Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

lunedì 7 dicembre 2015

Pietro Platania nobilissima figura di musicista e di maestro (Catania, 1828 - Napoli, 1907)

« Solo la guerra o le rivoluzioni possono indurre i governanti a non riservare attenzione adeguata alle arti, che riprendono tutto il loro vigore nello stato normale, fanno parte della vita civile, son decoro di un popolo, e segno non dubbio della sua civiltà… » P. P.


Fin da bambino mostrò una spiccata tendenza per la musica, e nonostante il desiderio del padre — il quale avrebbe voluto fargli seguire la propria professione di avvocato — inizio i suoi studi musicali con Giuseppe Abbatelli, in quel tempo maestro di Cappella della Cattedrale di Catania.
Quanto tempo e fino a che punto studiò con l'Abbatelli, non sappiamo, sappiamo però — dalle cronache locali — che nel 1843 fece eseguire una « Sinfonia del dilettante », un Quartetto e un gruppo di arie per canto e piano.
Nel 1844 fece eseguire alcuni brani di una sua opera (composta quando aveva sedici anni) ricavata dal famoso romanzo di Eugenio Sue: I misteri di Parigi.
A Catania continuò negli studi fino al 1848. Nel 1850 — grazie a un sussidio annuo assegnatogli dal Comune, in premio dei suoi evidenti meriti — decise di continuare e completare gli studi nel Conservatorio di Palermo sotto la guida di Pietro Raimondi, il grande contrappuntista che era direttore e insegnante di composizione in quel Conservatorio fin dal 1833. Gli bastò un solo anno per mettere in ordine e rinnovare la tecnica musicale appresa dal maestro di Catania, e sentirsi libero di esprimere il suo mondo interiore con perfezione di scrittura e di forma. Tra tutte le forme musicali, l'opera lo   attraeva   maggiormente, e appena uscito dal Conservatorio cominciò una Matilde Bentivoglio che fu rappresentata nel teatro Carolino di Palermo, nel marzo del 1852. Il successo fu veramente entusiastico; il ventiquattrenne compositore fu evocato alla ribalta oltre venti volte. Rappresentata a Catania, l'anno successivo, la Matilde confermò lo stesso entusiastico successo ottenuto a Palermo. Il giovane musicista catanese volle dedicare l'opera al Comune della sua città natale.
Un altro successo, il Platania, ottenne con l'opera successiva Piccarda Donati, rappresentata ancora al teatro Carolino di Palermo il 6 marzo del 1857, seguito dall'altro più clamoroso dell'opera Vendetta slava (Palermo, 1865). In esse il musicista appare padrone della tecnica compositiva che egli sa dominare con la sua ispirazione e sottoporre alla volontà di rinnovare la tecnica, le forme e l'espres-sione dell'opera in musica, ancora stretta tra i ceppi della convenzionalità.
Fin dal 1863, Pietro Platania era stato nominato direttore del Conservatorio musicale di Palermo e maestro di composizione, succedendo in queste cariche rimaste scoperte per dieci anni, a causa dei soliti intrighi che non hanno mai niente a che fare con l'arte, al suo maestro Pietro Raimondi.
Ma tutto questo non potè che ritardare lo sviluppo straordinario che prese l'antico istituto musicale siciliano. Il Platania aveva assimilato perfettamente dall'insegnamento del suo maestro la straordinaria perizia nell'intrecciare ed equilibrare le voci in vaste ed elaborate trame polifoniche.  Di  questo suo  veramente  eccezionale magistero  -     tanto  raro  nell'Italia  di   quel   tempo   — nacquero:   il   « Pater  noster »   a   5   voci   e  organo; l'« Ave Maria » a otto voci e 2 campane; la « Messa da requiem » per soli, coro e orchestra eseguita nella chiesa di S. Domenico di Palermo il 9 febbraio  1878 in occasione del trigesimo della morte di Vittorio Emanuele II; il Salmo « Laudate pueri », steso in forma di cantata per soprano, coro e orchestra;   composto  nel  1880,  fu  eseguito  in  Roma, nel palazzo Doria-Pamphili in occasione delle celebrazioni in onore del Palestrina; il Salmo « Exurgat Deus »  a 24 voci,  aggruppate in sei cori a 4 voci ciascuno,  che rimane l'inno più grandioso  e-levato alla Divina potenza di Dio Creatore. Composto  a Palermo  intorno  al  1872  esso   rimase   sepolto in un cassetto per nove anni  come un orgoglioso spiegamento di forze che difficilmente poteva tradursi in realtà sonora   (secondo una nota dell'Autore,  l'esecuzione  del  detto  Salmo  esige  32 voci  per  ogno  coro,  facendo  assommare  a   192   il totale degli esecutori). Ma a conoscenza della singolare  creazione,  gli  alunni  del Platania  spinsero il loro maestro,  nel  1881,  a presentarla  alle  esposizioni di Milano e di Parigi. In entrambe le città il  Salmo   « Exurgat   Deus »   venne   premiato   con medaglia d'oro. Dedicato a papa Leone XIII, il Salmo fu stampato in Germania.
Nello stesso anno 1881, Pietro Platania — su indicazione dei maestri Franco Faccio ed Amilcare Ponchielli — fu chiamato a coprire la carica di maestro di Cappella del Duomo di Milano, rimasta vuota dopo la morte del maestro Quarenghi.   Il  Platania  accettò  la  nomina  ma  temporeggiava a stabilirsi nella capitale lombarda poiché l'abbandono del posto di direttore e insegnante che teneva nel Conservatorio di Palermo, non gli avrebbe fruttato nessun riconoscimento, da parte dello Stato, del servizio prestato a Palermo per 19 anni.
Nei tre anni che tenne la carica di maestro di Cappella del Duomo di Milano, poche volte partecipò personalmente alle sacre manifestazioni che vi si svolgevano; ma espletò il suo dovere inviando musiche appositamente composte adeguandole alle ottime possibilità che gli offriva la Cappella, e cioè un buonissimo coro e due organi. E, infatti, tenedo presente quelle possibilità, egli compose tra l'altro, « Resurrexit » (1882) a otto voci e due organi; un « Credo » (1882) per due cori e organo; un « Gloria » (1883) a otto voci per soli, cori e 2 organi e la « Messa solennis » per soli, coro a 8 voci e 2 organi, scritta secondo il rito ambrosiano. Compose inoltre un gran numero di Inni, Corali e Mottetti.
A dette musiche sacre, composte per il Duomo milanese, dobbiamo aggiungere le altre composte dopo, a Napoli, tra le quali meritano particolare menzione la Fuga a sette voci « Stella quam viderunt Magi » (1892) e l'antifona « Ave Mater Fìlio Orbata» (1893), per soli, coro a 8 voci e strumenti a percussione. Composizioni, queste, che rimangono le ultime grandiose espressioni del magistero   polifonico   del   grande   compositore.
L'opera polifonica di Pietro Platania (e cioè tutta la musica sacra nella quale essa è sostegno e  trama) racchiude in sé ogni aspetto della sua complessa personalità di artista: tecnica, invenzione, padronanza dei mezzi, dominio sicuro e geniale impiego della materia; magistralmente fusi, questi elementi ci mostrano il mirabile equilibrio del   suo   spirito    di    costruttore   e   di   creatore   e
—  soprattutto — di credente.

Dal   punto   di    vista    della   tecnica   polifonica
—   fine a se stessa o mezzo per manifestare il proprio sentimento religioso — troviamo che i meriti del Platania non sono solamente artistici. Bisogna anche parlare del suo coraggio nel rimetterla in pratica. In un'epoca nella quale pareva che soltanto il teatro dovesse essere l'unica espressione della musica italiana, il catanese creava monumenti imperituri alla polifonia vocale, cioè al contrappunto puro (quale non si adoperava più dopo i secoli XVI e XVII) dando così all'Italia la sola, seria possibilità di allinearsi con le altre nazioni europee che quel genere di musica coltivavano ancora.
Pietro Platania fu il primo musicista italiano che sentì quel risveglio culturale che, negli altri paesi vicini — la Francia e la Germania in testa — aveva già rinnovato la tecnica, le forme e l'espressione  del  discorso  musicale.
Rinnovamenti che, nella musica del catanese, possiamo anche riscontrare nelle composizioni strumentali e vocali per il concerto e per la camera. Fin dalle prime manifestazioni del suo talento di compositore, anche nei pezzi da salotto, inni o marce occasionali, troviamo che il musicista cercava sempre una espressione nuova, sia nella linea della  melodia   che   nell'accompagnamento,   sia  nel le armonie che nel disegno ritmico.   Ciò   osserviamo nelle Cantate in onore, di Bellini, della regina Margherita, in celebrazione del centenario della Fondazione dell'Albergo dei poveri; l'osserviamo ancora nei brani per orchestra « Epicedio per Gaetano Donizetti», «Festa valacca», «Elegia a Giovanni   Paisiello»;   nelle  sinfonie  «L'Arno»,   «Italia »;  nella « Meditazione » per archi  e pianoforte; nell'« Ode » composta in onore di Rossini; nell'« Ode » per la traslazione in patria delle ceneri di Bellini; nella « Sinfonia funebre » in morte di Pacini; nel duetto   «Tra   i  fiori»,   la   caratteristica  «Preghiera  di  Agar  nel  deserto »;    nei    quattro    Quartetti per  archi   (in  mi  min.;   in  la  min.;   in  sol  min.; in do min.);  nel Quartetto per voci sole, su versi del Metastasio  e nel  Quintetto  per  soli  strumenti a  fiato   (flauto,   oboe,   clarinetto,    corno,   fagotto). Le sue ultime composizioni di musica strumentale, rimaste   inedite,   sono   un   fascicolo   di   Sonate   per violino e pianoforte,  e un fascicolo di Sonate per pianoforte solo.
A questa notevole attività di compositore, bisogna aggiungere quella non indifferente di insegnante, illuminato e rinnovatore che curava paternamente ma rigorosamente la propria scolaresca per la quale scrisse anche dei trattati didattici i quali certamente, misero in scompiglio — sia a Palermo che a Napoli — l'insegnamento tradizionale basato su regole utili nel secolo precedente ma in quello successivo alquanto invecchiate, poiché la didattica musicale aveva pressoché rinnovato il proprio indirizzo; ricordiamo soltanto il « Trattato d'armonia » e il « Corso completo di fughe e canoni », pietre miliari della nuova didattica introdotta dal Platania nelle scuole musicali.
E nemmeno nel campo del teatro, il Platania rimase inattivo. Alla Vendetta slava, rappresentata a Palermo nel 1865, seguirono — tra completate e no, ma mai rappresentate — le opere: La corte di Enrico III, Giulio Sabino, Francesca Soranzo, Il gladiatore di Ravenna, Carlo di Brianza, Il Mago e Camma; opere le cui partiture autografe, complete o frammentarie sono reperibili nella Biblioteca del Conservatorio di Napoli.
Nel 1885, Pietro Platania abbandonò la direzione del Conservatorio di Palermo per assumere quella del Conservatorio di Napoli, rimasta scoperta fin dal 1870, dopo la morte di Saverio Merca-dante. La carica come è risaputo venne offerta a Giuseppe Verdi, dal corpo insegnante con Francesco Florimo in testa; ma Verdi si sentì costretto a rifiutare, rispondendo con una nobilissima le-tera rimasta famosa.
Il rifiuto di Verdi mosse l'appetito di molti pretendenti che — a furia di rimestamenti, maneggi, ripensamenti, compromessi ecc. — tennero la sede vuota per circa quindici anni, per poi essere occupata da Pietro Platania segnalato al Ministero fin dal primo momento. Il glorioso istituto musicale, in poco tempo, si mise alla testa degli altri conservatori italiani, grazie al nuovo impulso  conferitogli  dal  nuovo  Direttore.
Una benemerenza del Platania che non merita di  essere trascurata,  è l'avere  egli sostenuto,  con il peso della sua autorità, la validità artistica della Cavalleria rusticana di Mascagni, presentata al Concorso bandito dall'editore Sonzogno nel 1890, per un'opera in un atto. Il Platania faceva parte della commissione giudicatrice insieme con Filippo Marchetti, Giovanni Sgambati, Amintore Galli, Francesco d'Arcais e Alessandro Parisotti e fu il primo ad apprezzare il lavoro dell'allora sconosciuto musicista, mettendone in rilievo le singolari bellezze, il carattere italiano dell'espressione melodica, le novità della veste armonica, il vigore drammatico della musica. La gratitudine di Pietro Mascagni per il maestro catanese che gli tenne a battesimo l'opera primogenita, fu grande. « Non potrò mai dimenticare la sua paterna affezione — scrisse il compositore livornese in una lettera ancora inedita — ...e prosegue: « Le assicuro che nel mio cuore rimarrà per sempre scolpito il nome di chi mi ha dato la mano per sollevarmi dall'abbandono, dall'avvilimento; e m'incoraggerà nel lavoro e nello studio il bacio che Ella generosamente volle darmi... ».
Il 30 marzo 1891, al teatro San Carlo di Napoli, fu rappresentata l'opera Spartaco di Pietro Platania, su libretto di Antonio Ghislanzoni. E' la maggiore affermazione del musicista nel campo operistico.
Oggi lo Spartaco — pur nelle sue spettacolari dimensioni (4 atti e 8 quadri) — appare il lavoro di un musicista italiano che intende rimanere tale nella espressione e nella chiarezza del discorso melodico, pur mostrando di accettare l'evoluzione   subita  dal  melodramma  tradizionale  dalla seconda metà del secolo sia nel rinnovamento  del la forma che nella tecnica armonistica.
L'opera è redatta in pezzi chiusi  — molti dei quali presentano una forma assai diversa da quelle  consuete — ma ciascuno  di  essi è  collegato a quello  che  lo  precede  e  all'altro  che lo  segue  da sviluppi  tematici  trattati   sinfonicamente.  Ai recitativi   sono   sostituiti   dei   declamati   vigorosi,   aderenti alla linea prosodica e al carattere dei personaggi.   Spartaco,   insomma,   reca   i   segni  inequivocabili  di  un  radicale rinnovamento   dell'opera   in musica.  Come  esempio  citiamo  il  « Proemio  sinfonico »   che   sostituisce   il   tradizionale   preludio,   e nel quale contrastano — sinfonicamente trattati — i  due  temi  fondamentali  sui  quali   è   imperniata la vicenda dell'opera:  libertà e amore; l'assolo del soprano ricco di accenti passionali che manifestano i sentimenti che si agitano nell'animo del personaggio;   il   pel  duetto  d'amore  che  infrange  gli schemi usuali;  il baccanale nel quale il magistero del   compositore   e  l'arte  del  musicista  creano  un affresco  nel  quale l'equilibrio  tra  suoni,  colori,  espressione e vitalità dinamica può dirsi perfetto.
Lo Spartaco, che pur ottenne uno straordinario successo al San Carlo, oggi è totalmente dimenticato. Forse la scarsa fortuna che ebbe dovrebbe essere attribuita al nuovo orientamento del melodramma italiano di quell'epoca verso il genere verista, inaugurato l'anno avanti dalla 
Cavalleria Rusticana di Mascagni; genere immediatamente seguito  da una pletora  di  giovani.
Argomenti,  proporzione,   espressione   dell'opera tradizionale appaiono radicalmente mutati. Qua si credeva ai personaggi creati dalla poesia o dalle espressioni letterarie; là i palcoscenici dei teatri d'Opera appaiono popolati da personaggi, che presi dalla cronaca nera di ogni giorno, si esprimono rudemente con un linguaggio violento e, talvolta, volutamente volgare: naturalmente in omaggio alla verità.
Fu una svolta decisiva nella storia dell'Opera in musica, ma fu anche un movimento rinnovatore che rivelò l'arte di altri musicisti e diede nuovi successi all'Italia. Va da sé che questo movimento allontanò dai palcoscenici dei teatri d'Opera ogni altro lavoro che mostrasse di seguire il genere tradizionale. Tra le opere travolte dall'ondata rinnovatrice è da includere lo Spartaco di Pietro Plata-nia. Ma oggi — in tempi di assoluta magra come quelli che attraversiamo — la storia e la critica hanno il dovere di segnalare che lo Spartaco rimane l'ultimo contributo di un musicista alla più gloriosa creazione dell'arte musicale italiana: il melodramma.
Pietro Platania si spense a Napoli, e là è ancora sepolto. Catania attende, fin dal 1907, che i resti di uno dei suoi figli migliori, venga a riposare nel suo grembo materno.
                                                                             Francesco Pastura 
                                 Secoli di musica Catanese ed. Giannotta 1968 






venerdì 30 ottobre 2015

"Memoria" di Federico De Roberto


 Federico senior

Federico De Roberto (Napoli16 gennaio 1861 – Catania26 luglio 1927) . Nacque a Napoli nel 1861, da Federico senior, ex ufficiale di stato maggiore del Regno delle Due Sicilie e dalla nobildonna di origini catanesi, ma nata a Trapani, Marianna Asmundo.
Trasferitosi con la famiglia a Catania nel 1870 dopo che il giovanissimo Federico subì la dolorosa perdita del padre, travolto da un treno sui binari della stazione di Piacenza. 


Memoria

Federico De Roberto Maggiore di 1° Classe nel corpo dello Stato Maggiore
Dopo aver retto per sei anni Comandi Militari di Circondario, anché a posto di
Luogotenente Colonnello, per la soppressione di detti Comandi, fu piazzato in aspettativa per
riduzione di corpo, posizione in cui da circa due anni si trova.
Avezzo all'operosità Militare fin dalla puerizia, mal reggeva l'ozio
di detto stato, e privatamente impegnò la superiore benignità, già sperimentata, dall'ottimo
Sign. Generale Gibbonè, da cui legasi dagli Ufficiali dell'arma suddetta, quasi unicamente dipendono, per essere riabilitato in un Comando; ma non lo potè conseguire per non essere fra i primi a richiamarli.
In proseguo vocò il Comando di Catania che, trovandosi sul luogo (…) un viaggio, facendo capo della singolare benignità del prelodato sign.Generale, gli scrisse nuovamente in via privata, se mai avesse potuto conseguirlo; chè, quandunque posto di Luogotenente Colonello talvolta tali posti sono stati surrogati da maggiori anziani.
Ma vi ebbe in garbatissimo riscontro che oltre al trattarvi (…) Luogotenente Colonnello non ancora era prossimo il turno di richiamo del chiedente, che pertanto non poteva essere proposto al comando di una Provincia.

Ora essendosi approssimato detto turno per essere De Roberto il terzo, (…), egli, fruendo di bel nuovo del bel cuore del suo Generale, gli à scritto particolarmente che, se i precedenti a le note caratteristiche non vi si opponessero, avendo retto sei anni Comandi Militari, senza essere stato giammai fra gli Ufficiali Superiori applicati, nella difficoltà di conseguire il Comando di Catania, sperava essere proposto ad altro Comando qualsiasi.

L'esponente è in attesa del risultato di quest'ultima sua richiesta; e, poiché già due Comandanti destinati a Catania ànno ottenuto il loro riposo; ed il terzo già da tempo non raggiunge il suo posto essendo probabile che ottenga al destino, il De Roberto bramerebbe che, senza stancare la bontà superiore, fosse rammentato se mai finalmente, in caso di terza mancanza, potesse conseguire il desiderato Comando di Catania; ed, ove ciò riesca di assoluta impossibilità, gli si conceda quello attualmente vuoto nel grado di Maggiore in Massa e Carrara, ad altro primo a vacare.


E dove pregò

martedì 27 ottobre 2015

DA LA CANZONE DEGLI UMILI all'asino lontano - di Mario Puccini.



All'asino lontano -

Per una strana ironia, asino, le nostre anime si sono prese, quella volta. Salivamo - ricordi ? il sentiero pietroso ed il maggio canzonava la nostra lentezza con le voci delle anime inebriate, con effluvii di profumi ignoti, con le giulive armonie del suo fiorire, invano attendendo un coro della nostra meraviglia. Tu, cui di recente il potere egoistico dell'uomo aveva tolto il diritto d'amare, ti sforzavi nell'ascesa dolorosa e non potevi avere inni di dolcezza per quella vita ardente che ti si mostrava e che tu ricordavi di aver vissuto, quando non invano la femmina annusava l'aria nel desiderio di te. Ora, dopo una sofferenza atroce del corpo, l'anima si apriva alla completa sventura e tu ritrovavi nel lento giro dello sguardo, volto alla montagna, i luoghi dove più  la femmina t'aveva soddisfatto.
Seppelliamo, o amico, quest'onda di ricordi che ci serra la gola e non ribelliamoci.
Vedi? La sorte ci ha fatto cosi e ci ha divisi
Lontani, forse ci ricorderemo. Vicini, per la mia necessità o per il mio egoismo o per la malvagità che s'impone alla compassione tu forse mi avresti padrone sdegnoso.
Ora mi ricordi. Salivamo ed io non osavo richiedere alla tua debolezza uno sforzo che gli altri asini sapevan  fare.
Tu eri immiserito, povero amico, come la mia anima.
L'ho detto: i nostri palpiti in quel lento andare, ebbero un momento di  passione.
Tu, perduto l'orgoglio del maschio, inorridivi  per   le   prossime fatiche, a cui per sempre sarebbe mancato il sollievo del piacere.
Amico, la natura è cattiva, nel suo creare e chi soggiace non avrà conforti.
Me lo dicesti (credi che io dimentichi?) in uno slancio di sincerità e d'odio verso la vita.
Perchè t'avevan creato? Nemmeno la consolazione di fare dei figli l'uomo aveva lasciato per ricompensa al tuo sudore.   Nulla.
Che ti rimaneva, asino?
Combattere e lottare. Tu lo sai, amico, che è questa la sorte di tutti gli umili, il retaggio, ecco l'ingiustizia, dei lavoratori onesti.
Non ribelliamoci. Anch'io, sai. mentre tu narravi la tua storia, calcavo le vecchie orme di una vita e m' avviavo, soffrendo, a formarne di nuove.
Vane orme, se tutto il resto della natura è cosi grande da seppellirle con un semplice alito. Non m'illusi. Fu specialmente in quel momento della nostra salita, quando ogni bellezza rifulgeva e le montagne intorno mandavano lampi di meraviglioso ardire, che io perdetti la completa illusione dei vecchi sogni.
E con te vissi, perchè il sole volle esserci compagno, fino all'ora in cui il bianco spino della siepe si abbassò al nostro andare, la calma del rassegnato che si contenta del fonte per la sua sete, che si soddisfa de sole per il suo lavoro, che gioisce e s'inebbria per lo stellato che testimonia il  suo sognare.
*
Asino, questo libro è nato in gran parte nell'ora strana in cui le nostre due anime perdevano l'orgoglio della propria forza.
Non ho migliorato, credimi, per vanità né per valore. Semplice sono restato e semplice mi offro al maggio della tua montagna, né altro chiedo che il tuo compiacimento.
                                                                                                             Mario Puccini.

*     Tratto da :


domenica 25 ottobre 2015

Amelia descrive Mario Rapisardi in una lettera ad Angelo De Gubernatis

"O fausto giorno
Che consentisti di venirmi a fianco! 
Per incanto d'amor, giovine torno". M.R.













Lettere di Amelia 7 — Ad A. De Gubernatis.



Chi lo conosce intimamente il Rapisardi, non   può che ridere della fosca leggenda che gli ha tessuto intorno l'ignoranza e la malignità di alcuni gazzettieri.
È superbo come Lucifero, dicono; fa l'aquila; fa il Nume;« si ride di tutto e di tutti; non vuol vedere nessuno; scaccia anche quei pochi che si avventurano a visitarlo. Niente di più falso di tutto questo. Coloro che hanno il coraggio di avvicinarlo si accorgono subito che la leggenda è maligna; l' orso che si aspettavano di trovare è il più affabile e il più modesto degli uomini : " pare una dama „ suol dire il suo editore Giannotta a quei forestieri che hanno paura di essere accolti male. Con le signore poi, specialmente con le giovani, è di una gentilezza... eccessiva. Se gliene faccio carico, mi si scusa coi noti versi del Parini :

A me disse il mio genio....


Il popolo che lo venera e lo chiama : U patri ranni (il padre grande), e, negli avvenimenti solenni viene ad acclamarlo, deve contentarsi di vederlo soltanto. Egli non è buono a fargli dei discorsi ; un saluto, una parola affettuosa di conforto e di consiglio, e basta.

Nei due giorni delle sue onoranze, o delle sue esequie, com'egli le chiama, pareva un condannato. Anche il leggere all' Università, dopo trent'anni d'insegnamento, lo agita come la prima volta. Quando trova la sala molto affollata, egli è tentato di svignarsela.
Non si è mai aggregato a nessuna scuola, a nessuna accademia, a nessun partito ; vuol vedere coi propri occhi, egli dice, pensare con la sua testa. Forse per questo ha nemici ed amici in tutti i partiti. Mentre, un R. Proc. di Milano sequestravagli un' ode per delitto di lesa maestà, e un giornale socialista  l' offendeva stupidamente a Roma, un senatore illustre s'adoprava in sua difesa e Cesare Lombroso lo proclamava un genio autentico, il Lucrezio e il Giovenale di Italia.
Egli ha un'adorazione selvaggia per la libertà-  Per questo vive fuori di città, in una casa aperta a tutti i venti, dalla cui terrazza può vagheggiare l'Etna e il mare, i suoi due grandi amici. Il suo sguardo, come l'anima sua, ha bisogno di spaziare nell'infinito. I liberi orizzonti, mi diceva l'altra sera, alimentano in me l'amore alla libertà e la religione dell'Infinito. E ai giovaci dell'Università romana, che gli chiedevano una conferenza, diceva : « Sono uccello di bosco : per cantare ho bisogno di solitudine e di libertà „.
La sua vita è semplicissima. Esce di casa raramente : ora che i malanni lo assediano, passa dei mesi senza mettere il piede fuori dell'uscio. Si leva di tutte le stagioni alle quattro. È di una frugalità e d' una sobrietà straordinarie. Lavora ad intervalli; ma quando ci si mette, non fa altro; mangia meno del solito, dorme quasi punto. Eppure egli non si sente mai così bene come in questo periodo di lavoro febbrile ; dimentica e disprezza gli acciacchi ; è perfino ilare e giovanile, egli, ordinariamente malinconico ed austero.
Nel concepire ed abbozzare è d'una rapidità meravigliosa ; ma nel limare e finire i suoi lavori, d' una lentezza e d'una incontentabilità disperata. Per correggere, ricopia ; ricopian do, suol dire, le correzioni non vengono a freddo, si fondono col testo, paiono di primo getto. Copia, ricopia, torna a copiare, in calligrafìa chiara, fino a cinque e sei volte, non solo i componimenti brevi, ma anche i più lunghi : del Lucifero, del Giobbe, dell' Atlantide   fece una   mezza dozzina di copie.
Ai periodi di febbrile attività succedono periodi d' ozio forzato e quasi di letargo. Allora sta malissimo. Tutti i suoi malanni, la muta dei cani infernali, lo assalgono e lo tormentano in tutti i modi. Passa le giornate ciondolando per casa o dondolandosi in una poltrona. Non legge, non scrive neppure una lettera ; vorrebbe non pensare ; ma pensa, purtroppo, e fantastica e sì tormenta. Bovio lo chiama autofago, ed egli è davvero un mangiatore di sé stesso.
Ai periodi di febbrile attività succedono periodi d' ozio forzato e quasi di letargo. Allora sta malissimo. Tutti i suoi malanni, la muta dei cani infernali, lo assalgono e lo tormentano in tutti i modi. Passa le giornate ciondolando per casa o dondolandosi in una poltrona. Non legge, non scrive neppure una lettera ; vorrebbe non pensare ; ma pensa, purtroppo, e fantastica e sì tormenta. Bovio lo chiama autofago, ed egli è davvero un mangiatore di sé stesso.
Dei poeti non rilegge con entusiasmo che Omero e i tragici greci. Ama ed ammira Lucrezio, che, secondo lui, è il solo poeta grande che ebbero i latini. Studia Virgilio e Orazio quali maestri di stile. Ammira Dante, ma non lo idolatra, come fanno certi dantisti o dentisti, come egli li chiama. Legge spesso l' Ariosto, ma predilige il Tasso. 
Degli stranieri ama Shakspeare, ama Schiller; ha un culto speciale per lo Shelley e per Victor Hugo. Molto si compiace di libri scientifici : Darwin, Moleschott, Lubbock, Spencer, Ardigò ed Haeckel sono i suoi santi Padri.
La sua biblioteca è poco numerosa di volumi ; ma ricca dei capolavori di tutte le letterature, e di antiche e pregiate edizioni. Ha tutti i classici latini cum notis variorum; molte aldine, fra cui tutte le opere di Cicerone ; un Sallustio e un Lucrezio del 1515, e, di questo stesso anno il dantino, curato dal Bembo. Ha inoltre un bellissimo Orazio del 1483 ; l' edizione principe del Petrarca ; la Gerusalemme liberata del 1583, oltre a quella con le figure di B. Castelli; un buon Orlando Furioso del Valgrisi. Molti di questi suoi libri sono stati da lui stesso rilegati, un po' stranamente se vogliamo, specie nei colori del taglio e dei tasselli del dorso, ma cuciti stupendamente e d' una solidità eccezionale.
A coloro che lo hanno beneficato e difeso serba gratitudine e culto quasi religioso. Tiene sulla scrivania i ritratti di Victor Hugo, che lo battezzò poeta precursore ; di Garibaldi la cui lettera, dopo letto il Lucifero, egli chiama la sua medaglia al valore; di Francesco De Sanctis che lo nominò professore ordinario ; del Trezza che lo difese a viso aperto, attirandosi le ire dei criccaiuoli. Degli amici e di sé stesso mette volentieri in canzonatura le debolezze e disegna le caricature con troppa vivacità spesso, onde alcuni pauperes spiritu, se n' hanno a male.
Da coloro che lo corteggiano per secondi fini si guarda quanto può e se li tiene lontani; qualche volta però è cascato nella rete, e più d'uno ch' egli amava come fratello e figlio, ottenuto l'intento, gli ha voltato le spalle, non solo, ma s' è ascritto apertamente tra le file dei suoi nemici. Di queste defezioni e perfìdie si rammarica, ripetendo i versi del Rosa :
Più d' un Pietro mi nega e m' abbandona 
E più d' un Giuda ognor mi veggio a lato.
Molto ama e molto odia ancora, non ostante i suoi 64 anni; ma gli amori e gli odi suoi sono oramai rivolti più alle idee che agli uomini. Degli uomini non odia se non coloro che crede nemici di quelle sublimi idealità a cui egli ha consacrato, con somma abnegazione, la vita.
Da un pezzo il Rapisardi non iscrive più versi; ha però scritte molte epigrafi monumentali pubbliche e private, e ne ha raccolto un centinaio. 
Il ritratto che Le mando è opera pregevole del Di Bartolo e mi pare che corrisponda ai suoi desideri.

Aggiungo altre cosette che mi tornano a mente.
Ai giovani liberisti che gli fanno carico della forma classica dei suoi poemi, risponde che la poesia viva, quella cioè che dà vita a tutto ciò che tocca è di tutti i tempi e di tutti i paesi, e che per questa qualità divina il poeta più moderno di tutti i tempi è sempre Omero.
Accusano generalmente il Rapisardi di tenersi troppo in disparte. Il De Sanctis lo classificò fra gl' ingegni solitari, come il Leopardi. I pappagalli, anche i più benigni, ripetono che egli è fuor della vita. Il poeta se ne scagiona dicendo che, per amare gli uomini, è necessario tenersene lontano, e per osservare bene le battaglie sociali non bisogna buttarcisi dentro.
Egli però crede, a ragione, che la solitudine e lo starsene in disparte come il Saladino è necessario al pensatore e all' artista. " Voi siete troppo idealista „ gli disse un giorno la signora Iessie Withe Mario, che venne a visitarlo; " Voi vivete fra. le nuvole „ ... "Come i fulmini „ soggiunse prontamente il poeta.
Se altro Le occorre, mi faccia l'onore di rivolgersi a me...





*Epistolario di Mario Rapisardi a cura di Alfio Tomaselli 1922