Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

lunedì 23 marzo 2015

"Un santuario domestico" - Commedia rappresentata per la prima volta il 15 luglio 1893 - di Mario Rapisardi





Questa commedia, che aveva per titolo : La famiglia del signor Teofilo,(Col nuovo titolo Santuario domestico e riveduta di forti ritocchi, fu pubblicata nella « Rassegna Moderna » di Firenze, maggio-giugno 1899)  venne rappresentata per la prima volta la sera del 15 luglio 1893 dalla compagnia Pietriboni nel teatro Nazionale di Catania; e fu ripetuta per cinque sere di seguito.
Superfluo ricordare il pienone di quella prima recita e la festa del pubblico agli attori e all' autore che venivano a ogni fine di atto rievocati al proscenio; sebbene l'autore a quell' ora stava a letto, tranquillamente. Taglierini fatti in casa ? Forse. Peraltro, la commedia data dagli stessi attori fu ben accetta al pubblico di Messina e di Bari.
Quando la compagnia Paladini—Talli la rappresentò alla Commenda di Milano la sera del 19, agosto, l' esito parve contrastato. Al Valle in Roma, poi, il 28 novembre, com'era da   prevedersi, la commedia  ebbe   il tracollo. E qualcuno, gongolante, scriveva in un foglio romano: " Il pubblico, quello che c' era , rado , ma di buona volontà, urlò, fischiò, gridò: basta,,. Se non che il " pubblico „ non è la combriccola, tanto meno la plebe assoldata al solo fine di fischiare o di batter le mani in teatro, a seconda i casi.
In ogni modo , non tutta la stampa allora si mostrò benevola alla commedia del Rapisardi: anche prima che questa venisse portata sulle scene, essa tenne una condotta deliberatamente ostile. Già, mentre che alle cantonate di Catania si leggeva l'annunzio della prossima rappresentazione, i fogli locali quasi lutti tacquero : i corrispondenti dei vari giornali di fuori si divertivano a snocciolare sciocchezze, riservandosi, a commedia finita, il diritto di votare il sacco delle insolenze.
A sentire i giudizi dei giornali d'allora, c'è da strabiliare a dirittura.
Diamo fugacemente una scorsa.
La Sera di Milano del 19 luglio ha da Catania: " La famiglia del signor Teofilo è una commedia in 5 atti brevissimi, la cui forma è semplice spigliata naturalissima „. E il corrispondente, dopo d'aver fatto a modo suo il riassunto della commedia, conchiude: " In complesso, un pasticcetto insipido, ad onta della forma accuratissima „. Però il critico ufficiale dello stesso foglio, quando la commedia fu data a Milano, scriveva in data 20-21 agosto: " Si può anzi affermare che l' autore si deve esser sforzato ad evitare in tutto il lavoro quelle situazioni che avrebbero potuto forzare l' attenzione del pubblico con l'effetto della condotta scenica. Restava quindi all'autore una unica via, lo studio dei tipi ; ed è appunto a codesto che egli si è attenuto. E in parte è riuscito. Il sig. Teofilo, la sig.ra Eufemia, il marito di Adele sono tre tipi profondamente studiati che risaltano dal fondo del quadro , e dei quali è impossibile non ammirare la buona fattura. Data la base su cui il Rapisardi ha eretto il suo edificio, nulla di più vero , di più assolutamente umano di quei tre ignobili individui... E questi tre tipi sono altrettante miniature finissime, che si possono o no applaudire , ma che si è costretti ad ammirare „.
Eppure, la Tribuna del 24 novembre è dì parere contrario , e sentenzia : " Per fare l' Aristofane bisogna anzitutto esser sereni come lui. E proprio al Rapisardi manca la serenità. Aristofane era un grande artista, aveva dello spirito, creava dei tipi, faceva delle commedie,,.
Già il Diritto del 20 luglio aveva fatto in anticipo queste malinconiche riflessioni : " Auguriamo all'illustre scrittore buona ispirazione e buon successo ; ma non nascondiamo che l' entrata nella palestra teatrale di ingegni vigorosi i quali hanno esaurito la loro fantasia in altre forme dell' arte, non c' ispira che una mediocre fiducia. Essi porteranno forse in teatro delle idee — e ciò è utile—ma sarà una rara fortuna se riusciranno a mettere insieme delle commedie possibili „
Con più schiettezza, se non con più dialettica, si esprime il redattore dell' Imparziale di Messina del 3-4 agosto : " Tutti coloro che hanno a cuore la gloria del Poeta sperano che questa commedia data dal Pietriboni rappresenti né più né meno una buona azione, e le buone azioni vanno dimenticate „.
Proprio così: né più né meno!
A conti fatti, si direbbe che i signori critici qualche volta non sanno neanche loro stessi che cosa vogliono e che cosa scrivono.
*
Ma il mal animo verso l' autore si spiega facilmente.
Come si sa , il nome del Rapisardi è sonato sempre condanna a ogni ingiustizia, a ogni volgarità, a ogni menzogna: il Poeta con la sicurezza che gli dava la coscienza intemerata, con l'occhio fiso a un ideale sublime, giudicando gli uomini del suo secolo, sentiva di compiere la sua missione di poeta civile, e poco si curava delle loro piccole ire. Or, giusto in quel tempo che la sua commedia si accingeva a fare il giro dei teatri d' Italia, si stampava l' Atlantide. Già qualche cosa si era venuta apprendendo circa il contenuto del nuovo poema, col quale l' autore intendeva flagellare e cacciare i mercanti dal tempio, mentre che con la commedia osava penetrare nella santità del loro focolare domestico. Naturale che, allora  più che mai, il personale risentimento della gente magagnata doveva trovare uno sfogo. Così, dopo la pubblicazione dell' Atlantide , l' inevitabile insuccesso della commedia a  Roma.
I criccajuoli dovettero certamente cacciare dal fondo del cuore un eroico sospiro di soddisfazione. Non ultimo quel della Tribuna, il quale ebbe a ricordarsi che dodici anni prima aveva avuto negato dal Rapisardi l' ambito lauro di poeta, a mal grado del suo " affetto grandissimo ,.. Egli era per la seconda volta vendicato.E potè largamente scodellare nel suo foglio tutto quel ben di Dio, non peritandosi di falsare sinanco il titolo della commedia: Il signor Teofilo !
Ma, la famiglia del signor Teofilo veramente l'autore ha voluto presentare sulla scena,
C è riuscito ?
È appunto questo che bisogna indagare.
*
Già dal titolo si rileva abbastanza il contenuto, o meglio, lo scopo della commedia, scopo altamente morale: " una carica a fondo contro la famiglia borghese, covo di ogni turpitudine legale, che col nome e il prestigio di santuario domestico pretende di essere intangibile e sacro „.
Ecco. Il sig. Teofilo , vecchio usuraio che per accrescere la sua casa, sicuro dell 'aiuto del buon Dio, usureggia al cento per cento e dà in prestito al giornalista Giuliano quattromila lire, inducendolo a falsificare la firma del padre, ricco; non manca anche di corrompere i professori perchè passi all'esame il suo figliolo imbecille o sbuccione, il quale volentieri studia.... con la cameriera, con quella cameriera a cui egli, sebbene vecchio, fa la corte e regala dei gingilli. Con tutto ciò, egli non vuole assolutamente che succedano scandali, che comprometterebbero la pace del suo santuario domestico.
E questa è anche la preoccupazione di sua moglie, la signora Eufemia, donna, savia e prudente: salvare le apparenze. Essa nella sua gioventù ha saputo far sempre le cose per benino, giacché per lei sia appunto in ciò l'arte l' ingegno la dottrina e la virtù di una donna a modo. Sicché dopo trent'anni di matrimonio, ella può dire che la sua " reputazione, grazie al cielo, è senza macchia „. E vorrebbe che la figlia Adele seguisse il suo esempio, contentandosi della sorte: poco importa se essa non aveva trovate nel marito l' uomo dei suoi sogni.
Ma la figlia invece, pur essendo stata educata in collegio, è una aperta ribelle: si mostra imbevuta di idee moderne ; parla di emancipazione, discute anche troppo, sebbene rettamente. Vorrebbe che " la donna potesse disporre di sé come l' uomo, che fosse posta in condizione di potere svolgere tutte le facoltà che la natura le ha dato; e non esser costretta ad assuefarsi al matrimonio, come a vangar la terra, a portar una croce, a vivere nell'ergastolo „.
In verità, il marito avvocato Benintendi, che un tempo era stato l'amante della suocera, non è più giovane: ha quarantacinque anni; è sazio della vita; mentre la moglie è appena ventenne ed è assetata d'amore. Se egli trascura i doveri coniugali, sa però, da uomo pratico, far bene i suoi conti. Son prossime le elezioni politiche : è conveniente accettare una candidatura : poiché, " quando non si è più giovani e la vita non ci sorride più, i pazzi si uccidono, i volgari si ubbriacano, i savi si buttano alla politica ,.. E poi, come avvocato , non sente il rimorso di aver opinioni, né ha " la malattia degli ideali ... Fiuta il vento. Sa che " quando si afferra una deputazione, i clienti crescono qualunque ne sia il colore „. Finisce col darsi al partito dell'ordine. E già si costituisce in casa sua il comitato: il giornalista Giuliano mette a disposizione il suo giornale.
In questa occasione l' Adele, avendo conosciuto Giuliano, s'illude di trovare in lui amore e gli apre tutto il suo animo. Scoperto dai genitori l'idilio, essa non recede ad onta dei consigli della madre; anzi si attacca di più all'amante, e a lui, in un ultimo abboccamento, fa, delle proposte decisive e.... scandalose: fuggire subito da quella prigione ove sente che " l'anima è costretta a gemere a mentire a ingannare a disprezzarsi ,,. Vedendo che il giornalista è titubante e si schermisce accampando la prudenza, lo investe con la tagliente ironia della donna delusa, e infine, additandogli la porta, gli ingiunge di uscire.
L'avv. Benintendi, avuto sentore del fatto, pensa di chiedere al tribunale la separazione per incompatibilità; ma le elezioni sono imminenti, il giornale di Giuliano è il più letto è diffuso. Dà tempo. Frattanto si riunisce il comitato, si discute della campagna elettorale, si concorda col giornalista il lavoro strategico: alla fine gli amici si dividono con un " arrivederci a domani „.
Nel punto che l'avvocato stringe la mano al giornalista, l'Adele, a veder tanta abiezione, irrompe nella sala,'' convulsa, invano trattenuta dalla madre, e vuole smascherar tutti, cantare in faccia a ognuno il fatto suo : si mostra decisa ad andar via da quella casa, ad affrontare le tempeste della vita, a lavorare, a morire; " ma libera, libera, libera 1 „
Il sig.   Teofilo,  intanto, scandalizzato, raccomanda di non dir niente a nessuno.
*
Tale la trama dell' opera condotta con semplicità di mezzi, senza arruffio di episodi, senza effettacci di scene da fiera, senza bombe finali; ma con accurato magistero di forma, con nobilissimo sentimento d' arte.
E balzano vive dalla bene inquadrata tela le figure degli attori principali: personaggi finemente delineati, caratteri rigorosamente veri e profondamente-umani. Non si dimenticano. Il sig. Teofilo, un bruto, un usuraio che arricchisce rasentando il codice penale; la signora Eufemia, una toppona accivettata che finge untuosamente; l' avv. Benintendi, un raffinato amorale che pur, a un certo punto, si domanda se ha una coscienza ; l' Adele, una donnina nevrotica , che sente lo spirito dei tempi nuovi e ha il coraggio di romperla coi pregiudizi del mondo.
Né è a dire che la facilità e la brevità dell' azione ne scemi l'originale potenza e impedisca di ritrarre argutamente, non che con cruda naturalezza, tutto l' orrore di un ambiente sociale corrotto. L' ironia penetra sottilmente, pervade i meandri dell'opera, diventa all'ultimò ammonimento e insieme condanna.
E si ride, massime nei primi atti, ai motti di spirito onde scoppietta abbondantemente il dialogo fresco, colorito, spontaneo; si ride alla vena di comicità schietta che zampilla da certe situazioni; ma il riso non è pieno compiacimento che erompe dalle viscere in una festività sonora: è bensì contrazione leggiera che appena increspa le labbra, quasi l' atroce spasimo di un singulto che trattiene le lagrime.
Onde la commedia, nel suo intimo significato, assorge all' importanza del dramma. Si tratta, è vero, di una famiglia borghese, tutto orpello, tutta vernice di onestà e di santità; ma par di sentire per entro il sordo crepolio di una società che si sfascia, il fremito incomposto di una età che si rinnova, la squillante voce della coscienza moderna che si libera dalla catena delle convenzionali menzogne.
*
Fu  detto che   questa commedia,   come tutte le altre opere, risente dei principi e del temperamento del Poeta, Ebbene: non è la sincerità il pregio peculiare di Mario Rapisardi? E che meraviglia se anche quest'opera porta tutta l' impronta del suo animo grande e generoso di tenace assertore e propugnatore imperterrito dell'elevamento morale della nazione e dell' umanità ?
Or è giusto convenirne che, com'egli ha dato all' Italia l'Atlantide, il poema satirico sociale, così la commedia satirica sociale non poteva darla altri che lui. - Alfio Tomaselli 

INTERLOCUTORI
Il Sig. Teofilo Caratòzzolo
La Signora EUFEMIA, sua moglie
Adele e ARIODANTE - loro figli
L' Avv. AURELIO BENINTENDI, marito d' Adele
Giuliano Della Spada, giornalista
Il Marchese e La Marchesa Del Gallo
ZAIRA, cameriera in casa Caratòzzolo
Un cameriere  in casa Benintendi.

(L' azione è in Italia, a' dì nostri)


mercoledì 18 marzo 2015

Federico De Roberto 1861/1927 "Il culto d’un popolo verso i grandi suoi morti ..."



"Il culto d’un popolo verso i grandi suoi morti è senza dubbio indizio della sua civiltà; ma, quando si pensi che molti di quei magnanimi a cui s’inalzano monumenti furono perseguitati e calunniati e odiati in tutte le maniere mentre durarono in vita, vien quasi voglia di conchiudere che molte che paiono manifestazioni di animi generosi non sono altro che misere ipocrisie, e gran parte di ciò che diciamo civiltà non è che industria d’inganni, onde un popolo si studia apparire quel che non è, non solo al giudizio degli altri ma di sè stesso.
Sarebbe perciò desiderabile, a decoro di una gente e ad onor vero dei grandi trapassati, che non ci si affaccendasse troppo a commemorare, a statuare, a monumentare coloro che furono grandi, e si guardasse invece di conformare i pensieri e le azioni nostre a quelle dei magnanimi, dico di coloro che tali furono veramente, non di tanti che prima e dopo morte usurparono tal nome, e fama e gloria ebbero di grandi non per fatti propri, ma per capriccio di fortuna che li pose in alto, e per adulazione di servi, che più adorano la fortuna che non rispettino la virtù.
Questa sarebbe da vero opera di nazione civile; ma i popoli, quantunque si dicano civili, seguiteranno probabilmente a far pompa di morti per coprire le miserie dei vivi: chè, inalzar marmi e bronzi costa soltanto danari, quando l’ingegnarsi di imitare i grandi costa tali sagrifici che, tranne pochissimi, nessuno è capace, non che di sostenere, d’immaginare". Mario Rapisardi

Convinto d'essere uno "scrittore fallito" ("Nulla resterà di me! Nulla"), De Roberto trascorrerà gli ultimi anni, specie dopo la scomparsa del Verga, preda del male oscuro dei nervi, di una desolata sconsolatezza.
[Catania,] Domenica, 6 [luglio 1902]
Ti scrissi ieri, Nuccia mia, ti dissi ieri la ragione del mio lungo silenzio, grave a te, grave a me altrettanto, e forse più, perché volevo e non potevo far molto per romperlo. Qualche cosa io vorrei pur fare per oppormi a questa lenta mina del mio spirito, della mia volontà; ma non ci riesco. Tutto mi pare inutile e vano. Non credo in niente, non spero in niente. Non ho che fare della mia vita, del mio pensiero. Sono un uomo che annega, sono un uomo perduto. Come descriverti ciò che accade in me, la confusione della mente, lo svanire della memoria, lo sfasciarsi dell'energia, le improvvise, irragionevoli, impeccabili irritazioni, le idee pazzesche che mi traversano il cervello, i silenzi che mi cuciono le labbra, le ansie, i furori impotenti, gli abbattimenti mortali? Spaventevole è che io abbia coscienza di queste cose, che io misuri a grado a grado questa rovina. Perdonami, compatisci, non mi rimproverare. Che posso fare? Io non ho saputo mai distrarmi al modo della folla: ora mi è tanto più impossibile. Del lavoro sono incapace. Le letture brevi non servono a niente; le lunghe mi confondono la testa. Questa città, questa gente, questi costumi mi sono odiosi ed esecrabili. Tu sei troppo lontana ed inarrivabile. Non posso far altro che piangere, come ho pianto, di me stesso, quasi fossi morto. Non posso far altro che guardare nel vuoto, immobile, con le mani in mano, come un fachiro come un mentecatto. Nuccia, fammi parlar d'altro; perché ti farei e mi farei troppa pena.   Che tu venga in Sicilia non lo credo: sarà una delle solite fantasie di quel tale. Ma se dovessi realmente compiere il viaggio, non venire a Catania con una compagnia odiosa e detestata. No, così non ti voglio vedere, qui, presso mia Madre. Avvertimi, piuttosto, e verrò io a trovarti, cioè a trovarvi!: Ma no: vedrai che non verrai: già tu stessa mi dici che la cosa è poco sperabile. E poi, è forse meglio non vederci niente che vederci così. - Sai quanto tempo ho impiegato, Nuccia mia, a scrivere questa paginetta? Un'ora e mezza; ho qui dinanzi l'orologio che misura lo scorrere del tempo omicida. - Non dire, Nuccia mia, che temi d'avermi dispiaciuto: lo vedi: tu sei la sola che riesci a trarmi da questa mia agonia: ne esco per troppo poco, è vero; non riesco ad altro che a fartene vedere l'orrore, è vero; ci ritorno subito, è anche vero; ma se non fossi tu, a chi aprirei il mio cuore, a chi mi confiderei? [Federico]
"La storia di un amore segreto dello scrittore è interamente conservato in un epistolario rimasto inedito per quasi un secolo, fra il De Roberto trentaseienne e la trentunenne Ernesta Valle, gentildonna residente a Milano, assidua habitué di elitari salotti (da Vittoria Cima a donna Virginia dei Borromeo, alla stessa Ernesta), moglie dell’avvocato siciliano, Guido Ribera. Fra sotterfugi, stratagemmi, astuzie, la corrispondenza si snoda dal 1897, periodo in cui iniziò la sua collaborazione al Corriere della Sera, fino al 1916: un carteggio che permette di seguire passo passo le tappe dell’itinerario scrittorio di De Roberto, negli anni più tormentati della stagione milanese, penetrando la sua officina nascosta, nella camera oscura dell’ispirazione, svelando progetti, fervori, traguardi, e soprattutto ansie, inquietudini, sconfitte". 

"Non è Nuccia che si prende questi chicchi; è Rico suo che glie li mette con la bocca nella bocca".



  • "L'artista si sente solo. Singolare ed aristocratico, vive a disagio in mezzo alla società democratica ed uniforme. Si sente da essa odiato come inutile, come superbo; e la disprezza. Pertanto le opere sue non si rivolgono ai più, ma ai pochi iniziati". F. De Roberto

Altro : 

Bibliografia di Federico De Roberto (1879/1955)













martedì 24 febbraio 2015

Mario Rapisardi - IL PROMÈTEO ETNEO


IL PROMÈTEO ETNEO

Una simpatica biografia del Rapisardi, di Giuseppe Patanè
ed. 1946 

qui PDF








".......L'aristocrazia dei fanatici del Rapisardi aveva in Catania il suo capo che era un calzolaio di sovrani e di nobili : don Alfio Scandurra, la cui bottega dalla tabella adorna di stemmi e di medaglie, guardava il marciapiede di lava sulla via Etna e il grigio palazzo della prefettura. Nella bottega di Scandurra si riunivano quasi ogni giorno i discepoli del poeta e i più autorevoli suoi ammiratori. Fra questi ultimi erano i deputati di parte democratica e alcuni professori e avvocati di vaglia, seguaci della politica del popolarissimo onorevole Giuseppe De Felice Giuffrida, il tribuno che adorava Catania ed era adorato dal popolo catanese per la sua povertà, la grandiosità dei suoi programmi e la fascinatrice ampollosità della sua eloquenza (« Catania è alla testa della civiltà e l'Europa ci guarda attonita! »).
Era il tempo in cui il poeta si era isolato quasi definitivamente dal mondo. Aveva egli, con le Religiose, l'Atlantide e i Poemetti, chiuso il ciclo dei suoi poemi.

...Cadrà nei gorghi
Del tempo il nome mio, su cui maligne
Tele d'alto silenzio il volgo ordisce...
......."

giovedì 12 febbraio 2015

Lauro Rossi , compositore drammatico. 1812/1885


Al Maestro L. Rossi - l'allievo F. P. Frontini

Rossi Lauro , compositore drammatico, nato a Macerata il 20 febbraio 1812; morto a Cremona nella notte del 5 al 6 maggio 1885.



Entrato giovanissimo nel R. Collegio di S. Sebastiano in Napoli, studiò la musica coi maestri: Giovanni Furno, Nicolò Zingarelli e Girolamo Crescentini, e ne uscì musicista nel 1829 -
Inizialmente scrisse alcune messe , cantate ed altre composizioni vocali, poi esordì con l'opera buffa: Le Contesse villane (Napoli, teatro la Fenice , primavera 1829). 
A quel primo tentative, felicemente riuscito, seguirono poi gli altri 27 spartiti che più sotto sono enumerati. -  Viaggiò per vario tempo per mettere in scena i suoi spartiti ed occupando vari posti di maestro concertatore; dal 1835 al 1844 viaggio insieme ad una compagnia d'opera italiana il Messico. - Nel 1850 occupò il posto di direttore del R. Conservatorio di Milano; nel 1871 succedette al Mercadante nella direzione di quello di Napoli; carica che tenne, sino al 1878. - Nel 1882 si ritirò a vivere a Cremona. 
Fu socio onorario di diverse Accademie d' Italia, ricevette vari Ordini Cavallereschi. - Compositore approfondito nelle severe regole del contrappunto e dotato di una felice vena melodica, riuscì specialmente nel genere buffo , nel quale Felice Romani soleva dire : ch'egli era il vero successore di Donizetti.



- Gli altri spartiti scritti, sono : La Villana Contessa (Napoli , teatro Nuovo, carnevale 1830; rifatto dal suo primo lavoro) ; Costanza ed Oringaldo (ivi, teatro S. Carlo, 30 maggio 1830); La Casa in vendita o Il Casino di campagna (ivi, teatro Nuovo, estate 1831); Lo Sposo al lotto (ivi, ivi, estate 1831);  Baldovino tiranno di Spoleto (Roma, 1832); // Maestro di scuola (ivi, 1832); //Disertore svizzero (ivi, teatro Valle, 9 settembre 1832); Le Fucine di Bergen (ivi, ivi, 1833); La Casa disabitata o I Falsi monetari , teatro alia Scala, 16 agosto 1834), riprodotta su molti teatri;Amelia (Napoli, teatro S. Carlo, 31 dicembre 1834); Leocadia (Milano, teatro della Canobbiana , 30 aprile 1835); Giovanna Shore (Messico, 1836); // Borgomastro di Schiedam (Milano, teatro Re, primo giugno 1844); Dottor Bobolo o La Fiera (Napoli, teatro Nuovo, 2 marzo 1845);Cellini a Parigi (Torino, teatro D'Angennes, 2 giugno 1845); Azema di Granata (Milano, teatro alla Scala, 21 marzo 1846); La Figlia di Figaro (Vienna, teatro di Porta Carinzia, 17 aprile 1846); Bianca Contarini (Milano, teatro alla Scala, 24 febbraio 1847); // Domino nero (ivi, teatro della Canobbiana,.primo settembre 1849; uno dei suoi migliori lavori); Le Sabine (ivi, teatro alia Scala, 21 febbraio 1852) ; L'Alchimista (Napoli, teatro del Fondo, 23 agosto 1853); La Sirena(Milano, teatro della Canobbiana, 11 ottobre 1855); Lo Zigaro rivale (Torino, teatro Balbo, giugno 1867); // Maestro e la Canlante (ivi, teatro Nota, 1867); Gli Artisti alla fiera (ivi, teatro Carignano , 7 novembre 1868) ; La Contessa di Mons (ivi, teatro Regio, 31 gennaio 1874) eCleopatra (ivi, ivi, 5 marzo 1876). - 



Scrisse inoltre : messe, cantate, l'oratorio: 

Saul (Roma, Ospizio S. Michele, 1833); 
un'elegia In morte di Bellini (1835); 
A Giovanni Ricordi, serenata a voci sole (Blevio , 6 agosto 1850); 
l'elegia A Mercadante (Napoli, 1876); 
pezzi istrumentali; musica vocale da camera; 8 Vocalizzi e 12 Esercizi per canto. - Come teorico, pubblicò : Guida ad un corso di armonia pratica orale per gli allievi del Conservatorio di Milano (Milano, Ricordi).
*Schmidl - dizionario universale dei musicisti 1887








Lo «Strambottolo per la Posterità», un caso... strambo!

Composizione di Lauro Rossi

osserva lo stesso L.R. in calce allo spartito
"O io mi sbaglio, oppure è così che si fabbricala musica dell'avvenire. - Se sia facile o difficile costruire questa specie di musica non oserei dirlo, che bisognerebbe esperimentarsi in lunghi ed importanti lavori: dico però che per avere qualche cosa di meno comune fa d'uopo scostarsi dal passato. - Le leggi sull'Armonia, sul ritmo, sull'unità le hanno fatte gli uomini: ora cosa vi ha di strano se altri uomini svincolandosi dalle antiche catene cercano aprirsi una nuova via di progresso?... E se questa nuova via fosse guidata con assennato criterio perchè combatterla per deprimerla?... Ma la Melodia, e particolarmente la Melodia per le voci?... qui sta il busillis, perchè sino a che trattasi di accozzare note, alle quali sono estranee le voci, il campo dell'arte non è scarso di valenti campioni; ma appena nella lizza vi si immischi con qualche pretesa l'istromento VOCE UMANA il numero degli eletti si assottiglia assai. Sono dunque d'avviso che le innovazioni, di cui in musica si va attualmente alla pesca, siano una neccessità indispensabile; ma affinchè alla divina arte de' suoni venga conservato il miglior suo pregio, cioè il cuore, l'affetto, la commozione, fa d'uopo che la parte melodica cantante sia il primo pensiero del compositore. Ove tal pregio predomini, anche le più arrischiate astruserie possono riuscire soddisfacenti e piacevoli".

19 Giugno 1870 Lauro Rossi
Los monederos falsos : zarzuela en cuatro actos y en verso - 
Rossi, Lauro, 1812-1885








domenica 25 gennaio 2015

Gino Raya - l'ira nemica continua a vivere oltre il rogo.



del prof. Pasquale LicciardelloIl 2 dic. 1987 Gino Raya lasciava questo discutibile mondo: un infarto perentorio ne aveva stroncato la pur solida fibra. Particolare non trascurabile, l’evento funesto capitava alla fermata di un bus, sulla strada, nel buio d’una gelida sera della Roma congesta di anonima folla, l’aria affocata negli odiatissimi veleni del traffico. La morte confermava, così, quella solitudine che aveva segnato la sua vita di studioso. Supplemento di conferma, Raya tornava, solo (a ottantun anni e mezzo), da una conferenza culturale.
“Oltre il rogo non vive ira nemica”, si diceva una volta; e Benedetto Croce citava la sentenza a suggello della sua teoria della Storia come pensiero e come azione. La Storia in fieri, in quanto azione, “giudica e manda”, combatte e condanna; ma come pensiero, cioè storiografia, non giudica, giustifica. Vale a dire, spiega (dispiegando ragioni). La dottrina si applica anche ai protagonisti della cultura? Certamente. Ma la pratica è altra cosa: quale, per esempio, si presenta nel nostro caso. No, a Gino Raya la massima non è stata applicata. Nei vent’anni dalla morte, nessun segno di corale attenzione è venuto dal mondo culturale”: né da quello accademico né dal giornalistico. Solo pochi amici ne hanno risvegliata la memoria in occasione del decennale: ma privatamente, lontano dal moltiplicatore mediatico. Il mondo ha continuato a ignorarlo. Gino Raya rimane un autore vitando, un maudit: l’“ira nemica” continua a vivere oltre il rogo. Espressione (tra l’altro) da prendersi quasi alla lettera, essendo stato, il corpo, cremato, per sua coerente volontà testamentaria di materialista convinto. Quasi un estremo gesto di rivolta contro il plurimo “disordine” etico-culturale, che quel divergente genetico aveva largamente contestato con un’indipendenza di giudizio gelosamente difesa perfino dentro la giovanile militanza crociana. Nonché usata, spesso e volentieri, con asprezza sferzante, specialmente contro i palloni gonfiati delle diverse categorie: letterati, scrittori, critici, pensatori, politici.

Varia e copiosa, perciò, la schiera dei nemici presi di mira dalla frusta rayana. Che talvolta è sottilmente ironica e tagliente non meno della barettiana, altre volte alquanto umorale. Non c’è dubbio: faceva ben poco per farsi “accettare”. Diceva, il fiero Pertini, che l’uomo di carattere ha sempre un brutto carattere: è proprio il caso del nostro amico e compianto maestro. Qui, brutto significa, essenzialmente, fiero, coerente, poco incline alla tolleranza pelosa (o magari soltanto pietosa). E basta, questo stigma caratteriale, a legittimare l’ottusa ostilità dei suoi persecutori? Ottusa, perché largamente preconcetta e personalistica; e perché consumata, in prevalenza, con la più miserabile delle armi: la “congiura del silenzio”. Anche ipocrita, quell’ostracismo, visto che degli studi verghiani del Nostro si servono tutti: e questo è il solo caso che costringa gli utilizzatori a citarne il nome. Non mancano, però, esempi di vero e proprio furto: ci si appropria di suoi giudizi critici su questo o quell’autore o evento culturale senza citarne la fonte. Un furto che il collerico saccheggiato in qualche caso denunciò con l’accusa di plagio.

Lo si è anche accusato di atteggiarsi a martire, e forse c’è stata una certa enfatizzazione del ruolo: ma questo, il poco gradevole ruolo, gli era stato imposto, e anno dopo anno confermato, vieppiù intossicandolo. Un circolo vizioso: più Raya approfondiva la sua divergenza (di critico e pensatore) e più crescevano ripulse e silenzi. Ma anche: più montavano questi chocs en retour più si inaspriva l’animo ulcerato dello scomunicato vitando. Il movimento ricalca, in piccolo, il feed back positivo della cibernetica: l’effetto retro-agisce sulla causa intensificandone la forza, e questo incremento causale rifluisce sugli effetti amplificandoli. E’ quanto accade nelle valanghe o negli incendi. Se si pensa che la chemio-dinamica dei fenomeni biologici si basa sul prevalere del feed back negativo (l’effetto retro-agisce sulla causa depotenziandola) a salvaguardia degli equilibri vitali, si può capire come e quanto la salute psico-fisica di un perseguitato di acuta sensibilità debba soffrire. Magari fino a certe esplosioni di narcisismo reattivo poco congruenti con la sobrietà del carattere (allergico all’enfasi e ai facili elogi). O fino ai saltuari dubbi insensati sugli amici più veri e devoti, a certi sprechi di spazio della sua rivista per inutili foto-riproduzioni di lettere verghiane. Legati, questi sprechi, a un sintomo ancora più allarmante: il masochismo da ritorsione, che lo induceva a rifiutare per la sua rivista testi validissimi di qualche devoto allergico a sue richieste di facili libelli d’ispirazione famista,

Ma con tutti i suoi limiti caratteriali egli mi appare ancora un Gulliver fra lillipuziani nel confronto con la media attuale e tardo-storica (l’ultimo mezzo secolo o più) dei baroni in cattedra e degli operatori culturali in genere. E sia detto non per negare valori eminenti fra quei “baroni” e fra questi “operatori”, ma per relegarne l’eminenza dentro i perimetri dell’acquisito e del consolidato. Come dire: quei valentuomini sono bensì gremiti di erudizione e capaci di spostare qualche tassello e virgola del contesto metodologico ereditato (crocianesimo, marxismo, strutturalismo, decostruzionismo,…) e nell’area critica di questo o quell’argomento; ma dove cercare, in quel folto di prevalenti carrieristi schierati, l’idea nuova, la proposta che ti fa saltare dalla sedia o cattedra che sia? Dove, il dissenso radicale e ben motivato dai “valori” correnti, nel nome di una meno pigra e più controllabile scienza del mondo umano che quei valori ridefinisca e ridimensioni? Anni fa un “consulto” di cattedratici del nostro ateneo si chiedeva quale novità reale, e insomma rivoluzionaria, si fosse verificata in quella cittadella del sapere (anzi Sapere): guardandosi in faccia quei valentuomini furono costretti a riconoscere che la novità stava tutta e soltanto nelle scandalose teorie rayane: famismo e conseguente critica fisiologica. E qui un marziano, immune dai meriti terrestri, si figurerebbe che da quel riconoscimento il destino del Raya abbia galoppato in trionfale corsa di contrito risarcimento. Ma noi siamo sul pianeta Terra.
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Per non millantare un copyright che non ci compete, riveliamo subito che quei marziani spettano alla scrittrice Pina Ballario, la quale, quaranta e più anni fa, scrisse questa scherzosa iperbole: “Gino Raya sarà, come Vico, apprezzato fra cento anni, dopo la epurazione fatta dai Marziani sulla terra. Non so perché si temono gli omini verdi dei dischi volanti. Io e gli amici miei sparsi un po’ in ogni parte del mondo li aspettiamo. E renderanno giustizia a Gino Raya” (“Gazzetta di Novara”, 23. 02, 1963)
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Si potrebbe persino chiedere dove stia l’eccellenza espressiva degli eminenti, baroni di cattedra e big della libera prosa, inventiva o giornalistica, tanto rari sono i veri campioni di stile: conosciamo fior di “emeriti” che “non sanno scrivere”. Vale a dire che sono capaci al più di una prosetta ammodino, ampollosa o asfittica, dove la correttezza sintattica resta confinata all’aspetto grammaticale, senza sfiorare quella più vera sintassi che è “monoblocco” di pensiero-passione profondo e fulgido stile di stretta fitness. Una sintesi che vuole estro, arguzia, ritmo sequenziale, originalità di immagini e agilità comunicativa (fuggendo come la peste le lungaggini le cacofonie e l’ingorgo ipotattico). Ebbene, questo binomio raro, sostanza ed eleganza, Raya lo realizzava in ogni suo scritto (e sia pure con l’inevitabile “più o meno” di ogni prova umana nel tempo); gli altri, quando sono al top, si fermano a rapsodici decori e calchi “brillanti”. Il prosatore Raya (sia critico che narratore) fa pensare, tra l’altro, alla “regola” di Ivo Andric: “una parola superflua non dovrebbe mai essere pronunciata”, e proprio perché “nulla più della lingua induce allo spreco e al peccato”. L’autore più lontano da siffatti sprechi e “peccati”: ecco il prosatore Raya. Una qualità che gli veniva riconosciuta dalle poche celebrità oneste e non prevenute. Parlando della rivista Narrativa (fondata dal Raya nel 1956, trasformata, nel 1966, in Biologia culturale), Maria Bellonci scriveva: “Pubblica racconti e scritti critici dove non una parola sia superflua o convenzionale o bugiarda, e dimostra […] l’assoluta coincidenza fra arte e morale” (Il Giorno, 26. 04. 1960). E Antonio Aniante, a sua volta, coglie nello stile rayano l’elegante sintassi qui segnalata, attribuendola “a una forte carica culturale, aggressiva, sadica, immaginosa”, declinabile in questi termini: “La carica culturale utilizza gli strumenti volta a volta più idonei, dalla scienza alla cronaca nera. La carica aggressiva spiega la schiettezza e la densità del dettato, che punta al suo tema senza preamboli complimenti mezzi termini in genere. Nel processo aggressivo-polemico si dispiegano due fenomeni: quello sadico e quello umoristico; entrambi connessi al senso del ritmo. Solo che il ritmo del sadico corrisponde ad un certo compiacimento impietoso, e il ritmo dell’umorista corregge la crudeltà del sadico dirottandola nell’arguzia o nella risata” (Antonio Aniante, Il famismo, Milano, Pan editrice 1977). Non ci vengono in mente che due soli nomi di scrittori paragonabili al Raya: Concetto Marchesi e Gesualdo Bufalino. In modi diversi, ma ugualmente eccellenti, ti deliziano con la loro arguzia, fantasia, discreta ma schietta sensualità, audacia traslativa, laica profondità di pensiero, ironia dissacrante e commossa saggezza. La loro prosa te la senti quasi in bocca, come una leccornia che seduce il palato. E sia detto senza nulla togliere alle buone scritture del nostro panorama letterario novecentesco.
Il titolo di Aniante ci riporta al maggiore contributo di pensiero osato dal Raya. Il quale, all’alba dei suoi cinquant’anni, comincia a sviluppare quella estrema reductio ad corpus che è la dottrina famista o biologia culturale. Testo fondamentale, La fame. Filosofia senza maiuscole (Padova, 1961, con prefazione di Luigi Volpicelli. 3a ed., Roma, 1974). Libro spregiudicato e geniale, che, risalendo, secondo un aggiornato metodo vichiano (“Natura di cose è nascimento di esse…”), la vicenda filogenetica, trova nell’innesco metabolico della primordiale chimica organica l’origine e la sostanza costante della vita nella sua infinita fenomenologia. Siffatta impostazione porta a includere in quell’unica matrice l’uomo intero, “dalla testa al calcagno” (come recita una celebre formula). Dunque, anche l’intera gamma dei fenomeni mentali e cosiddetti spirituali, con totale ripudio della millenaria interpretazione dualistica o platonizzante. Un itinerario, insomma, dove ogni parametro antropico specifico (razionalità, affettività, cultura, religione. arte…) viene letto come sviluppo fisiologico del corpo nelle sue strutture “nobili” (cervello, ecc.) e accostato ad analoghe e più elementari funzioni del mondo animale. Il punto focale dell’homo novus famista sta nell’unicità del primum movens di ogni sua azione, di muscoli o di pensiero. Il benservito spetta alla ragione come categoria metafisica e presunta motrice di pensieri “spassionati”, di teoresi libera dalle emozioni. Il famismo dice: nessuna azione o respiro senza il movente passionale, che ricondotto alla sua radice basale, è sempre una modalità della pulsione fagica, un appetito. L’unica razionalità possibile sta nell’autodisciplina tecnica della passione-appetito, che può rivolgersi a una pagnotta come a un libro, a un corpo o a un cuore, e cioè secondo una sterminata gamma di trasposizioni. In ognuna delle quale affiora la originaria bivalenza del rapporto fagico: gradire o rifiutare. Di qui la visione antropofagica dell’eros. Quella spinta originaria non può non agire in ogni emozione. La normalità del freno anti-incorporazione nell’amore non deve cancellare la ricorrente prova tragica del delitto passionale come metafora dell’ingestione; né i casi di regressione cannibalica verso il corpo bramato. In questa severa reductio biotrofica l’arte non può essere che danza, ossia mimesi ritmica dell’atto fagico comunque trasposto (dislocato, sublimato o mascherato).
All’uscita del libro era facile prevedere quanto si è puntualmente verificato: salvo pochissime, nobili eccezioni, il resto sono reazioni di indignato raccapriccio presso le anime timorate (ivi compresi i grandi Tartufi dotti e cattolici); di superciliose ironie nei campioni dell’accademia sedicente laica (così tributaria, in rebus, della secolare tradizione metafisico-religiosa: anche quando si autocertifica materialistica). Troppo sconvolgente, la Weltanshauung rayana, per la varia pigrizia mentale dell’intellighentsia maggioritaria, non solo italiana, ma planetaria. La quale risponde riconfermando ad augendum quei valori assolutizzati che Raya chiama maiuscole (per l’iniziale un tempo d’obbligo nei relativi lessemi). E che, purtroppo, stanno dimostrando una vitalità tetragona ai colpi dell’evidenza, moltiplicando l’orrore del mondo con le quotidiane stragi del terrorismo islamico e dell’altrettanto criminale stragismo indiscriminato dei cosiddetti Paesi civili e democratici, come gli Usa e certi loro satelliti. Che in entrambi i casi la catalisi religiosa operante nelle diverse forme del fanatismo strumentale sia evidente nel suo aspetto più cinico e catastrofico non turba i sogni del quietismo mammonico ammantato di sonanti ideali. La voce del fantasma rayano, così chiara e forte contro le maiuscole potenzialmente assassine, continua a gridare nel deserto.
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Questo è l’uomo cui si continua a far torto anche da cenere. Gli universitari, quando gli proponi di fare qualcosa per ricordarlo, si defilano. Qualcuno perfino “scusandosi col dir non lo conosco”. Ma non è solo il mondo accademico a recitare de Raya il poco gagliardo ruolo delle tre scimmiette (“non vedo non sento non parlo”): il variegato e altrettanto discutibile universo giornalistico non è da meno. Anzi. Giornali che il Defunto onorò per decenni si guardano bene dall’onorarne le ricorrenze. Tra questi spicca per assenza ribalda La Sicilia, che Raya illustrò per oltre mezzo secolo con i suoi eleganti elzeviri e “Servizi speciali” (da anniversari celebri: veri densi saggi critici).
Ma i responsabili del quotidiano hanno fatto di peggio. Alla notizia della morte, mi si chiese il classico coccodrillo (ero il seguace più in, e collaboravo, come tale, a quelle pagine culturali dal 1974). Lo scrissi, contenendolo nelle nuove misure imposte dalla rinnovata redazione culturale. Lo portai, come al solito, ignorando che lo stavo mandando al macello. L’articolo fu squartato: un pezzettino-civetta in prima pagina, il “servizio”, sfigurato da tagli infelici, a pg.24, tra il vario ciarpame dell’Attualità. Eppure era uno schietto pezzo da terza pagina. La piccola infamia suscitò indignazione tra amici conoscenti alunni del mio liceo: tra questi, una animosa fanciulla (Mariagrazia Finocchiaro) scrisse una vibrata lettera di protesta al giornale, che, con “piacevole sorpresa” dell’autrice, la pubblicò (18. XII. 1987, “La parola ai lettori”; titolo La biografia di Gino Raya): unica, inattesa, goccia di gratificazione pubblica (o piuttosto di risarcimento) in quel mini-evento di ordinaria cialtroneria. Ancora mi chiedo come mai sia stata pubblicata la lettera. E per opera di chi. Qualcuno, in quel cafàrnao di nuovi Soloni e grilli parlanti, dovette accorgersi che la si era fatta grossa: non s’erano offese soltanto due qualificate firme del giornale, ma lo stesso quotidiano, sfregiato da quel sezionamento imbecille. Altra inevitabile domanda: in quale sacco gastrico ribolliva l’incomprensibile odio verso il binomio così seviziato?
E il suo paese natale, la sua piccola patria, Mineo, che tanto giusto onore tributa al grande Capuana (Monumento in piazza, fondazione, vie, ecc)? Cos’ha fatto per quest’altro suo figlio? Nulla, che io sappia: neppure, forse, intitolarne una via, una piazza, un vicolo. Non ci è capitato di vederne, nei nostri due approdi a quella attraente meta natalizia. Si vedono, bensì, i libri del Raya che si occupano di Don Lisi, tra le mille pubblicazioni esposte nel palazzo di famiglia; ma tutto finisce lì. Chi dicesse a quei distratti amministratori che per valore culturale e genialità Raya è molto più alto del maestoso monumento del pur bravo narratore e critico e professore e folklorista e burlone fotografo ex sindaco don Luigi, li farebbe sorridere di ironia e compassione. Diremo, “Ai posteri”? Ma quali? Quando? Risuonano le dolenti note del Leopardi che fantastica del Parini, o della gloria. Egli, però, l’Infelice di Recanati, da cenere, di gloria ne ha avuta da riempire il pianeta e i secoli. Raya si deve accontentare di una dispersa presenza in rete (in vari siti è possibile trovare i suoi libri), dove lo studioso italianista (e dantista in particolare) nel suo sito internet Literary gli rende giustizia inserendolo fra i suoi densi Profili letterari siciliani dei secoli XVIII-XX (in cui ospita perfino il modesto sottoscritto). Gli siano rese grazie: non è quanto spetterebbe all’Ostracizzato, ma il poco è sempre meglio del niente. Al relativamente poco dell’infaticabile Ciccia è doveroso aggiungere il nome di Paolo Anelli, precoce autore di un vibrante pamphlet sul “Caso Raya”: Il silenzio delle farfalle infilzate. Sottotitolo: “La danza della vendetta di Gino Raya” (Firenze, Atheneum, 1991). Una testimonianza che è sempre un piacere rileggere. Intanto chi avrebbe pronti, da anni, un paio di robusti saggi, non può pubblicarli: la pensione di prof. di filosofia nei licei non consiglia consistenti spese extra-domestiche. Quanto alla famiglia del Rimpianto, opaco silenzio sull’argomento.  GINO RAYA, A VENT’ANNI DALLA MORTE










sabato 17 gennaio 2015

«Scapigliatura Catanese» di Gesualdo Manzella Frontini

Eravamo di quella generazione irrequieta, che aveva esercitato gli spiriti bollenti sotto il Consolato Austriaco, gridando « Viva Trento e Trieste » e cantando l'inno a Oberdan s'era fatta piattonare  dalle daghe dei questurini.

Generazione segnata dal destino per due guerre.
Fu proprio nelle vacanze che precedevano l' ingresso all' Università che il gruppetto iconoclasta sopraggiunto dalle smanie volle concretare la sua azione, confidando ad un giornale tutte le speranze e le certezze di un rinnovamento.
Tre matricole e un paio d'irregolari, e c' era un  anziano studente  di filosofia.
Vacanze torride dell'agosto siciliano, anzi catanese, così che alle scalmane letterarie dava vital nutrimento la calura del lastricato lavico del Corso Stesicoro fluido tra i vapori, e dissolvetesi lontano l' Etna.
Avevamo sulla coscienza tre o quattro giornali letterari e un mucchio di debiti con tutti i tipografi, e scantonavamo con apprensione all'odore dell'antimonio, pur avendo rifilato con dignità e cuor trepido ai genitori le note insolute del nostro primo  assalto  alla  gloria.
Tempi di preparazione e di orientamento verso una cultura più vasta, e d'insofferenza per ciò che andava deteriorandosi del tramontato ottocento. Diane vaghe, con programmi ancora in fieri, ma si attaccava la vecchia cultura e il vecchio mondo.
Le nostre aspirazioni si polarizzavano verso Firenze. Il «Leonardo», Papini, il pragmatismo, le questioni sociali : le distanze ingrandivano i fatti e gli uomini, quaggiù ci sentivamo spaesati e senza destino. I colleghi universitari che ci avevano preceduto di tre o quattro anni si erano composti e addormentati nella polemica Carducci-Rapisardi, che noi consideravamo ormai superata, e ci lasciava indifferenti. 
E infatti deposto il berretto goliardico, s'era visto che di quei propositi audaci non restava che il desiderio di collocarsi, anche a tradire, al canto del gallo.
E quando si era saputo che il Rapisardi lasciava la cattedra si direbbe che si era provato un certo chiuso compiacimento. Del resto la facoltà di lettere era in quel tempo fra le più salde e quotate : 
Carlo Pascal, Ettore Romagnoli, Paolo Savj-Lopez e poi, onore grande per noi letterali, l' assunzione di Luigi Capuana a maestro di stilistica e lessicografia. Una cattedra come un'altra, ma l'orgoglio di poter sentire la parola di uno scrittore vivo e vegeto, che la generosità di un Ministro aveva cercato di strappare alle incertezze di una vita precaria ci strinse attorno al Maestro  benigno e sorridente.
Il « Circolo Artistico » era il nostro covo. Fra gli insegnanti della vigilia liceale, colta gente compassata e tradizionalista, e noi pochi reprobi si stabilirono relazioni di generosa simpatia da quella parte e di ossequio ironico da parte nostra.
Qualcuno di noi aveva già lanciato un volumetto ribelle, fin nel titolo, dai banchi del liceo, « Novissima » semiritmi, con la certezza di far dispiacere ai professori, mentre poi aveva dovuto subire una affettuosa e commossa paternale sulla intemperanza, le imitazioni, gli echi abbondanti ch'erano  nel libro incriminato.

E intanto Giovanni Verga, al quale, arrossendo, facevamo tanto di cappello, passando davanti al « Circolo Unione » aveva propinato l' elisir delle più folli speranze al giovanetto audace, che osava dedicargli un suo volume di novelle anticipato da una prefazione che annunziava il crollo di tutte le tradizioni e di tutte le regole e la rivoluzione più interessata e inesorabile della sintassi. Vale la pena di trascrivere la lettera illuminata dal grande sorriso di quel galantuomo fine e ironico.

Egregio Sig.  Manzella, La  ringrazio del volumetto che ha voluto mandarmi  « per   un   giudizio »   ma io non  mi sento vocazione nè veste di giudice, e men che meno dopo quel po' di roba che dice avanti « ai miei critici ». Senta, per quella simpatia che mi ispira il suo ingegno di cui dà in queste prime novelle una magnifica promessa — glielo dico subito — nelle illusioni dei suoi vent'anni ci son passato anch' io — e anche per la simpatia che Ella mi dimostra dedicandomi una di queste sue novelle, lasci stare i titoli e sottotitoli violenti, le prefazioni gonfie e vuote — ne ho anch'io sulla coscienza — i propositi fatui di rinnovazione e di resurrezione, e lavori, e faccia e rifaccia con gelosa e incontentabile autocritica. Ella è giovane, beato lei, ha dell'ingegno, e può fare. Questo glielo dico un po' bruscamente forse, e forse pei intonarmi allo stile della sua prefazione, ma sinceramente, e badi che non faccio complimenti, e il lieto pronostico che faccio a lei non fo a tutti. Così la mia franchezza anche sgarbata, le si mostra più sincera e le farà piacere. 
Buon augurio a lei  G. Verga.

Figurarsi. Il giovanetto, che slittando sulle sferzate del Maestro, si adagiava, compiaciuto, sulle parole buone, dettate certo dalla cordialità dell' artista arrivato, s'era collocato capo gruppo.
In quella lettera del Verga c'era stato indubbiamente lo zampino del Capuana, che se amava quel trio di scapestrati ribelli, fedelissimi uditori e appassionati delle sue lezioni, di tanto in tanto, se l' occasione si dava, non risparmiava qualche stretta di martinicca.  Tant'è i tempi stringevano e bisognava bruciare le tappe. Il giornale ci voleva.
E una sera, il giovane fu incaricato di redigere un manifesto ch'egli indirizzò « alla gioventù contemporanea e agli artisti giovani». Bisognava parlare chiaro e forte, rompere il sonno agli indolenti, menar le mani, lanciar sassi, non importa se taluno senza indirizzo preciso. Anche a Palermo c' era odor di battaglia. A Messina si era lavorato di lena già qualche anno prima con la rivista « Ars Nova » ove collaboravano giovani preparati solidamente, acuti e aggiornati. Fermento, ch'era in fondo, il sintomo di quella nuova Italia che si annunziava in crescenza portentosa, dopo l'equivoco torpore del passaggio inavvertito del secolo giovane sul vecchio. 
Strabiliati i professori, ch'erano stati chiamati — i nostri vecchi professori del liceo — a fiancheggiare l'opera dei giovani, ma che in realtà avrebbero dovuto, paziente milizia in borghese, impedirci audaci sconfinamenti.
Il manifesto ne uscì stroncato, mutilato, scapitozzato, roba da far pena. Noi ci vendicammo facendone stampare un'edizione ufficiale per tranquillizzare gli spiriti diffidenti di taluni amministratori del « Circolo Artistico » e risparmiare la dignità e l'onorata divisa dei nostri ex-professori; e un'edizione alla macchia che ci affrettammo a lanciare fra gli amici e i conoscenti della Penisola, mentre qualche copia riservata veniva fatta scivolare nelle tasche degli accoliti e dei novizi, che guardavano a noi come a gente di gravi propositi. Il manifesto s'infiorava di simili frasi:
« Parta dalla terra del sole, dalla città ardita sotto l'incubo del minaccioso possente ubero di fuoco, o fratelli giovani, dispersi fra le ruine d' Italia, la voce di rinnovamento»; affermava la necessità di « risvegliare le virtù della razza » e si proponeva « senza preconcetti, scuole, formalismi, di seguire l' istinto vergine da ogni tocco d'imitazione». «Noi siamo la vita e il futuro, oltre ogni teoria per un fine di rinnovamento: noi  rechiamo in noi l'avvenire».
A Luigi Capuana fu fatto leggere il manifesto stampato alla macchia, l'edizione integrale. 
Il Maestro parve perplesso. Forse in cuor suo si doleva di talune contingenze di carattere pratico, per le quali non aveva accettato la direzione del periodico «Critica ed Arte», che poi durò un anno e che nell'ordinamento e nel carattere programmatico, specie nei primi numeri, fu il giornale più aderente alla famiglia di cui era il rappresentante : disaccordo dichiarato, profondo, congenito, simpaticamente incongruente. Atteggiamenti e pezzi prefuturisti fra articoli e novelle barboge, talvolta  mattoni   eruditamente  deprimenti,  poesie di Tommaso Cannizzaro e folgorazioni  stellari del Marinetti.
Frattanto, era nata la « Voce » e con più scaltri aggiornamenti e con più diretti contatti si aggrediva da ogni parte la resistenza passiva dei detentori di quella cultura che si esauriva in sè stessa, senza mete, senza ideali. Per qualcuno di noi però tutto ciò aveva importanza fino ad un certo punto, che ritenevamo 1' arte dovesse rimorchiare o almeno aprire la via alla politica, e non farsi rimorchiare.  Il giornale era morto.
Ed ecco improvviso sul nostro cielo teso nella stanchezza, grave sui nostri spiriti (propositi di evasione scoppiavano qua e là definitivi) guizzare un giorno il fulmine futurista. Marinetti da Parigi lanciava il suo Manifesto e voleva uccidere il chiaro di luna.
Quella sera ci trovammo tutti, e l'autore dell' appello « alla gioventù contemporanea e agli artisti giovani » ebbe il suo quarto d' ora di rivincita. Sembravamo impazziti. Conoscevamo Marinetti. Egli faceva sul serio, e chiedemmo d'essere con lui e ci affidammo alla sua sapienza tattica e al suo impeto, che ci sapeva del vulcano poderoso, il quale avevamo chiamato a testimonio delle nostre intenzioni e del nostro programma distruttivo. Marinetti rispose con una lettera, che oggi ha un interesse documentario, che narra un programma realizzatosi nella storia.
« Caro Collega, ho trovato nel vostro invito agli artisti giovani e alla gioventù contemporanea un fervido e magnifico grido di riscossa, genialmente lanciato alle forze virili della letteratura, perchè esse si manifestino « senza scuole, preconcetti e formule, seguendo l'impulso vergine d' ogni tocco di imitazione » : questo è infatti uno degl'impulsi che hanno prodotto il nostro Movimento Futurista, ma non la sua essenza distruttiva e ascensionale, che non abbiamo inventata nè voi, nè io, come nessuno ha inventato — permettetemi lo scherzo — le instancabili forze vulcaniche che screpolano la vostra Isola divina. Io  mi sono accontentato di dare la formula esplosiva e incendiaria di un ammasso di sorde rivolte, di nause profonde, di disgusti feroci contro il culto del passato, l'impero dei morti, la tirannia dei professori, dei politicanti astuti, pacifisti e conservatori. Il futurismo non è altro che una parola facile e leggera da sventolate dovunque il genio creativo trionferà delle strettoie scolastiche, dovunque il sangue irruente sarà sparso prodigalmente per una idea ; dovunque si lotterà senza paura per distruggere quotidianamente tutto ciò che agonizza in noi, per meglio abbracciare l'irruente futuro. Senza paura, dico, senza guardarci alle spalle, camminare, correre velocissimamente nella polvere  dispersa dei nostri morti. Senza paura, dico, poiché l'Italia è disgraziatamente ancora un paese di vigliacchi, di uomini seduti in poltrona a sognare, o a collezionare francobolli. Disprezzo del passato, libertà assoluta a tutte le follie, a tutte le ebbrezze del sangue ; tutti i diritti alla gioventù, e, ai vecchi, soltanto quello di morire. Ecco il programma che il nostro sangue c' impone ! La guerra, presto ! Domani, speriamo; contro l'Austria, naturalmente, poichè da tempo siamo infastiditi dalle sue insolenti gomitate!... La guerra, poichè tutto infradicia, si avvilisce e si mummifica nella pace!... La guerra, con la immensa fiammata d'entusiasmo, di disinteresse e di eroismo, coi suoi crolli, con le sue rovine, con la sua congerie di prudenze calpestate, di legami infranti, di esistenze capovolte. Futurismo vuol dire ancora : liberazione dai rancidi sentimentalismi che appestano la letteratura, liberazione dalla tirannia dell'amore, che schiaccia e  falcia  le  migliori  forze  dei  popoli  latini.
Come vedete, nulla ho inventato: ho semplicemente espresso in una forma violenta le idee che ribollono nella migliore parte della gioventù italiana. In Italia, dove non si fa, ahimè, che del personalismo, disprezzando i pensieri degli uomini, per non giudicarne che le facce, gli abiti, e la borsa, il Futurismo fu accolto da un uragano di insolenze, accusato di bluf, di reclamismo ad oltranza. In Francia, invece, in Inghilterra, nell'America del Nord e nel Giappone il Futurismo fu salutato da una salve di applausi, suscitando discussioni e controversie che ne assicurano ormai il trionfo. Questo tenevo a dirvi, caro collega, per la simpatia che io nutro per il vostro ingegno novatore, e per le alte idealità che ci sono comuni. Vostro  Marinetti
Prima di questa lettera c'era stato un momento di perplessità avvilita, ma poi vinse in noi l'impetuoso temperamento siciliano. E cominciò lo scambio ininterrotto torrenziale di corrispondenza fra il giovane e l'Apostolo.
Catania   divenne   stazione collegata d'irradiazione futurista. I bombardamenti marinettiani esaltanti l'originalità l'ingegno il coraggio dell'isolano seguivano   agli   articoli   a  catena,  che  dal quotidiano della città spazzavano finalmente, lanciati a serie, l'aria morta e suscitavano curiosità; interesse, irrisione  e  perfino  un duello. Cari giorni indimenticabili in cui si viveva per mille, nella illusione di vedere crollare il vecchio mondo fra le convulsioni. 
E all'Università che cosa avveniva?
Molti  colleghi   vollero  dignitosamente  dimostrare il   disappunto,   fischiando   il   Futurista, e furono battuti dal  gruppo esiguo, e non soltanto metaforicamente. Marinetti prometteva una sua prossima visita :  bastava  questo per esaltare il collega lontano  —  che  fra  l'altro anche gli amici si dissipavano:   la   vita   diventava   impossibile.   Questo mio   vecchio popolo catanese, satrapo di tante civiltà, esperiente e ironico, quando non esalta irride. Ma era bello restar solo, disdegnoso: adorno zavorra. E finalmente scoppiò l'ultima bomba che sconvolse molte posizioni avversarie.
Il propagandista instancabile,  che attendeva la visita della pattuglia futurista nel suo paese, ov'era quasi solo a difendere,  sentinella  morta,  il movimento, osò una sortita in campo nemico con un audace mossa tattica, servendosi di un mascheramento, che proteggeva moralmente  l'avanzata.
Si era pubblicato allora allora  «l'Incendiario » del Palazzeschi,  ed ecco sulla terza pagina del quotidiano un articolo dedicato a «Luigi Capuana, sempre giovane» .  Il Maestro aveva infatti talune idee personalissime sulla funzione stimolatrice e quasi  precorritrice  della critica.
Pochi giorni dopo con grande meraviglia dello stesso autore dell'articolo, perveniva al giornale, col nulla osta per la pubblicazione, la lettera che pubblichiamo, quasi integralmente, e della quale il Marinetti fu entusiasta.

« Caro Manzella Frontini. Voi lusingate gentilmente la mia vanità chiamandomi in pubblico «sempre giovane». Grazie. Mi avete fatto ricordare di quando ero giovane davvero e un po' ribelle, come e quanto poteva permettermelo la mia indole tranquilla, alquanto scettica nonostante gli entusiasmi che mi spingevano a lavorare. Se ora l'età mi consiglia di tenermi in disparte, il ribelle di di una volta si compiace però di stare a guardare e ad ascoltare quel che fanno e dicono i giovani vostri pari; e soltanto il timore di sembrare ridicolo, come tutti i vecchi che hanno la velleità di mostrarsi galanti a dispetto degli anni, m'impedisce di mescolarmi alle vostre discussioni e di manifestare quel che penso intorno alle opere, versi e prosa, che le traducano in fatto.
Ma nell'intimità di questa lettera di ringraziamento posso prendermi la libertà di dirvi che la notevole spiegabilissima esagerazione del loro programma non m'impedisce di approvare nel giusto valore i Futuristi. Se avessi cinquant'anni di  meno,   mi  dichiarerei  uno  di  loro.
E evidente che essi chiedono cento per ottenere almeno venti ! Sono giovani di grande ingegno: e se fanno un po' di chiasso, questo dimostra  che intendono il  loro  tempo.
In un certo modo il Manifesto del Futurismo mi sembra una fierissima satira al pubblico distratto e alla pedanteria che vorrebbe continuare a baloccarlo con le vecchie formule retoriche, classiche o romantiche, non significa niente. 
Che Marinetti e i suoi amici siano dei matti da legare è tale enorme sciocchezza da non potersi attribuire saviamente neppure ai loro oppositori, Marinetti è un raro poeta, un fortissimo artista. Chi ha scritto « Roi Bombance » e « La ville Charnelle » dev'essere preso molto sul serio.
Buzzi, Cavacchioli, De Maria, Palazzeschi e gli altri, chi più chi meno, han dimostrato di voler tentare nuove vie, e fan prevedere che, presto o tardi, sbarazzandosi facilmente dell'esuberanza - chiamiamola così - giovanile, daranno geniali e notevoli frutti di arte elevata e sincera.
So che Marinetti e i suoi apostoli verranno a Palermo e, forse, a Catania. Credo che da noi non avverrà la indecente gazzarra di Napoli e di altri posti. 
Chi non combatte idee e uomini per partito preso, dovrebbe cavarsi il cappello davanti a questi coraggiosi giovani che hanno cultura ed ingegno da vendere. E, dopo tutto questo, lasciatemi invidiare la vostra  reale giovinezza.
Cordialissimi  saluti dal vostro
Aff.mo  Luigi  Capuana

Lo sbaraglio fu completo fra gli universitari, la vittoria passò ingagliardendo i tiepidi e convinse perfino coloro che per temperamento non avrebbero mai piegato il capo carico di morte formole  e  di sorpassati pregiudizi. La lettera del Capuana fu riprodotta dal Marinetti in migliaia di esemplari e divulgata in tutto il mondo.
Il lievito spirituale di quel movimento già dava sul suolo di Tripoli quella prodigiosa fermentazione, che sarà più tardi evidentissima nella falange del  volontarismo futurista del  '15.
G. Manzella Frontini

* Tratto da Catania rivista del comune 1955 - articolo gentilmente offerto da Teodoro Reale.