Antonio Ghislanzoni (Lecco, 25 novembre 1824 – Caprino Bergamasco, 16 luglio 1893) è stato un librettista, poeta e scrittore italiano. Il suo nome è legato soprattutto al libretto dell'Aida di Giuseppe Verdi, col quale collaborò anche alle revisioni della Forza del destino e di Don Carlos.
Il Canto di Mignon
Vedeste mai quel paese gentil
Che il sol riveste di tanto splendor;
Il bel paese ove eterno è l'april,
Eterno il riso degli astri e dei fior ?
Ivi ogni murmure d'acqua o di vento
D'arpe celesti somiglia un concerto;
Ivi ogni nota d'umana favella
Somiglia un canto, un sospiro d'amor..
Di quel mio vagheggiato Eden natio
Ho qui nel core un vago sovvenir...
Lo veggo in sogno, e là tornar vogl'io,
Là voglio amare, e piangere, e morir.
Che il sol riveste di tanto splendor;
Il bel paese ove eterno è l'april,
Eterno il riso degli astri e dei fior ?
Ivi ogni murmure d'acqua o di vento
D'arpe celesti somiglia un concerto;
Ivi ogni nota d'umana favella
Somiglia un canto, un sospiro d'amor..
Di quel mio vagheggiato Eden natio
Ho qui nel core un vago sovvenir...
Lo veggo in sogno, e là tornar vogl'io,
Là voglio amare, e piangere, e morir.
Musica di Francesco P. Frontini ,1898
*****
Nasce a Lecco il 25 novembre 1824. All'età di dieci anni, il padre, medico e direttore dell'ospedale della città, lo fa entrare in seminario per seguire gli studi ginnasiali. La ferrea disciplina dell'istituto è però poco tollerata dal carattere insofferente del piccolo Ghislanzoni, che, diciassettenne, verrà espulso per il comportamento irriverente: l'anticlericalismo rimarrà una costante della sua ideologia.
Terminato il liceo a Pavia e iscrittosi a Medicina, presto si delineerà per lui una diversa carriera: prima cantante (baritono) e poi scrittore. Quella della scrittura, in realtà, sarà la sua vera attività. Dopo la Seconda guerra di indipendenza (1859) si lega a Milano al gruppo scapigliato. È giornalista assiduo: nel '59 dirige per alcuni mesi «L'uomo di pietra»; nel '62-63 dà vita al «Figaro»; nel '65 fonda la «Rivista Minima» (che, dopo una lunga interruzione tra il '66 e il 71, dirigerà fino al 1875); nel '77 fonda il «Giornale capriccio» (che chiuderà per problemi economici due anni dopo); per non parlare delle collaborazioni alle numerose testate che ospitano suoi romanzi a puntate, racconti, recensioni, interventi di varia natura. Ma non manca l'attività creativa vera e propria: narrativa e poesia. Tra le sue opere di narrativa segnaliamo: Suicidio a fior d'acqua (1864), Le donne brutte (1867), La contessa di Karolystria (X883),Abrakadabra (1884), Racconti e novelle (1884).
Per la poesia ricordiamo Libro proibito (1878), cui arrise un notevole successo di pubblico, tanto che nel 1890 giungerà alla settima edizione. Non vanno dimenticati, infine, i libretti d'opera: Ghislanzoni ne scrisse circa ottanta, tra cui quello dell'Aida verdiana. Un anno dopo la scomparsa della moglie, Maria Bosisio (sposata nel 1859 e da alcuni anni affetta da una grave malattia mentale), morirà anche Antonio Ghislanzoni: a Caprino Bergamasco, il 16 luglio 1893.(Roberto Carnero)
« Dicendo mal di tutti, il vero espressi / Lassù nel mondo; se parlar potessi, / Pietoso passeggier, ora direi / Ogni bene di te, ma.... mentirei. »
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(Antonio Ghislanzoni, Il mio epitaffio)
I suoi epigrammi possono, contribuire a documentare la temperie culturale, sociale e politica del tempo. «I versi del Libro proibito», scrive Gilberto Finzi (1997:165), «riprendono un'atmosfera polemica d'epoca che non tocca, forse nemmeno sfiora, la poesia, ma che bene riconducono a momenti collaterali tipici della Scapigliatura».
In tal senso l'opera di Ghislanzoni è da leggere «in relazione all'affermarsi della scapigliatura e alla sua frantumazione in posizioni e iniziative anche diverse e contrastanti fra loro ma riconducibili in genere a un atteggiamento di rifiuto o di insofferenza verso i valori della società borghese e i modelli letterari che li rappresentavano» (Zaccaria 2000:47).
Quasi un anticipatore del movimento (cfr. Paccagni-ni 1995:1-48) in quanto di una generazione precedente a quella degli Scapigliati maggiori, su di lui è fortemente limitativo il giudizio di Gaetano Mariani (1967:696): «Dei suoi amici e nemici il Ghislanzoni accoglie in fondo l'esteriorità massiccia degli atteggiamenti, sia umani che letterari, assorbe la carica di rottura che è nell'opera di un Praga, di un Boito, di un Tarchetti nei limiti in cui tale carica si adeguava alla sua visione dell'umanità che è insieme indulgente e spietata, ironica e sentimentale, seria e sorridente...».
Ama, o fanciulla-d’una luce sola
Si irradia il core, ed è luce d’amor;
Non potrà il tempo che ogni gioja invola
Mai quella luce spegnerti nel cor.
Ama! alla età dei disinganni amari
Dei tedii lunghi, dei vani desir
La primavera dei ricordi cari
Sentirai nel tuo petto rifiorir.
Ama, o fanciulla! benedetto e pianto
Poserà il cener tuo dentro l’avel,
E all’angelisco spirto amor soltanto
Presterà l’ali per salire al ciel.
Antonio Ghislanzoni - Libro proibito (1878)
I nostri tempi
La vera sintesi
Dell’età nostra
Con breve distico
Qui si dimostra:
«Tutto si compera,
Tutto si vende,
E carta sudicia
Per ôr si spende.»
Dell’età nostra
Con breve distico
Qui si dimostra:
«Tutto si compera,
Tutto si vende,
E carta sudicia
Per ôr si spende.»
La nostra musica
Nell'universo
Regnò sovrana
Fin che fu musica
Italïana;
Volle esser musica
Cosmopolita,
E allor d'Italia
Non è più uscita.
Regnò sovrana
Fin che fu musica
Italïana;
Volle esser musica
Cosmopolita,
E allor d'Italia
Non è più uscita.
I pseudonimi
Quando d’una effemeride
Tu imbratti le colonne,
Presumi invan nasconderti
Nel vel di un Ipsilonne.
A ognun che il testo esamini
Subito si rivela
Che all’ombra del pseudonimo
Un asino si cela.
Tu imbratti le colonne,
Presumi invan nasconderti
Nel vel di un Ipsilonne.
A ognun che il testo esamini
Subito si rivela
Che all’ombra del pseudonimo
Un asino si cela.
Liriche per musica
- Noi leggevamo insieme, musicata da Amilcare Ponchielli
- Storiella d'amore, musicata da Giacomo Puccini (il testo è lo stesso di Noi leggevamo insieme)
- Salve regina, musicata da Giacomo Puccini
- Ama!, musicata da Francesco Paolo Frontini, s.m. napolitana, 1898
- Il canto di Mignon, musicata da Francesco Paolo Frontini, s.m. napolitana, 1898
Di Ulisse Cermenati, Milano, novembre 1924
Fu
uno scrittore arguto, buono, squisitamente italiano: fu «poeta nella
vita e nelle opere» così come giustamente è scolpito sul piccolo
monumento, che amici e ammiratori, gli eressero nella sua Lecco,
cinque mesi dopo la morte.
Nel
capoluogo del teatro manzoniano, nella ridente cittadina lariana, che
deve la sua fama all'autore dei «Promessi Sposi» e la sua ricchezza
all'instancabile febbre di lavoro, Antonio Ghislanzoni nasceva cento
anni or sono, al 25 di novembre. In quello stesso 1824, Lecco aveva
dati i natali ad un altro suo figlio insigne, l'abate geologo,
Antonio Stoppani.
Il
padre, dottor fisico Giovanni Battista, avrebbe voluto fare
dell'Antonio un continuatore della severa e delicata sua professione,
e con questo intento, lo aveva ovviato agli studi classici, indi alle
discipline mediche all'Università di Pavia.
Il
giovane non era stoffa da Esculapio; in quei tempi egli si sentiva
attratto irresistibilmente all'arte lirica. E dalla antica città
degli studi, egli spiccava infatti il volo per i teatri d'Italia e
dell'Estero, interpretando con la sua bella voce baritonale - così
chiara e sicura nel canto, in lui ch'era balbuziente al massimo grado
nella conversazione normale - le creazioni di Donizetti, di Bellini e
di Rossini.
Della
sua avventurosa vita di cantante, egli medesimo ha scritto
briosamente in parecchie occasioni, e specialmente nelle «Memorie
politiche di un baritono» e
«In chiave di baritono», anche
per rettificare inesatte dicerie che si sparsero sul suo conto, e che
furono raccolte da biografi faciloni, i quali mettevano il
Ghislanzoni in luce di eterno burlone, e di sfrenato gaudente,
anziché in quella giusta e simpatica di uno dei più puri e geniali
componenti la scapigliatura artistica e letteraria, che fiorì in
Milano nella seconda metà del secolo scorso, e che tanto raggio
d'intellettualità
fece rifulgere sulla metropoli lombarda.
*
*
*
Invero,
anche sfrondata da tutte le leggende, la vita di Antonio Ghislanzoni,
cantante e scrittore, costituisce una ricca collana di episodi
brillanti, così come brillante e piacevole furono il suo carattere e
il suo stile. Fu chiamato il Paul de Kok italiano, fa chiamato anche,
per i suoi innumerevoli e salaci epigrammi, il moderno Marziale.
Agli
antichi trionfi di teatro, egli, però non teneva molto. Anzi...!
«Ripensando
a quei tempi - scrisse infatti - mi avviene spesso di meravigliarmi
della spensierata gaiezza, che io mettevo nel rappresentare al
cospetto del pubblico i personaggi del marchese di Bois Fleury, di
dott. Malatesta, di Dulcamara, di Figaro e di don Basilio. Fatto è
che una volta slanciato sul palcoscenico io m'investiva siffattamente
dell'umorismo musicale di Donizetti e di Rossini da riuscire un
attore comico esilarante e inappuntabile. E questo dico senza ombra
di orgoglio; poiché ai miei successi di istrione io ci tengo
pochissimo, e quasi mi vergogno di ricordarli».
Però
amava intrattenersi su quella che fu la parte aneddotica di quei
lontani tempi giovanili.
Debuttò
nel carnevale del 1846 a Lodi; passò poscia al «Carcano» di
Milano, e un episodio saliente di quella stagione teatrale è così
narrato da lui stesso:
«Uscito,
dopo lunga malattia, dalla casa di salute, l'impresario Boracchi mi
mandò a Piacenza, e quindi a Codogno, per cantare nell'Attila
la parte di Ezio. Partii da Codogno e scesi all'Albergo dell'Àncora
a Milano nel teatrale costume di Ezio, colla daga alla cintura e il
grand'elmo a cresta rossa sulla testa».
È
facile immaginare le matte risate di chi vide capitare nell'albergo
lo strano personaggio così camuffato!
Cantò
nell'anno seguente ad Arezzo, e dopo lunghe e avventurose
peregrinazioni tentò di recarsi a Roma, ansioso di prendere parte
alla difesa della gloriosa e agonizzante Repubblica. Sotto le vesti
dei più svariati «eroi» internazionali, di cavalieri antichi e di
non meno antichi tiranni, l'artista da teatro non aveva dimenticato
di essere italiano e Ghislanzoni il suo dovere di patriotta l'aveva
fatto, - senza menarne scalpore in seguito, - anche a Milano durante
le «Cinque giornate», delle quali descrisse poi in pagine
gustosissime le scene comiche che si svolsero accanto a quelle
epiche.
Il
Ghislanzoni, s'avviò adunque verso la Città eterna, accompagnato da
un'amica, desiosa di emozioni, e che per nascondere il sesso, s'era
rivestita di abiti virili. Presso le porte di Roma la coppia fu
arrestata dai soldati francesi. La signorina, cavallerescamente
rilasciata dagli ufficiali, potè prendere la via del ritorno, ma il
nostro Antonio, dichiarato prigioniero di guerra fu rinchiuso, prima
all'isola di Santa Margherita poi trasferito a Bastia, in Corsica,
dove sofferse quattro mesi di durissimo carcere.
Liberato
alfine; un generoso ammiratore del suo talento e del suo inesauribile
spirito, gli fornì i mezzi per recarsi in Francia.
*
*
*
Egli
ha raccontato da par suo questo nuovo periodo della sua carriera
lirica, che culminò la sera del 2 dicembre 1851 - la sera storica
del colpo di Stato, - cantando la parte di Carlo V nell'Ernani,
a quel Teatro Italiano.
Il
giorno dopo, scoppiati i tumulti, il teatro fu chiuso, e il baritono
si trovò sul lastrico.
Nel
marzo dell'anno seguente, formò una compagnia, e riprese a
pellegrinare per i teatri di provincia, riducendosi a Nimes, con un
guadagno netto di 200 lire, che sfumò immediatamente, per una grave
malattia che lo colse.
Antonio
Ghislanzoni, cantò, o meglio tentò di cantare, per l'ultima volta
nel 1855, di ritorno a Milano.
Così
da lui è rievocato quel burrascoso spettacolo che doveva di punto in
bianco, tramutarlo da baritono, in letterato:
«Nelle
varie riprese della mia carriera intermittente non mi era mai
accaduto di sentirmi trapassare l'orecchio dal sinistro stridore dei
fischi. Questa soddisfazione, che solo mancava a completare la mia
biografia teatrale, l'ebbi a Milano clamorosa, spietata, degna di me.
Il teatro Carcano, che era stato nel 1847 il mio campo di Marengo, si
tramutava otto anni dopo nel mio Waterloo. I fischi, le grida, le
contumelie che mi investirono mentre io adunava invano gli ultimi
residui delle mie note agonizzanti, per cantare nel «Templario», la
parte eroica di Briano, mi intimarono di cedere le armi. All'indomani
della sconfitta, io presi risolutamente il partito di abdicare, e
confesso che, deponendo i titoli di baritono assoluto e di cantante
disponibile, mi parve di rifarmi uomo, di ricostituirmi cittadino.
«L'ottimo
Rovani, ch'io non conoscevo di persona, narrando nell'appendice della
«Gazzetta di Milano» quel mio primo ed ultimo fiasco, con quella
squisitezza che era la luce simpatica di ogni suo scritto, si
rallegrava che io abbandonassi la scena, promettendomi degli allori
più invidiabili nel campo delle lettere».
*
*
*
Da
quel giorno adunque, Antonio Ghislanzoni, divenne scrittore,
e scrisse molto in altri quarant'anni della sua esistenza,
distinguendosi nelle forme letterarie più disparate; cosicché
parecchi de' suoi lavori furono anche tradotti in lingue straniere.
Il
suo romanzo-capolavoro: «Gli
artisti da teatro»,
- col quale si prefisse lo scopo principale di descrivere la
tumultuosa vita dei cantanti nella sua realtà inesorabile, ad
ammonimento dei giovani che, sedotti dalle false apparenze,
intendessero avventurarsi capricciosamente, inconsci ed illusi; e
d'altra parte di mettere in evidenza le piaghe sanabili, richiamando
su queste l'attenzione del pubblico e dei governanti - ottenne, e
ottiene tutt'ora, un meritato successo.
«Gli
artisti da teatro» comparso dapprima a puntate nel giornale «Il
Cosmorama pittorico» fu raccolto in volume e riprodotto per numerose
edizioni, anche recentemente dall'editore di quest'altro suo lavoro.
Molto
opportunamente l'amico Matarelli ha voluto, con doveroso e affettuoso
pensiero di omaggio, nell'occasione del centenario della nascita del
geniale artista lombardo, toglier dall'ingiusto oblio, questa
Abrakadabra, che
è la dimostrazione di una fantasia fervidissima, e che ha preceduto
di molti anni la fortunata opera di Bellamy.
Degli
scritti del Ghislanzoni, si leggono ancora con diletto:
Le memoria di un gatto - Le donne brutte - Angioli nelle tenebre - Un
suicidio a fior d'acqua - La contessa di Karolystria - Le acque
minerali di S. R. - Un viaggio d'istruzione - I volontari del 1866 -
Un capriccio della rivoluzione - Il diplomatico di Gorgonzola - Il
dott. Ceralacca - Due spie - Un apostolo in missione - Storia di
Milano dal 1836 al 1848 - I due preti - Il sole della libertà -
Dietro una valanga - Una partita in quattro - Autobiografia di un ex
cantante - La Corte dei Nasi - Giuda Scariota - Il renitente - Se il
marito sapesse - Un uomo colla coda - Cugino e cugina - Gianbarba - I
primi passi alla scienza - Il corvo rosso - Ciò che si vuole - Il
redivivo - Il violino a corde umane - La tromba di Rubly - Le vergini
di Nyon - Memorie di Pavia - Il flauto di mio marito - Le sedici
battute dell'Africana - Storia di Lecco dal 1832 al 1848 - I drammi
del Natale - Giovane e sconosciuto - Una nuova opera al teatro della
Scala - La predica di fra Veridico - L'arte di far debiti; e
molte e molte altre novelle di maggiore o minor mole. Scrisse anche
pel teatro di prosa, ma con minor fortuna, tre commedie:
Tutti ladri - La moda nell'arte - I due orsi.
Assai
noti sono inoltre i suoi libretti d'opera, - una ottantina circa, - e
in questa forma d'arte egli potè ben essere chiamato «principe»
poiché fu tra i primi che la risollevarono a dignità di concezione
e di verso.
Il
melodramma che gli diede maggior fama, poiché il suo nome fu
accoppiato a quello grandissimo di Verdi, ma gli fruttò ben poco
finanziariamente, fu senza dubbio l'Aida.
Altri
come
Papà Martin, Francesca da Rimini, Re Lear, Fosca, Salvator Rosa, I
lituani, I mori di Valenza, I promessi sposi, Salambò, Edmea,
Spartaco, furono
rispettivamente musicati da altri insigni maestri, quali il Cagnoni,
il Cromes, il Ponchielli, il Petrella, il Catalani, e il Platania.
Ma
non qui si è arrestata la sua attività letteraria. Oltre duecento
sono gli epigrammi; a centinaia si contano i componimenti poetici
sparsi su tutti i giornali letterari e le più importanti riviste
d'Italia.
Militò
pure nel giornalismo, e fu al Secolo nei primi anni di vita del
quotidiano milanese; diresse la Gazzetta Musicale di Ricordi, e fondò
la
Rivista minima, Il Capriccio e
La posta di Caprino, ove
profuse a larghe mani le gemme del suo vivido ingegno, lo spirito
sano della sua instancabile vena. Un doloroso, stridente contrasto
con l'anima gioconda dello scrittore, è stato l'ultimo periodo della
sua esistenza, trascorso nel romitaggio dell'alpestre paesello di
Caprino Bergamasco, ove volontariamente si era ritirato, per sfuggire
ai rumori delle grandi città, per godersi un tramonto tranquillo,
fra gente umile e buona. Dettò allora un'epistola diretta «Al dott.
L. V.», che resta come un gioiello di poesia, e di pungente satira.
Onesto
sino allo scrupolo, disinteressato fino all'ingenuità, egli, che col
solo libretto dell'«Aida»
avrebbe avuto diritto di guadagnare tanto che gli bastasse per
campare agiatamente, dovette invece lottare sempre con le più umili
necessità quotidiane.
Ad
un giovane discepolo, che stava per lanciarsi a quel tempo nel mondo
giornalistico, affidava una lettera per un amico di Roma.
Lo
scritto reca la data del 28 marzo 1893, pochi mesi prima cioè della
morte.
Da
quel foglietto, ormai ingiallito dal tempo, sotto il velo
dell'arguzia, traspare purtroppo una profonda amarezza.
In
un punto, fra l'altro, il solitario, esclama:
«Io
vado invecchiando a Caprino. La mia vita è una, cambiale in
sofferenza. Mi approssimo ai settant'anni, e devo scribacchiare per
vivere!»
In
quello stesso mese di marzo, egli traduceva una poesia di Tennyson, e
la traduzione lo fece proclamare vincitore su ben seicento
concorrenti.
Sono
versi che sembrano preconizzare la fine imminente, e fanno
comprendere come lo spirito del Poeta, che sentiva avvicinarsi l'ora
suprema, abbia trovato ancora nell'interpretare il mesto canto del
vate inglese, tutta la forza, tutto lo scintillio dell'estro
giovanile.
Eccoli
i versi, che furono il canto del cigno:
«Quando l'ora
silente in veste bruna
Intorno al mio
guanciale i sogni aduna,
Deh! non mi
richiamate,
Mute voci dei morti,
Sì spesso avanti
verso l'ima valle
A cui volsi le
spalle,
Nè verso il sole
che non dà più luce...
Me chiamate
piuttosto, o silenziose
Voci, oltre il
nulla, nell'etereo smalto
Della stellata via,
Che in alto splende,
in alto, sempre in alto!...»
*
*
*
Antonio
Ghislanzoni, allo spuntar dell'alba del giorno sedici di luglio di
quell'anno, moriva.
Quest'uomo,
aveva data precoce prova della sua vena umoristica, da scolaretto,
nel seminario di Castello sopra Lecco, con una scappatella che ben
volentieri ricordava agli amici. Un vecchio e pedante professore di
storia, aveva dettato il tema: Che cosa disse Muzio Scevola ai
romani, mettendo la mano sul braciere ardente?
Doveva
essere il compito più importante dell'anno, quello cioè che avrebbe
deciso della capacità e del profitto dell'alunno per essere
promosso. Gli allievi ebbero perciò un tempo abbastanza lungo, per
riflettere e per svolgerlo con ampiezza.
Il
futuro autore degli Artisti
da Teatro,
e dell'Abrakadabra,
fu lesto, e naturalmente per il primo consegnò un foglio grandissimo
su cui non aveva vergato che la dolorosa esclamazione: Ahi! ahi! ahi!
E
infatti, che cosa avrebbe potuto dire di più mi uomo, sia pure Muzio
Scevola, mentre stava bruciandosi le carni?
Il
professore, solennemente, al cospetto della scolaresca, che a stenti
tratteneva le risa - si indignò e con quel senso di divinazione, che
è una specialità dei pedagoghi, scrisse un rapporto in cui
sosteneva che il piccolo Antonio sarebbe sempre stato un idiota e un
analfabeta.
È
il preconizzato idiota e analfabeta, per molti lustri, sino alla più
tarda, età, con le sue opere, seminò il più schietto buon umore,
fustigò e corresse i costumi con la satira, divertì varie
generazioni di lettori, e anche giunto sul passo estremo, poteva
annunciare all'amico Monteggia, che sul suo marmo sepolcrale, sarebbe
rifiorita ancora la sana e schietta risata!
Invece
la sua morte fu crudele, straziante. Non si spense che dopo una
lunga, atroce agonia, cosicché si dovette affermare, quando esalò
l'ultimo sospiro, che aveva cessato di soffrire.
Qualche
giorno prima di chiudere gli occhi per sempre e per, comporsi,
finalmente, nella pace, Egli volle attorno al suo letto si
raccogliessero i bambini più poveri del paese, per offrir loro a
manciate, gustose ciliege.
Con
gli occhi bagnati di lagrime, stette a contemplare il quadro
simpatico, e a godere dell'ingenua gioia dei piccini. Innamorato
d'ogni cosa bella e buona, amante dei deboli e degli innocenti,
l'umorista, il poeta morente, volle allietare le ultime sue ore, col
sorriso e la riconoscenza dei fanciulli, privi d'ogni altra
consolazione, nella povertà della loro infanzia.
E
prima d'essere chiamato «oltre il nulla», pur tra le torture del
male spietato che l'uccideva, ebbe ancora la forza di mormorare:
«Voglio
fiori, molti fiori, con me, nella bara!»,
E
con questo omaggio alla bellezza e alla gentilezza del Creato, si
irrigidì nella morte.
Da
allora riposa nel cimitero di Lecco, ove le sue spoglie per volere
dei concittadini, furono trasportate con solenni onoranze, accanto a
quelle di Antonio Stoppani.
Sulle
tombe dei due insigni lecchesi sta incisa la medesima data: 1824.