i versi di Cannizzaro:
« Del tuo quieto ostello a le severe porte
il cavai de la gloria odi, o Mario, nitrir,
esso ti attende, e — inforcami, — grida superbo e forte
—  del canto altero Sir. 
Io ti trarrò per selve di lauri maestosi 
dove i venturi secoli un peana a inalzar
verranno su la fulgida urna dei tuoi riposi
—  Mario, non l'ascoltar! 
Volgigli il tergo e lascia ch'ei corra ove più voglia 
dove la vana sete di fama il porterà:
a lui tu nega il varco della modesta soglia dove la Musa sta ... »
Evidentemente Cannizzaro esagerava: Rapisardi non fu mai avido di lodi e di onori: « Poco il biasimo e men la lode apprezzo » scrisse nell'epistola poetica ad Andrea Maffei, nel mandargli una copia del Lucifero. E in una delle Poesie religiose, dedicata a Felice Cavallotti, scrisse di sé:

« Io, che tutta donai la mente al Vero,
Né più mi tocca il cuor biasimo o lode ... ».

Ma che egli dovesse mostrarsi sordo e indifferente al cavallo della gloria, che finalmente nitriva alla sua porta, era troppo.
Rapisardi, rispondendo ai versi e ad una lettera del Cannizzaro, per ciò così gli scriveva nel febbraio del 1899:
« Il cavallo della gloria ha dunque nitrito alla mia porta, ed io, dovevo secondo te cacciarlo via a suon di pedate? Oh, perché, amico mio? Io credo aver fatto qualcosa di più gentile.
Mi sono affacciato allo sportello, in mutande e berretto da notte, e ho detto: Pegaso mio, io ti sono grato del cortese invito; ma, credimi, io non ho più voglia di inforcare le tue groppe e di caracollare per le regioni fragorose della gloria.
Certo non mi vergogno di averti un giorno desiderato (oh, perché dovrei vergognarmene, se i più nobili e fieri spiriti, non esclusi l'Alighieri e l'Alfieri, ti hanno ardentemente desiderato?); ma ora, credi, ho altro per la testa; e il mio vecchio cuore, a parte gli acciacchi e i disinganni dell'età, non ha palpito alcuno per tutto ciò che non si riferisce alla giustizia e alla pace degli uomini ». Coerentemente con questa affermazione, più tardi, nel maggio del 1906, in prefazione all'edizione Nerbini del suo Lucifero, scriveva di sé che « vicino ormai a dissolversi nell'infinito, nel fluttuare di tante idee, nel tramonto di tanti idoli, nella furia fragorosa di sì strane correnti artistiche e letterarie, egli rimaneva fermo in quei princìpi che aveva finalmente riconosciuti per veri, aspirava l'aura dei nuovi tempi, s'inebriava al sentore delle nuove battaglie, ringiovaniva alla certezza del trionfo della Giustizia e della Libertà ».
Chiudendo la lettera suddetta al Cannizzaro, il Rapisardi incalzava: « Mi parli di una gloria fatta di oblio ... dici che del poeta ha da essere obliato persino il nome, salvo poi a lasciar l'ufficio di ripeterne il canto alle foreste, al cielo e al mare. Mio caro amico, te lo confesso: codesti a me paiono indovinelli.
E tali, credo, li avrebbe stimati anche il povero Antero, che, nonostante il suo ascetismo, forniva gentilmente le proprie notizie biografiche ai suoi traduttori e credeva che l'essere onorato e stimato dai contemporanei era pure qualcosa ».
La chiusa della lettera accenna ad Antero de Quental, poeta portoghese, di cui il Cannizzaro, conoscitore sicuro di lingue moderne, tradusse in italiano i sonetti.
La lettera è a pag. 343-44 dell'Epistolario del Rapisardi edizione 1922 dell'editore Niccolò Giannotta di Catania, curata dal Dottor Alfio Toma-selli, il quale, dopo la morte del Poeta etneo, sposò la di lui amica e ispiratrice Amelia Sabernich Poniatowski.
Coerente con questo suo modo strano di concepire l'attività del poeta, il Cannizzaro pubblicava le proprie opere senza nome, o con pseudonimi: « Versi francesi di un anonimo »,« Le quartine di Umar Chayyàm recate in italiano dal traduttore dei sonetti Camoése di Anthero de Quental ». Ragion per cui il De Amicis, scrivendogli, lo invocava: « Gentilissimo Innominato ». E motto abituale del Cannizzaro era: « Nascondi la tua vita, diffondi le tue opere ». Qualcosa di simile pensava il Cesareo quando diceva, a noi suoi scolari nell'Ateneo di Palermo, che quello che resta di un poeta è la sua poesia; la quale, mentre è la sua gloria, è anche la sua giustificazione ».



Morto il Rapisardi, nel gennaio del 1912, il Cannizzaro non mancò di scriverne e notò, tra l'altro, che « Mario Rapisardi visse solitario come un eremita e morì come un filosofo antico, i cui ammaestramenti ci restano quale eredità preziosa che maturerà i suoi frutti nelle generazioni future ».

Ma scrivendo del poco onore in cui il Cannizzaro è tenuto dai messinesi, e dai siciliani in genere, non si può tacere il nome illustre di un altro poeta e letterato messinese cui sembra inflitta una simile incomprensione:   Giovanni Alfredo Cesareo.
Forte e fecondo poeta, che ha pagine degne del Foscolo, e critico saggista paragonabile al De Sanctis, egli è tuttora sottovalutato in Sicilia e in Italia. E non mi risulta che la sua Messina gli abbia eretto un busto; né glielo ha eretto Palermo, dove fu a lungo maestro insigne di Letteratura Italiana.

Per il Cesareo, come per il Cannizzaro e per il Rapisardi e per G. A. Costanzo si aspetta ancora la critica serena e chiaroveggente che assegni loro il posto preciso, cui hanno diritto, nella storia della letteratura moderna.

Bibbliografia
*Articolo apparso in rivista « Battaglia letteraria » di Messina, Gennaio-Febbraio 1967 e in rivista « Palaestra » di Maddaloni (Caserta), Luglio-Settembre 1967.
* Saggi e discorsi di Ignazio Calandrino.

venerdì 18 aprile 2014

Vincenzo Casagrandi 1847/1938 - Nel 1903 fondò la Società di storia patria per la Sicilia orientale.

 CASAGRANDI Vincenzo - Storico e archeologo (Lugo di Ravenna [Ravenna] 1847 - Catania 1938). Appartenente a una famiglia di antiche tradizioni risorgimentali, conseguì a Napoli la laurea in giurisprudenza, ma approfondì, dopo, i prediletti studi storici e letterari. Dopo alcuni anni di insegnamento nei licei di Milano, Genova e Palermo, nel 1888, essendo riuscito vincitore del concorso a cattedra di storia antica, alla fine del secolo scorso fu chiamato a insegnare nella facoltà di lettere dell'università di Catania, e si trasferì definitivamente nella città etnea, dove svolse la parte migliore della sua attività scientifica e del suo impegno civile. Alle monografie di storia greca e romana (sulle orazioni di Tucidide, sulla battaglia di Maratona, su Diocleziano, sui Calpurni minori) seguirono numerosi e importanti saggi sulla Magna Grecia e sulla storia e civiltà della Sicilia orientale (Camarina, Morgantina, Gela, Siracusa, Len-tini). A Catania, in particolare, dedicò importanti studi, tra i quali sono da ricordare quelli sul monastero dei Benedettini, sul famoso organo di Donato del Piano, sul Castello Ursino, sul Siculorum Gymnasium e sulle leggende agatine. Fu appassionato alpinista e lasciò anche alcune monografie sull'Etna. Per questa sua attività amò definirsi « un romagnolo diventato catanese ». Nel 1903 fondò la Società di storia patria per la Sicilia orientale (di cui fu presidente  dal   1924   al  1928),  che ebbe sede nel palazzo universitario, a fianco dell'Accademia gioenia (v.). Avviò la costituzione di una biblioteca specializzata in seno alla predetta Società e della rivista « Archivio storico per la Sicilia orientale » (meglio conosciuto con la sigla ASSO). 






Pubblicò scritti storici di buon pregio: Diocleziano imperatore (1876), Agrippina minore (1878), Storia e cronologia medievale e moderna (1929). Incaricato dal podestà di Catania gen. Antonino Grimaldi di redigere l'inventario dei 621 manoscritti donati dal barone Antonio Ursino Recupero, vi attese dall'aprile 1931 al gennaio 1932. Memorabile, per chiarezza e sintesi, fu sulla Rivista del Comune del marzo-aprile 1929 un articolo in linea coi tempi (politici): La nuova Catania dopo il terremoto del 1693 e la nuovissima dell'epoca fascista. Casagrandi era nipote di Felice Orsini, patriota e rivoluzionario, romagnolo anche lui (1819-1858), decapitato a Parigi con Giuseppe Andrea Pieri. 




Dopo la sua scomparsa (2 febbraio 1938), il Comune di Catania deliberò che le sue spoglie mortali fossero tumulate nel viale degli illustri catanesi, nel cimitero metropolitano.
e. mus.

* Enciclopedia di Catania
* foto mie






sabato 12 aprile 2014

Pochi cenni sul salotto della Contessa Maffei

Tratto da "il salotto della Contessa Maffei" di Raffaello Barbiera 


Capitolo Primo
La famiglia della Contessa


Il salotto di Clara Maffei, a Milano, fu per mezzo secolo il più celebre d'Italia: per cinquantadue anni, fu riunione di patrioti, di letterati, di artisti italiani, e degli stranieri illustri che, visitando la Penisola, passavano  per  la  metropoli lombarda.
ritratto di Clara Maffei


L'influenza, esercitata dal salotto Maffei nel decennio dal 1848 al 1859. nei destini di Lombardia, e possiam dire d'Italia, (influenza grandemente dovuta alle energiche inspirazioni di Camillo Cavour, che vegliava da Torino), non va trascurata da chi studia le origini della terza Italia. La patriottica irradiazione del salotto Maffei si diffuse oltre i limiti di Milano e della Lombardia, si diffuse in altre regioni italiane; e vi portò la parola d'ordine, la parola che ben presto divenne azione. Anche fuori d'Italia, specialmente a Parigi, che pur vanta nella sua storia politica, letteraria e galante, salotti famosissimi, il nome di Clara Maffei era conosciuto e ripetuto con reverente simpatia: «le salon Maffei» veniva citato alle Tuileries come ritrovo d'uomini di gagliarda tempra sul cui senno e sul cui aiuto ........., Camillo Cavour, contava fiducioso. 
Non si tratta, adunque, d'un salotto provinciale, d'un salotto milanese, bensì d'un salotto italiano. Non lo segnalava il lusso esteriore, non il fasto da cui la gentil padrona di casa e i suoi amici di casa abborrivano, bensì l'armonia d'elevati intelletti, di forti caratteri, di cuori ardenti, devoti alla patria, al culto della letteratura,   dell'arte e dell'amicizia.

Poiché è doveroso tenersi lontani da ogni esagerazione, non si creda che Clara Maffei deva essere posta nella storia delle donne notevoli a lato d'una Roland, d'una Récamier, d'una Cristina Belgiojoso; che fosse una mente direttrice, una di quelle regine quasi imperiose di salotti, dove i frequentatori sono, più o meno, sudditi. 
La sua potenza consisteva nell'arte, così ardua, di ricever bene, di riunire nobili elementi; di esser centro di un ordine d'idee civili, liberali, senza farne mostra. Nessuna ostentazione, nessuna posa, nessuno sforzo in lei: sembrava nata per ricevere, per guidare una conversazione eletta, per ispegnere subito abilmente gli attriti, che nel calore delle discussioni possono sorgere. L'arte del ricevere (diceva ) è l'arte del sacrificarsi. E quante volte la buona amica nostra si sacrifica ai gusti degli altri!... Era gentildonna nell'aspetto, nel discorso, nella delicata vivacità, nella scioltezza, nel gesto, nell'anima, e nella finezza con la quale ella poneva ogni nuova persona a lei presentata accanto a un compagno di attitudini, di gusti, di studii.
A' suoi occhi bruni, pensosi, bellissimi, velati spesso da mest'zia, nessuno sfuggiva; perciò fu detto ch'ella aveva... una preferenza per ciascuno. E, se scorgeva qualche amico d'umore non lieto, accorreva a lui premurosa e affettuosa. Allorché temeva che un'amica gemesse sotto il peso d'una dolorosa preoccupazione, correva a casa a trovarla, la confortava con parole soavi che penetrano nelle vie più riposte dell'animo stanco; e quante volte si offriva a soccorrerla, sfidando i pregiudizii e le cattiverie del mondo!
Tutti la chiamavano «contessa» benchè avesse sposato il poeta Andrea Maffei 

cui non aspettava il titolo di conte; ma era nata contessa Carrara-Spinelli, e   nessuna   contessa  d'Europa meritava più di lei quel titolo, tributato più in omaggio alle sue qualità squisite che alla sua  nascita.

Clara Maffei nacque a Bergamo, patria d'un'al-tra dama amica di numerosi poeti e sapienti, la poetessa Paolina Secco Suardo-Grismondi, la buona Lesbia Cidonia del Mascheroni, lodata dal Voltaire.
Dall'atto di battesimo si rileva che Elena Chiara Maria Antonia Carrara-Spinelli, figlia dei conti Giovanni Battista e Ottavia Gàmbara, coniugi, vide la luce il giorno 13 marzo del 1814, in quella città, e precisamente nella «parrocchia di Sant'Agata nel Carmine ».
Il padre di Clara, ottima pasta d'uomo, poeta di classiche eleganze e pedagogista, insegnava lettere in primarie case patrizie di Milano. A' suoi tempi, godeva di bella fama letteraria; oggi, il suo nome è dimenticato. Nessuno si è occupato finora di questo scrittore lombardo che vestiva di elette forme eletti sentimenti; di questo tragèdo, che affollava i teatri più cospicui d'Italia. Ma ahimè! sul teatro presto si muore, e le sue tragedie morirono prima di lui.
Egli discendeva dai Carrara di Bergamo ( l'ultimo dei Carrara di Padova cadde, nel 1435, sotto la scure dei Veneziani) e precisamente dal ramo dei Carrara-Spinelli di Clusone, che avea ottenuto nel 1721 dalla Repubblica Veneta il titolo di conte per ispeciali benemerenze acquistate in Svizzera. A loro spese ( dice il « Libro d'oro dei veri titolati della Serenissima Repubblica), i Carrara-Spinelli avean lavorato per il « buon successo dell'alleanza stabilita con quei Cantoni » e s'erano adoperati « nelle moleste turbolenze della Terraferma nell'occasione de'   passaggi   delle  truppe  di  estere  Corone ».             «
Anche il padre del nostro gentiluomo-poeta (esso pure nato a Clusone, dilettavasi di poesia, ch'era lo sport di  quel  tempo.                            ,
Sparsi in volumi, in volumetti e nei periodici let-terarii d'allora, si trovano almeno trenta lavori del padre di Clara Maffei. Le compagnie tragiche (correva la moda delle tragedie come oggi delle «po-chades » ) gareggiavano nel rappresentare, senza dargli un soldo di compenso, la sua « Isabella di Lara, Gli Arsacidi, Davide, Guido della Torre»; tutte tragedie di stampo alfierano recitate da attori alfierani, tiranni e vittime frementi, che a qualche solitario patriota facevan pensare, con acre amarezza, ad altri tiranni, ad altre vittime... non ideali purtroppo. Nelle odi, egli imitò felicemente ora il Parini, ora il Fantoni. Lasciò una versione dell'epitalamio di Catullo, delle «Georgiche» di Virgiglio, del «Ra-damisto » tragedia del Crébillon. Inneggiò alle nozze di Napoleone I; ed esaltò il generale austriaco Bubna perchè liberò il Piemonte dalle orde giacobine. Sciolse un carme all'«Arco della pace» di Milano, un « Canto ad amore », e un sospiro alla felicità domestica, che il poveretto non godeva troppo con quella moglie sua, irrequieta, ardente. Ei cantava:
Non è sempre di lagrime
Misero albergo la terrena valle,
Se cara donna al roseo
Labbro, all'ondante su le nivee spalle
Chioma ed al guardo che beando va,

Aggiunge ancor la gemina
Leggiadra prole, che s'abbella e cresce, 
Da cui se con ingenuo 
Sorriso pueril baci ti mesce, 
La celeste tu suggi voluttè.

Le sue prose educative contengono consigli preziosi, frutto di esperienza lunga, e forse amara... Apparve nel 1841 l'ultima opera sua, specchio dell'animo rivolto a religiosi pensieri: ò un «Diario ascetico », lutto meditazioni, preci, salmi penitenziali.
Al pari di tutti o quasi tutti i patrizi lombardo-veneti del tempo, il padre di Clara si fece riconfermare dal governo austriaco il titolo di conte, che gli apriva molte porte: eppure non isfoggiava le borie d'altri nobili flagellati dal Parini e dai Porta. Era un patrizio del tipo bonario. Aveva occhi piccoli tagliati a mandorla, capelli ricciuti, naso lungo, mento grosso mezzo sepolto sotto le volute del cravattone di moda, alla Goethe. Bonario il suo aspetto, ma raffinato il suo sentire. Insegnò alla figlia Clara come una gentildonna deve ricevere gli amici: è una pagina, che la figlia, col suo sottile discernimento, deve avere meditata; certo ella ne seguì i consìgli; e devono seguirli tutte le signore chi vogliono  ricever  bene:

«La libertà della buona conversazione non si gode dalle signore che in casa loro: se non che, per fruire di così schietto passatempo, bisogna por giù quel sostenuto e quel contegnoso che a favellare non  invita, e mette quasi in soggezione  colui che avrebbe voglia di conversare. Se la tua conversazione è pel  consorzio dell'amicizia e del merito, puoi sbandire da essa tutti quei riguardi che chiamansi pregiudizii,  i quali inceppano un conversare allegro e disinvolto.  Talora le gentildonne rugose, che hanno lo spirito di vent'anni, sono meglio vedute e frequentate che le giovani fresche ed eleganti ».

L'ottimo  gentiluomo era nato a insegnare.  A Milano,  guidò l'educazione del primogenito della duchessa Camilla Litta Visconti-Arese, nata contessa Lomellini di Tabarca, dama di palazzo dell'imperatrice d'Austria. Da ciò ebbe origine l'amicizia che la contessa Clara nutrì fino all'ultimo suo giorno pei Litta.   Ciambellani e principi dell'impero   Austriaco,  i Litta  erano amici del conte Carrara-Spinelli, che non inclinava punto a lodare i moti democratici, peggio  poi i moti demagogici a' quali avea dovuto  assistere.  Così non lodò il duca Pompeo Litta,   quando   (prima della contessa Lomellini)  volle impalmare, all'ombra dell'albero della libertà, un'americana; finita la rivoluzione e abbattuto l'albero,  il  duca si scordò  della figlia d'oltremare, che tornò in America;  ma gliene erano
rimasti due figli.
La  madre di Clara, contessa Ottavia Gàmbara, discendeva da  patrizii  ancor più rivoluzionarii  del duca Pompeo Litta. Il genitore della contessa Ottavia si segnalò a Brescia per le sue scalmane a 
favore di quel « delirium tremens » che fu la Repubblica Cisalpina.  Racconta un altro Litta, lo storico Pompeo, negli alberi genealogici delle «Famiglie celebri italiane », che quel nobiluomo, nel mutamento civile del 1797  che fu de' primi che distruggessero lo stemma patrizio. Lo stemma dei Gàmbara consisteva in  uno scudo con un bel gambero rosso in mezzo.  Questo gambero, simbolo di regresso, e l'aquila nera a due teste coronate, simbolo di prepotenza,  che sormontava lo scudo garbavano così poco al conte, che s'affrettò a deporre, nelle mani plebee del Governo provvisorio, stemma e diritti feudali. Ma quanti reazionarii del più bel nero diventavano repubblicani del più bel vermiglio, attraverso il fuoco delle meteoriche rivoluzioni! É l'eterna storia del gambero: casca bruno nella pentola e n'esce rosso.
Questo conte demagogo, non ostante le sue smanie sovvertitrici, era un cuor d'oro. Illibati i suoi costumi, inesausta la sua carità verso i poveri. Appassionato pe' fiori, un giorno, mondando una rosa, si punse. Non curò la puntura, ammalò alla mano che non volle gli fosse amputata, e ne morì nel 1805 a quarantun anno, lasciando due figlie: Teresa e Ottavia, la madre appunto della contessa Clara  Maffei.
Teresa, maritata a un elegante scudiero d'Eugenio Beauharnais, visse ritirata dal mondo, modesta, schietta, benefica; fiore ch'esalava (avrebbe detto un poeta romantico) il suo profumo nell'ombra. Morì demente in seguito a un cattivo parto, nel 1834. Ottavia, che sposò il conte Giambattista Carrara-Spinelli raccontava alla figlia Clara, bambina, le virtù di questa povera zia Teresa; ma altre cose le raccontava la madre:
— Tu ti chiami Chiarina in memoria della poetessa  Chiara Trinali,  mia madre.
Questa Trinali era una facile verseggiatrice della scuola anacreontica del Vittorelli, il sospiroso poetino,  cantor d'Irene, cantor della luna:

Guarda che bianca  Luna? 
Guarda che notte azzurra 
Un'aura non sussurra, 
Non tremola uno stel

La virtuosa poetessa Veronica Gàmbara, splendore delle donne italiche nel Cinquecento, apparteneva anch'ella alla casa della madre di Clara Maffei: e nasceva in Pratalboino, feudo della famiglia Gàmbara sul bresciano. Vi appartenevano anche una beata, Gàmbara Costa, un Lorenzo Gàmbara, poeta latino, due cardinali, e un terribile feudatario, un bandito,  morto  nel  1804.
Il conte Alemanno Gàmbara, del castello di Pratalboino s'era formato un nido temuto, co' suoi bravi, appartenenti a quella razza che, come riferisce lo Stendhal nel «Rome Naples et Florence», al principio di questo secolo nei dintorni di Brescia era tutt'altro che sterminata dalla gendarmeria di Napoleone lanciata a darle la caccia. Il volgo parlava di trabochetti spaventosi in quel maniero, del quale rimasero solo poche rovine, ludibrio dei venti. Era vero che in quel castello si commettevano orribili violenze. Una volta, alcuni birri veneziani entrano nelle terre del conte per isnidarne un malvivente. Il conte li lascia venire e li invita ad allegro banchetto; ma, al domani, un pesante carro coperto di cavoli entra in Brescia, e sotto que' cavoli stanno ammucchiate le salme dei gendarmi trucidati. Eppure quest'uomo sanguinario usava modi cortesi, soccorreva i poverelli, e pronto li difendeva dall'altrui prepotenza. Sdegnando di sposare donne ricche, s'impalmò con una marchesa povera dei Carbonara di Genova. Costei s'incapricciò poi d'un conte Maniscalchi di Verona e condusse vita licenziosa colmando d'amarezza il cuore del marito che l'amava. Bandito dalla Repubblica Veneta, Alemanno Gàmbara (il quale poteva servir di modello ai « Masnadieri » di Federico Schiller ) ottenne alla fine perdono e passò da Zara a Chioggia, quindi rivide la patria, e morì vecchio leone desolato nel castello di Pratalboino, testimone delle sue baldanze e de' suoi delitti.
I Gàmbara di Brescia diedero un altro ardente ribello alla Repubblica Veneta, quel conte Francesco (uno dei tre figliuoli d'Alemanno) il quale al primo turbine della licenza giacobina, alla testa di un'orda di bergamaschi e di bresciani, irruppe a Salò, vi rovesciò il Leone di San Marco, fece prigione il rappresentante Veneto, Almorò Condul-mer, disarmò gli Schiavoni, e aperse le carceri. Egli rideva nel veder «tremare la sedia della vecchia verginella» (sue parole), la già superba Venezia. Ma Salò e i dintorni insorsero contro di lui; ed egli cadde prigioniero. La Serenissima (in mezzo a quei torbidi aveva il coraggio di chiamarsi ancora così!) si preparava a tagliargli la testa; ma Bo-naparte, «quell'ommett del cappellinn», come lo chiamava Carlo Porta, giunse in tempo a salvarlo.

Il cittadino Francesco Gàmbara fu uno de' cinque che recarono in pompa magna a Napoleone la nomina a presidente della Repubblica Cisalpina. Più tardi, si consacrò tutto alla letteratura: scrisse sui fatti contemporanei, compose un poema sulla lega di Cambrai contro Venezia, sfucinò una folla di tragedie e di commedie, fra cui... «commedie ad uso degli stabilimenti di educazione ! » Era scritto lassù che questo figlio della rivoluzione dovesse finire in mezzo a una rivoluzione: morì a Brescia nel 1848.
A ben più alta scuola di libertà fu educata, per fortuna, Clara Carrara-Spinelli; ben altri ideali alimentò in quell'anima di bambina la madre. Pure qualche goccia di quel sangue ribelle scorreva nelle sue vene, e, a quando a quando, nella dolcezza consueta di lei, quel sangue ribolliva, invermigliando il piccolo pallido vólto di fata sorridente.
Nel 1837, quando il Balzac (allora nell'apogeo della gloria) venne a visitare la contessa Clara, questa gli suggerì il titolo d'un racconto, ch'era il cognome della venerata marde di lei, Gàmbara: il racconto « Gàmbara del Balzac uscì alla luce in quello  stesso  anno.


CAPITOLO II

La contessa Clara in una lettera a Giulio Carcano, il gentil novelliere degli umili, confessava che l'infanzia era stata la «sola epoca non infelicissima della  sua vita »...
Fu affidata al Collegio degli Angeli di Verona dalla madre, che la raccomandava con molte lagrime a una dama veronese, la contessa Mosconi, e alla gentil figliuola di costei, l'adorabile Teresa, la quale studiava pure in quel collegio e contava sei anni di più della nuova sua piccola amica.
Le due fanciulle contrassero un'amicizia tenerissima che durò tutta la vita. Teresa Mosconi, sposata poi al conte Spiridione Papadopoli di Venezia, fu la prima, la più intima e la più affezionata amica che la Maffei abbia avuto. In collegio, Teresa accennava alla compagna le conversazioni che la propria madre teneva col Pindemonte, con Giulio Perticari, col Monti, con altri scrittori di grido: e tali racconti accendevano in Clara il desiderio di conoscere anch'ella un giorno i poeti più celebri d'Italia. .... - 

CAPITOLO XX - Nuovo periodo del salotto - una bizzarria di Iginio Ugo Tarchetti

Intanto altri visitatori entravano in quelle sale; e il primissimo posto spetta a Graziadio Ascoli, il filologo di genio, creatore d'una scienza, di fama mondiale. Nato a Gorizia, egli attese colà, giovane assiduo, ai traffici paterni in un fiorente opificio, ma ad altre sfere il genio istintivo, irresistibile, delle lingue lo portava. Senza diplomi accademici (cioè senza allori di carta) egli, al pari di Nicolò Tommaseo, di Cesare Cantù, di Carlo Tenca, di Gabriele Rosa, potea vantarsi auto-didattico; e a quali vette volò il suo pensiero! Il suo aspetto è quello d'un biblico profeta, dall'alta fronte di linee bellissime.
Un aspetto di re merovingio avea, invece, un chiomato romanziere, al quale Clara Maffei inviava spesso, in segno d'ammirazione, quel saluto mattutino, de' fiori. Egli, al pari del Tommaseo, sorgeva a difensore della donna: quello che oggi si chiamerebbe un «féministe». Era il romantico Iginio Ugo Tarchetti,

d'Alessandria, nato nel '41; il quale proclamava al pari d'un altro mesto ingegno, Carlo Bini: «La virtù del sacrificio e dell'amore non ha limiti nel cuore della donna», non pensando quante donne sono la rovina d'uomini onesti, di oneste famiglie; ma quante altre sventurate, (è vero) sono spinte al male da noi!... Il Tarchetti era tempra d'alto scrittore; eppure dovette sacrificarsi a essere scrivano presso un'amministrazione militare. Lasciate quelle pastoie, si librò alle proprie geniali inclinazioni, lottando ancora: col bisogno; corona di spine, più sicura della corona di lauro. L'anima sua era byroniana; il dubbio la tormentava; ma aspirava a credere: «Avvi una sventura (egli diceva) che è superiore a tutte le altre, che sfugge a qualunque manifestazione di parole, che si eleva al di sopra della stessa disperazione; fredda, severa, impassibile, quasi feroce nella sua calma; ed è il dubbio, il dubbio tremendo di sé stesso. Quando si ha sacrificato tutta l'esistenza ad un solo principio : quando ci siamo composti con una sequela interminabile di dolori questo fragile edificio, ch'è il soddisfacimento e la stima di noi medesimi, allora viene spesso a collocarsi fra noi e le nostre opere una terribile convinzione: la convinzione della loro vanità, dell'inutilità e del ridicolo dei nostri sforzi! Allora vediamo come la coscienza si faccia giuoco di noi, e tutto ci si spezzi fra le mani, come i balocchi dei fanciulli ». In questa confessione, v'è tutto il Tarchetti; un ammalato morale al pari di tanti del tempo suo, una specie di Manfredo. Il suo racconto « L'innamorato della montagna » riflette lo spirito suo, anelante anch'esso alle altezze. L'espressione del suo giovane volto avea qualche cosa d'inspirato e d'augusto agli occhi di fanciulle bellissime, e bruttissime, che s'innamoravano di lui. Qualcuna, orrenda, lo perseguitò a lungo colle furie d'una irruente passione morbosa. Il Tarchetti ebbe un giorno un'idea: per fuggirla, si recò a Parma; e fece incollare sulle cantonate della città un avviso col quale egli si proponeva alle famiglie qual professore di conversazione inglese. Come mai era sorta quell'idea, a lui che, allora, non conosceva neppur una sillaba d'inglese?... Trovò una cliente, una sola: una signora attempata, che portava un cognome inglese, e sapeva benissimo parlare, dopo tanti anni, la lingua de' suoi poeti favoriti. Quella signora mandò un biglietto d'invito al Tarchetti, che si presento tosto a lei. Ella era.., Ildegarda Manin, sorella di Daniele, moglie all'inglese Meryweather, l'eroina infelice dell'«Edmenè-garda del Prati, che abbiamo trovata, a proposito di questo grande lirico, nell'ottavo capitolo. Non lieve fu lo stupore della signora nell'apprendero la confessione 
del Tarchetti come avesse pubblicato quell'avviso sulle cantonate parmensi solo... .per ispirito   «bohème»   d'avventure!
— Non sapete l'inglese?... ella gli disse. Ebbene, ve lo insegnerò io. — E glielo insegnò. Così da maestro da burla Iginio Ugo Tarchetti divenne uno scolaro sul serio, e imparò bene quella lingua, da colei che era rimasta presa da materna simpatia per il pallido ben chiomato giovane sognante, senza tetto e senza meta.
Clara Maiffei, indulgente, perdonò al Tarchetti quanto egli scrisse contro la vita militare, nella, quale ella vantava a buon diritti prodi amici. Ella avrebbe voluto che quel giovane non fantasticasse troppo, ma ne ammirava i pregi. Quando, nel 25 marzo 1889, egli morì di tifo, non ancora trentenne, la contessa seguì la bara, esprimendo a tutti il proprio acerbo dolore nel vedere uccise con lui tante speranze. 

Al domani de' funerali, un altro romanziere, l'intimo amico del Tarchetti, Salvatore Farina, si recò commosso a ringraziarla del tributo reso al povero giovane; ma ella non voleva ringraziamenti; e, accogliendo l'autor d'« Amore bendato » mentre stava  abbigliandosi davanti  allo specchio, gli  disse:
— Venite pure avanti, Farina; così vedrete che non mi tingo.

* ed. Lorenzo Rinfreschi di A. Piacenza 1914