Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

mercoledì 18 marzo 2015

Federico De Roberto 1861/1927 "Il culto d’un popolo verso i grandi suoi morti ..."



"Il culto d’un popolo verso i grandi suoi morti è senza dubbio indizio della sua civiltà; ma, quando si pensi che molti di quei magnanimi a cui s’inalzano monumenti furono perseguitati e calunniati e odiati in tutte le maniere mentre durarono in vita, vien quasi voglia di conchiudere che molte che paiono manifestazioni di animi generosi non sono altro che misere ipocrisie, e gran parte di ciò che diciamo civiltà non è che industria d’inganni, onde un popolo si studia apparire quel che non è, non solo al giudizio degli altri ma di sè stesso.
Sarebbe perciò desiderabile, a decoro di una gente e ad onor vero dei grandi trapassati, che non ci si affaccendasse troppo a commemorare, a statuare, a monumentare coloro che furono grandi, e si guardasse invece di conformare i pensieri e le azioni nostre a quelle dei magnanimi, dico di coloro che tali furono veramente, non di tanti che prima e dopo morte usurparono tal nome, e fama e gloria ebbero di grandi non per fatti propri, ma per capriccio di fortuna che li pose in alto, e per adulazione di servi, che più adorano la fortuna che non rispettino la virtù.
Questa sarebbe da vero opera di nazione civile; ma i popoli, quantunque si dicano civili, seguiteranno probabilmente a far pompa di morti per coprire le miserie dei vivi: chè, inalzar marmi e bronzi costa soltanto danari, quando l’ingegnarsi di imitare i grandi costa tali sagrifici che, tranne pochissimi, nessuno è capace, non che di sostenere, d’immaginare". Mario Rapisardi

Convinto d'essere uno "scrittore fallito" ("Nulla resterà di me! Nulla"), De Roberto trascorrerà gli ultimi anni, specie dopo la scomparsa del Verga, preda del male oscuro dei nervi, di una desolata sconsolatezza.
[Catania,] Domenica, 6 [luglio 1902]
Ti scrissi ieri, Nuccia mia, ti dissi ieri la ragione del mio lungo silenzio, grave a te, grave a me altrettanto, e forse più, perché volevo e non potevo far molto per romperlo. Qualche cosa io vorrei pur fare per oppormi a questa lenta mina del mio spirito, della mia volontà; ma non ci riesco. Tutto mi pare inutile e vano. Non credo in niente, non spero in niente. Non ho che fare della mia vita, del mio pensiero. Sono un uomo che annega, sono un uomo perduto. Come descriverti ciò che accade in me, la confusione della mente, lo svanire della memoria, lo sfasciarsi dell'energia, le improvvise, irragionevoli, impeccabili irritazioni, le idee pazzesche che mi traversano il cervello, i silenzi che mi cuciono le labbra, le ansie, i furori impotenti, gli abbattimenti mortali? Spaventevole è che io abbia coscienza di queste cose, che io misuri a grado a grado questa rovina. Perdonami, compatisci, non mi rimproverare. Che posso fare? Io non ho saputo mai distrarmi al modo della folla: ora mi è tanto più impossibile. Del lavoro sono incapace. Le letture brevi non servono a niente; le lunghe mi confondono la testa. Questa città, questa gente, questi costumi mi sono odiosi ed esecrabili. Tu sei troppo lontana ed inarrivabile. Non posso far altro che piangere, come ho pianto, di me stesso, quasi fossi morto. Non posso far altro che guardare nel vuoto, immobile, con le mani in mano, come un fachiro come un mentecatto. Nuccia, fammi parlar d'altro; perché ti farei e mi farei troppa pena.   Che tu venga in Sicilia non lo credo: sarà una delle solite fantasie di quel tale. Ma se dovessi realmente compiere il viaggio, non venire a Catania con una compagnia odiosa e detestata. No, così non ti voglio vedere, qui, presso mia Madre. Avvertimi, piuttosto, e verrò io a trovarti, cioè a trovarvi!: Ma no: vedrai che non verrai: già tu stessa mi dici che la cosa è poco sperabile. E poi, è forse meglio non vederci niente che vederci così. - Sai quanto tempo ho impiegato, Nuccia mia, a scrivere questa paginetta? Un'ora e mezza; ho qui dinanzi l'orologio che misura lo scorrere del tempo omicida. - Non dire, Nuccia mia, che temi d'avermi dispiaciuto: lo vedi: tu sei la sola che riesci a trarmi da questa mia agonia: ne esco per troppo poco, è vero; non riesco ad altro che a fartene vedere l'orrore, è vero; ci ritorno subito, è anche vero; ma se non fossi tu, a chi aprirei il mio cuore, a chi mi confiderei? [Federico]
"La storia di un amore segreto dello scrittore è interamente conservato in un epistolario rimasto inedito per quasi un secolo, fra il De Roberto trentaseienne e la trentunenne Ernesta Valle, gentildonna residente a Milano, assidua habitué di elitari salotti (da Vittoria Cima a donna Virginia dei Borromeo, alla stessa Ernesta), moglie dell’avvocato siciliano, Guido Ribera. Fra sotterfugi, stratagemmi, astuzie, la corrispondenza si snoda dal 1897, periodo in cui iniziò la sua collaborazione al Corriere della Sera, fino al 1916: un carteggio che permette di seguire passo passo le tappe dell’itinerario scrittorio di De Roberto, negli anni più tormentati della stagione milanese, penetrando la sua officina nascosta, nella camera oscura dell’ispirazione, svelando progetti, fervori, traguardi, e soprattutto ansie, inquietudini, sconfitte". 

"Non è Nuccia che si prende questi chicchi; è Rico suo che glie li mette con la bocca nella bocca".



  • "L'artista si sente solo. Singolare ed aristocratico, vive a disagio in mezzo alla società democratica ed uniforme. Si sente da essa odiato come inutile, come superbo; e la disprezza. Pertanto le opere sue non si rivolgono ai più, ma ai pochi iniziati". F. De Roberto

Altro : 

Bibliografia di Federico De Roberto (1879/1955)













martedì 24 febbraio 2015

Mario Rapisardi - IL PROMÈTEO ETNEO


IL PROMÈTEO ETNEO

Una simpatica biografia del Rapisardi, di Giuseppe Patanè
ed. 1946 

qui PDF








".......L'aristocrazia dei fanatici del Rapisardi aveva in Catania il suo capo che era un calzolaio di sovrani e di nobili : don Alfio Scandurra, la cui bottega dalla tabella adorna di stemmi e di medaglie, guardava il marciapiede di lava sulla via Etna e il grigio palazzo della prefettura. Nella bottega di Scandurra si riunivano quasi ogni giorno i discepoli del poeta e i più autorevoli suoi ammiratori. Fra questi ultimi erano i deputati di parte democratica e alcuni professori e avvocati di vaglia, seguaci della politica del popolarissimo onorevole Giuseppe De Felice Giuffrida, il tribuno che adorava Catania ed era adorato dal popolo catanese per la sua povertà, la grandiosità dei suoi programmi e la fascinatrice ampollosità della sua eloquenza (« Catania è alla testa della civiltà e l'Europa ci guarda attonita! »).
Era il tempo in cui il poeta si era isolato quasi definitivamente dal mondo. Aveva egli, con le Religiose, l'Atlantide e i Poemetti, chiuso il ciclo dei suoi poemi.

...Cadrà nei gorghi
Del tempo il nome mio, su cui maligne
Tele d'alto silenzio il volgo ordisce...
......."

giovedì 12 febbraio 2015

Lauro Rossi , compositore drammatico. 1812/1885


Al Maestro L. Rossi - l'allievo F. P. Frontini

Rossi Lauro , compositore drammatico, nato a Macerata il 20 febbraio 1812; morto a Cremona nella notte del 5 al 6 maggio 1885.



Entrato giovanissimo nel R. Collegio di S. Sebastiano in Napoli, studiò la musica coi maestri: Giovanni Furno, Nicolò Zingarelli e Girolamo Crescentini, e ne uscì musicista nel 1829 -
Inizialmente scrisse alcune messe , cantate ed altre composizioni vocali, poi esordì con l'opera buffa: Le Contesse villane (Napoli, teatro la Fenice , primavera 1829). 
A quel primo tentative, felicemente riuscito, seguirono poi gli altri 27 spartiti che più sotto sono enumerati. -  Viaggiò per vario tempo per mettere in scena i suoi spartiti ed occupando vari posti di maestro concertatore; dal 1835 al 1844 viaggio insieme ad una compagnia d'opera italiana il Messico. - Nel 1850 occupò il posto di direttore del R. Conservatorio di Milano; nel 1871 succedette al Mercadante nella direzione di quello di Napoli; carica che tenne, sino al 1878. - Nel 1882 si ritirò a vivere a Cremona. 
Fu socio onorario di diverse Accademie d' Italia, ricevette vari Ordini Cavallereschi. - Compositore approfondito nelle severe regole del contrappunto e dotato di una felice vena melodica, riuscì specialmente nel genere buffo , nel quale Felice Romani soleva dire : ch'egli era il vero successore di Donizetti.



- Gli altri spartiti scritti, sono : La Villana Contessa (Napoli , teatro Nuovo, carnevale 1830; rifatto dal suo primo lavoro) ; Costanza ed Oringaldo (ivi, teatro S. Carlo, 30 maggio 1830); La Casa in vendita o Il Casino di campagna (ivi, teatro Nuovo, estate 1831); Lo Sposo al lotto (ivi, ivi, estate 1831);  Baldovino tiranno di Spoleto (Roma, 1832); // Maestro di scuola (ivi, 1832); //Disertore svizzero (ivi, teatro Valle, 9 settembre 1832); Le Fucine di Bergen (ivi, ivi, 1833); La Casa disabitata o I Falsi monetari , teatro alia Scala, 16 agosto 1834), riprodotta su molti teatri;Amelia (Napoli, teatro S. Carlo, 31 dicembre 1834); Leocadia (Milano, teatro della Canobbiana , 30 aprile 1835); Giovanna Shore (Messico, 1836); // Borgomastro di Schiedam (Milano, teatro Re, primo giugno 1844); Dottor Bobolo o La Fiera (Napoli, teatro Nuovo, 2 marzo 1845);Cellini a Parigi (Torino, teatro D'Angennes, 2 giugno 1845); Azema di Granata (Milano, teatro alla Scala, 21 marzo 1846); La Figlia di Figaro (Vienna, teatro di Porta Carinzia, 17 aprile 1846); Bianca Contarini (Milano, teatro alla Scala, 24 febbraio 1847); // Domino nero (ivi, teatro della Canobbiana,.primo settembre 1849; uno dei suoi migliori lavori); Le Sabine (ivi, teatro alia Scala, 21 febbraio 1852) ; L'Alchimista (Napoli, teatro del Fondo, 23 agosto 1853); La Sirena(Milano, teatro della Canobbiana, 11 ottobre 1855); Lo Zigaro rivale (Torino, teatro Balbo, giugno 1867); // Maestro e la Canlante (ivi, teatro Nota, 1867); Gli Artisti alla fiera (ivi, teatro Carignano , 7 novembre 1868) ; La Contessa di Mons (ivi, teatro Regio, 31 gennaio 1874) eCleopatra (ivi, ivi, 5 marzo 1876). - 



Scrisse inoltre : messe, cantate, l'oratorio: 

Saul (Roma, Ospizio S. Michele, 1833); 
un'elegia In morte di Bellini (1835); 
A Giovanni Ricordi, serenata a voci sole (Blevio , 6 agosto 1850); 
l'elegia A Mercadante (Napoli, 1876); 
pezzi istrumentali; musica vocale da camera; 8 Vocalizzi e 12 Esercizi per canto. - Come teorico, pubblicò : Guida ad un corso di armonia pratica orale per gli allievi del Conservatorio di Milano (Milano, Ricordi).
*Schmidl - dizionario universale dei musicisti 1887








Lo «Strambottolo per la Posterità», un caso... strambo!

Composizione di Lauro Rossi

osserva lo stesso L.R. in calce allo spartito
"O io mi sbaglio, oppure è così che si fabbricala musica dell'avvenire. - Se sia facile o difficile costruire questa specie di musica non oserei dirlo, che bisognerebbe esperimentarsi in lunghi ed importanti lavori: dico però che per avere qualche cosa di meno comune fa d'uopo scostarsi dal passato. - Le leggi sull'Armonia, sul ritmo, sull'unità le hanno fatte gli uomini: ora cosa vi ha di strano se altri uomini svincolandosi dalle antiche catene cercano aprirsi una nuova via di progresso?... E se questa nuova via fosse guidata con assennato criterio perchè combatterla per deprimerla?... Ma la Melodia, e particolarmente la Melodia per le voci?... qui sta il busillis, perchè sino a che trattasi di accozzare note, alle quali sono estranee le voci, il campo dell'arte non è scarso di valenti campioni; ma appena nella lizza vi si immischi con qualche pretesa l'istromento VOCE UMANA il numero degli eletti si assottiglia assai. Sono dunque d'avviso che le innovazioni, di cui in musica si va attualmente alla pesca, siano una neccessità indispensabile; ma affinchè alla divina arte de' suoni venga conservato il miglior suo pregio, cioè il cuore, l'affetto, la commozione, fa d'uopo che la parte melodica cantante sia il primo pensiero del compositore. Ove tal pregio predomini, anche le più arrischiate astruserie possono riuscire soddisfacenti e piacevoli".

19 Giugno 1870 Lauro Rossi
Los monederos falsos : zarzuela en cuatro actos y en verso - 
Rossi, Lauro, 1812-1885








domenica 25 gennaio 2015

Gino Raya - l'ira nemica continua a vivere oltre il rogo.



del prof. Pasquale LicciardelloIl 2 dic. 1987 Gino Raya lasciava questo discutibile mondo: un infarto perentorio ne aveva stroncato la pur solida fibra. Particolare non trascurabile, l’evento funesto capitava alla fermata di un bus, sulla strada, nel buio d’una gelida sera della Roma congesta di anonima folla, l’aria affocata negli odiatissimi veleni del traffico. La morte confermava, così, quella solitudine che aveva segnato la sua vita di studioso. Supplemento di conferma, Raya tornava, solo (a ottantun anni e mezzo), da una conferenza culturale.
“Oltre il rogo non vive ira nemica”, si diceva una volta; e Benedetto Croce citava la sentenza a suggello della sua teoria della Storia come pensiero e come azione. La Storia in fieri, in quanto azione, “giudica e manda”, combatte e condanna; ma come pensiero, cioè storiografia, non giudica, giustifica. Vale a dire, spiega (dispiegando ragioni). La dottrina si applica anche ai protagonisti della cultura? Certamente. Ma la pratica è altra cosa: quale, per esempio, si presenta nel nostro caso. No, a Gino Raya la massima non è stata applicata. Nei vent’anni dalla morte, nessun segno di corale attenzione è venuto dal mondo culturale”: né da quello accademico né dal giornalistico. Solo pochi amici ne hanno risvegliata la memoria in occasione del decennale: ma privatamente, lontano dal moltiplicatore mediatico. Il mondo ha continuato a ignorarlo. Gino Raya rimane un autore vitando, un maudit: l’“ira nemica” continua a vivere oltre il rogo. Espressione (tra l’altro) da prendersi quasi alla lettera, essendo stato, il corpo, cremato, per sua coerente volontà testamentaria di materialista convinto. Quasi un estremo gesto di rivolta contro il plurimo “disordine” etico-culturale, che quel divergente genetico aveva largamente contestato con un’indipendenza di giudizio gelosamente difesa perfino dentro la giovanile militanza crociana. Nonché usata, spesso e volentieri, con asprezza sferzante, specialmente contro i palloni gonfiati delle diverse categorie: letterati, scrittori, critici, pensatori, politici.

Varia e copiosa, perciò, la schiera dei nemici presi di mira dalla frusta rayana. Che talvolta è sottilmente ironica e tagliente non meno della barettiana, altre volte alquanto umorale. Non c’è dubbio: faceva ben poco per farsi “accettare”. Diceva, il fiero Pertini, che l’uomo di carattere ha sempre un brutto carattere: è proprio il caso del nostro amico e compianto maestro. Qui, brutto significa, essenzialmente, fiero, coerente, poco incline alla tolleranza pelosa (o magari soltanto pietosa). E basta, questo stigma caratteriale, a legittimare l’ottusa ostilità dei suoi persecutori? Ottusa, perché largamente preconcetta e personalistica; e perché consumata, in prevalenza, con la più miserabile delle armi: la “congiura del silenzio”. Anche ipocrita, quell’ostracismo, visto che degli studi verghiani del Nostro si servono tutti: e questo è il solo caso che costringa gli utilizzatori a citarne il nome. Non mancano, però, esempi di vero e proprio furto: ci si appropria di suoi giudizi critici su questo o quell’autore o evento culturale senza citarne la fonte. Un furto che il collerico saccheggiato in qualche caso denunciò con l’accusa di plagio.

Lo si è anche accusato di atteggiarsi a martire, e forse c’è stata una certa enfatizzazione del ruolo: ma questo, il poco gradevole ruolo, gli era stato imposto, e anno dopo anno confermato, vieppiù intossicandolo. Un circolo vizioso: più Raya approfondiva la sua divergenza (di critico e pensatore) e più crescevano ripulse e silenzi. Ma anche: più montavano questi chocs en retour più si inaspriva l’animo ulcerato dello scomunicato vitando. Il movimento ricalca, in piccolo, il feed back positivo della cibernetica: l’effetto retro-agisce sulla causa intensificandone la forza, e questo incremento causale rifluisce sugli effetti amplificandoli. E’ quanto accade nelle valanghe o negli incendi. Se si pensa che la chemio-dinamica dei fenomeni biologici si basa sul prevalere del feed back negativo (l’effetto retro-agisce sulla causa depotenziandola) a salvaguardia degli equilibri vitali, si può capire come e quanto la salute psico-fisica di un perseguitato di acuta sensibilità debba soffrire. Magari fino a certe esplosioni di narcisismo reattivo poco congruenti con la sobrietà del carattere (allergico all’enfasi e ai facili elogi). O fino ai saltuari dubbi insensati sugli amici più veri e devoti, a certi sprechi di spazio della sua rivista per inutili foto-riproduzioni di lettere verghiane. Legati, questi sprechi, a un sintomo ancora più allarmante: il masochismo da ritorsione, che lo induceva a rifiutare per la sua rivista testi validissimi di qualche devoto allergico a sue richieste di facili libelli d’ispirazione famista,

Ma con tutti i suoi limiti caratteriali egli mi appare ancora un Gulliver fra lillipuziani nel confronto con la media attuale e tardo-storica (l’ultimo mezzo secolo o più) dei baroni in cattedra e degli operatori culturali in genere. E sia detto non per negare valori eminenti fra quei “baroni” e fra questi “operatori”, ma per relegarne l’eminenza dentro i perimetri dell’acquisito e del consolidato. Come dire: quei valentuomini sono bensì gremiti di erudizione e capaci di spostare qualche tassello e virgola del contesto metodologico ereditato (crocianesimo, marxismo, strutturalismo, decostruzionismo,…) e nell’area critica di questo o quell’argomento; ma dove cercare, in quel folto di prevalenti carrieristi schierati, l’idea nuova, la proposta che ti fa saltare dalla sedia o cattedra che sia? Dove, il dissenso radicale e ben motivato dai “valori” correnti, nel nome di una meno pigra e più controllabile scienza del mondo umano che quei valori ridefinisca e ridimensioni? Anni fa un “consulto” di cattedratici del nostro ateneo si chiedeva quale novità reale, e insomma rivoluzionaria, si fosse verificata in quella cittadella del sapere (anzi Sapere): guardandosi in faccia quei valentuomini furono costretti a riconoscere che la novità stava tutta e soltanto nelle scandalose teorie rayane: famismo e conseguente critica fisiologica. E qui un marziano, immune dai meriti terrestri, si figurerebbe che da quel riconoscimento il destino del Raya abbia galoppato in trionfale corsa di contrito risarcimento. Ma noi siamo sul pianeta Terra.
*
Per non millantare un copyright che non ci compete, riveliamo subito che quei marziani spettano alla scrittrice Pina Ballario, la quale, quaranta e più anni fa, scrisse questa scherzosa iperbole: “Gino Raya sarà, come Vico, apprezzato fra cento anni, dopo la epurazione fatta dai Marziani sulla terra. Non so perché si temono gli omini verdi dei dischi volanti. Io e gli amici miei sparsi un po’ in ogni parte del mondo li aspettiamo. E renderanno giustizia a Gino Raya” (“Gazzetta di Novara”, 23. 02, 1963)
*
Si potrebbe persino chiedere dove stia l’eccellenza espressiva degli eminenti, baroni di cattedra e big della libera prosa, inventiva o giornalistica, tanto rari sono i veri campioni di stile: conosciamo fior di “emeriti” che “non sanno scrivere”. Vale a dire che sono capaci al più di una prosetta ammodino, ampollosa o asfittica, dove la correttezza sintattica resta confinata all’aspetto grammaticale, senza sfiorare quella più vera sintassi che è “monoblocco” di pensiero-passione profondo e fulgido stile di stretta fitness. Una sintesi che vuole estro, arguzia, ritmo sequenziale, originalità di immagini e agilità comunicativa (fuggendo come la peste le lungaggini le cacofonie e l’ingorgo ipotattico). Ebbene, questo binomio raro, sostanza ed eleganza, Raya lo realizzava in ogni suo scritto (e sia pure con l’inevitabile “più o meno” di ogni prova umana nel tempo); gli altri, quando sono al top, si fermano a rapsodici decori e calchi “brillanti”. Il prosatore Raya (sia critico che narratore) fa pensare, tra l’altro, alla “regola” di Ivo Andric: “una parola superflua non dovrebbe mai essere pronunciata”, e proprio perché “nulla più della lingua induce allo spreco e al peccato”. L’autore più lontano da siffatti sprechi e “peccati”: ecco il prosatore Raya. Una qualità che gli veniva riconosciuta dalle poche celebrità oneste e non prevenute. Parlando della rivista Narrativa (fondata dal Raya nel 1956, trasformata, nel 1966, in Biologia culturale), Maria Bellonci scriveva: “Pubblica racconti e scritti critici dove non una parola sia superflua o convenzionale o bugiarda, e dimostra […] l’assoluta coincidenza fra arte e morale” (Il Giorno, 26. 04. 1960). E Antonio Aniante, a sua volta, coglie nello stile rayano l’elegante sintassi qui segnalata, attribuendola “a una forte carica culturale, aggressiva, sadica, immaginosa”, declinabile in questi termini: “La carica culturale utilizza gli strumenti volta a volta più idonei, dalla scienza alla cronaca nera. La carica aggressiva spiega la schiettezza e la densità del dettato, che punta al suo tema senza preamboli complimenti mezzi termini in genere. Nel processo aggressivo-polemico si dispiegano due fenomeni: quello sadico e quello umoristico; entrambi connessi al senso del ritmo. Solo che il ritmo del sadico corrisponde ad un certo compiacimento impietoso, e il ritmo dell’umorista corregge la crudeltà del sadico dirottandola nell’arguzia o nella risata” (Antonio Aniante, Il famismo, Milano, Pan editrice 1977). Non ci vengono in mente che due soli nomi di scrittori paragonabili al Raya: Concetto Marchesi e Gesualdo Bufalino. In modi diversi, ma ugualmente eccellenti, ti deliziano con la loro arguzia, fantasia, discreta ma schietta sensualità, audacia traslativa, laica profondità di pensiero, ironia dissacrante e commossa saggezza. La loro prosa te la senti quasi in bocca, come una leccornia che seduce il palato. E sia detto senza nulla togliere alle buone scritture del nostro panorama letterario novecentesco.
Il titolo di Aniante ci riporta al maggiore contributo di pensiero osato dal Raya. Il quale, all’alba dei suoi cinquant’anni, comincia a sviluppare quella estrema reductio ad corpus che è la dottrina famista o biologia culturale. Testo fondamentale, La fame. Filosofia senza maiuscole (Padova, 1961, con prefazione di Luigi Volpicelli. 3a ed., Roma, 1974). Libro spregiudicato e geniale, che, risalendo, secondo un aggiornato metodo vichiano (“Natura di cose è nascimento di esse…”), la vicenda filogenetica, trova nell’innesco metabolico della primordiale chimica organica l’origine e la sostanza costante della vita nella sua infinita fenomenologia. Siffatta impostazione porta a includere in quell’unica matrice l’uomo intero, “dalla testa al calcagno” (come recita una celebre formula). Dunque, anche l’intera gamma dei fenomeni mentali e cosiddetti spirituali, con totale ripudio della millenaria interpretazione dualistica o platonizzante. Un itinerario, insomma, dove ogni parametro antropico specifico (razionalità, affettività, cultura, religione. arte…) viene letto come sviluppo fisiologico del corpo nelle sue strutture “nobili” (cervello, ecc.) e accostato ad analoghe e più elementari funzioni del mondo animale. Il punto focale dell’homo novus famista sta nell’unicità del primum movens di ogni sua azione, di muscoli o di pensiero. Il benservito spetta alla ragione come categoria metafisica e presunta motrice di pensieri “spassionati”, di teoresi libera dalle emozioni. Il famismo dice: nessuna azione o respiro senza il movente passionale, che ricondotto alla sua radice basale, è sempre una modalità della pulsione fagica, un appetito. L’unica razionalità possibile sta nell’autodisciplina tecnica della passione-appetito, che può rivolgersi a una pagnotta come a un libro, a un corpo o a un cuore, e cioè secondo una sterminata gamma di trasposizioni. In ognuna delle quale affiora la originaria bivalenza del rapporto fagico: gradire o rifiutare. Di qui la visione antropofagica dell’eros. Quella spinta originaria non può non agire in ogni emozione. La normalità del freno anti-incorporazione nell’amore non deve cancellare la ricorrente prova tragica del delitto passionale come metafora dell’ingestione; né i casi di regressione cannibalica verso il corpo bramato. In questa severa reductio biotrofica l’arte non può essere che danza, ossia mimesi ritmica dell’atto fagico comunque trasposto (dislocato, sublimato o mascherato).
All’uscita del libro era facile prevedere quanto si è puntualmente verificato: salvo pochissime, nobili eccezioni, il resto sono reazioni di indignato raccapriccio presso le anime timorate (ivi compresi i grandi Tartufi dotti e cattolici); di superciliose ironie nei campioni dell’accademia sedicente laica (così tributaria, in rebus, della secolare tradizione metafisico-religiosa: anche quando si autocertifica materialistica). Troppo sconvolgente, la Weltanshauung rayana, per la varia pigrizia mentale dell’intellighentsia maggioritaria, non solo italiana, ma planetaria. La quale risponde riconfermando ad augendum quei valori assolutizzati che Raya chiama maiuscole (per l’iniziale un tempo d’obbligo nei relativi lessemi). E che, purtroppo, stanno dimostrando una vitalità tetragona ai colpi dell’evidenza, moltiplicando l’orrore del mondo con le quotidiane stragi del terrorismo islamico e dell’altrettanto criminale stragismo indiscriminato dei cosiddetti Paesi civili e democratici, come gli Usa e certi loro satelliti. Che in entrambi i casi la catalisi religiosa operante nelle diverse forme del fanatismo strumentale sia evidente nel suo aspetto più cinico e catastrofico non turba i sogni del quietismo mammonico ammantato di sonanti ideali. La voce del fantasma rayano, così chiara e forte contro le maiuscole potenzialmente assassine, continua a gridare nel deserto.
*
Questo è l’uomo cui si continua a far torto anche da cenere. Gli universitari, quando gli proponi di fare qualcosa per ricordarlo, si defilano. Qualcuno perfino “scusandosi col dir non lo conosco”. Ma non è solo il mondo accademico a recitare de Raya il poco gagliardo ruolo delle tre scimmiette (“non vedo non sento non parlo”): il variegato e altrettanto discutibile universo giornalistico non è da meno. Anzi. Giornali che il Defunto onorò per decenni si guardano bene dall’onorarne le ricorrenze. Tra questi spicca per assenza ribalda La Sicilia, che Raya illustrò per oltre mezzo secolo con i suoi eleganti elzeviri e “Servizi speciali” (da anniversari celebri: veri densi saggi critici).
Ma i responsabili del quotidiano hanno fatto di peggio. Alla notizia della morte, mi si chiese il classico coccodrillo (ero il seguace più in, e collaboravo, come tale, a quelle pagine culturali dal 1974). Lo scrissi, contenendolo nelle nuove misure imposte dalla rinnovata redazione culturale. Lo portai, come al solito, ignorando che lo stavo mandando al macello. L’articolo fu squartato: un pezzettino-civetta in prima pagina, il “servizio”, sfigurato da tagli infelici, a pg.24, tra il vario ciarpame dell’Attualità. Eppure era uno schietto pezzo da terza pagina. La piccola infamia suscitò indignazione tra amici conoscenti alunni del mio liceo: tra questi, una animosa fanciulla (Mariagrazia Finocchiaro) scrisse una vibrata lettera di protesta al giornale, che, con “piacevole sorpresa” dell’autrice, la pubblicò (18. XII. 1987, “La parola ai lettori”; titolo La biografia di Gino Raya): unica, inattesa, goccia di gratificazione pubblica (o piuttosto di risarcimento) in quel mini-evento di ordinaria cialtroneria. Ancora mi chiedo come mai sia stata pubblicata la lettera. E per opera di chi. Qualcuno, in quel cafàrnao di nuovi Soloni e grilli parlanti, dovette accorgersi che la si era fatta grossa: non s’erano offese soltanto due qualificate firme del giornale, ma lo stesso quotidiano, sfregiato da quel sezionamento imbecille. Altra inevitabile domanda: in quale sacco gastrico ribolliva l’incomprensibile odio verso il binomio così seviziato?
E il suo paese natale, la sua piccola patria, Mineo, che tanto giusto onore tributa al grande Capuana (Monumento in piazza, fondazione, vie, ecc)? Cos’ha fatto per quest’altro suo figlio? Nulla, che io sappia: neppure, forse, intitolarne una via, una piazza, un vicolo. Non ci è capitato di vederne, nei nostri due approdi a quella attraente meta natalizia. Si vedono, bensì, i libri del Raya che si occupano di Don Lisi, tra le mille pubblicazioni esposte nel palazzo di famiglia; ma tutto finisce lì. Chi dicesse a quei distratti amministratori che per valore culturale e genialità Raya è molto più alto del maestoso monumento del pur bravo narratore e critico e professore e folklorista e burlone fotografo ex sindaco don Luigi, li farebbe sorridere di ironia e compassione. Diremo, “Ai posteri”? Ma quali? Quando? Risuonano le dolenti note del Leopardi che fantastica del Parini, o della gloria. Egli, però, l’Infelice di Recanati, da cenere, di gloria ne ha avuta da riempire il pianeta e i secoli. Raya si deve accontentare di una dispersa presenza in rete (in vari siti è possibile trovare i suoi libri), dove lo studioso italianista (e dantista in particolare) nel suo sito internet Literary gli rende giustizia inserendolo fra i suoi densi Profili letterari siciliani dei secoli XVIII-XX (in cui ospita perfino il modesto sottoscritto). Gli siano rese grazie: non è quanto spetterebbe all’Ostracizzato, ma il poco è sempre meglio del niente. Al relativamente poco dell’infaticabile Ciccia è doveroso aggiungere il nome di Paolo Anelli, precoce autore di un vibrante pamphlet sul “Caso Raya”: Il silenzio delle farfalle infilzate. Sottotitolo: “La danza della vendetta di Gino Raya” (Firenze, Atheneum, 1991). Una testimonianza che è sempre un piacere rileggere. Intanto chi avrebbe pronti, da anni, un paio di robusti saggi, non può pubblicarli: la pensione di prof. di filosofia nei licei non consiglia consistenti spese extra-domestiche. Quanto alla famiglia del Rimpianto, opaco silenzio sull’argomento.  GINO RAYA, A VENT’ANNI DALLA MORTE