Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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lunedì 18 giugno 2018

Enrico Onufrio - Un dimenticato dell'ottocento Siciliano







UN   DIMENTICATO   DELL'800   SICILIANO 
1. Ventisette anni di vita

E' merito di M. E. Alaimo l'avere additato questo scrittore palermitano dell'Ottocento, sfuggito anche al Croce, ed aver assicurato alla Biblioteca Comunale di Palermo, da lei diretta, il suo prezioso carteggio. Che si tratti di un grande dimenticato, noi certamente non diremmo; ma d'un dimenticato senza l'aggettivo sì : ed è quanto basta per stimolare il dovere d'uno studioso.
I ventisette anni di vita di Enrico Onufrio (nacque a Palermo il 14 novembre 1858 e morì ad Erice il 28 settembre 1885) sono troppo brevi e tumultuosi per farci sperare in un'opera degna del suo ingegno. A diciannove anni, già lo troviamo a Milano fra lo scapigliato e il realista. Giusto in quell'epoca Angelo Sammaruga trasferiva la sua Farfalla da Cagliari a Milano, e cercava un socio per dividere la direzione, la proprietà e soprattutto i debiti del giornale: l'impulsivo Enrico era il tipo indicato.
La doppia direzione della Farfalla cominciò nel dicembre 1877, e fu un inverno attivissimo per l'Onufrio. Scriveva, voleva far l'editore stampando un romanzo del Dossi, promoveva banchetti per i Cavallotti e gli Arrighi, faceva lunghe passeggiate notturne con Giovanni Verga. Con tutto ciò, nel marzo '78 non è più a Milano, è in Grecia.
L'insurrezione dell'Erzegovina contro i Turchi lo esalta, gli suscita versi guerrieri che son presi in celia da qualche amico. Da siciliano e da poeta, Enrico paga di persona, si precipita a Brindisi, salpa per Corfù, partecipa ad una operazione infelice sulle coste epirote, né trascura qualche corrispondenza giornalistica.
Sospese le ostilità, il nostro si reca a Palermo, dove intensifica la sua produzione e preparazione letteraria. Nel settembre '78 esce Momenti, una sua raccolta di liriche fra il Musset di Rolla («Mamma, noi siam corrosi dal vizio e dalla noia») e il Rapisardi ribelle (« trovare una fanciulla...

E ai suoi piedi deponere, ancor caldo e fumante, Il core dispregevole dell'ultimo birbante, Quel dell'ultimo re! »).

Qualche frecciata anti-carducciana, e un articolo elogiativo per il Rapisardi, stimolano la simpatia del vate etneo, che procura all'Onufrio la libera docenza in letteratura italiana all'Università di Catania. Il diploma, dopo molte lungaggini, fu rilasciato il 3 gennaio 1885, ultimo anno che la tisi concesse ad Enrico.

Eliminati, dunque, i versi e gli scritti d'occasione, che cosa varrebbe la pena di leggere, ancora, dell'Onufrio? Due suoi scritti di prosa del 1882: La conca d'oro e La spugna d'Apelle; e un romanzo del 1885 : L'ultimo borghese.

2. « La conca d'oro »

La conca d'oro, pubblicata dal Treves per il sesto centenario dei Vespri, si presenta, modestamente, come un « Guida pratica di Palermo», divisa in quattro parti (La città, La vita, I monumenti, I dintorni). In verità, eccezion fatta per il Museo, del quale vien riprodotto un secco inventario, un po' tutta la materia viene rielaborata dall'autore, con tocco svelto ma incisivo, con affetto che non fa velo alla verità, con dosatura perfetta fra notizie e impressioni, paesaggi e psicologia, storia e folklore. Il tono costante non è quello di una comune guida turistica, sì d'un giornalista consumato; e a un giornalista, talvolta, che sa alzarsi a scrittore. L'accento sociale, benché caro all'Onufrio, evita le Grazie petroliere delle sue poesie da diciannovenne, e traspira moderatamente dalle pennellate sull'Albergheria o il Foro Italico. I cortili dell'una «son quelli stessi che gli arabi abitavano nove secoli addietro; ma quante miserie, quanti dolori essi nascondono, nonostante le loro fontane ricche di pregi »... Sulla spiaggia dell'altro, « i pescatori neri e seminudi, asciugano o intessano le reti; o accoccolati sulle gambe, con la pipa in bocca, a testa bassa, ciarlano formando un circolo, o, distesi a terra, dormono profondamente con la fronte al sole ».
La sicurezza del colore trionfa a proposito della Vucciria: «Mille odori nauseabondi t'ammorbano il naso; mille voci, alte e fioche, t'intronano le orecchie. Il selciato è sparso di pozze e di rigagnoli »...
Col colore, il calore dell'anima isolana. Oggi non si entra più con dieci centesimi ai Teatri di marionette; ma si può ancora controllare il pubblico osservato dall'Onufrio:
« conversazioni animatissime : si condanna il traditore Gano di Maganza, si suggerisce quale avrebbe dovuto essere il suo modo di procedere, si discute se Orlando è più valoroso di Rinaldo o viceversa, si fanno delle accurate indagini intorno alle virtù del corno di Astolfo; e tutto ciò con la massima serietà, col più profondo convincimento, mentre il rosticciaio e l'acquaiolo van girando fra le sedie vendendo le bruciate e l'acqua fresca ».
Né sono ancora del tutto scomparse feste pasquali di questo genere :
«il mercoledì santo in qualche chiesa si celebra quella cena famosa in cui Cristo accenna ad un traditore fra i suoi apostoli. E gli ' apostoli ci sono tutti e dodici e c'è Cristo in mezzo a loro. E' una bellezza a sentire, fra un boccone e l'altro, quei loro dialoghi, giacché i seguaci del gran Nazareno, e il Nazareno medesimo sono tutt'altro che dei fior di letterati; sicché parlano una specie di dialetto che essi credono di rendere pulito ed elegante a furia di stramberie linguistiche, e lo parlano con la massima serietà, sollevandosi all'altezza della situazione. Ma se assisterai a qualcuno di cotesti spettacoli, e sarai assalito da una gran voglia di ridere, procura di uscir dalla chiesa; se no Cristo medesimo, che in fin dei conti è un popolano della più bell'acqua, si alzerebbe dal suo posto per consegnarti una coltellata ».
L'oggettività della scena non toglie che l'autore sorrida sotto i baffi dei riti religiosi; ma il sorriso, alla sua volta viene non di rado assorbito dalla suggestione folkloristica :
« il nostro ciaramiddaru va girando lentamente per le viuzze e i cortili, e trae dietro a sé tutta la gente al suono della sua cornamusa: un suono dolcissimo e mesto, che sembra qualche volta un lamento e pare che ridesti nell'animo gli echi di lunghi dolori e di lontane angosce ».
Il nostro, infine, ha concetti criticamente precisi, ma tradotti in parlanti quadretti. Se dicesse che Cuba o la Zisa o San Giovanni degli Eremiti sono « costruzioni di gusto esclusivamente arabo, quantunque innalzate sotto i Normanni » nessuno gli presterebbe attenzione. Ma la capacità evocativa dell'Onufrio avvince la nostra immaginazione :
« Quel San Giovanni, con quelle sue cinque cupolette emisferiche, non è un tempio cattolico, è una moschea. Da qualcuna delle finestre sottostanti al cupolino della torricella ti sembra che da un momento all'altro debba affacciarsi il muezzin ad annunciare la preghiera. Là, nella calma dove sorge il tempio, tu subisci a poco a poco il fascino dell'Oriente: vedi spiegarsi sui tronchi diritti i robusti pennacchi delle palme; vedi nella lontananza azzurra disegnarsi il profilo gibboso del dromedario; senti languire nell'aria tranquilla e tiepida la cantilena del beduino ».

3.   « La spugna d'Apelle »

Intorno alla festa di Santa Rosalia, patrona di Palermo, l'Onufrio rimanda ad un suo articolo pubblicato nella Nuova Antologia dell'anno precedente. Lo ritroviamo tra i racconti della Spugna d'Apelle, a modo d'una inchiesta giornalistica divisa in quattro paragrafi (la leggenda, il santuario, le ossa, il festino). Parte culminante, la peste di Palermo del 1624, durante la quale la cittadinanza porta in processione ora sant'Agata, ora santa Cristina, esalta santa Ninfa e santa Oliva, disillusa si volge a san Rocco, poi che questo « ta orecchie da mercante » implora san Sebastiano; beatificato il padre Andrea d'Avellino, « coglie la palla al balzo » ed elegge anche padre Andrea protettore della città; e così via, in una ridda travolgente di compassione e superstizione, finché si crea il mito delle ossa ritrovate di santa Rosalia. Chi ricerca le pesti illustri di tutte le letterature, scriva ancor questa, ch'è forse il saggio migliore dell'Onufrio.
L'inventiva a tutto tondo non è fatta per lui: la sua Spugna d'Apelle, « tutta intrisa di diversi colori », è senz'altro preferibile ai versi, ma non fonde in impasto omogeneo quelle diverse tinte romantiche e realistiche: non si salva che il colore del bozzetto parlermitano, cui abbiamo accennato.
Leggiamo, ad apertura di libro :
« La mia finestra sporgeva in un vicoletto cielo, lungo e sudicio, che si smarriva, come un budello, tra due file di case. Durante il giorno, quand'ero stanco di sgobbare sui libri, m'affacciavo qualche volta sul davanzale, e, con la pipa in bocca, stavo a sentire le ciarle delle comari. Povere donne! Quando un po' di sole riusciva a guizzare su quella straducola, esse rimanevano per lunghe ore aggruppate al calduccio, felici nella loro miseria. Passavano il tempo facendo la calza, spidocchiando o allattando i bimbi, ciarlando di mille cose. E i loro cenci brillavano più del solito con quella matta allegria di raggi; e la fanghiglia del selciato, l'umidore delle mura, i cani secchi e allampanati vagabondi di soglia in soglia, i gatti magri di amore e di fame, tutto pareva scaldarsi sotto quella striscia di cielo che scorgevasi su gli altri oggetti. Ma lo spettacolo era ben triste, sapete! Quelle donne allattavano i bimbi, ma erano poppe magre e vizze che porgevano a rachitica prole; e, quand'esse si chinavano su i loro pargoletti, ohimè!, erano baci fetidi di cipolla, che scoccavano su quelle fronti ingrommate di scrofola » (La gastima).

Si vede subito la mossa zoliana, mossa che coincide con l'orientamento sociale proprio dell'Onufrio, di viva simpatia per le classi umili. Ma l'oratoria populista, alla sua volta, si sposa ad un abito di commiserazione romantica, che inceppa il discorso. Dopo il complesso felice del primo periodo, ecco l'autore — stanco dalle sudate carte — affacciarsi sul davanzale; e dunque lo stacco fra lo scrittore e le cose, e quella leggera aria di condiscendenza, che i primi ottocentisti ostentavano quando dovevano trattare temi plebei. Il «povere donne» annunzia le esclamazioni seguenti, i sapete! e gli ohimè! di assoluta inconsistenza creativa. Il sole che guizza sulla straducola rinvigorisce la scena, la quale, però, finisce in una frase di maniera: «felici nella loro miseria». Il resto alterna la nitidezza della scena con una compassione piuttosto ostentata (« ma eran poppe magre e vizze che porgevano »...) e persino con un arcadico pargoletti.
Come questo capoverso, così tutto il libretto sembra un fiumicello incerto e accidentato, che tuttavia raggiunge il suo mare e in definitiva il suo volto. Gl'intoppi dello stile e degli atteggiamenti, dopo quanto s'è detto, potrebbero avere una lunga quanto superflua enumerazione. Lo stesso bozzetto della Gastima culmina nell'imprecazione contro Dio (« Se non aiutate noialtri che stiamo così in basso, voi siete un infame! ») da parte d'una «donna discinta e scalza, nella bionda gloria delle sue chiome sparse, ginocchioni sul lastrico » ecc. Quella bionda gloria è peggio d'un pugno nell'occhio. La terra dei Feaci, il secondo bozzetto, contiene, in una stessa pagina, fiorentinerie del tutto estranee al gusto del nostro. « La si può dire una donna di mondo »...; « l'era per me una festa »... E Gl'incerti del mestiere (l'ultimo) si trascina in maniera troppo fiacca, eccezion fatta per la scena conclusiva del duello, per dirsi veramente leggibile.
Lo stile, tuttavia, non è una vana parola per l'Onufrio. I lunedì della contessa ne danno forse la misura più sorvegliata. Ecco, dapprima, una descrizione volutamente pigra del palazzo De Griseis, dei suoi ospiti, del salotto e persino dei dipinti stile impero, che meritano una trascrizione :
« L'artista dipinse della Grazie ignude, delle ninfe fuggenti al furore dei satiri, e sirene e nereidi cullate dall'onda azzurrina; né dimenticò il giudizio di Paride, né le scappatelle di Giove, quand'egli, candidissimo cigno, sedusse Leda nelle acque tranquille dell'Eurota, o quando, toro furioso, involò sul suo dorso la figliola di Fenice, leggiadramente smarrita ».

La voluta del periodo seconda e canzona l'ellenismo bastardo dell'età canoviana, e incornicia — soprattutto — la falsità dell'attuale ambiente, la quale esplode nell'episodio del contino che travolge sotto le ruote del suo phaéton il figlioletto della popolana da lui sedotta mentre gli gridava, con le braccia aperte : papà... Da qui all'offerta di cinquanta franchi da parte della contessa alla popolana, il cui rifiuto scandalizza gli ospiti del salotto, o alla frecciata finale che fa della contessa la presidente della Società protettrice degli animali, la finezza evocativa scivola nell'oratoria sociale.
      Dove, invece, manca per l'Onufrio la tentazione ad ingrossar la voce, è negli argomenti religiosi, in quanto radicati nell'anima popolare; ché — amando questa — egli può canzonare, ma non disprezzare quelli. Tale disposizione si traduce in quadretti deliziosi, quasi sempre immuni da stonature passionali. Viva la Madonna! respira l'ambiente ver-ghiano di guerra di santi, e disegna con piena simpatia un vecchio ciabattino organizzatore disinteressato e zelante della festa. Un passo sulla banda potrebbe dirsi esemplare, anche per i costumi odierni.
« Ed ecco apparire la banda, fitta, serrata, in ordine. Sono dieci bravi giovanotti, forti e robusti che è un piacere a vederli, e soffiano, soffiano nei loro strumenti con quanto fiato hanno in corpo. La gran cassa brontola come un temporale; squillano sonoramente le trombe; rulla il tamburo; tintinnano i piatti; il flauto manda gorgheggi d'usignolo; il clarinetto ha lo stridìo d'un'anitra nell'acqua; il bombardino russa come un gigante addormentato. Oh, la bella, la lieta fanfara! ». E la folla, da Lisa innamorata d'un suonatore alla comare d'un cortile rivale, dalle zuffe agli applausi, dalle invocazioni di miracoli alle dense pennellate sulla stanchezza finale, è veramente parlante, una e diversa.

4.  Altri racconti

Alle novelle della Spugna d'Apelle si aggregano, idealmente, quelle pubblicate in periodici vari e non raccolte in volume. In 14 appendici del «Capitan Fracassa» dell'ottobre 1882 uscì, per esempio, L'adultera del cielo, «scene indiane del XII secolo av. Cristo ». Questa Sahagianma lascivetta è un po' il limite delle concessioni dell'Onufrio ai gusti della platea; ma la sua indole anticlericale traspare, invece, e con un certo impegno, nell'asceta Arhat, il quale persuade il marito a farsi sostituire dal fratello nel talamo coniugale scopo di assicurarsi la prole. Il poveraccio consente, ma non regge alla vista di quei «due corpi ignudi, spasimanti d'a more», e li pugnala senz'altro. La sua anima, perciò  piom berà «nel tetro naraca, dove impera Yama, il dio terribile e malvagio » :  e con questa pennellata finale di colore locale par di sentire un respiro di sollievo per un impaccio superato alla meno peggio.
La  morte  di Francesco  Pecora,  dell'anno  seguente   è molto significativa per l'impaccio stilistico del nostro (e di quanti suoi contemporanei?). Il Pecora è un « masnadiero » che assale Torretta, nel palermitano, in odio del conte Guglielmo, che un giorno lo aveva schiaffeggiato. Impostazione a tinte forti e plebee, ma che non sa fare a meno d'un classico ricordo: il brigante che s'aggira minaccioso attorno al vallo pareva, nientemeno,  «Turno rutulo, quale il descrive Virgilio, aggirantesi intorno al campo di Enea, e chiamante alle armi, con aspre offese, i futuri latini ». E quanta convenzionalità  nelle figure!   Il  conte  ha  la   «lunga  barba  candida fluente sul petto,  con la posa del vinto  che non rinuncia all'antica fierezza»; sua figlia Gemma è una «fanciulla ventenne dalle forme statuarie, dalle pupille nere e languidissime, dai leggiadri pallori ». Quando il brigante allunga la mano verso Gemma, il conte lo colpisce « al ventre, sotto il giustacuore»;   e  l'ultima  pennellata   scandisce   tale  sforzo, che dà un senso di pena : « Un raggio di sole, penetrando da un'alta ogiva, guizzò su quel volto bruttissimo di agonizzante, e ne illuminò la rude cicatrice infiammata ed i grigi e irti mostacci ».

5.   «L'ultimo borghese»

Chi, un giorno, volesse ristampare il meglio dell'Onufrio, potrebbe scartare senza rimorso racconti come questi due del «Capitan Fracassa», ma dovrebbe accogliere molte pagine della Conca d'oro e della Spugna d'Apelle e, per intero, L'ultimo borghese, sia perché un romanzo si presta meno all'opera antologica, sia perché si tratta del maggiore sforzo narrativo del nostro. Quelle cinquantacinque puntate del « Giornale di Sicilia » del 1885, che lo stesso Enrico ritagliava e costellava di correzioni man mano che uscivano, fino all'ultima che precedette di poco la sua morte, sprigionano una muta implorazione per riunirsi in volume.



L'ultimo borghese è un giovane, Luciano Rambaldi, capace di qualche fiammata generosa, ma infiacchito dalle abitudini signorili, dallo scetticismo, dalla società: perciò affronta un duello per una cavallerizza, tradisce l'ingenua Rosa per una signora tedesca, diventa deputato senza convinzione, sposa Rosa che incontra per caso mentre la poveretta chiede l'elemosina, comincia a tradirla di nuovo in Roma « bizantina », finché un giorno, alla Camera, soffocato dalla nausea parlamentare, improvvisa un discorso contro la borghesia («casta come qualunque altra: essa ebbe un principio e avrà una fine »), che deve interrompere per una emottisi mortale : gli si era riaperta la ferita al polmone, ricevuta in duello sette anni prima.
Che il protagonista impersoni la borghesia, è un'ambizione superiore alle forze dello scrittore. Che la fine di Luciano anticipi di poco quella di Enrico, è cosa toccante, ma anch'essa di scarso peso per valutare il romanzo. Il quale si raccomanda per motivi più limitati, ma concreti : la misura dell'impostazione, la freschezza dell'idillio, la precisione di tanti particolari. L'Onufrio, pur sfiorando in Luciano il tipo byroniano, lo sgonfia talmente delle consuete affettazioni e turgidezze da avvicinarlo, se mai, ad un tipo tutto opposto e ben più moderno, ch'è quello dell'abulico. Altro tipo romantico — quello della divina fanciulla — fa capolino in Rosa : « Rosa era un angelo, un angelo bello, un angelo buono, tutta amore, tutta candore »; ma questa reminiscenza valga ad indicare non ciò che l'Onufrio ha fatto di Rosa, ma ciò ch'egli ha saputo evitare. E la donna fatale, finalmente, che fa capolino in Ester, si dimensiona nella visita alle miniere di Girgenti e nei maneggi perché l'amante venga eletto deputato.
Delle due parti in cui è diviso il romanzo, eccelle la prima. Lo sboccio dell'idillio fra Luciano e Rosa affronta con mano felice la trasformazione della fanciulla in innamorata e avvolge i due giovani in un alone passionale, senz'ombra di lubricità. La maniera (e precisamente una maniera alla Tigre reale) subentra, ma sempre con discrezione, nell'amore fra Luciano ed Ester.
Ma dovunque le figure minori balzano con evidenza e intonazione: dall'impiegato che comunica alla moglie e alla madre di Francesco Rambaldi la crudele morte di questo, al frate sonnambulo; da mamma Caterina a donna Peppina l'usuraia; dai minatori ai parassiti elettorali. E tocchi paesistici — sobri, sicuri, suggestivi — completano l'impressione d'un giovane tutt'altro che povero di qualità narrative : d'un giovane che, se non poté lasciarci quanto la sua indole sicuramente prometteva, rimane tuttavia degnissimo del nome di scrittore. Tra il saggista e il giornalista, l'O. sa tradurre le proprie osservazioni e i propri sentimenti in pagine pertinenti e comunicative; da narratore, non si estranea dal suo mondo morale né dai problemi del tempo suo, imposta e distribuisce la trama con mano sicura, gioca la sua carta letteraria senza barare con quella politica o pornografica.

di Gino Raya - ed.1960

6. Nota bibliografica

a) Scritti di Enrico Onofrio

1)  Checchina. - Uno scherzo  al marito, racconti siciliani, Tip.  de « L'avvenire di Sardegna », Cagliari, 1877.
2)  Le formule del Bello e dell'Arte, Palermo, Losnaider, 1877.
3)  Barbarie, Palermo, Gaudiano, 1877.
4)  Momenti, Palermo, Gaudiano, 1878.
5)  Metrica e poesia, Palermo, 1878.
6)  Albatro, versi,  Roma, Sommaruga,  1882.
7)  P. Vergilius Maro, Palermo, Losnaider, 1882.
8)  La conca d'oro, Guida pratica di Palermo, Milano, Treves, 1882.
9)  La spugna d'Apelle, Milano, Quadrio, 1882.
10)  L'adultera del cielo, novella indiana del XII secolo a. C, in 14 appendici del « Capitan Fracassa », Roma, dal 7 al 23 ott.  188-.
11)  La morie di Francesco Pecora, ivi, 24 giugno 1883.
12)  Altri scritti nel « Cap. Frac. » : l piccoli poemi del mare, 30 sett. 1883 (sottotitoli: L'addio, Il battesimo dell'oceano, La danza dei diavoli, Amici ignoti, Sgomento; riproduzione nel «Progresso italo-americano», 16 ott. 1883); I suoi capelli!, 9 nov. 1883.
13)  Scritti in «Cronaca bizantina», Roma: Marta, 30 giugno 1881; In grembo a San Francesco, 1 giugno 1883.
14)  Il sentimento della natura nel Poliziano, Palermo, Sandron, 1884.
15)  L'ultimo borghese, app. del « Giornale di Sicilia », Palermo, 1885.
16)  Guida di Palermo e dintorni, Palermo, Sandron, 1886.

b) Scritti su Enrico Onufrio

17)  G. Pipitone-Federico, Saggi di letteratura italiana contemporanea, II serie, Palermo, Pedone-Lauriel, 1888, pp. 433-455 (riproduce un articolo pubbl. nel « Giornale di Sicilia » nell'ottobre 1886, primo anniversario della morte di E. O.).
18)  M. E. Alaimo, Avanguardismo letterario dell'800, « Giornale di Sicilia », Palermo, 4 gennaio 1950.
19)  Gino Raya, Il Romanzo, Milano, F. Vallardi, 1950, cap. IX, 3.
20)  Giuseppe Squarciapino, Roma bizantina, Tor., Einaudi, 1950.
21)  M. E. Alaimo, Malumori anticarducciani e spigolature rapisar-diane inedite, « Letterature moderne », Milano, sett.-ott. 1953.
22)  Gino Raya, Quattro lettere inedite di G. Verga a E. O., « Letterature moderne », Bologna, luglio-ag. 1957.
23)  M. E. Alaimo, Presenza della Sicilia nelle battaglie letterarie della terza Italia, « Politica e cultura », gennaio 1958.
24)  Id., Palermo ignora E. O. « Giornale di Sicilia », 23 nov. 1958.

DUE  LETTERE  AI  GENITORI 
Raya, 800 inedito

Della scarsa corrispondenza rimastaci fra Enrico Onufrio e la famiglia, scegliamo le due seguenti cartoline dei suoi vent'anni, dedicate: la prima al padre, da Milano; la seconda, alla madre, da Corfù. Si tratta, dunque, dei due primi voli : a Milano, con le sue cene artistiche; e in Grecia, dove l'impulso dell'eroe romantico in parte si mescola, in parte si nasconde per pudore da smaliziato, in «affari di giornale». Toccante, in entrambe le paginette, l'amore per i genitori, cui Enrico dà del lei come usava allora, e che vuol  convincere, soprattutto, della sua «salute di ferro», ben conoscendo il punto di maggiore preoccupazione per quelli.
Trascriviamo integralmente. L'indirizzo di entrambe le cartoline è «Al signor Andrea Onufrio, Palermo, 80, via del Celso»; la data si rileva dal bollo postale.
1
Carissimo papà                             Milano 21 dicembre 1877
Fa freddo, ma io sto benissimo. Non soffro niente affatto, anzi vo sempre più migliorando in salute. Domani sera ci sarà una cena artistica promossa dalla Farfalla — a cui prenderanno parte romanzieri, giornalisti, musicisti, ecc. Basta nominare Verga, Auteri {l'autore della Dolores), Righetti, Scontrino, Franconi, Cavallotti ecc. ecc. Sarà un avvenimento. Daremo un resoconto sulla Farfalla. Ciò ci farà immensamente réclame.
L'abbraccio caramente insieme alla mamma, Totò ed Elvira. Abbraccio tutti. Saluto i parenti.
Enrico
2
Corfù, 2 marzo 1878 Carissima mamma
Speditami da Milano ricevetti la sua carissima lettera. Mi son dovuto fermare per affari di giornale altri pochi giorni a Corfù. Dopodimani mi recherò ad Atene. Spero fra un mese, al più tardi fra quaranta giorni, d'essere a Palermo. Conservi dunque il suo cuore di pasta reale, che lo mangeremo insieme. Io sto benissimo, anzi godo una salute di ferro. L'abbraccio caramente insieme al papà, Totò ed Elvira.
Abbraccio la nonna, le sue sorelle, la zia Carmela, lo zio Turillo, lo zio Nino, ecc.
Suo Enrico

domenica 25 gennaio 2015

Gino Raya - l'ira nemica continua a vivere oltre il rogo.



del prof. Pasquale LicciardelloIl 2 dic. 1987 Gino Raya lasciava questo discutibile mondo: un infarto perentorio ne aveva stroncato la pur solida fibra. Particolare non trascurabile, l’evento funesto capitava alla fermata di un bus, sulla strada, nel buio d’una gelida sera della Roma congesta di anonima folla, l’aria affocata negli odiatissimi veleni del traffico. La morte confermava, così, quella solitudine che aveva segnato la sua vita di studioso. Supplemento di conferma, Raya tornava, solo (a ottantun anni e mezzo), da una conferenza culturale.
“Oltre il rogo non vive ira nemica”, si diceva una volta; e Benedetto Croce citava la sentenza a suggello della sua teoria della Storia come pensiero e come azione. La Storia in fieri, in quanto azione, “giudica e manda”, combatte e condanna; ma come pensiero, cioè storiografia, non giudica, giustifica. Vale a dire, spiega (dispiegando ragioni). La dottrina si applica anche ai protagonisti della cultura? Certamente. Ma la pratica è altra cosa: quale, per esempio, si presenta nel nostro caso. No, a Gino Raya la massima non è stata applicata. Nei vent’anni dalla morte, nessun segno di corale attenzione è venuto dal mondo culturale”: né da quello accademico né dal giornalistico. Solo pochi amici ne hanno risvegliata la memoria in occasione del decennale: ma privatamente, lontano dal moltiplicatore mediatico. Il mondo ha continuato a ignorarlo. Gino Raya rimane un autore vitando, un maudit: l’“ira nemica” continua a vivere oltre il rogo. Espressione (tra l’altro) da prendersi quasi alla lettera, essendo stato, il corpo, cremato, per sua coerente volontà testamentaria di materialista convinto. Quasi un estremo gesto di rivolta contro il plurimo “disordine” etico-culturale, che quel divergente genetico aveva largamente contestato con un’indipendenza di giudizio gelosamente difesa perfino dentro la giovanile militanza crociana. Nonché usata, spesso e volentieri, con asprezza sferzante, specialmente contro i palloni gonfiati delle diverse categorie: letterati, scrittori, critici, pensatori, politici.

Varia e copiosa, perciò, la schiera dei nemici presi di mira dalla frusta rayana. Che talvolta è sottilmente ironica e tagliente non meno della barettiana, altre volte alquanto umorale. Non c’è dubbio: faceva ben poco per farsi “accettare”. Diceva, il fiero Pertini, che l’uomo di carattere ha sempre un brutto carattere: è proprio il caso del nostro amico e compianto maestro. Qui, brutto significa, essenzialmente, fiero, coerente, poco incline alla tolleranza pelosa (o magari soltanto pietosa). E basta, questo stigma caratteriale, a legittimare l’ottusa ostilità dei suoi persecutori? Ottusa, perché largamente preconcetta e personalistica; e perché consumata, in prevalenza, con la più miserabile delle armi: la “congiura del silenzio”. Anche ipocrita, quell’ostracismo, visto che degli studi verghiani del Nostro si servono tutti: e questo è il solo caso che costringa gli utilizzatori a citarne il nome. Non mancano, però, esempi di vero e proprio furto: ci si appropria di suoi giudizi critici su questo o quell’autore o evento culturale senza citarne la fonte. Un furto che il collerico saccheggiato in qualche caso denunciò con l’accusa di plagio.

Lo si è anche accusato di atteggiarsi a martire, e forse c’è stata una certa enfatizzazione del ruolo: ma questo, il poco gradevole ruolo, gli era stato imposto, e anno dopo anno confermato, vieppiù intossicandolo. Un circolo vizioso: più Raya approfondiva la sua divergenza (di critico e pensatore) e più crescevano ripulse e silenzi. Ma anche: più montavano questi chocs en retour più si inaspriva l’animo ulcerato dello scomunicato vitando. Il movimento ricalca, in piccolo, il feed back positivo della cibernetica: l’effetto retro-agisce sulla causa intensificandone la forza, e questo incremento causale rifluisce sugli effetti amplificandoli. E’ quanto accade nelle valanghe o negli incendi. Se si pensa che la chemio-dinamica dei fenomeni biologici si basa sul prevalere del feed back negativo (l’effetto retro-agisce sulla causa depotenziandola) a salvaguardia degli equilibri vitali, si può capire come e quanto la salute psico-fisica di un perseguitato di acuta sensibilità debba soffrire. Magari fino a certe esplosioni di narcisismo reattivo poco congruenti con la sobrietà del carattere (allergico all’enfasi e ai facili elogi). O fino ai saltuari dubbi insensati sugli amici più veri e devoti, a certi sprechi di spazio della sua rivista per inutili foto-riproduzioni di lettere verghiane. Legati, questi sprechi, a un sintomo ancora più allarmante: il masochismo da ritorsione, che lo induceva a rifiutare per la sua rivista testi validissimi di qualche devoto allergico a sue richieste di facili libelli d’ispirazione famista,

Ma con tutti i suoi limiti caratteriali egli mi appare ancora un Gulliver fra lillipuziani nel confronto con la media attuale e tardo-storica (l’ultimo mezzo secolo o più) dei baroni in cattedra e degli operatori culturali in genere. E sia detto non per negare valori eminenti fra quei “baroni” e fra questi “operatori”, ma per relegarne l’eminenza dentro i perimetri dell’acquisito e del consolidato. Come dire: quei valentuomini sono bensì gremiti di erudizione e capaci di spostare qualche tassello e virgola del contesto metodologico ereditato (crocianesimo, marxismo, strutturalismo, decostruzionismo,…) e nell’area critica di questo o quell’argomento; ma dove cercare, in quel folto di prevalenti carrieristi schierati, l’idea nuova, la proposta che ti fa saltare dalla sedia o cattedra che sia? Dove, il dissenso radicale e ben motivato dai “valori” correnti, nel nome di una meno pigra e più controllabile scienza del mondo umano che quei valori ridefinisca e ridimensioni? Anni fa un “consulto” di cattedratici del nostro ateneo si chiedeva quale novità reale, e insomma rivoluzionaria, si fosse verificata in quella cittadella del sapere (anzi Sapere): guardandosi in faccia quei valentuomini furono costretti a riconoscere che la novità stava tutta e soltanto nelle scandalose teorie rayane: famismo e conseguente critica fisiologica. E qui un marziano, immune dai meriti terrestri, si figurerebbe che da quel riconoscimento il destino del Raya abbia galoppato in trionfale corsa di contrito risarcimento. Ma noi siamo sul pianeta Terra.
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Per non millantare un copyright che non ci compete, riveliamo subito che quei marziani spettano alla scrittrice Pina Ballario, la quale, quaranta e più anni fa, scrisse questa scherzosa iperbole: “Gino Raya sarà, come Vico, apprezzato fra cento anni, dopo la epurazione fatta dai Marziani sulla terra. Non so perché si temono gli omini verdi dei dischi volanti. Io e gli amici miei sparsi un po’ in ogni parte del mondo li aspettiamo. E renderanno giustizia a Gino Raya” (“Gazzetta di Novara”, 23. 02, 1963)
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Si potrebbe persino chiedere dove stia l’eccellenza espressiva degli eminenti, baroni di cattedra e big della libera prosa, inventiva o giornalistica, tanto rari sono i veri campioni di stile: conosciamo fior di “emeriti” che “non sanno scrivere”. Vale a dire che sono capaci al più di una prosetta ammodino, ampollosa o asfittica, dove la correttezza sintattica resta confinata all’aspetto grammaticale, senza sfiorare quella più vera sintassi che è “monoblocco” di pensiero-passione profondo e fulgido stile di stretta fitness. Una sintesi che vuole estro, arguzia, ritmo sequenziale, originalità di immagini e agilità comunicativa (fuggendo come la peste le lungaggini le cacofonie e l’ingorgo ipotattico). Ebbene, questo binomio raro, sostanza ed eleganza, Raya lo realizzava in ogni suo scritto (e sia pure con l’inevitabile “più o meno” di ogni prova umana nel tempo); gli altri, quando sono al top, si fermano a rapsodici decori e calchi “brillanti”. Il prosatore Raya (sia critico che narratore) fa pensare, tra l’altro, alla “regola” di Ivo Andric: “una parola superflua non dovrebbe mai essere pronunciata”, e proprio perché “nulla più della lingua induce allo spreco e al peccato”. L’autore più lontano da siffatti sprechi e “peccati”: ecco il prosatore Raya. Una qualità che gli veniva riconosciuta dalle poche celebrità oneste e non prevenute. Parlando della rivista Narrativa (fondata dal Raya nel 1956, trasformata, nel 1966, in Biologia culturale), Maria Bellonci scriveva: “Pubblica racconti e scritti critici dove non una parola sia superflua o convenzionale o bugiarda, e dimostra […] l’assoluta coincidenza fra arte e morale” (Il Giorno, 26. 04. 1960). E Antonio Aniante, a sua volta, coglie nello stile rayano l’elegante sintassi qui segnalata, attribuendola “a una forte carica culturale, aggressiva, sadica, immaginosa”, declinabile in questi termini: “La carica culturale utilizza gli strumenti volta a volta più idonei, dalla scienza alla cronaca nera. La carica aggressiva spiega la schiettezza e la densità del dettato, che punta al suo tema senza preamboli complimenti mezzi termini in genere. Nel processo aggressivo-polemico si dispiegano due fenomeni: quello sadico e quello umoristico; entrambi connessi al senso del ritmo. Solo che il ritmo del sadico corrisponde ad un certo compiacimento impietoso, e il ritmo dell’umorista corregge la crudeltà del sadico dirottandola nell’arguzia o nella risata” (Antonio Aniante, Il famismo, Milano, Pan editrice 1977). Non ci vengono in mente che due soli nomi di scrittori paragonabili al Raya: Concetto Marchesi e Gesualdo Bufalino. In modi diversi, ma ugualmente eccellenti, ti deliziano con la loro arguzia, fantasia, discreta ma schietta sensualità, audacia traslativa, laica profondità di pensiero, ironia dissacrante e commossa saggezza. La loro prosa te la senti quasi in bocca, come una leccornia che seduce il palato. E sia detto senza nulla togliere alle buone scritture del nostro panorama letterario novecentesco.
Il titolo di Aniante ci riporta al maggiore contributo di pensiero osato dal Raya. Il quale, all’alba dei suoi cinquant’anni, comincia a sviluppare quella estrema reductio ad corpus che è la dottrina famista o biologia culturale. Testo fondamentale, La fame. Filosofia senza maiuscole (Padova, 1961, con prefazione di Luigi Volpicelli. 3a ed., Roma, 1974). Libro spregiudicato e geniale, che, risalendo, secondo un aggiornato metodo vichiano (“Natura di cose è nascimento di esse…”), la vicenda filogenetica, trova nell’innesco metabolico della primordiale chimica organica l’origine e la sostanza costante della vita nella sua infinita fenomenologia. Siffatta impostazione porta a includere in quell’unica matrice l’uomo intero, “dalla testa al calcagno” (come recita una celebre formula). Dunque, anche l’intera gamma dei fenomeni mentali e cosiddetti spirituali, con totale ripudio della millenaria interpretazione dualistica o platonizzante. Un itinerario, insomma, dove ogni parametro antropico specifico (razionalità, affettività, cultura, religione. arte…) viene letto come sviluppo fisiologico del corpo nelle sue strutture “nobili” (cervello, ecc.) e accostato ad analoghe e più elementari funzioni del mondo animale. Il punto focale dell’homo novus famista sta nell’unicità del primum movens di ogni sua azione, di muscoli o di pensiero. Il benservito spetta alla ragione come categoria metafisica e presunta motrice di pensieri “spassionati”, di teoresi libera dalle emozioni. Il famismo dice: nessuna azione o respiro senza il movente passionale, che ricondotto alla sua radice basale, è sempre una modalità della pulsione fagica, un appetito. L’unica razionalità possibile sta nell’autodisciplina tecnica della passione-appetito, che può rivolgersi a una pagnotta come a un libro, a un corpo o a un cuore, e cioè secondo una sterminata gamma di trasposizioni. In ognuna delle quale affiora la originaria bivalenza del rapporto fagico: gradire o rifiutare. Di qui la visione antropofagica dell’eros. Quella spinta originaria non può non agire in ogni emozione. La normalità del freno anti-incorporazione nell’amore non deve cancellare la ricorrente prova tragica del delitto passionale come metafora dell’ingestione; né i casi di regressione cannibalica verso il corpo bramato. In questa severa reductio biotrofica l’arte non può essere che danza, ossia mimesi ritmica dell’atto fagico comunque trasposto (dislocato, sublimato o mascherato).
All’uscita del libro era facile prevedere quanto si è puntualmente verificato: salvo pochissime, nobili eccezioni, il resto sono reazioni di indignato raccapriccio presso le anime timorate (ivi compresi i grandi Tartufi dotti e cattolici); di superciliose ironie nei campioni dell’accademia sedicente laica (così tributaria, in rebus, della secolare tradizione metafisico-religiosa: anche quando si autocertifica materialistica). Troppo sconvolgente, la Weltanshauung rayana, per la varia pigrizia mentale dell’intellighentsia maggioritaria, non solo italiana, ma planetaria. La quale risponde riconfermando ad augendum quei valori assolutizzati che Raya chiama maiuscole (per l’iniziale un tempo d’obbligo nei relativi lessemi). E che, purtroppo, stanno dimostrando una vitalità tetragona ai colpi dell’evidenza, moltiplicando l’orrore del mondo con le quotidiane stragi del terrorismo islamico e dell’altrettanto criminale stragismo indiscriminato dei cosiddetti Paesi civili e democratici, come gli Usa e certi loro satelliti. Che in entrambi i casi la catalisi religiosa operante nelle diverse forme del fanatismo strumentale sia evidente nel suo aspetto più cinico e catastrofico non turba i sogni del quietismo mammonico ammantato di sonanti ideali. La voce del fantasma rayano, così chiara e forte contro le maiuscole potenzialmente assassine, continua a gridare nel deserto.
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Questo è l’uomo cui si continua a far torto anche da cenere. Gli universitari, quando gli proponi di fare qualcosa per ricordarlo, si defilano. Qualcuno perfino “scusandosi col dir non lo conosco”. Ma non è solo il mondo accademico a recitare de Raya il poco gagliardo ruolo delle tre scimmiette (“non vedo non sento non parlo”): il variegato e altrettanto discutibile universo giornalistico non è da meno. Anzi. Giornali che il Defunto onorò per decenni si guardano bene dall’onorarne le ricorrenze. Tra questi spicca per assenza ribalda La Sicilia, che Raya illustrò per oltre mezzo secolo con i suoi eleganti elzeviri e “Servizi speciali” (da anniversari celebri: veri densi saggi critici).
Ma i responsabili del quotidiano hanno fatto di peggio. Alla notizia della morte, mi si chiese il classico coccodrillo (ero il seguace più in, e collaboravo, come tale, a quelle pagine culturali dal 1974). Lo scrissi, contenendolo nelle nuove misure imposte dalla rinnovata redazione culturale. Lo portai, come al solito, ignorando che lo stavo mandando al macello. L’articolo fu squartato: un pezzettino-civetta in prima pagina, il “servizio”, sfigurato da tagli infelici, a pg.24, tra il vario ciarpame dell’Attualità. Eppure era uno schietto pezzo da terza pagina. La piccola infamia suscitò indignazione tra amici conoscenti alunni del mio liceo: tra questi, una animosa fanciulla (Mariagrazia Finocchiaro) scrisse una vibrata lettera di protesta al giornale, che, con “piacevole sorpresa” dell’autrice, la pubblicò (18. XII. 1987, “La parola ai lettori”; titolo La biografia di Gino Raya): unica, inattesa, goccia di gratificazione pubblica (o piuttosto di risarcimento) in quel mini-evento di ordinaria cialtroneria. Ancora mi chiedo come mai sia stata pubblicata la lettera. E per opera di chi. Qualcuno, in quel cafàrnao di nuovi Soloni e grilli parlanti, dovette accorgersi che la si era fatta grossa: non s’erano offese soltanto due qualificate firme del giornale, ma lo stesso quotidiano, sfregiato da quel sezionamento imbecille. Altra inevitabile domanda: in quale sacco gastrico ribolliva l’incomprensibile odio verso il binomio così seviziato?
E il suo paese natale, la sua piccola patria, Mineo, che tanto giusto onore tributa al grande Capuana (Monumento in piazza, fondazione, vie, ecc)? Cos’ha fatto per quest’altro suo figlio? Nulla, che io sappia: neppure, forse, intitolarne una via, una piazza, un vicolo. Non ci è capitato di vederne, nei nostri due approdi a quella attraente meta natalizia. Si vedono, bensì, i libri del Raya che si occupano di Don Lisi, tra le mille pubblicazioni esposte nel palazzo di famiglia; ma tutto finisce lì. Chi dicesse a quei distratti amministratori che per valore culturale e genialità Raya è molto più alto del maestoso monumento del pur bravo narratore e critico e professore e folklorista e burlone fotografo ex sindaco don Luigi, li farebbe sorridere di ironia e compassione. Diremo, “Ai posteri”? Ma quali? Quando? Risuonano le dolenti note del Leopardi che fantastica del Parini, o della gloria. Egli, però, l’Infelice di Recanati, da cenere, di gloria ne ha avuta da riempire il pianeta e i secoli. Raya si deve accontentare di una dispersa presenza in rete (in vari siti è possibile trovare i suoi libri), dove lo studioso italianista (e dantista in particolare) nel suo sito internet Literary gli rende giustizia inserendolo fra i suoi densi Profili letterari siciliani dei secoli XVIII-XX (in cui ospita perfino il modesto sottoscritto). Gli siano rese grazie: non è quanto spetterebbe all’Ostracizzato, ma il poco è sempre meglio del niente. Al relativamente poco dell’infaticabile Ciccia è doveroso aggiungere il nome di Paolo Anelli, precoce autore di un vibrante pamphlet sul “Caso Raya”: Il silenzio delle farfalle infilzate. Sottotitolo: “La danza della vendetta di Gino Raya” (Firenze, Atheneum, 1991). Una testimonianza che è sempre un piacere rileggere. Intanto chi avrebbe pronti, da anni, un paio di robusti saggi, non può pubblicarli: la pensione di prof. di filosofia nei licei non consiglia consistenti spese extra-domestiche. Quanto alla famiglia del Rimpianto, opaco silenzio sull’argomento.  GINO RAYA, A VENT’ANNI DALLA MORTE