Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

martedì 22 aprile 2014

Lo scapigliato Felice Cavallotti


Nasce a Milano il 6 ottobre 1842. Figlio di un impiegato, vive la giovinezza in condizioni di ristrettezza economica, distratto dai frequenti soggiorni a Ghevio, sopra Meina, presso gli zii e, più tardi, a Dagnente, sempre sul Lago Maggiore, dove acquisterà una modesta casetta. Frequenta il liceo con profitto, segnalandosi per le sue prese di posizione politiche: prima cavouriane e poi garibaldine. Volontario nella seconda spedizione garibaldina in Sicilia (quella guidata da Medici a rinforzo dei Mille), combatte a Milazzo e al Volturno. Nel '66, di nuovo volontario garibaldino, combatte a Vezza.
Precoce la sua attività giornalistica. Nel '63 è redattore alla «Gazzetta di Milano», l'organo della sinistra moderata ispirato da Emilio Treves e Raffaele Sonzogno. Nel '65 fonda e dirige il giornale «Lo Scacciapensieri». Aderisce alla Scapigliatura politica, attestandosi su posizioni radicali. Verso la fine del '67 Achille Bizzoni gli lascia per qualche tempo la direzione del «Gazzettino rosa». Intanto aveva cominciato a scrivere poesie, spesso di contenuto politico e di tono satirico. Tra le sue raccolte di versi, che quasi sempre comprendevano testi anche di diversi anni prima, ricordiamo Anticaglie (1879), Sogni e scherzi - Il cantico dei cantici (senza data, ma uscito come secondo volume delle Opere, pubblicate in dieci volumi tra il 1895 e il 1896) e // libro dei versi (senza data, ma del 1898).
A partire dagli anni Settanta comincia a scrivere per il teatro, conquistandosi anche in questo campo una certa fama. Tra i numerosi titoli di drammi e commedie ricordiamo, negli anni Settanta, I pezzenti, Alcibiade, La sposa di Menacle, e, negli anni Ottanta, 77 cantico dei cantici, Il povero Piero, La cura radicale.
Nel 1873 viene eletto deputato: la sua attività politica durerà sino alla morte, ponendolo a poco a poco come il leader dei radicali (l'estrema sinistra di allora) e come uno dei politici più in vista del Paese, noto per i suoi attacchi a Depretis per il suo trasformismo e a Crispi. Muore a Roma in duello il 6 marzo 1898 (lo sfidante era il deputato Ferruccio Macola, sostenitore di Crispi e direttore della «Gazzetta di Venezia»).

La poesia di Cavallotti non è di grande qualità letteraria: spesso improvvisata, lo stesso autore era consapevole dei limiti artistici della propria produzione, che tuttavia gli era cara, più per i contenuti protestatari che non per un lavorio stilistico che egli per primo riconosceva essere assente. «Questo», commenta Croce (1960:183-184), «ci mostra il suo atteggiamento verso l'arte. Un artista che si accorge di aver fatto opera brutta, che cosa non darebbe per cancellarla dalla faccia della terra e dalla memoria degli uomini? Ma pel Cavallotti, che guardava dal lato pratico, l'arte era nell'arte solo uno degli ingredienti dell'arte, e poteva anche mancare!» Quanto alla lingua, aggiunge Baldacci (1958:766): «Il suo linguaggio è forse il più generico e impreciso di tutta la poesia dell'Ottocento».
In realtà ciò accade perché, come scrive Alessandro Galante Garrone (1979:798), Cavallotti «fu, anche artisticamente, assai più felice come oratore o prosatore - ad esempio nella introduzione alle Anticaglie [...] o nei commenti alle proprie opere e perfino in alcune sue lettere - che non come poeta o drammaturgo».
Versi, tuttavia, quelli di Cavallotti, che documentano, con il resto dei suoi lavori letterari, «il critico passaggio di una cultura classica, sorretta in Cavallotti da seri studi e da ampie conoscenze, ai nuovi valori della ragione e della rivoluzione» (Masini 1977:89).

DA IL LIBRO DEI VERSI 
IL MISTERO DEL FIORE

Un fior sovra un tumulo spiega 
la pompa dei vivi color: 
simile all'amor che ne lega, 
ei vive, lo splendido fior!

Un triste mister dello stelo 
gli dona la ricca beltà: 
ei mesce l'umore del cielo 
con quel che la fossa gli dà.

S'intesson le tenui radici 
con treccie lunghissime d'or...
L'amor che ne rende felici 
le stesse radici ha del fior.

Ma a mezzo la notte, allorquando 
pia scorge la stella brillar, 
il fior, la sua stella adorando, 
da sotto si sente chiamar.

«L'olezzo io t'ho dato e i colori, 
o ingrato, che guardi su in ciel!». 
Ahi, questa fra i nostri due cuori 
rampogna sussurra un avel!

*La poesia scapigliata - Roberto Carnero


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Giulio Pinchetti - Giulio Uberti - Giuseppe Cavallotti

domenica 20 aprile 2014

Necrologio per Mario Rapisardi - 1912


«Niun saprà delle mutate genti / quale io vissi e chi fui; cadrà ne’ gorghi / del tempo il nome mio, su cui maligne / tele d’alto silenzio il vulgo ordisce; / ma l’ideal de’ giorni miei, la face / che il mio misero corpo oggi consuma, / splenderà sotto a’ firmamenti eterno».  
M. Rapisardi -  XIV  Epigrammi



Di Nunzio Vaccalluzzo - 1912








Necrologio per Giuseppe Pitrè - 1916

Foto del 25/01/1884 di F. P. Frontini

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Di Luigi Sorrento - 1916















Tommaso Cannizzaro e Mario Rapisardi, i poeti amici.

Luigi Vita, valente direttore della rivista messinese Battaglia Letteraria, così scriveva, nel vano tentativo di rivendicare l'alto valore del poeta e letterato peloritano Tommaso Cannizzaro, deplorando il poco onore che in genere gli si rende dalla sua stessa città natale: Cannizzaro dovrebbe essere letto, studiato, ammirato assai più, non solamente dai suoi conterranei messinesi, ma da tutti i siciliani.
 
Giustamente il Vita sottolinea che Tommaso Cannizzaro fu onorato di stima e di amicizia da scrittori quali Victor Hugo, Carducci, Mario Rapisardi, G. A. Cesareo, Giovanni Pascoli, Luigi Capuana, Arturo Graf ed altri simili: il riconoscimento da parte dei Grandi è sempre quello che uno scrittore più ambisce e che largamente lo compensa della incomprensione dei superficiali e degli indotti e dei lettori frettolosi.
Opportuno è ripubblicare, qui, un magnifico sonetto che M. Rapisardi scrisse per l'amico T. Cannizzaro e che si legge tra le Foglie sparse, edizione Sandron.

A TOMMASO CANNIZZARO
Tommaso, invan dove la pugna ferve 
Richiami il tuo commiliton canuto, 
Che, libero fra tante anime serve, 
Per l'onore dell'arte ha combattuto.

Ben ei freme al pensier che di proterve 
Menti uno stuol di vanità pasciuto 
D'ogni pura bellezza ha il fior polluto, 
E alle turpi sue voglie Italia asserve.

Ferito al petto, in solitario loco,
Il sangue ultimo ei perde, e ala sua vista
Discolorasi il mondo a poco a poco.

Ma troppo del suo danno ei non si attrista, 
Se l'idea, che il temprò dentro al suo foco, 
Per opra tua novo splendore acquista.

Versi del Cannizzaro scritti per il Rapisardi , sono quelli che il poeta messinese pubblicò nella rivista catanese Istituto di Scienze lettere e arti del 30 Gennaio 1899 e intitolati A Mario Rapisardi, in occasione delle onoranze a Lui: in occasione, cioè, delle onoranze che Catania tributò al suo grande Poeta, allora poco più che cinquantenne, col plauso degli uomini più insigni d'Europa; onoranze di cui segno più duraturo rimase il busto bronzeo del Rapisardi nel giardino Bellini, opera dello scultore Benedetto Civiletti. In questi versi, il Cannizzaro esortava il festeggiato Cantore di Giobbe e di Lucifero a non badare al cavallo della gloria che nitriva alla sua porta, e gli faceva notare che i massimi poeti — l'Alighieri non escluso — non ebbero riconoscimenti e festeggiamenti, ma persecuzioni, incomprensioni, livori, povertà, esilio e che il poeta deve essere « odiato dai contemporanei e dimenticato dai posteri» (anche dai posteri?). Ma vediamo i versi di Cannizzaro:
« Del tuo quieto ostello a le severe porte
il cavai de la gloria odi, o Mario, nitrir,
esso ti attende, e — inforcami, — grida superbo e forte
—  del canto altero Sir. 
Io ti trarrò per selve di lauri maestosi 
dove i venturi secoli un peana a inalzar
verranno su la fulgida urna dei tuoi riposi
—  Mario, non l'ascoltar! 
Volgigli il tergo e lascia ch'ei corra ove più voglia 
dove la vana sete di fama il porterà:
a lui tu nega il varco della modesta soglia dove la Musa sta ... »
Evidentemente Cannizzaro esagerava: Rapisardi non fu mai avido di lodi e di onori: « Poco il biasimo e men la lode apprezzo » scrisse nell'epistola poetica ad Andrea Maffei, nel mandargli una copia del Lucifero. E in una delle Poesie religiose, dedicata a Felice Cavallotti, scrisse di sé:

« Io, che tutta donai la mente al Vero,
Né più mi tocca il cuor biasimo o lode ... ».

Ma che egli dovesse mostrarsi sordo e indifferente al cavallo della gloria, che finalmente nitriva alla sua porta, era troppo.
Rapisardi, rispondendo ai versi e ad una lettera del Cannizzaro, per ciò così gli scriveva nel febbraio del 1899:
« Il cavallo della gloria ha dunque nitrito alla mia porta, ed io, dovevo secondo te cacciarlo via a suon di pedate? Oh, perché, amico mio? Io credo aver fatto qualcosa di più gentile.
Mi sono affacciato allo sportello, in mutande e berretto da notte, e ho detto: Pegaso mio, io ti sono grato del cortese invito; ma, credimi, io non ho più voglia di inforcare le tue groppe e di caracollare per le regioni fragorose della gloria.
Certo non mi vergogno di averti un giorno desiderato (oh, perché dovrei vergognarmene, se i più nobili e fieri spiriti, non esclusi l'Alighieri e l'Alfieri, ti hanno ardentemente desiderato?); ma ora, credi, ho altro per la testa; e il mio vecchio cuore, a parte gli acciacchi e i disinganni dell'età, non ha palpito alcuno per tutto ciò che non si riferisce alla giustizia e alla pace degli uomini ». Coerentemente con questa affermazione, più tardi, nel maggio del 1906, in prefazione all'edizione Nerbini del suo Lucifero, scriveva di sé che « vicino ormai a dissolversi nell'infinito, nel fluttuare di tante idee, nel tramonto di tanti idoli, nella furia fragorosa di sì strane correnti artistiche e letterarie, egli rimaneva fermo in quei princìpi che aveva finalmente riconosciuti per veri, aspirava l'aura dei nuovi tempi, s'inebriava al sentore delle nuove battaglie, ringiovaniva alla certezza del trionfo della Giustizia e della Libertà ».
Chiudendo la lettera suddetta al Cannizzaro, il Rapisardi incalzava: « Mi parli di una gloria fatta di oblio ... dici che del poeta ha da essere obliato persino il nome, salvo poi a lasciar l'ufficio di ripeterne il canto alle foreste, al cielo e al mare. Mio caro amico, te lo confesso: codesti a me paiono indovinelli.
E tali, credo, li avrebbe stimati anche il povero Antero, che, nonostante il suo ascetismo, forniva gentilmente le proprie notizie biografiche ai suoi traduttori e credeva che l'essere onorato e stimato dai contemporanei era pure qualcosa ».
La chiusa della lettera accenna ad Antero de Quental, poeta portoghese, di cui il Cannizzaro, conoscitore sicuro di lingue moderne, tradusse in italiano i sonetti.
La lettera è a pag. 343-44 dell'Epistolario del Rapisardi edizione 1922 dell'editore Niccolò Giannotta di Catania, curata dal Dottor Alfio Toma-selli, il quale, dopo la morte del Poeta etneo, sposò la di lui amica e ispiratrice Amelia Sabernich Poniatowski.
Coerente con questo suo modo strano di concepire l'attività del poeta, il Cannizzaro pubblicava le proprie opere senza nome, o con pseudonimi: « Versi francesi di un anonimo »,« Le quartine di Umar Chayyàm recate in italiano dal traduttore dei sonetti Camoése di Anthero de Quental ». Ragion per cui il De Amicis, scrivendogli, lo invocava: « Gentilissimo Innominato ». E motto abituale del Cannizzaro era: « Nascondi la tua vita, diffondi le tue opere ». Qualcosa di simile pensava il Cesareo quando diceva, a noi suoi scolari nell'Ateneo di Palermo, che quello che resta di un poeta è la sua poesia; la quale, mentre è la sua gloria, è anche la sua giustificazione ».



Morto il Rapisardi, nel gennaio del 1912, il Cannizzaro non mancò di scriverne e notò, tra l'altro, che « Mario Rapisardi visse solitario come un eremita e morì come un filosofo antico, i cui ammaestramenti ci restano quale eredità preziosa che maturerà i suoi frutti nelle generazioni future ».

Ma scrivendo del poco onore in cui il Cannizzaro è tenuto dai messinesi, e dai siciliani in genere, non si può tacere il nome illustre di un altro poeta e letterato messinese cui sembra inflitta una simile incomprensione:   Giovanni Alfredo Cesareo.
Forte e fecondo poeta, che ha pagine degne del Foscolo, e critico saggista paragonabile al De Sanctis, egli è tuttora sottovalutato in Sicilia e in Italia. E non mi risulta che la sua Messina gli abbia eretto un busto; né glielo ha eretto Palermo, dove fu a lungo maestro insigne di Letteratura Italiana.

Per il Cesareo, come per il Cannizzaro e per il Rapisardi e per G. A. Costanzo si aspetta ancora la critica serena e chiaroveggente che assegni loro il posto preciso, cui hanno diritto, nella storia della letteratura moderna.

Bibbliografia
*Articolo apparso in rivista « Battaglia letteraria » di Messina, Gennaio-Febbraio 1967 e in rivista « Palaestra » di Maddaloni (Caserta), Luglio-Settembre 1967.
* Saggi e discorsi di Ignazio Calandrino.