Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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giovedì 23 marzo 2017

EVOLUZIONE E PESSIMISMO - Lettera al Prof. Enrico Morselli




Illustre signor professore,


Ciò ch' ella scrisse in un fascicolo della sua non dimenticabile Rivista di filosofia scientifica e che io leggo ora dopo tanto tempo, intorno al "Pessimismo ed Evoluzione"del Trezza, e l'accenno benevolo ch'ella fa alla graduale emancipazione del mio spirito e alle opere mie, che questa emancipazione riflettono, mi porgono la grata opportunità di manifestarle come io l'intenda circa all'importante questione cosi splendidamente agitata e a modo suo risoluta dal pensatore veronese: non per la speranza di recare in essa alcun lume, ma per la necessità, in che le sue parole mi han messo, di chiarire l'intento dei miei ultimi lavori, delle Poesie religiose in ispecie, da lei benignamente citate, come quelle che segnano la mia redenzione dal pessimismo e l'acquetamento dell' animo mio nella contemplazione e nella rappresentazione serena del vero.

Ecco : se per pessimismo ella intende quello sistematico dello Schopenhauer, e quello sentimentale del Leopardi, io non solo me ne sono liberato, ma non saprei dire in coscienza se l'abbia mai pienamente sentito e in quale delle mie opere abbia esso lasciato una traccia. Secondo me, il pessimismo, di cui oggi si parla tanto, come conseguenza necessaria delle nuove dottrine, non è da confondere con quello del filosofo tedesco ; il quale guidato in ogni sua speculazione dal preconcetto di accordare tutte le dissonanze della natura, della storia e della coscienza in un sistema, riuscì a darci una costruzione (e chi può negarlo ?) ingegnosa e geniale in molti particolari, ma assolutamente metafisica nell'insieme ed assurda. Quella famosa, volontà necessaria, che finisce con l'affermazione della propria libertà nell'annientamento di sé stessa, e la conseguente glorificazione dell'ascetismo, considerato come la più alta espressione della saggezza, della perfezione e quasi della santità, vera dello spirito umano, tolgono alla dottrina schopenhaueriana il diritto di concorrere scientificamente alla soluzione dei grandi problemi che travagliano le menti contemporanee.
Il pessimismo che sgorgherebbe dalle teorie nuove non ha nulla di comune con esso. Anche accordando alla felice ipotesi darwiniana il valore d'una legge universale, noi non possiamo certamente risolvere con essa il problema delle origini, né spiegarci in modo positivo e sodisfacente il dolore e la morte, duplice sfinge, che dilania fra le tenebre il povero spirito umano. Pretendere coi positivisti che la ragione, riconosciuta la propria impotenza, rinunzi per sempre alla ricerca dei principi dell'essere ; asserire, che il regno del mistero, o come dicono, dell'Inconoscibile, sia per rimaner sempre inconcusso ed intatto agli assalti audaci del genio e alla paziente indagine scientifica, è una contradizione patente a quella stessa legge d'evoluzione, ond'essi s'impromettono tanti miracoli. Ma pur concedendo che il dominio dell' Ignoto sia come il territorio delle pelli rosse, per valermi della similitudine del Fauerbach: si vada, cioè, restringendo sempre più agli avanzamenti continui della civiltà ; e che sì possa un giorno scoprire una legge che ci spieghi i primordi dell'universo, chi può lusingarsi, che una verità di tal fatta sia per liberare gli spiriti dalla tristezza, onde li fascia il tetro spettacolo del cotidiano dissolvimento di tutte le forme ?

Forse il dire che l'individuo soggiace alla morte, ma la specie se ne libera e si perpetua, perchè della conservazione e della propagazione della specie ha cura precipua, anzi unica, la natura, basta a consolarci del dissolvimento di tutto ciò a cui presentemente è legata la nostra esistenza?

Bella consolazione davvero ! O che cosa è la specie, di grazia ? Esiste essa forse altrove che nel cervello dei filosofi classificatori ? Nella natura io non vedo altro che individui. Or finché la vita è una individuazione, il pensiero una funzione, la coscienza una stratificazione: finché la morte è il disgregamento di quelle parti, onde il pensiero, la coscienza e la vita ebbero principio e nutrimento, e da cui trassero la mutua forza e l'armonia indispensabile a ogni lor menoma operazione, l'idea di un tale disgregamento, fosse pure scompagnato da qualsiasi dolore fisico, getterà sempre un profondo sgomento nelle menti più nobili e generose. E questo sgomento pullula spontaneo dalla concezione meccanica dell' universo, dalla conoscenza, cioè che la vita non è altro che un gioco dell'essere nell'infinito.  Certo un si fatto sentimento non dà campo a fantasmagorie ed allucinazioni religiose, a miti oltramondani, ad abdicazioni vigliacche ; esso può anzi esaltare in sé stessa la mente del pensatore, generare quasi un'ebbrezza dell'anima, dando luogo a pensieri ed immagini sublimi, quali han saputo darceli qualche volta i filosofi geniali come lo Schopenhauer e i poeti divini come lo Shelley, ma chi può negare, che codesto sentimento indeterminato versi su l'anime più libere un'ombra di profonda malinconia e smarrisca in un labirinto inestricabile i cuori più forti e le menti più sagge? Come sperare che se ne liberi il pensiero moderno, se non ne andarono esenti neppure i Greci, che furono di noi più gagliardi e più sani, e meno di noi penetrarono nelle cose?

Nè giova dire, che la legge dell'evoluzione, presentandoci l' uomo in una perpetua ascensione da carne a spirito e armonizzando sempre meglio i moti del pensiero con quelli del mondo universo, ci redimerà finalmente dalla tristezza, che nasce dalla considerazione del male e della morte quali condizioni indispensabili della vita. Se l'uomo sarà sempre un composto di ragione e di sentimento, egli non potrà mai tanto uscir di sé stesso da rassegnarsi alla distruzione di quelle forme, a cui sono intimamente legate le funzioni, gli affetti e gli ideali della sua vita. La ragione gli proverà che le sue ansie son vane; che la sua smania d'immortalità è ridicola : che non giova nelle fata dar di cozzo; ma l'indole sua, ch'è il resultato necessario d'una lenta elaborazione a traverso i tempi, i climi, le razze, lo spronerà pur sempre a scavalcare il limite fatale, a spezzare la porta adamantina, ad assediare d'interrogazioni dolorose la sfinge marmorea che siede indifferente sull'immensa piramide edificata con le ossa di mille generazioni nel1'interminato deserto. Forse m'inganno: ma questo dissidio fra la ragione e il sentimento, contro cui tanti filosofi della nuova scuola avventano le frecce più acute della loro dialettica, quasi a bicipite mostro generato da stolte religioni e da falsi metodi educativi, a me sembra radicato nelle viscere stesse dell' essere umano, mi pare anzi effetto necessario d'una legge universale: giacché non arrivo davvero a comprendere un attività e quindi una manifestazione qualunque della vita, senza resistenze ed attriti, senza quelle fluttuazioni e discordanze, onde risulta la universale armonia, e che sole rendon possibile la conservazione e il perfezionamento degli esseri. Ora, se la scienza non dee contravvenire alle leggi della natura: se l'educazione può formare abiti nuovi, non creare novelle facoltà, qualunque spiegazione si tenti del doppio problema, noi non giungeremo probabilmente giammai a mettere d'accordo il bisogno sempre crescente di felicità con la considerazione della indifferenza indeprecabile della natura nella produzione e nella distruzione delle sue forme. Per ammettere la possibilità d'una tal conciliazione è necessario supporre che lo svolgimento incessante del genere umano giungerà finalmente a sopprimere e cancellare dai nostri organi tutte le eredità sentimentali non solo, ma ad atrofizzare gli organi stessi destinati all' acquisto e alla elaborazione dei sentimenti : a distruggere insomma una parte, non dirò se la più bella o la più brutta, ma una parte necessarissima alla interezza armonica dell'essere umano.

Come potrebbe la ragione, fredda e crudele vincitrice, governare più la vita, senza il sentimento, entità intermèdia fra la sensazione e il giudizio, che serve ad armonizzare nell' uomo i due estremi della vita sensitiva e della vita razionale ? Data come possibile una si strana vittoria, le fonti stesse del pensiero rimarrebbero congelate, esaurite le forze produttrici della coscienza: l'anima umana cadrebbe in quello stato di raffreddamento a cui giungono man mano i corpi celesti, e la povera ragione vittoriosa sarebbe condannata a regnare sopra un deserto di pomici. Se questo è pessimismo, mio riverito signore, io ero già pessimista, quando scrivevo il Giobbe e pessimista sono anche adesso, dopo le Poesie religiose. Ma questo pessimismo, giova ripeterlo, a me non sembra punto metafisico o sentimentale. Giobbe non rinnega la scienza, non dispregia la vita : egli chiede solo al sapere quella pace, che prima ebbe chiesto a Dio, poscia a Satana, ma sempre invano ; e che dovrebbe, secondo lui, derivare dalla conoscenza piena della verità. La quale, fosse pur trista e terribile, non lo spaventa: egli ha sete inestinguibile di essa: vi si affogherebbe dentro ; questa è la sua debolezza o la sua virtù :

Dove 
Mi fosse inferno il vero, io vi starei : 
Il paradiso del beato errore 
Lascio agli stolti ed a' pusilli.

Quello che più lo tormenta è l'insufficienza del suo sapere:

Io sento 
lo sento pur, che pago esser non posso : 
Mirar ti vo', posseder tutta.

egli dice a Iside. L'impazienza di strappare alle labbra della dea impassibile la parola suprema della vita e di riposare finalmente nel seno della verità, lo spinge a varcare le colonne segnate come termini ai voli indomabili del suo spirito.
Non è forse questa la storia perpetua del pensiero umano ? La tristezza desolata di Giobbe proviene dalla riconosciuta disuguaglianza fra il bisogno d'illimitata perfezione e libertà, ond'è travagliato il suo animo, e la ristrettezza miserevole dei mezzi scientifici per soddisfarlo. Deve egli rassegnarsi ? No : gli parrebbe rinunziare alla parte migliore di .sé stesso : alla sua perfettibilità. Onde il problema apparso primamente al suo spirito, provato dalla sventura, non che trovare una qualsiasi risoluzione, si propone alla fine del poema con tragica insistenza. 
E questo prova, se non m'inganno, che le ipotesi più o meno felici nel campo delle scienze fìsiche e morali, e le leggi più ardue rapite dal genio umano al seno misterioso dell essere, possono per qualche tempo appagare gli spiriti più insaziabili, adagiarli in un tal quale riposo, accenderli magari di subiti entusiasmi, quasi fosse in lor potere finalmente la chiave dell'universo; ma l'avidità smaniosa di sempre nuove ricerche ritornerà presto a turbarli ; il pensiero cresciuto di nuove forze, lusingato dalle
recenti vittorie, si getterà animoso per altre vie, tenterà più difficili erte, affronterà enigmi più terribili, sfonderà più gelosi misteri ; riposerà novamente per qualche tempo, e ricomincerà poco dopo il suo tempestoso pellegrinaggio. Il quale se dovesse un giorno aver termine in una quiete e beatitudine universale, io non intenderei più l'evoluzione, nè la scienza, nè la vita. L'idea di questo perpetuo travaglio del genere umano può non essere, anzi non è davvero consolante, se si considera il-nostro bene supremo come un che di stabile e d'assoluto, impossibile ad essere raggiunto e posseduto tutto in una volta da tutto il genere umano. 

Deve perciò l'uomo querelarsi femminilmente delle illusioni perdute, maledire la natura, proclamare la nullità di tutte le cose, profondarsi e cristallizzarsi nella stolta rinunzia di tutto ciò che il mondo può dare a nostra consolazione ed a nostra salute ? La differenza del mio pessimismo da quello di tanti altri sta per l'appunto qui. Il male e il dolore ci attraversano le vie della vita ; la morte dissolve il laborioso tessuto della nostra coscienza individuale, disperde in atomi impercettibili un organismo che ospitò il pensiero, che si credette e fu veramente lo specchio della Natura, il prisma della storia, il tabernacolo dell'Ideale. E che perciò?

Finché ruggendo pugni, giovin leone il dritto            
Oscuro al volgo e da'monarchi irriso,                        
E tra le fiamme e il sangue del prometèo conflitto,        
Vergine Libertà, splenda un tuo' riso ;

Finché tra' naufragosi vortici del mistero
V'è una Sfinge che tacita seduce,
Fra' granitici errori una gemma del Vero,
Negli anfratti del core un fil di luce ;

Finchè una fede in petto, al Ver le ciglia fisse, 
Bella è la morte e nobile il cimento,
O Vita, eterna Circe cui solo doma Ulisse, 
Al tuo magico reguo ecco io m'avvento!
(Poesie religiose. Ballata).

Si, perchè la necessità della vita c' impone l'obbligo di combattere le forze malefiche, ond'è infestata la selva della terra; di adoperare l'ingegno, l'industria, le armi che la natura ci ha dato per diradare e vincere gli ostacoli che si frappongono al nostro benessere, per aver la prevalenza nella lotta cotidiana, per ascendere l'erta dell'Ideale, per proseguire questo crescente fantasma fin dentro agli orti incantati dell'Utopia e incarnare a poco a poco nella realtà gl'iridescenti miraggi, ond' ei si rivela agli eletti. Così, a modo mio di vedere, la conoscenza profonda dell'essere, ancor che fonte inesauribile di tristezza, non ci prostra in un abbandono codardo, non annienta in noi l'energie della vita: ci stimola anzi a valerci armonicamente delle nostre facoltà ; ad esercitare nel limite prescritto ciò che diciamo la volontà per aggiogare al nostro carro le forze ribelli della natura e governarle e dirigerle al nostro meglio ; ci apre il cuore al compatimento e all'Amore dei nostri simili non solo, ma di tutti gli esseri destinati a vivere e travagliarsi nell' infinito : ci rende veramente uomini, ch'è quanto dire esseri morali, consapevoli di sé e delle circostanze, atti a conquistarsi un posto al banchetto dei forti, e conseguire quel summum bonum, onde può essere abile una coscienza destinata a dissolversi in poco e sparire nella universale fluttuazione dell'essere.
Questo dicono in sostanza le Poesie religiose: e questa, se non erro, è la parola ultima della scienza moderna. Dopo tante negazioni e distruzioni è tempo ormai d'affermare e d'edificare qualche cosa. La baracca delle religioni storiche si sfascia, ma l'edificio morale, la religione vera ed universale, s'innalza splendida su basi positive ed umane. La pace che mal si chiede alla pompa di lussureggianti dottrine, non si può altrimenti ottenere che per la conoscenza del proprio dovere e per la coscienza d'averlo compiuto: d'avere, cioè, adoperato, secondo le leggi universali della vita e nella misura richiesta, tutte le nostre forze, in ordine al miglioramento fisico e morale dell'esser nostro e dei nostri simili. A formare in noi questa coscienza deve anzi tutto concorrere la scienza dell'educazione. Non essendo da porre in dubbio che motivo d'ogni nostro movimento o fine d'ogni nostra azione è il vantaggio, tutto si riduce a educare in noi il concetto dell'utile, a modificarlo cioè man mano che i bisogni si moltiplicano, i sensi s'ingentiliscono, il capitale morale si accresce, l'orizzonte morale si slarga. Ogni sentimento umano a me par simile a un raggio, che tanto più si dilata e diffonde, quanto più s'allontani dal centro di projezione. L' amor di sè, che si manifesta così gagliardo nell' uomo primitivo, da non fargli neppur sospettare, che la vita d'un suo simile valga qualcosa di più della sua più grossolana sodisfazione, si viene a traverso la storia dilatando e purificando a segno da giungere al concetto altamente morale che il nostro vantaggio non può assolutamente scompagnarsi dal vantaggio di tutti gli altri esseri, e che il sommo bene dell' individuo consiste appunto nella relativa felicità del genere umano. Onde la carità o l'altruismo, come dicono, non è in sostanza altro che l'amor di sè nel più alto e sublime grado della sua espansione.


O Carità, per te sconfitta cade
L'ira che sul confin torbido eretta
Incaina le genti, e d'empia clade
Le messi infetta.

Disserransi al tuo piè gl'invidi chiostri,
Che alle genti, alle specie un dio prescrive;
Ecco, scevra di vincoli e di mostri
Iside vive.

Sconfinasi la terra, apresi il polo
S'avvivan gli astri al tuo soffio fecondo.
E d'una sola forza e d'un cor solo
Palpita il mondo.

O di luce e d'amor fonte infinita.
Per te santo è il dolore, utile il vero;
Solo per te dell' universa vita
S'apre il mistero.
                            Poesie religiose. Charitas

Altro le direi, illustre professore, ma questa lettera è già troppo lunga; e certe cose non vogliono esser discorse alla leggera. Nè mi sarei attentato di metter bocca nella rilevante questione trattata con sì nobile entusiasmo dal Trezza, se Ella con autorità pari alla benevolenza non mi avesse citato ad esempio di mente colta ed illuminata, son sue parole, che si accosta senza pregiudizi e senza sentimentalismi alla severa ma consolante filosofia dell'Evoluzione, lo ho creduto dover mio confessarle fino a che segno codesta filosofia a me sembri consolante e con quali intenti mi sia ingegnato di rappresentarla nell'arte mia; se non che temo non aver detto abbastanza nè assai chiaramente per farmi intendere.
Supplisca Ella al mio difetto, e mi abbia per suo

                                                                            Obbl.mo
                                                                           Mario Rapisardi.




* ed. Nerbini 1906 (Giobbe)



martedì 22 novembre 2016

MARIO RAPISARDI POETA DELL'APOCALISSE

Il titanico creatore del poema Lucifero, il dissacratore di miti e di leggende, di santi e di credenze religiose, la cui potente fantasia nutrita di aneliti libertari raggiunge l'acme nel Canto decimoquinto con il trionfo di Lucifero e la morte dell'Eterno, conclude la vicenda di un luogo terrestre « [...] menre l'eroe discende sul Caucaso, ed annunzia a Prometeo la fine dell'impresa», e rivolgendosi infine al medesimo nell'ultimo verso del canto e del poema: «Levati, disse, il gran tiranno è spento!».



Non si direbbe, dopo l'exploit iconoclasta del 1877, che l'esordio poetico di vent'anni prima possa essere stato antitetico: il fanciullo, esile e timido, quindicenne — e «imbevuto, dalla puerizia, di cattoliche fiabe», come scriverà trent'anni dopo nell'«Avvertimento» ad una ennesima edizione del poema — aveva composto l'Ode a Sant'Agata, vergine e martire catanese (ispirata dalla festività e dalla devozione alla Patrona, nel febbraio 1859).
Per volere del padre, don Salvatore, patrocinatore legale, intraprendeva nel 1862 gli studi unversitari di Giurisprudenza (quando Giovanni Verga li aveva già abbandonati da un anno) per diventare avvocato e così ereditare la clientela paterna. La poesia e le pandette reclamavano dunque il suo tempo (ne concedeva molto alla prima e poco alle seconde). La Palingenesi (poema in dieci canti, Firenze 1868) gli procurò i primi riconoscimenti e i giudizi lusinghieri ed esaltanti (da quello notissimo di Victor Hugo a quello ignorato di Lionardo Vigo che, oltremodo entusiasta, inneggiava a Catania che ha un poeta-filosofo e stabiliva una similitudine con Vincenzo Bellini).

Naturale il dispiacere del padre, ormai certissimo di non vedere il figlio avvocato, che tuttavia un mese prima della morte — avvenuta a Catania il 15 gennaio 1871 — ebbe la gioia (e insieme la sorpresa) di apprendere che il ventiseienne Mario era stato chiamato, per titoli letterari, dal ministro della Pubblica istruzione Cesare Correnti con decreto emesso il 15 dicembre 1870, a dettare lezioni di Letteratura italiana nella Facoltà di Filosofia e letteratura (allora così denominata) del patrio Ateneo.
L'incarico nel primo quinquennio era precario, ossia rinnovato di anno in anno, e retribuito in maniera inadeguata ed insufficiente; e, quindi, la ricerca di un incarico di letteratura nel Liceo, su consiglio dell'amico Francesco Dall'Ongaro, letterato fiorentino. Il motivo vero della necessità di un'altra fonte di guadagno nell'autunno del 1871 — dopo il primo anno di incarico universitario — è il matrimonio già stabilito, e non lontano, con Giselda Fojanesi. La giovane maestrina fu raccomandata vivamente a Rapisardi, in una lettera del 23 aprile 1869, da Dall'Ongaro «Verrà probabilmente a Catania come maestra, una cara giovanetta Giselda Fojanesi. Dipende dal Consiglio comunale che non abbia impegni preventivi con altra. Se la mia nipote (nipote d'affetto) viene a Catania, voglio che trovi una famiglia amica nella vostra». Nei primi di settembre ebbe inizio il viaggio da Firenze, come scriveva da Firenze il 30 agosto 1869 Giovanni Verga alla madre: «[...] mercoledì mattina [...] mi metterò in viaggio colle signore Fojanesi e sarò a Catania sabato col treno della sera» (cfr. G. Raya, Bibliografia verghiana, Roma, 1972, p. 14).
Dall'ottobre successivo la Giselda insegnava in un educandato femminile della città, e dal 1870 era fidanzata con Rapisardi. I preparativi per l'imminente cerimonia nunziale e la partenza per Catania delle Fojanesi sono descritti dal medesimo Dall'Ongaro a Mario in una lettera dell'11 febbraio 1872. «Con quanto piacere avrei accompagnata fra le tue braccia la tua Giselda [...] Onde io l'accompagno co' miei voti e partecipo in ispirito al vostro contento. Ti scrivo queste righe, mentre la Giselda e la madre, e le mie donne si affaticano per apprestar la partenza».
Senza seguire i dettagli delle vicende ulteriori, diciamo che dal 1871, e maggiormente dal 1872, il peso gravante sulle gracili spalle di Mario si è perlomeno triplicato: la famiglia e il duplice insegnamento. Aveva, infatti, ottenuto dal novembre 1871 periodi di supplenze nell'anno scolastico 1871-72, e l'incarico annuale dal 1872-73 al 1874-75, di letteratura al Liceo «N. Spedalieri». L'insegnamento al Liceo lo abbandonò nel 1875, quando divenne straordinario di Letteratura italiana e gli fu conferito l'incarico di Letteratura latina. La poesia, inoltre, avviluppava la sua vita e richiedeva le più nobili energie intellettuali, da preservare e separere da quelle occorrenti per i compiti e le incombenze pur doverosi.
Nell'estate del 1876 il poeta era completamente assorbito in una complessa e gigantesca operazione di « assemblaggio » di ottave, sestine, quartine e terzine, fucinava, martellava e limava nelle ore notturne i versi — diventati man mano ben ottomi-laottocentosette — del poema Lucifero, a cui lavorava da ben quattro anni. Appunto dalla lettera di un amico fraterno apprendiamo che è del 1873 l'inizio della gestazione: «ho più fede nel suo Lucifero che nel discorso critico su Catullo, il quale non so veramente se le gioverebbe molto per conseguire una cattedra universitaria di Letteratura italiana» (Angelo De Gubernatis a M. Rapisardi, Firenze, 1 dicembre 1873).

Il 23 luglio di quel 1876 si svolsero a Catania (sindaco era l'avvocato Francesco Tenerelli) le elezioni amministrative per il rinnovo parziale del Consiglio comunale: da eleggere 14 consiglieri (il quinto annuale, aggiunti i deceduti e i dimissionari). Per il sistema elettorale allora vigente (maggioritario a scrutinio di lista), non vi erano liste precostituite da presentare entro termini prefissati.
Un settimanale dell'epoca: Gazzetta del Circolo dei Cittadini (che si pubblicava dal 1873 e vivrà fino al 1884), portavoce del sodalizio omonimo di professionisti, esponenti della media borghesia ed aristocratici, sistemato in locali eleganti della via Stesicorea, ritenne — di concerto con la «Società I figli dell'Etna» e con la «Società Operaia» di proporre una rosa o lista di candidati. Spiccavano fra essi Antonio Paterno marchese del Toscano, Francesco Tenerelli, Salvatore Di Bartolo, Mario Rapisardi poeta e docente universitario.
Un altro gruppo di candidati veniva proposto dal periodico La Campana, con sottotitolo « Organo del circolo cattolico catanese di S. Pietro», sorto nel 1875 e di chiara matrice clericale. Esponente di questa «lista» era il cav. Giuseppe Paterno Castello di Biscari e una nutrita schiera di professionisti. Le urne furono favorevoli ai candidati appoggiati dalla Campana e di essi furono eletti ben dodici. Dei candidati liberali, patrocinati dalla «Gazzetta», solamente due. E Mario Rapisardi? Di essi risultò il 7° dei non eletti, ottenendo ben 326 voti. Notevole quotazione per un candidato che non ha mosso un dito per farsi votare. Non vi furono, in questa prova elettorale, reazioni del Poeta in opposizione alla candidatura, proposta certamente senza preventivo avviso.
Il carattere difficile ed instabile del Poeta (le crisi esplosive dettate dall'ira si alternavano alle crisi depressive di tipo malinconico, che lo separavano da tutti in claustrale isolamento), gli rendeva la vita ancora più pesante nella scuola, nei rapporti con la stampa (di cui diremo in prosieguo) e di fronte alle candidature, non ricercate ma subite.

Rapisardi aveva già pubblicato Il Giobbe, trilogia, nel 1884, e nel 1886 era in pieno fervore per la raccolta poi denominata Poesie Religiose. Era uscito da un biennio di tormento e di angoscia, iniziato alla fine di dicembre 1883, allorché scoprì la relazione di Giselda con Giovanni Verga, ed attenuato dopo l'incontro e il conforto di Amelia Poniatowski, nuova compagna fino alla morte. I valori dell'amicizia intaccati e corrosi dopo quel trauma; ma nei confronti di due: Calcedonio Reina («Calcidonio, l'amico onde più gode l'animo mio [...]») e Niccolò Niceforo, lontano dalla città ma sempre vicino con la parola scritta, conservò la concezione quasi sacrale dell'amicizia. Un grande amico rimase Giovanni Bovio, docente e deputato.
In quell'atmosfera austera di lavoro, chiuso l'artiere fra i meccanismi del suo laboratorio non più artigianale, tutto era bandito. Nel mondo esterno, nella primavera del 1886 si parlava dell'imminente scioglimento della Camera dei Deputati, che fu poi sciolta il 27 aprile, e delle candidature. Da più parti si avanzò la candidatura di Mario Rapisardi. La proposta per la circoscrizione di Trapani, partì da un gruppo di Marsala con alla testa i giovani fratelli Federico e Vincenzo Pipitone e forse sollecitata o, più verisimilmente, sottoposta ed approvata da Giovanni Bovio, che in tal senso scriveva a Mario da Napoli il 4 aprile 1886 «Portano a Marsala la tua candidatura. Pipitone ti scriverà: lascia fare, non guastare le nostre speranze. A Montecitorio un tuo discorso sarà satannico».

Ma il Nostro non vuol sentirne della candidatura, nonostante le esortazioni dell'amico Bovio. E, per il tramite della stampa amica, comunicava la sua decisione irrevocabile: «Gratissimo a codesta egregia commissione elettorale, che ha proposta e raccomandata la mia candidatura, devo senza indugio dichiarare, che la debole salute, l'insufficienza degli studi, e l'indole mia alienissima da negozi politici mi vietano assolutamente accettare l'onorifica proposta». La dichiarazione apparve nell'Unione defeliciana del 9 maggio, n. 20 (con titolo «Mario Rapisardi non vuol essere deputato»), e reiterata nel n. 21 dell'11 maggio.
Le elezioni si svolsero il 23 maggio e il responso delle urne non fu favorevole alla lista che possiamo definire di sinistra, ma il Poeta — lontano dall'epicentro della lotta — ebbe un ottimo piazzamento con il secondo posto, dopo il marchese Ruggero Maurigi, deputato uscente. Qualcosa di nuovo dovette accadere, dalla dichiarazione di rifiuto alla giornata elettorale, se una diecina di giorni dopo, il 4 giugno 1886, inviava un messaggio entusiastico «Agli elettori della provincia di Trapani». Così esordiva «Raccogliendo 6.260 suffragi sul mio nome, e non ostante la mia pubblica e non certo ritrattabile dichiarazione di non potere assolutamente accettare la candidatura, voi avere provato, che la Democrazia di codesta nobile provincia [...] è degna di vincere, e vincerà». In realtà, dopo la fase di revisione, i voti risultarono un centinaio di più, cioè 6.369. Di questa candidatura, non voluta ma subita, rimane un residuo attivo ossia la composizione poetica «Per la mia candidatura» inserita nel volume Poesie Religiose, pubblicato a Catania nel 1887.
Da Trapani ritorniamo a Catania, dove negli anni successivi altri organi di stampa propugnarono ancora due volte la candidatura di persona che non voleva proprio saperne. A Catania il 10 novembre 1889 si doveva votare per il rinnovo dell'intero Consiglio comunale. Erano presenti diverse liste, proiezioni di altrettanti orientamenti politici ben diversificati (lista liberale progressista, lista democratica capeggiata da Giuseppe De Felice Giuffrida, lista dell'associazione monarchica).
Un periodico La Pietra infernale, con sottotitolo « Giornale custico, frizzante, anticancrenoso», sorto a metà del 1889, nel n. 17 del 2 novembre, presentava nella prima pagina «una lista spoglia di colore politico» e inseriva, fra gli altri, al 38° posto « Rapisardi prof. Mario » (e ripubblicava i 48 nominativi nel n. 18 del 6 novembre). Veloce e puntuale, naturalmente, il rifiuto del Poeta, affidato ad un periodico novissimo La Lotta, «Gazzetta elettorale», che nel n. 3 del 5 novembre 1889 riportava una dichiarazione ispirata da Rapisardi e titolata « I buoni si dimettono». Ecco la parte centrale: «[...] assolutamente ha desiderio di non essere scritto il suo nome in nessuna lista della città; sol perché egli vuol essere lasciato completamente ai suoi studi e all'arte. Anche se venisse eletto da qualsiasi partito, egli non solo non andrebbe una sola volta al Consiglio comunale, ma l'indomani della sua elezione rinunzierebbe recisamente».
Anche il d'Artagnan, il notissimo settimanale diretto da Nino Martoglio, nel supplemento al n. 29 del 25 luglio 1895 — in vista delle elezioni amministrative del 28 luglio — non rinunziò a proporre «la lista del d'Artagnan», e inserendo «Rapisardi prof. Mario» che occupava il 41° posto. Questa volta nessuna reazione.
Una disamina completa dei rapporti con la stampa catanese (e dell'influenza sulla stampa) rivelerebbe un aspetto assai interessante, con acquisizione di nuove conoscenze ed ulteriori collegamenti; tuttavia, essa ha bisogno di un'indagine di ampio respiro e di spazio adeguato, in quanto tali rapporti coprono un arco di quasi mezzo secolo. E la diversificazione nell'ambito di essa ci consente di distinguere: collaborazione con taluni quotidiani e molti periodici, la stampa amica e su posizioni ideologiche affini, e — infine — le testate che sono la trasposizione delle opere principali, ormai famose, a veicoli di diffusione del pensiero rapisardiano. Dopo quest'ampia premessa non possiamo che operare per sintesi e per settori.
La collaborazione alla Gazzetta della provincia di Catania, «Ufficiale per l'inserzione degli Atti amministrativie giudiziari», trisettimanale, che si pubblicava dal 1867, è documentata da una composizione titolata «Versi», dedicata a Francesco Dall'Ongaro, apparsa nel n. 116 del 29 settembre 1869.
Nel maggio 1870 a Catania, dalla trasformazione del settimanale omonimo (o continuazione, con titolo ridotto, del precedente) era sorto il quotidiano Gazzetta di Catania (« Si pubblica tutti i giorni meno il domani delle feste»), su tre colonne, di formato molto ridotto pari a un quarto della pagina del nostro quotidiano La Sicilia, diretto dall'avvocato Nicolò Niceforo, l'amico fraterno di Mario. E la collaborazione di M. Rapisardi vi fu (la collezione ai nostri giorni è molto lacunosa), se leggiamo una lunga recensione all'opera poetica Il Tasso di Sant'Anna (Catania Tipografia E. Coco, 1870) di Lucio Finocchiaro, poi avvocato illustre e deputato di Paterno dal giugno 1904 all'ottobre 1909 (anno V, n. 22, sabato 28 gennaio 1871, p. 2). E così ne L'Italia Artistica (anno I, n. 1, Catania, 26 gennaio 1872), fra i collaboratori letterari troviamo M. Rapisardi e Luigi Capuana. Ritroviamo la sua firma in calce al sonetto « Febbraio» nel Don Chisciotte (anno I, n. 8, Catania, 3 aprile 1881), diretto dal ventenne Federico De Roberto.
E collaborò anche a molti altri periodici, a La Frusta, « Giornale democratico», con un pezzo su Giordano Bruno (anno I, n. 3, 3 luglio 1885), alla rivista Arte con un sonetto (fase. 7-8 del 1885) a L'Etna, «organo dell'Associazione radicale», con «Il canto della ghigliottina» tratto dal Lucifero (anno I, n. 2, Catania 10 gennaio 1892). Altri periodici si occuparono di lui e dell'opera sua, come Il Piccone, settimanale, che nel supplemento letterario dedicava uno studio critico all'ode «Per Nino Bixio» (anno II, n. 1, 5 gennaio e n. 2 del 28 gennaio 1891), o come Per il Popolo, periodico socialista, che nel suo primo numero, in apertura, rende onore al Poeta dell'Umanità e riporta il programma delle onoranze del gennaio 1899 (anno I, n. 1, 22 gennaio 1899). L'Unione, defeliciana, vicina al Poeta, riporta in molti numeri unici dedicati al 1° Maggio versi suoi («Mattinata», versi di M. Rapisardi in «Numero unico 1° Maggio 1893 »).
Non erano però tutte rose, nel senso che molti erano i giornali che lo attaccavano e lo punzecchiavano e lo infastidivano, particolarmente in certi periodi della sua vita, se fu spinto a dedicare nel Canto VIII del Lucifero due ottave a « La babilonia delle gazzette»: «Che d'oro ingorde e a chi più paga addette/Ebber dal prezzo lor nome gazzette».
Un gruppo a sé stante nel vasto panorama delle riviste, è costituito dalla stampa che si ispirava al suo pensiero, mutuando man mano da una sua opera la testata, additandolo come profeta e caposcuola. Nel 1884 — Rapisardi ha appena quarantanni — la prima serie di Lucifero, «rivista scientifico-sociale», «tipografia Nazionale, in fol. di 4 pag. » (la scheda fu compilata dal bibliografo Orazio Viola nel suo Saggio del 1902, ma oggi non troviamo traccia di essa nelle Biblioteche della città).
Nell'ultimo decennio del secolo furono tre le riviste all'insegna rapisardiana. Giobbe, «Politico, letterario, teatrale» (anno I, n. 1, 27 giugno 1891), che nel «Programma» si ispira al positivismo di Augusto Comte e a M. Rapisardi, che a sua volta «ispirato a questi grandi princìpi, scrive l'immortale suo poema il Giobbe, vasta concezione che esprime l'arte, la scienza e la politica moderna». Dando vita al settimanale, la redazione, costituita da un gruppo di «riconoscenti discepoli», «invia all'illustre cantore del Giobbe un affettuoso saluto».
Nel 1894 ancora Lucifero, «rivista politico-sociale», che visse nel biennio 1894-1895. Della seconda serie rimane, purtroppo, un solo numero: anno II, n. 2, 7 aprile 1895 (Biblioteca Civica e Ursino Recupero). Infine una rivista di ampio respiro, in vita dal novembre 1898 al novembre 1900, che usciva con assoluto rispetto della periodicità quindicinale: Palingenesi, « rivista letteraria», diretta da Antonino Campanozzi, pubblicista, poi avvocato e nel 1909 deputato, vissuto fino al 1960.
La rivista pubblicava, in anteprima, prose e poesie di M. Rapisardi, inediti di Giovanni Bovio, ma era aperta ai contributi di esponenti di estrazione diversa, come i due sonetti di Gabriele D'Annunzio ospitati nel n. 7 dell'agosto 1900 (così come plaudiva, nel maggio 1899, alle «Onoranze a Gabriele D'Annunzio», dedicandovi due pagine di adesione).

Siamo all'ultimo decennio di vita. Rapisardi si trascinava stancamente, al punto che per la malferma salute deve interrompere, e poi cessare, le lezioni all'Università; sicché dal 1903 fu nominato un supplente, in persona di Giovanni Melodia, palermitano. La domanda, con la richiesta del supplente, doveva essere presentata dal docente al preside della Facoltà entro i termini stabiliti. All'inizio dell'anno accademico 1904/05 Luigi Capuana, Preside della Facoltà di Lettere e filosofia, con biglietto del 30 novembre 1904, ricordava garbatamente rivolgendosi con il «Lei» accademico al docente: «Illustrissimo Professore, La prego di sapermi dire se Lei riprenderà quest'anno il corso regolare delle sue lezioni; o se la Facoltà deve provvedere alla supplenza. Con profondo ossequio».
Era trascorso già il biennio di aspettativa, il massimo consentito dalla legge per gravi motivi di salute, e non era possibile trovare in sede un espediente valido per oltrepassare i limiti imposti dalla normativa vigente. Al ministero della Pubblica Istruzione erano orientati a pensionare il Poeta per raggiunti limiti di età ma nel 1905 l'intervento energico dell'amico on. Giuseppe De Felice Giuffrida e dell'on. Edoardo Pantano valse a scongiurare il pensionamento anticipato, sicché il Rapisardi potè conservare la titolarità della cattedra (con stipendio ridotto), fino alla morte (avvenuta durante l'anno accademico 1911/12).
Nessuna sorpresa, quindi, sull'immediata adesione del Poeta alla richiesta di De Felice per un contributo, anche minimo, da pubblicare nel quotidiano da lui diretto, in occasione del 1° Maggio 1910. «Roma, 24 aprile 1910. Illustre Amico, le sarò grato e riconoscente se vorrà mandarmi un verso, una frase o una parola, pel numero del 1° Maggio del Corriere di Catania. E la ringrazio».
Nell'ultimo anno di vita riceveva ancora qualcuno, ma ciò avveniva sempre più raramente. L'ultima visita nel ricordo di Giuseppe Villaroel, allora poco più che ventenne: «L'ultima volta che lo vidi era infermo da tempo. Affondato nella poltrona, con una coperta sulle gambe, pigolava. Cèrea la faccia smagrita, grigi e radi i capelli lunghi riversi sulle spalle, scarne e ossute le mani. La Poniatowski (l'affettuosa compagna che lo assisteva) entrò piano piano, gli pose sul tavolinetto, ingombro di libri e carte, una tazza fumante; e scomparve. 'Come state, maestro'. 'Parliamo d'altro ', disse, [...] » (G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Rocca San Casciano, 1954, p. 78).
Nel dicembre del 1911 l'aggravarsi della malattia fece temere imminente lo spegnersi della lampada della vita, sempre più fioca; ma la morte sopraggiunse nelle prime ore del pomeriggio del 4 gennaio 1912. I funerali, con la partecipazione di una folla immensa, avvennero in una giornata apocalittica ed indimenticabile di quel gennaio; riportiamo lo svolgersi di essi nella «ricostruzione» pittoresca e surrealistica di Antonio Amante (allora Antonino Rapisarda, dodicenne): «I funerali ebbero luogo in un pomeriggio da cataclisma; soffiava un furioso vento; la pioggia cadeva torrenziale; la città era allagata d'acqua di cielo e di mare; sardine e passeri venivano raccolti, morti o storditi, in Piazza del Duomo; la salma del Poeta, adagiata sulla carrozza del Senato [...] andava dondolandosi alla mercè delle raffiche nel Corso Stesicoro zeppo di popolo bagnato fradicio e in lagrime».

« Lucifero si è scatenato » commentava la plebe pia; e gli atei rispondevano in coro: «È la natura che si veste a lutto per la perdita di un sì inclito figlio». «[...] e fu al cospetto di tanto sinistro spettacolo, d'Apocalisse, che composi il mio fatidico sonetto, [..] » (A. Amante, Figlio del Sole, Milano, 1965, p. 463).

 Sebastiano Catalano (La Sicilia, 1984)

giovedì 26 maggio 2016

"GARIBALDI A ROMA" del giovane Mario Rapisardi ed.1862




— E tu Roma sarai! — Me'l disse Iddio
Là su le vette a l' immortal Parnasso ;
In un turbine avvolto m' apparìo ,
E il fulmine fremea sotto al suo passo.
— Colui lo vuol, che l'onde avverse aprìo,
Che Gedeòne armò d' Orebbe al sasso!—
E pe' fianchi del monte irti, e le chiome
Si fece un tuono, e mugolò il suo Nome.
— Deh! ma quando sarà l'ira sopita,
Quando si spezzerà l' indegno avello,
E Libertà di lagrime nudrita
Sul Quirinale avrà trono, ed ostello ?
Quando chi diede a Italia allori, e vita
A l'Italo potrà dirsi fratello ?—
E irato il ciel tuonò. Su le fugaci
Penne de'venti intesi—Adora, e taci! —
E tacqui, ed adorai. Levossi un nembo
Allor per l' etra tempestoso e nero,
E vomitò da lo squarciato grembo
Un' Arcangelo in forma di guerriero.
D'un crociato Vessìl vestiva un lembo,
E di folgori avea spada, e cimiero.
Venne, vide la tomba, e il Campidoglio,
E a l'Italia gridò—Questo è il tuo soglio! —
E la Lupa ululò per l'aer cieco;
E l'indegna affrettò ferita il volo;
E fuggì, come nube orrida, seco
Di fameliche arpìe lungo uno stuolo.
S'udì allor su le cento ale de l' eco:
— Surto è Quirino, ed è possente E' solo! —
E fu un' alba per tutto; e umile e pio
Un canuto gridò —Pietro son' io ! —
                                                           Agosto 1862.

Tratto da 
ed. Crescenzio Galatola 1863 - con dedica autografa dell'autore al nobile letterato catanese Gaetano Ardizzoni.     (raro)

domenica 24 gennaio 2016

Introduzione allo studio della letteratura italiana discorso letto nella R. Università degli studi di Catania dal prof. M. Rapisardi 1871


Il concetto che della scuola aveva Mario Rapisardi è molto diverso da quello che hanno i più, che scambiano l'insegnamento con un qualunque mestiere.

Egli pensava che la scuola è un istituto di massima importanza nella vita pubblica, che essa deve essere fucina di valori morali e palestra di educazione delle giovani generazioni, riteneva che la scuola non può essere estranea alla vita, se di essa non si vuol fare un esercizio di espiazione ovvero un museo di fossili.



I.
Chi vuol cominciar bene, incominci da Dio. Adottiamo il precetto da buoni credenti, e coroniamo di rose e di mirto gli altari inconcussi della nostra divinità.
Il nume che invochiamo non si chiama Jéova o Sabaòtte, Eloa o Brama, Osiride, o Giove ; non si chiude nei misteriosi tabernacoli di un tempio; non si asconde nei gelosi recessi del firmamento; non abita i monti o le foreste circondato dalle tregende di Teuta, o assordato dai timballi di Bacco. Va libero e sublime per le vaste regioni dell' aria e della luce, e all' aria ed alla luce si mesce, ed è luce ed aria dell' anima e della vita; spazia pei campi della terra e domina popoli ed età: — vario sempre ed uguale, debole a un tempo e onnipossente esso agita e dispone le universe cose della natura, scuote e commuove l'urna delle nostre sorti, e regge ed intreccia il filo secreto di tutte le umane azioni. Voi l'avete già indovinato : esso si chiama 1' Amore.
« Omnia vincit amor, et nos cedamus amori ! » Come potremmo noi ragionar dell'Arte, senza trarre gli auspicii dall' Amore, questo divino generatore dell' Arte, e primo ed onnipossente artista dell' universo ? — Voi lo sapete, o Signori : l' anima umana è come un cembalo chiuso : il pianista dell'anima è l'Amore; esso sveglia i sentimenti e le facoltà nostre come l'aria sveglia le virtù dei fiori ; e non solamente li sveglia e li prova come l'artefice amoroso il suo caro strumento, ma li modifica altresì e li corregge, e le anime più schive riduce al sentimento del Bello e al culto divino della Verità.
Perocché l' Amore, come irrequieto desiderio dell' assoluto ed eterno mediatore fra lo spirito e la natura, non può, per essenza sua, altrimenti manifestarsi se non come un vuoto indefinito ed immenso che s'apre nell'anima e nella natura, come una innata e necessaria contradizione fra il mondo corporeo ed il razionale. Cosicché mentre si mesce come potenza consciente ed ordinata nelle incontaminate regioni dell' ideale, egli soffre e gode, ride e piange con l'umanità ; è cieco ad un tempo e veggentissimo, è istinto insieme e coscienza, è finito ed infinito al punto istesso, e tiene fra le mani una misteriosa catena, il cui primo anello si perde nell' estasi luminose dello spirito, e si sprofonda l'altro nelle torbide voluttà della materia.
Or siccome egli desidera o di conoscere, o di contemplare, o di realizzar l'assoluto, ed è religione, arte, o filosofia, secondo che egli crede, pensa, o sente ; così la ragione, il sentimento e la fede costituiscono il triplice campo su cui si esercita la sua potenza; e la religione, l'arte e la filosofia la triplice destinazione di tutte le umane facoltà.

II.
E simili a tre virgulti nati dallo stesso tronco, cresciuti sotto la stessa temperie di cielo, alimentati dalle stesse rugiade, intrecciano e confondono le radici e le frondi, ingombrano ed usurpano lo stesso spazio di terra e rubano al sole lo stesso raggio di luce; la religione, la scienza e la l'Arte hanno fra di loro di tali attinenze e connessioni nell' ordine razionale, si alterano e si modificano in guisa nell'ordine storico, che non si può contemplare ed investigar 1' una senza incorrer naturalmente nell'altra; non si può determinare e circoscrivere il campo di questa senza descrivere, o rasentar per lo meno i domimi e le regioni di quella.
Nel mondo orientale, per esempio, la religione assorbisce la vita. La filosofia non è che lo studio della natura e degli attributi di Dio; l'Arte la gigantesca e bizzarra manifestazione dell' infinito. E l' arte, la scienza, lo stato, la civiltà, la libertà, e la personalità umana tutto viene annientato dinanzi l' inerte e malinconica contemplazione dell' assoluto.
In Grecia al contrario: la religione diventa la creatura e l'ancella dell'Arte. Giove esiste finché sa prestare immagini al pittore, allo scultore, al poeta. Omero, Zeusi e Polignoto facevano senza saperlo la causa della religione. Che importa che Mercurio sia il protettore dei ladri e si faccia messaggero d'amore? Egli è snello e leggiero come un uccello; i suoi splendidi talari percorrono il cielo e la terra con la rapidità del baleno ; le sue forme sono eleganti e leggiadre e si prestano mirabilmente alle concezioni dell' artista: Fidia lo scolpisce, la Grecia lo adora. Perchè ricordare che i sacri penetrali d' Aniatunta e di Pafo siano talvolta polluti dal furtivo abbracciamento delle sacerdotesse di Venere; che Venere istessa presieda alle intemperanti voluttà dei suoi devoti, che essa sia debole ed imbelle da tollerar le ingiurie dei mortali e fuggire spaventata e ferita dinanzi al selvatico sdegno di Diomede? Ella è sorta candida e fresca dalle feconde spume del mare; il suo cocchio di madreperla tirato dalle innamorate colombe dell' Erice scivola leggero leggero sulla tersa e trasparente superficie dell' acque; le Grazie intrecciano le candide rose di Cipro alle morbide a-nella delle sue chiome, ed ella saetta col raggio delle sue pupille tutto ciò che vive nella terra e nel cielo.
« Te dea, te fugiunt venti, te nubila Coeli « Adventumque tuum, tibi suaveis daedala tellus « Summittit flores, tibi rident aequora ponti, « Placatumque nitet diffuso lumine Coelum.
Che importa infine che Aspasia sia una cortigiana ? Essa è bella, e Socrate va ad apprender da lei i delicati lenocinii della parola, e a dischiuder l'anima alle serene contemplazioni della bellezza. Chi domanda se Frine abbia fatto traffico del suo pudore ? I suoi giudici umiliano la fronte severa innanzi alle sue mirabili nudità; le sue forme bellissime si ritraggono nelle tele e nei marmi dai più famosi artisti del tempo; ella merita un posto nel tempio di Delfo : Astrea si è fatta serva di Venere; la bellezza si adora nel tempio istesso della Verità.
Cosicché, mentre nell' India e nell' Egitto gli uomini si studiarono con ogni mortificazione di innalzarsi fino alla Divinità, i Greci vollero a ogni costo che i loro Numi lasciassero l'Olimpo per assistere ai loro giuochi, alle loro cene, ai loro sagrificii, partecipar dei loro godimenti, delle loro debolezze, delle loro sventure. Alle piramidi d'Egitto e alle catacombe d' Elefanta, s'oppose il Portico e il Partenone; al Mahabarata l'Iliade, alla dottrina dei Veda la filosofia di Platone. - Ma tornò la stagione che la fede dovea riassorbire la scienza e la vita. Sulle rovine del mondo Romano erasi piantato il simbolo d'una croce : il gemito dei martiri era uscito dal seno delle catacombe di Roma.
E come ai tempi antichissimi di Pittagora e d'Empedocle la filosofia avea preso, il no-me di teurgia, e la verità della scienza ebbe mestieri del manto dell' aruspice e del sacerdote per esser inculcata ai contumaci mortali, così dileguata dopo il mille, la stolta paura dell' ultimo giudizio, la scienza, volendo pur tornare all'antichità, non seppe altrimenti liberarsi dall' incubo delle nuove credenze che dandosi in braccio ad una nuova foggia di filosofare; sciagurato fornicamento della scuola e di Dio: due autorità invece d'una: quella di Cristo e quella d' Aristotile.
Come poteva l'Arte non risentire gli effetti di quel mostruoso connubio ? La scolastica invase le sue regioni ; la poesia s'addormentò fra le acute sottigliezze degli Arabi per esser più tardi svegliata dalla procace serventesi dei Provenzali ; l' architettura rivolse al cielo il suo sesto acuto, innalzò la cima dei suoi campanili come per portare a Dio la voce più vicina della preghiera; e per uno scambio di parte assai singolare, chi seppe adoperar bene o scalpello e la squadra, scriver poemi ed alluminar cartapecore meritò d'essere assunto alle prime dignità ecclesiastiche : 1' arte di pinger tele, e di scriver versi diventò un ramo della liturgia.


III.
Ma l'Arte non potea viver lungamente nelle scuole e nei chiostri : essa non si compiace di riposo e di calma, non s'alimenta per natura sua di silenzio e di solitudine, ma vive e soffre e s' agita nella società.
Per questa e non per altra ragione si è considerata sempre come un apostolato ; per questo ha avuto i suoi persecutori e i suoi martiri, è stata chiamata col santo nome di religione, e sacerdoti ed istitutori di civiltà sono stati detti i poeti e gli artisti, i quali educando per mezzo dei sensi il pensiero, temperando le opinioni mediante gli affetti, hanno evangelizzato il bello ed il vero in tempi e fra popoli ad ogni bellezza avversi e nemici d'ogni verità. A studiar dunque 1' arte completamente sarà d'uopo investigar non solamente i rapporti e il legame, che essa ha potuto avere con le istituzioni sociali, ma il movimento che ha impresso alle nazionalità delle genti, e il ministerio ch'essa ha esercitato di fronte agli ostacoli di tempo e di luogo, e le lotte sostenute col pregiudizio e con la schiavitù, e le misere condizioni a cui 1' hanno talora obbligata o la falsa protezione dei principi o la maligna lusinga della popolarità.

IV.
Or perchè 1' Arte sia veramente sociale, ed eserciti una visibile influenza sui nostri destini, bisogna anzi tutto che sia vera. Ep-però è mestieri che essa attinga ispirazione dalla natura, e tragga argomento dalla realtà della vita.
Studiando il reale, noi sfuggiremo a quel falso e malinteso manierismo, che vorreobe ridurci alla semplice ed immediata espressione dell' ideale e tutto il bello riporre nella spiritualità; come penetrando nei recessi misteriosi dello spirito sapremo sollevarci dalla gretta imitazione della realità. L' Arte,' come l'umana natura, partecipa insieme del finito e dell' infinito. E se l'anima sua è l'idea, la forma è la sua naturale e necessaria sensibilità. Da ciò scaturisce che il culto della forma non è studio di pedanti, e che la perfezione della creazione artistica risiede nell' e-satto contemperamento dell' espressione e del contenuto.
E siccome lo stato naturale dell' uomo è la società, e l' umana personalità solamente si completa e si svolge nello stato sociale, così l'Arte ha da studiar l'uomo negli uomini, investigar negli uomini, e non nei libri, le tendenze, le aspirazioni, i costumi, i vizii e le virtù d'una nazione e di una civiltà. Il (...)
del tempio di Delfo sarà il motto della nostra bandiera.
Non rivolgeremo soltanto lo sguardo sulle orme impresse dalle generazioni mortali sulla faccia della terra, ma spingeremo il volo dell'anima attraverso i veli dell' avvenire; non canteremo la nenia sui trapassati, ma intuoneremo l'inno della redenzione. A questo patto noi saremo degni della nostra missione, divideremo i dolori e le speranze dell' epoca nostra, riusciremo insomma ad una vera e civile utilità.

V.
Nè l'utilità  dell' Arte è semplicemente morale.
A voler porgere orecchio a certi pregiudicati detrattori delle arti liberali, noi dovremmo vergognarci di attender seriamente allo studio di esse e di sprecare il nostro in gegno e la nostra fatica intorno ad un futile e quasi fanciullesco esercizio, in questo secolo segnatamente che tutto il lustro e la gloria sua ritrae addirittura dalle macchine, e dagli internazionali commerci ogni ricchezza ed ogni prosperità
Si parla degli Spartani, che non vollero sentire nè d'arti, nè di lettere, e i loro mobili fabbricavan con l'ascia, secondo le prescrizioni di Licurgo, e ogni merito della parola facean consistere nella concisa espressione del necessario. S'invoca l'autorità di Platone, il quale, non a caso, volle dalla sua repubblica bandire i poeti, razza di superbi e di vagabondi che vivono nell' ozio o nella mollezza, e deviano le menti degli uomini dall'esatto apprezzamento della serietà della vita. Ma noi proveremo che le Arti risvegliando il senso del bello, educando il gusto del popolo, giovano mirabilmente all' industria, abbelliscono le nostre manifatture, danno rinomanza alle nostre mode, ordine e varietà alle nostre vie, ai nostri edificii, ai nostri giardini.
Che 1' Attica il suo massimo splendore e la massima ricchezza ritrasse dall' Arte ; dall' Arte acquistarono reputazione e valore gli antichissimi figulini d' Etruria, i grafiti tosca-nici, le pietre dure di Roma, i vasi di Arezzo e gli alabastri di Volterra, i vetri soffiati di Murano e i mosaici di Venezia.
Che un quadro insomma, una scultura, un poema, non è, come volgarmente si dice, un valor morto ed improduttivo ; che gli artisti e i poeti non sono dei consumatori soltanto, ma dei produttori; che essi non producono esclusivamente dei valori morali, ma dei materiali, non solamente gentilezza di costumi e progredimento di libere istituzioni, ma delle cifre rispettabili. Che le gallerie di Roma e di Firenze non danno meno d'una fabbrica Qualunque di Manchester e di Lione, e le ditte Michelangelo Raffaello e C. danno forse qualcosa di pi delle speculazioni più ardite di qualunque borsaiuolo del giorno (Dall'Ongaro).

VI.
L' Arte dunque è bella, è vera, è sociale, è utile.
Ma se l'incarnazione del bello nel vero suppone una serie di evoluzioni e di sforzi, che noi diremo intrinseci e primitivi, e concernono l'impulso dell' idea infinita verso la sua coerente e determinata esteriorità, così quando l' espressiene è trovata e vuole inculcarsi nel campo della vita reale, essa non può non venire in collisione con tutti i pregiudizii e le colpe sociali, e tanto più troverà ostacoli da sormontare, e battaglie da sostenere quanto meno la società, nella quale si svolge, sarà ordinata secondo le norme naturali, e le leggi razionali del diritto.
Io non cercherò quindi ingannare ed illudere le giovani menti intorno ai triboli della nostra carriera; nè dissimulerò come l'esilio e la sventura, e l' abbandono dei mortali e la povertà siano spesse volte la ricompensa del più generoso ed incorrotto sacerdozio dell' Arte.
Ma dal seno della solitudine e del dolore, dall' invidia stessa o dall' indifferenza degli uomini sorgerà pur sempre il raggio d' una speranza, il sorriso d'una consolazione, la certezza d' un gaudio o d' un riposo. Alle contese ed invidiate contemplazioni del Bello, alle vigilate cure di realizzarlo nel mondo terrà sempre dietro quella dolce e serena fiducia nella nostra coscenza, che mai le anime gentili non abbandona; e ai dolori della miseria e delle infermità, ai sacrifica per l'arte pazientemente e con forte animo tollerati, renderà piena e solenne giustizia il tempo e il pentimento dei mortali e la gloria del nome e la ricchezza della fama avvenire:
« Solve metus ; feret haec aliquam tibi fama salutem !

VII.
E la società, giova bene sperarlo, andrà sempre più migliorando le sue condizioni, e con essa miglioreranno le condizioni e le sorti degli uomini di lettere e degli artisti. I quali non saran più costretti a viver derelitti e meschini, o a cercar un aiuto e un riparo nella protezione dei grandi : bivio funesto e non meno pericoloso per tutti; da poichè se la miseria affatica gli animi e isterilisce gli affetti e la fantasia, e pochissimi sono coloro che sanno resistere alle sue tremende agonie; la protezione infiacchisce ed umilia gl' ingegni, stempra il carattere e corrompe il cuore, ci toglie la coscenza degli altri e di noi, c' incatena alla menzogna, ci prostituisce nella servitù.
Noi non cercheremo dunque la protezione della ricchezza e della potenza, nè ci ostineremo per questo nella povertà, come quelli che siamo convinti, che gli agi e le sostanze dignitosamente acquistate ed usate con animo temperato e prudente, anzichè invilire la nostra missione, giovano più che altro alla indipendenza del nostro istituto, alla libertà delle nostre opinioni e alla sdegnosa condotta della nostra vita.
Noi non crediamo che la povertà abbia ad essere la miglior palestra del filosofo e il retaggio fatale dell' artista, anzi stoltissimo di tutti gli uomini abbiamo sempre tenuto Diogene, avvegnaché tutto il pregio e le consolazioni dell'umana filosofia non consistono nell' astenersi dai piaceri della vita, ma sì nel modo di saperli padroneggiare; e sostenere con animo abitualmente impassibile i disinganni e le avversità sia molto più agevole per avventura che non sia il rivolgerle a nostro morale avvantaggio e il trarne argomento a generosi ammaestramenti, e a fortezza d' animo ed incitamento a virtù.

VIII.
Scendendo poi ad un ordine più ristretto e ravvicinandoci particolarmente allo studio dell' arte letteraria, noi non potremo esentarci dal dimostrare la naturale attinenza fra le arti tutte, di cui quelle della parola sono una singola espressione e un aspetto. Un' espressione sì ed un aspetto, ma il più complessivo per avventura e sintetico. Poiché la poetica, come più libera ed immediata manifestazione dell' assoluto, abbraccia e comprende le principali modalità delle altre arti e può offrire contemporaneamente al pensiero lo spettacolo dei momenti diversi dell' intuito : il passato e il presente, il tempo e lo spazio, l'avvenire e 1' eternità.
Quando la letteratura degli studii superiori e delle università fu voluta ridurre ad un superficiale ed ozioso esercizio di rettorica e d'umanità, bastava esporre più o meno diffusamente le regole del bello scrivere, annoverare con più o meno di scrupolo le figure così dette di parola o di pensiero, leggere o commentar Petrarca a documento incontestabile della loro patavinità, invocar l' aiuto del P. Segneri o del P. Bartoli (padre sempre, già si intende), masticar qualche verso latino d'Orazio a foggia d'agnus dei, e impartire infine la , santa benedizione a solenne remissione dei peccati di pensiero o di parola, come le loro figure, che gli scolari avean potuto commettere fra una tentennata di capo ed un sonoro sbadiglio.
Per noi, o signori, lo studio della letteratura è tutt' altro. Io mi sarei vergognato di salir questa cattedra, se non avessi assunto con me stesso l'impegno di dimostrarvi, come la letteratura non sia semplice studio di forma ma di concetti, non di soli libri, ma di uomini, non maestra di lambiccate eleganze e di provocanti civetterie, ma solenne istitutrice di popoli ed esempio di virili costumi e documento infallibile di civiltà.
Per la qual cosa, mentre noi rivolgeremo le nostre cure all'investigazione delle forme differenti delle arti della parola, non trasanderemo di studiar l'armonia che tutte le obbliga ed affratella ; mentre discorreremo i principii e la storia gloriosa dell' arte nostra, noi andrem ricercando le più o men visibili influenze esercitate dalle antiche letterature e dalla lingua greca e latina sull' indole della nostra lingua e sullo spirito della nostra letteratura; mentre studieremo le glorie e gli errori, le vergogne e i trionfi del nostro passato, disporremo l'animo e l' ingegno alle più strenue battaglie dell' avvenire.

IX.
Or siccome lo studio delle diverse forme letterarie, s'incontra non solo ma s' intreccia intimamente con la storia dell' Arte, così noi combineremo la storia della nostra letteratura a quella delle differenti manifestazioni di es-, sa: coordineremo la storia delle grandi, produzioni artistiche a quella dei principii regolatori del bello ; uniremo sotto la medesima categoria nomi ed opere di diversi tempi e scrittori, e lasciamo volentieri a tutti altri la gloria dei sincronismi e delle biografie. Dovremo noi forse accettare il metodo di coloro, i quali traendo esclusivamente da una storia tutti i loro tipi, o formulando senza il soccorso di nessuna storia delle astratte e vaporose teorie, vorrebbero incatenare il genio alla loro autorità; vero letto di Procuste su cui si vuole adattare e circoscrivere questa creatrice e possente e veramente divina parte di noi, che si chiama la fantasia? — Io ve lo dico sin d' oggi, o Signori, ad onor dell' Arte e di me. 
Noi non riconosciamo altri tipi, altre leggi, altre teorie fuori di quelli che lo studio del vero ci detta: altra guida fuorchè il nostro gusto. Accettiamo gli ammaestramenti che la storia ci inculca, ma prima e sola autorità, il nostro cuore ! Noi non siamo qui per imporre tirannidi e freni al pensiero, ma per renderlo libero e indipendente secondo la sua natura. Accettiamo l'Arte sotto tutte le forme; ammiriamo il bello dovunque lo troviamo : nell'astro che sorge e sul mare che geme ; nel bacio dell'amore e nell'addio della morte; nel chiaro azzurro dei firmamenti e nella cupa solennità degli abissi. Qualunque voce, qualunque oggetto, ogni gemito dell' anima e ogni sorriso della natura, tutto ciò in somma che trovi un riscontro nel nostro pensiero, che muova una fibra del nostro cuore, agiti una penna della nostra fantasia, trovi e stabilisca rapporti fra le, destinazioni degli esseri e le loro apparenze, ritragga il perpetuo dualismo fra le cose dell' anima e della natura, tutto ch'è stato e potrà essere oggetto dell'Arte, e tutto formerà oggetto delle nostre indagini, del nostro studio, del nostro amore. Dai terribili clangori della tromba d' Omero noi passeremo alle tranquille armonie della zampogna di Teocrito e di Sannazzaro; dall' urlo disperato dei dannati di Dante al patetico lamento del romito di Valchiusa ; dalla bestemmia di Fausto e di Manfredo agli amori innocenti della Messiade; dalla placida rassegnazione di Pellico e di Manzoni alla disperata e sublime ironia del Leopardi.

X.
So che avrò molti ostacoli da sormontare, parecchi pregiudizii da combattere, e che gli studi forse, non il coraggio mi mancherà. So che i tempi sono manifestamente forieri di grandi riforme; che l'epoca nostra benchè transitoria lascerà di grandissime tracce e profonde nel seno della nuova civiltà; che l'Arte ha grandi battaglie da combattere, solenni destini da compiere, nuove persecuzioni forse da sostenere, ma il trionfo e la gloria non ci fallirà. Ond' io non voglio nè posso dissimularvi, o Signori, la dolce e profonda commozione dell'animo mio, da che m'è dato in questi momenti solenni di venir conferendo con voi quelle idee e convinzioni ch' io ho potuto formarmi di quell' Arte santissima, a cui, lo sapete, vado superbo d' aver consacrato, e sono ancor disposto di consacrare, le mie cure, i miei pensieri, gli affetti più cari della mia vita:
« Dum memor ipse mei, dum spiritus hos reget artus ! »
Voi non troverete prababilmente nei miei discorsi nè quella ricca suppellettile d' erudizione, che facilmente illude, e troppo facilmente s'acquista, nè quel fare solenne e quasi apostolico che con tanta leggerezza si assume e si vuol sostenere con tanta serietà. Vi par-lerò franco e sincero, smetterò, se è possibile, tutto ciò che possa sentir di didattico e di precettivo; non pretenderò d'insegnarvi l'Arte, ma spero però di farvela amare. Perocchè allo studio coscienzioso delle serene e civili discipline del bello è anzitutto bisogno d' intenderci e di affratellarci ad attinger rispettivamente coraggio contro la spregiata indifferenza dei tempi e gl' ingiusti rigori degli uomini e della fortuna. Ond' è ch' io invoco sin d' oggi, non solamente la vostra attenzione e la frequenza vostra, ma il vostro coadjuvamento e l'affetto vostro. Esso mi è di mestieri per esprimervi senza veli ed ambagi tutto ciò ch' io ho saputo sperimentare dell'Arte in quel tanto d' esercizio che ne ho avuto; e per valermi di quella franca ed onesta imparzialità che l'indole mia liberissima mi impone, e la libertà dei tempi e l'avvenire dei nostri studii.
. Stretti in tal modo nell' intemerato amore del bello e del vero, noi moveremo la guerra a tutti coloro che pretendono dommatizzare la legittimità dei loro istituti; sfideremo le folgori dei tanti pontefici massimi che si arrogano il diritto d' inculcare la loro letteraria infallibilità; disprezzeremo il diritto divino dei loro rabescati diplomi ; combatteremo insomma l'assolutismo sotto qualunque forma; cacceremo l'arte italiana dalle Accademie e dalle Scuole, come Gesù ebbe a cacciare i mercanti dal tempio.
Lo ripetiamo dunque, o Signori. Un completo perfezionamento letterario non si potrà mai ottenere, quando si voglia restringere i nostri studii ad una vuota esposizione delle regole del comporre, a un' arida descrizione delle forme letterarie, ad una analisi pedantesca e grammaticale, ciò ch' è sintesi miracolosa di pensiero e di civiltà. Da questo inesatto e grettissimo esclusivismo, dal pregiudizio sciagurato di allontanar l'Arte dal vero, di scompagnarla dalla vita reale, di ridurla a semplice rudimento o a patrimonio esclusivo di pochi, è venuto nascendo quello sconcio deplorabilissimo in cui è incorso il ministerio della letteratura, quella piaga vergognosa di tutte le arti moderne, e la negligenza e il disprezzo in che sono cadute.
Io fremo ed arrossisco a pensarlo. Noi troviamo pittori ignoranti e talvolta analfabeti costretti a trarre le loro ispirazioni dal più laido fondo della realtà; maestri di musica che non sono in grado d' intendere il melodramma che pretendono rivestir d'armonie; incisori che altra cosa non sanno che il mestiere di tagliare il rame ; scultori che ardiscono tuttora incarnare le loro ibride concezioni sotto le rancide forme della vecchia o della nuova mitologia; che scolpiscono Veneri bagnanti e Cristi discesi dalla croce mentre gl' Italiani vanno ad affrontar la mitraglia di Porta Pia, e Re Guglielmo il Conquistatore ordina di bombardare la capitale del mondo civile !  


martedì 22 dicembre 2015

Mario Rapisardi e l'amore di Amelia Poniatowski


(...)Casa Rapisardi lungi dai rumori e dalle beghe, era un tempio non dell'arte soltanto, entro il quale folgorasse come in un mondo chiuso eppure in relazione vivente e continua con tutto il mondo intellettuale, non solo italiano ma mondiale, il genio dell'artefice illustre, del pensatore ribelle; all'ombra della quercia immane, si effondeva altresì il profumo dli una, grazia fatta di soavità e di amore, la grazia, inestinguibile di Amelia Poniatowski. Chi frequentò quella, casa e mi esprime i ricordi ineffabili e le baldanze di una prima giovinezza, aperta tutta alle idealità dell'arte e ai fremiti generosi della vita, e che la vita poi afferrò e costrinse — ahimè — nelle sue ferree morse tanto lungi, come egli mi diceva rimpiangendo, da quei sogni quasi divini, un amico e discepolo caro al Maestro e Poeta per temperamento, per ingegno e per cuore, Francesco Nicolosi Raspagliesi, quella casa mi descrive come il ridotto delle muse impersonate in una, che delle antiche avesse avuto il vivido ingegno e delle nostre moderne lo spirito di umiltà, di abnegazione che va oltre ogni consueto limite e che comprende in tutta l'estensione della parola il vivere una vita per un amore. 

Amelia Poniatowski in quanti la conobbero suscitò fervida ammirazione per le qualità rare della mente e del cuore, che intorno al Poeta per venticinque anni le fecero profondere i tesori della sua natura ricchissima; ed Alfio Tomaselli appunto, poiché il Poeta, fu spento, conobbe in lei la compagna che sola poteva interpretare il suo sentimento, e consacrò in un vincolo civile quello spirituale già esistente nell'amore che congiungeva per generosità, venerazione, devozione la compagna e lo scolaro intorno al Grande, fiaccola viva ed accesa dei più puri ed elevati sentimenti.
Alfio Tomaselli sposò Amelia Poniatowski; ma, come sempre, poiché un avverso destino sembra contrastare duramente agli umani i sogni più belli, Amelia Poniatowski in breve morì, e con la sua dipartita, mentre, se esiste un mondo dell'al di là, certamente di questo migliore e più felice, ove le anime elette si ritrovano, ella, andò a raggiungere novamente quella del Grande cui già aveva donato tanta parte di sé, lasciò bensì nella solitudine e nel pianto inconsolabile il secondo compagno il quale, forse, si era ripromesso, nella sua dedizione alla donna gentile, di darle col suo affetto quella parte di gioia ch'era potuta sfuggirle in una, vita troppo chiusa,  trascorsa senza varietà di colore presso' un uomo che, forse appunto perchè di eccezione, non era quanto a carattere d'umor sempre lieto, e riversava, come avviene, le sue inquietudini e i suoi travagli interiori, che il Rapisardi ebbe molti, anche senza volere sulla creatura più amata. Amelia Poniatowski era d'altra parte la sola, che potesse accogliere tutta la piena spesso amarissima dei vari affetti e degli orgasmi che turbavano l'animo del Rapisardi. Vissuto questi, come dice il Tomaselli, sempre fuori e di sopra dalle competizioni di piazza; schivo degli onori come anche degli strisciamenti; disgustato e diffidente in seguito alle ingiuste lotte mossegli contro da ogni sorta di avversari; contrario egli a tutte le fazioni politiche e religiose; temperamento diritto ed intero, è facile immaginare i dolori, le amarezze, i fastidi di mille generi sofferti tra le calunnie, le contumelie, gli scandali attraverso la doppia bruciatura del suo «Lucifero», eseguita l'una dal tipografo Barbèra, l'altra dall'Arcivescovo di Catania, e le lotte per la pubblicazione del « Giobbe », e quelle per le « Poesie religiose », e i sequestri delle poesie più significative sui vari giornali, e i processi, da cui a mala pena poterono salvarlo devoti ed illustri amici, quali il Bovio e il Saffi e l'insigne Graziadio Ascoli.

Amelia divideva con lui ogni, amarezza ed ogni fatica. Tra le «amorevoli gentilezze» e le "affabilità preziose" di lei, egli appariva più florido, diveniva più bello. Allietava ella in ogni modo le sue solitudini: gli leggeva libri, redigeva e raccoglieva corrispondenza, svegliava i silenzi con la musica fascinatrice, era insomma l'anima vivente, pietosa e giuliva della tranquilla casa lungi dai rumori, spa-ziante, « tra gli orti e i campi aprici » —come dice lo stesso Poeta — ove traevano in pellegrinaggio nella raccolta ombra uomini insigni di tutti i paesi ed amici e discepoli, ma ove trascorrevansi altresì lunghissimi periodi di solitudine, e da cui egli il Maestro non uscì affatto più, nemmeno in carrozza, per tutti gli ultimi anni, schivando quasi con passione di vedere ogni gente, di far conoscenze nuove, infastidito da ogni sorta di malanni che gli vietavano la gioia, infastidito dalla stessa luce che, pur troppo, quantunque egli amasse moltissimo, gli era divenuta insopportabile, accrescendogli la quasi quotidiana emicrania. L'impareggiabile creatura assisteva il Poeta in tutto. Dal dì che lo conobbe, 20 maggio 1885, giorno che il Rapisardi ricorda con indicibile emozione :

O fausto giorno
Che consentisti di venirmi a fianco !
Per incanto d'amor giovine torno

sino al giorno ultimo della sua vita, 4 gennaio 1911, ella gli consacrò l'esistenza, facendo di due vite, quella del Maestro declinante e battuta dall'avverso destino, e la sua, fiorente e ricca d'ogni celeste dono, di bellezza, di grazia, d'intelligente e spirituale bontà, una vita unica e sola, venendo ringagliardita la prima di tutti i tesori di giovinezza e di amore che erano rinchiusi nella seconda. 
Alla vicinanza di Amelia, Rapisardi riaprì l'anima, come un fiore. Una limpida vena scaturì novamente e più meravigliosamente dal cuore suo. Le « Poesie religiose » furono per la maggior parte della nuova ispirazione. Da indi innanzi vivificata dalla donna gentile fu tutta, la sua produzione.
Dopo il 20 maggio 1885, dopo i primi mesi dalla benedetta unione, mesi di letargo, come egli dice scrivendo al suo Reina nei primi dell'86, una nuova polla abbondantissima si manifesta, e dalle parole di lui ai raccoglie tutta l'intima e gaia resurrezione :
« Mi son finalmente rimesso a poetare, egli scrive, e le poesie religiose fioccano: figurati, ne ho scritto sei in meno di quindici giorni ». 

Ma lontano da Amelia si sente sfinito. Essendosi dovuto allontanare una volta da lei, per venire a Roma il 28 settembre dell'86, dopo 33 ore eterne di viaggio, le scrive : " Mi pare un anno che sono lontano da mia madre e da te, oggetti carissimi della mia vita", e più sotto « ho maledetto il momento d'essere partito», e attribuendo alle tenere cure di lei forse questo infiacchimento, che rivela invece il grandissimo prezzo del tesoro ritrovato e ch'egli nella sua appassionata esclamazione mette in rilievo : « io non mi sento più io : tutto è mutato agli occhi miei, tutto mi è caduto dal cuore, fuorché il tuo dolcissimo amore, che spero mi accompagnerà fino all'ultimo istante della mia vita ».
Altrove, sempre nella stessa circostanza e già sulla via del ritorno, ma trattenuto in quarantena (13 ottobre '86, da Napoli) ancora ad Amelia, che invita a raggiungerlo a Reggio : « Ho bisogno, anzi necessità di te: che la malinconia e la tristezza s'è talmente impossessata di me, che mi par di perdere la testa ». 
 
Intanto, dopo aver dato all'Italia «una forma nuova di poema, l'epopea del pensiero», il poema filosofico, eccolo a darle il poema satirico. Già sono apparse — altra fatica — le poesie di Catullo, interamente tradotte, ed ecco nel giugno 1891, scrivendo al Reina, annunciargli «sette canti già belli e finiti dell'Atlantide ». Sette canti ohe sono, come egli dice, « sette flagelli di scorpioni rotati con braccio d!i ferro e con riso di Lucifero su tutte le menzogne e le perfidie e le viltà del secolo ». Né basta; che un'altra novità è alle viste : la versione del « Prometeo' liberato » di Shelley, pubblicata nel '92. Dello stesso anno ancora sono l'« Empedocle » ed altri versi.
Come si vede, a fianco della sua benevola fata, egli non perde il suo tempo. Proseguendo, una commedia « La famiglia del signor Teofilo » intitolata, poi « Un santuario domestico » è rappresentata per la prima volta in Catania nel '93 dalla Compagnia Pietriboni. Nel '95 al 28 dicembre è pronta l'intera traduzione metrica delle « Odi » di Orazio, di cui manda come primizia il « Carme secolare » a Felice Cavallotti.
E continua la sua operosità in mille modi. Nella raccolta postuma delle « Nuove foglie sparse » sono molte delle poesie scritte nell'ultimo decennio di vita, come pure poemetti, epigrammi, iscrizioni e prose trovansi nelle altre due raccolte : « Poemetti e iscrizioni » e « Pensieri e giudizi ».
Ancora quando travagliato, dal male : « Cinque anni io sono stato — scrive a Edmondo De Amicis nel '97 — fremendo e spasimando, tra le spire di .un perfido male, e se non mi fossi io stesso condannato agli ozi forzati, e non avessi avuto l'assistenza generosa di questa nobile creatura ohe m'è compagna, il suicidio avrebbe spezzato il mio cuore, e la mia ragione travagliata da pubblici e da privati dolori si sarebbe inabissata nel baratro della pazzia», ancora la Musa. va a visitarlo qualche volta,, quella Musa, ch'egli abbraccia e bacia.
piangendo. Una collana di sonetti « Nozze immortali » è pubblicata nel 1898 dalla « Nuova Antologia ». « Non ostante i soliti acciacchi » corre non di meno sempre dietro « ai fantasmi dell'Ideale ». Ma il male con la fine è ormai alle porte. Ora egli si limiterà a scrivere ad amici, a conoscenti, a sollecitatori ed ammiratori. Amelia lo sorregge e l'accompagna nell'altro travaglio. Come ricordavo sopra, ella gli è d'accanto ognora, scrive per lui, corregge, legge, interpreta, annota. Non v'è lavoro che non porti ormai l'impronta delle sue mani, non v'è ispirazione che non rasenta la perpetua freschezza, del suo sorriso.  M. A. Personne

* Nuova Antologia anno 59 - 1° luglio 1924

http://rapiasrdi.altervista.org/la_contessa_lara.htm