Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

venerdì 25 aprile 2014

CAMENE di Gesualdo Manzella Frontini e Mario Scarlatta

"Camene" la rinomata rivista catanese che si stampava ad Acireale - n.1 - 1947
Estratto da « Memorie e Rendiconti » dell'Accademia di Scienze Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale - Serie III - Volume V - di Vito Finocchiaro - 1985


Il ricordo di Gesualdo Manzella Frontini è ritornato piacevole e grato alla mia mente con lo «speciale» di Gaetano Zappalà, «Don Gesualdo di Trezza», pubblicato su «La Sicilia» del 28 ottobre 1985, nella ricorrenza del centenario della nascita del letterato catanese. Definire letterato il Manzella Frontini è, forse, un poco riduttivo, anche se l'essere cultore della letteratura, e cultore come lo fu lui, è pregio non da poco. Riduttivo, nel suo caso, perché egli non fu soltanto un eccezionale, coltissimo conoscitore e profondo studioso dell'«insieme delle opere, pertinenti ad una cultura o civiltà, affidate alla scrittura», non un semplice fruitore delle opere altrui, ma un soggetto attivo, un protagonista del fatto letterario. Fu, infatti, scrittore, poeta e giornalista raffinatissimo, impegnato, espressivo e fecondo (dei suoi ottant'anni di vita ne dedicò più d'una sessantina allo scrivere!), un nome autentico a livello nazionale ed europeo, se è vero, com'è vero, che lo troviamo con Filippo Tommaso Marinetti tra i fondatori del futurismo, nel 1910 tra i firmatari del «Manifesto dei drammaturghi futuristi» dello stesso Marinetti (è con i poeti Gian Pietro Lucini, Paolo Buzzi, Federico De Maria, Enrico Cavacchioli, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni, Libero Altomare, Luciano Folgore, Giuseppe Carrieri, Mario Bètuda, Enrico Cardile, Armando Mazza, assieme ai pittori Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini ed al musicista Balilla Pratella) e tra le personalità che figurano nel «Manifesto delle avanguardie letterarie ed artistiche europee» firmato da Guillaume Apollinaire nel 1913 a Parigi (nell'elenco vi sono Marinetti, Picasso, Carrà, Matisse, Palazzeschi, Strawinsky, Papini, Soffici, tanto per fare dei nomi che dicono molto a tutti).

Laureato in lettere e diplomato in filologia, insegnante nei licei classici di Prato, Luino, Cassino e Catania («Cutelli» e «Spedalieri») nonché nel liceo dell'Istituto San Michele di Acireale, Gesualdo Manzella Frontini diresse i giornali romani «L'idea liberale» (1914), «Le fonti» (1918), «Corriere africano» (1930) e collaborò a numerosi giornali e riviste, tra cui «Delta», «Vita nova», «Popolo di Roma», «Anthologie», «Lavoro fascista», «Corriere emiliano», «Ausonia», «Misura», «La rassegna», «Il resto del Carlino», «Novella», «Corriere della sera», «Corriere di Sicilia», «Popolo di Sicilia», «La Sicilia», «L'ora», «Giornale di poesia», «La fiera letteraria» e «Poesia», la rivista di F. T. Marinetti. 
Fu autore prolifico e versatile, come si conviene a chi nutre molteplici interessi ed ha il desiderio intenso (direi meglio, figurativamente, la smania) di soddisfarli tutti. Scrisse, infatti, ben ventisei opere (e va da sè che mi riferisco a quelle pubblicate in volumi), spaziando dalla poesia al teatro, dai racconti alla letteratura ed alla retorica, dagli studi critici e dai saggi ai romanzi. Val proprio la pena di elencare i suoi libri (e lo farò in appendice, anche per ricordarne alcuni che oggi sono poco noti), divisi per sezioni, non senza notare che ognuna di queste l'Autore curò non episodicamente ma per lunghi periodi della sua intensa vita, con ampio respiro di continuità, dando corpo a coerenti sequenze temporali, che si avvertono particolarmente nei campi della poesia, della saggistica e della narrativa.

Non è, comunque, questa la sede, per chi, come me, non è un critico letterario né sa portare avanti con autorevolezza disquisizioni in chiave di puro estetismo, per approfondire il discorso su Gesualdo Manzella Frontini, scrittore ed operatore di cultura nel senso più largo dell'accezione. A me preme, invece, parlare della fugace conoscenza personale che ebbi con «don  Gesualdo  di Trezza»  e  dare  testimonianza  diretta  d'una delle sue attività più significative, che senza dubbio resta legata alla condirezione con Mario Scarlata della nuova serie di «Camene», la rivista di lettere, arte e scienza che, forse, resta la migliore del genere che sia stata pubblicata a Catania e tra le notevoli in campo nazionale.
Non è una esagerazione e lo dimostrerò in appendice, ripescando il sommario dei primi undici numeri della rivista. 
Dall'elenco delle firme dei collaboratori ognuno potrà farsi una ben precisa idea dell'altissima qualità di questo mensile di lettura e cultura, dedicato alle antichissime divinità italiche delle fonti e trapiantato a Catania per resurrezione, dopo una esperienza romana di cui peraltro non sono in grado di dire, negli anni immediatamente susseguenti alla seconda guerra mondiale, quando Manzella Frontini ritorna al Sud, nella sua città, avendo pensato che «al grecale che spira dall'Jonio, le nostre Camene avrebbero potuto ristorarsi e riprendere con più lena la via, e con più disinvoltura e speditezza» ....e perciò promettendo che «manterremo pulita ed accogliente la casa, e pure le intenzioni: una casetta chiara, netta, aerata, con giardino e terrazzina aperta a tutti i venti» (al di fuori della metafora, par quasi una profetica visione del reale, quando «Camene» non ci sarà più tra il rimpianto di molti: l'immagine precisa e matura della casetta, che lo avrebbe accolto ad Aci Trezza più tardi, negli anni del tramonto della vita!). 

Di «Camene» ha scritto recentemente, sia pure inserendo l'argomento nel panorama (molto ben descritto) della Catania degli Anni '40, Venero Girgenti, sempre in uno «speciale» de «La Sicilia», pubblicato pochi giorni dopo il ricordo di Gaetano Zappalà dedicato a «Don Gesualdo di Trezza». «"Camene" che scappa dal chiuso delle botteghe — scrive Girgenti — penetra nei salotti catanesi che aprono i battenti alla nuova cultura che ancora sa di macerie e di polvere da sparo, parla ora delle nuove attività letterarie, pubblica racconti e saggi critici, atti unici e notiziari di vita culturale con segnalazione di curiosità amene. Questa è "Camene", la nuova rivista letteraria alla quale non disdegna di inviare manoscritti il fior fiore della cultura nazionale». L'articolo, ricco di particolari interessanti e non conosciuti da molti, ha certamente richiamato memorie e nostalgie di quanti sono, chi più chi meno, avanti negli anni; soprattutto, vi è molto ben ricreato il clima fervido di iniziative del tempo descritto. Per quanto mi riguarda, confesserò che mi sono commosso, non tanto per il salto indietro negli anni, che pure è cospicuo (trentotto anni: una voragine per chi, allora, di anni ne aveva poco più di venti!), quanto per la rievocazione indiretta d'un fatto che pochissimi conoscono e che altri hanno dimenticato. 

Quanti sanno, quanti ricordano che «Camene», la prestigiosissima rivista della Catania di metà secolo, si stampava ad Acireale? Eppure, è la verità. I primi undici numeri della sua nuova serie videro la luce ad Acireale, nello Stabilimento tipografico «900» di Giuseppe Finocchìaro, mio Padre.
Di Papà ho parlato diffusamente in altra occasione offertami da «Memorie e rendiconti», quando ho scritto del settimanale acese «Libera parola» di cui Egli era editore (1), e non starò, quindi, a riproporre il personaggio se non per ricordare l'attrazione che su di Lui esercitava il mondo della cultura e dell'arte e come fosse sensibile al bello ed alla perfezione, grazie ad un gusto squisito che, in ogni occasione d'incontro, Ciccio Contrafatto, pittore affermato ed amico, non manca mai di sottolinearmi, con velato, sincero rimpianto. Non so effettivamente come, nell'estate del 1947, mio Padre si trovò a contatto con Manzella Frontini o se addirittura furono i due a stipulare gli accordi di rito. Ritengo, invece, che molto più probabilmente il Suo interlocutore per la parte venale del sodalizio dovette essere Mario Scarlata, l'altro direttore della rivista da rilanciare a Catania, il quale, senza dubbio, doveva essere l'amministratore, se non il finanziatore-editore, in quanto che lo ricordo nell'ufficio della tipografia (dove mi trattenevo, inesausto, per giorni intieri, dinanzi alla vecchia «Olivetti» per sfornare corrispondenze per il «Corriere di Sicilia» e per «La Sicilia» ed articoli e rubriche fisse per «Libera parola») alle prese con banconote ed assegni di conto corrente o accalorato, contro la propria natura, nella discussione sulle scorte di carta 
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(1) Il settimanale «Libera parola» nella riconquistata libertà acese (1945 -1948), Memorie e rendiconti dell'Accademia di scienze, lettere e belle arti degli Zelanti e dei Dafnici, Serie II - voi. V, Acireale, 1975, p.p. 57-69.
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(allora preziosissima e piuttosto scadente) disponibili in magazzino (ma, in proposito, non c'erano problemi: Papà aveva carta da stampare a non finire dato che, manager in chiave d'esagerazione com'era, aveva sempre provveduto, senza badare a spese, a reintegrarne le giacenze in deposito, cospicue fin dalla metà degli Anni '30, quando aveva intuito che per il prodotto sarebbero venuti tempi grami).
Mario Scarlata, legato a Manzella Frontini, oltre che da affinità culturali, da amicizia, era fisicamente e nel modo di fare l'opposto dell'altro. Corpulento e vestito con semplicità, attento fino alla pignoleria nel seguire il proto, nel rivedere le bozze e nell'assistere alla stampa, di pochissimi gesti, riserva-tissimo nel contegno e pacato nell'eloquio, faceva contrasto formale quanto stridente con il collega, piccolo, asciutto ed elegante (fu tra i primi che io ricordi con giacche aderenti e pantaloni garbati), piuttosto svagato in tipografia (tranne che nella impaginazione e nella scelta dei caratteri da utilizzare nei titoli), nervoso e scattante, estroverso. 
Se doveva incoraggiare gli straordinari, indispensabili in quanto che graficamente «Camene» si realizzava in un paio di giorni (mio Padre, in quel tempo, a parte il lusso di «Libera parola» che si concedeva, era impegnatissimo con le forniture alla S.G.E.S., la società elettrica di cui stampava le bollette, con le esattorie gestite dal Banco di Sicilia, che gli commissionavano le cartelle dei pagamenti e gli avvisi di mora ai contribuenti morosi, con le ricercatissime carte a rilievo «sistema Mazzei» affidatogli in esclusiva per la Sicilia e con le decine di clienti che avevano scoperto il piacere di reclamizzare le loro ditte commerciali con i primi tentativi delle stampe in quadricromia), se doveva incoraggiare un lavoro ancora poco retribuito come gli straordinari, Scarlata offriva alle maestranze il caffè della vicina e rinomata dolceria dei fratelli Bonanno in via Cavour, mentre Manzella Frontini se la cavava con battute e barzellette e ricordi di vita vissuta e fantasie, che piacevano quanto la bevanda aromatica. Gli operai della tipografia, tutto sommato, erano affezionati alla coppia dei «professori». Quando parlavano dei due, li chiamavano, irrispettosamente, «Cric e Croc» ed era simpatico l'accostamento che, sia pure con le debite proporzioni dal punto di vista delle fattezze fisiche, richiamava alla percezione immediata i personaggi di Stan,Laurei ed Oliver Hardy, Stanlio ed Ollio, i popolarissimi eroi cinematografici dei ragazzi della mia generazione, riscoperti dai giovani di oggi con estrema letizia.

Lo Stabilimento tipografico «900» viveva negli ambienti che, allora, erano quelli tipici delle imprese con spiccate caratteristiche artigianali. 
Era allogato a pianterreno del Palazzo Figuera dal bellissimo portale in pietra lavica, in via San Carlo, una delle strade più significative del centro storico di Acireale, nei pressi immediati della piazza San Domenico, dove troneggia Palazzo Musmeci, considerato (e credo a ragione) il più bel monumento barocco tra i numerosi che arricchiscono la città. Era sistemato in tre stanzoni, di dimensioni che ancor oggi ritengo enormi dopo averli rivisitati per appagare un vecchio struggimento, accolto con simpatia dal fabbro ferraio e dal carrozziere che ora si dividono i locali (ed uno di essi, l'artigiano Rosario Grillo, per dimostrarmi d'aver lasciato le cose com'erano, ha voluto farmi vedere, appiccicato ad un vecchio infisso, un ingiallito facsimile di scheda elettorale con la mia fotografia, stampato nel... 1952 in occasione della mia presentazione alle elezioni  comunali!).
All'ingresso c'era la polverosa legatoria, abbellita (si far per dire!) in un angolo da una gabbia in legno compensato e vetri, una sorta di guardiola pomposamente definita ufficio, legatoria di cui «re ed imperatore» era il signor Marcellino, un despota per i lavoranti e gli apprendisti, che resta, con il povero Ferdinando Somma di via Marchese di Sangiuliano, il miglior rilegatore di libri che ci sia mai stato ad Acireale. 
Poi, la sala macchine: l'ambiente più spazioso, dove erano sistemate, assieme ad antichi e pur efficienti residuati della ottocentesca tipografia dell'«Orario delle ferrovie» (una pedalina, una macchina piana di formato medio ed un'altra più grande, denominata iperbolicamente «la rotativa»), una «Neby» automatica, avveniristica creatura della Nebiolo di Torino (il meglio che c'era in Italia in fatto di industrie costruttrici di macchine per la stampa) ed una semiautomatica a mano, una specie di pedalina moderna, invero stressante per chi doveva lavorarci sopra otto ore al giorno. Infine, la sala della composizione, ricchissima di caratteri (naturalmente stile «900»!), di marmi per l'impaginazione, di compositoi a mano (venne, parecchio tempo dopo, la linotype, e fu un avvenimento perché di queste macchine compositrici in Sicilia ce n'erano pochissime) e di tirabozze, sala che era affidata a Mario Trovato, il proto, un tecnico da Italia del Nord più che un operaio del Sud, il primo di classe sociale (allora c'erano) diversa dalla mia con il quale io abbia discusso come se fosse un professore d'università. Il tutto presentava un ambiente che oggi sarebbe infrequentabile, pesante com'era di nerume, d'odore di piombo ed inchiostri, di pulviscolo di carta e persino di ragnatele, che mio Padre, il quale era superstizioso quel che basta, non fece rimuovere mai per una non dichiarata ma effettiva scaramanzia (e sarà magari un caso, ma vero si è che la Sua fortuna imprenditoriale decadde quando trasferì la tipografia in locali... asettici, avendo scoperto la litografia, che a metà degli Anni '50 per il Sud era ancora... erba fresca!). 
Nella stessa via San Carlo lo Stabilimento tipografico «900» aveva i magazzini: due, molto ampi, pieni di scaffalature sempre ricolme di risme di carta, ed uno più piccolo dove, assieme ai pezzi di ricambio delle macchine e delle latte di inchiostro e di solvente, Papà ricoverava la Sua «509» (Anni '30), che diventò una «Balilla» a quattro marce (Anni '40) ed infine una «1100» (Anni '50). E nella stessa strada, sopra la tipografia, abitava il padrone di casa, il signor Barbagallo, che ricorderò per la paziente tolleranza che con i suoi familiari aveva, sopportando fino alle 4 del mattino il rumore delle macchine, quando queste erano oppresse, come capitava di frequente, dal lavoro, smaltito dagli infaticabili fratelli Lanzarotti (oggi il cavaliere Peppino è un affermato imprenditore tipografico e carissimo mi resta il ricordo di Alfio e Sebastiano, prematuramente morti).

A questo punto, penso che, per l'amore d'essere obiettivo a tutti i costi, farei torto alla verità se limitassi la rievocazione dell'opificio (era appunto tale: una piccola industria) di mio Padre con il circoscriverla alle sole note di colore. La verità è che lo «stab. tip. 900» del ventennio, che corse a cavallo della guerra mondiale del '40, resta per Acireale, per la provincia di Catania e per la stessa Sicilia un punto di riferimento rappresentativo per la qualità dei lavori prodotti. 
Anche oggi, se ci ritroviamo tra le mani una rivista, un libro, un dépliant, una etichetta pubblicitaria qualsiasi stampati nella tipografia in questione, ebbene, teniamo un materiale d'assoluta dignità, il quale non sfigura affatto nel confronto con le cose che ora si stampano. Insomma, voglio dire che Papà creò una grafica per quei tempi impensabile in una buona parte dell'Italia non industrializzata e tuttora in grado di reggere il paragone. E se io nei confronti del concittadino Gaetano Maugeri, titolare dello affermatissimo Stabilimento tipolitografico Galatea di Acireale, nutro molteplici motivi di amicizia, di considerazione, di affetto e di stima, è perché in lui non vedo soltanto il continuatore in termini di perfezione d'una apprezzata tradizione familiare, ma l'autentico depositario dell'eredità artistica (che non ho saputo o non ho potuto o non ho voluto raccogliere) di mio Padre, dei Suoi desideri di realizzazione, delle Sue visioni anticipatrici dei tempi, del Suo amore per la carta stampata,
A dimostrazione dell'alto grado di efficienza della tipografia «900» concorre la scelta di Gesualdo Manzella Frontini e di Mario Scarlata, che non per caso vollero che «Camene» si stampasse ad Acireale. A Catania non mancava certo chi potesse farlo (potrei dire Conti, Costantino, gli stessi Strano non ancora esclusivamente dedicati alla stampa dei biglietti delle tranvie e delle autolinee, altri assai quotati di cui non ricordo il nome e me ne spiace perché me ne sfugge qualcuno di rilievo), ma qui, ad Acireale, da Giuseppe Finocchiaro c'era un «quid» esaustivo da prendere in considerazione, a prescindere da opportunità economiche, che poi non esistevano, dato che Papà il lavoro se lo faceva pagare bene nel tempo non sospetto del successo e dell'agiatezza.

Ma torniamo a «Camene» e vediamo com'era, a cominciare dal modo con cui si presentava. Di formato classico (cm. 17x24), il mensile aveva una copertina in cartoncino leggero (destinato via via ad ispessirsi), stampato a due colori, di cui il predominante era di volta in volta diverso, tranne il primo numero che fu ad un solo colore (il seppia) ed il nono a tre colori. La carta era di tipo «triplacolla», che, in quei tempi che correvano, era non di molto migliore di   quella usata oggi dai quotidiani, mentre le tavole in testo e fuori testo delle riproduzioni pittoriche (quando c'erano) venivano realizzate in carta patinata. Le pagine si mantenevano in media attorno alle trenta, trentadue (ma vi furono anche eccezioni di cinquanta-ses-santa facciate), realizzate in maniera molto fitta (con caratteri tipografici in cui predominava il «corpo 8», sia che fossero in tondo o in corsivo) e tuttavia opportunamente arieggiate da una titolazione generosa e da un'agile impaginazione.
Il prezzo della rivista nel giro di poco più d'un anno variò dalle settanta lire iniziali alle cento del decimo numero, con un lungo intermezzo fissato sulle novanta lire, e ci fu un numero speciale, l'undicesimo dedicato alla XXIV Biennale di Venezia, che ebbe un costo di trecento lire, appunto per la particolare ricchezza del fascicolo, impreziosito da testi critici d'assoluto valore e da 14 tavole riproducenti dipinti di De Pisis, Martini, Max Ernst, Van Gogh, Miluzzo, Carrà, Turner, Chagall, Lazzaro, Kokoschka, Rossi, Schiele, Guttuso, Ensor, Picasso, Moore, Peif-fer Watenphul, Bellini e Scipione. 
Altri numeri straordinari furono quelli dedicati alle rappresentazioni classiche di Siracusa del 1948 ed alla pubblicazione delle sei novelle ritenute meritevoli in esito al concorso intestato a Giovanni Verga (il premio di ben centomila lire non fu assegnato perché la commissione giudicatrice non aveva potuto trovare lavori che «garantivano o una vera e propria rivelazione o un narratore che, pur esperto, avesse dato il meglio di questa sua esperienza». Per la cronaca relativa al «Premio Giovanni Verga» c'è da dire che degli autori dei lavori segnalati solo quattro consentirono di svelare al pubblico i loro nomi: Alba Novella Volpi di Castel di Guido, Salvatore Fiume di Canzo, Francesco Manzella di Roma ed Aldo Carratore di Siracusa. 
Il che fa intuire che, molto probabilmente, qualche nome d'un certo peso, celato sotto gli pseudonimi degli altri due «segnalati», non dovette gradire il verdetto e preferì rimanere nell'anonimato per intuibili motivi (Dignità offesa? Faccia da salvare? Pura e semplice vanità delusa? Decida il lettore!).

Qualche curiosità spicciola si può anche trarre dal riquadro della gerenza, dal quale si apprende che la rivista aveva un responsabile nella persona di Carmelo Danese  (un signore che non mi pare d'avere mai visto in tipografia, evidentemente perché si fidava dei due direttori), ampia diffusione in campo nazionale (la distribuivano a Roma la D.I.E.S. e fuori Roma la STE di Milano) e sede di direzione, redazione ed amministrazione a Catania, al numero 1 di via Sisto, l'antica strada che unisce la via Etnea con la via Grotte Bianche.
Per quanto riguarda il contenuto di «Camene», come ho già detto prima, rimando il lettore al sommario generale che riporto in appendice, un sommario più illustrativo di qualsiasi recensione alla mia portata. Mi limito ad aggiungere che una bella specialità della rivista erano i puntualissimi, effervescenti pezzi d'apertura esplicativi della linea del periodico e sempre dovuti alla penna di Gesualdo Manzella Frontini (che, alle volte, non si firmava), e le rubriche fisse «Incontri e scontri», «Notiziario», «Indicazioni», «I libri del giorno». Notevoli i fuori testo, sia che fossero dedicati alla riproduzione di disegni (uno di Roberto Fasola nel numero 2) ed olii (uno di Salvatore Camilleri Mazzaglia nel numero 4), sia a lavori teatrali (nel numero 2 il terzo tempo di «Prigionieri di guerra» di Orazio Motta Tornabene, nei numeri 5, 6, 7-8 e 10 i tre atti de «L'apocalisse secondo San Giacomo»  di Mario Apollonio).

Questa era «Camene», la rivista di Gesualdo Manzella Frontini e di Mario Scarlata che, per dirla con Venero Girgenti, consentì a Catania di gettare le basi per una ripresa letteraria d'una certa importanza, che di lì a poco avrebbe meritato alla città l'attribuzione del ruolo di «capitale» della letteratura del tempo (verranno, poi, gli Anni '50, '60 e '70 e Catania cambierà, con la pelle, anche la faccia e diverrà «capitale» di chissà quali altre cose!).

APPENDICE
I
OPERE DI GESUALDO MANZELLA FRONTINI
POESIA; «Novissima Semiritmi»  (1904), «Le rosse vergini. Rime pagane»
(1905),  «Il  prisma  dell'anima»   (1911?),  «Sul  gigli  gocce  sanguigne»
(1920), «Il mio libro dai campi P.W.»  (1949). RACCONTI: «Le lupe» (1906), «Quando la preda è stretta» (1921). STUDI CRITICI E SAGGI: «La Lozana Andaluza» (1910), «Contemporanei e futuristi»   (1910),  «Mario  Puccini»   (1927),  «Il  Santo  mediterraneo»
(1931). TEATRO: «L'altro sangue»  (1922?), «Verso le ombre»  (1923), «La madre immortale» (1935). LIBRI DI LETTERATURA E DI RETORICA: «Note di letteratura» (1921), «Lingua e stile» (1931). ROMANZI: «Pupetta»   (1924),   «Il testamento di Giuda» (1925), «Circo Barum, naja e sciacalli» (1933), «Scale» (1935), «Crocifissi alla terra» (1953), «Sorte» (1961), quest'ultimo con presentazione di Bonaventura Tecchi.
VARIE: «Volare» (1927), «L'eroico imperiale» (1928), «Italia una e diversa,
tutte le regioni» (1923).
II
SOMMARIO DEI FASCICOLI DI «CAMENE»
SETTEMBRE 1947
Commento alla nuova serie — Camene.
Grandezza e pudore di Federico — Giovanni Centorbi.
Pentagramma della lirica di oggi — Giuseppe Villaroel.
Liriche di Heros Cuzari - Fernanda Regalia Fassy - Giacomo Falco.
Problemi e necessità della Scuola Nazionale di danze — Jia Ruskaja.
Notte di Natale (novella) — Marcello Gallian.
The Hollow Men (poesia) — T. S. Eliot (Trad. M. L. Faragò).
L'opera lirica in Gran Bretagna — Stephen Williams.
Dai  «Frammenti  di Saffo»   (trad.  di  Francesca  Acerbo).
Incontri e scontri. — Ore 21: musica - Gius. Grillo — Il teatro di ieri -
Giorgio Prosperi - La medicina ha scoperto l'anima - G. K. Apostolos. -
Vedetta - Notiziario - Indicazioni.

OTTOBRE 1947
Queste nostre «Camene» — g. m. f.
La figlia di Eleonora (novella) — Rosso di San Secondo.
Due Uriche di Saffo (trad. Mario Scartata).
I  segni di Roma nella musica sarda — Nicola Valle. Roma segreta — Adriano Grande.
Il  pittore Marcello Bonacci — Giusta Nicco Fasola.
Liriche di Federico De Maria - Maria Lilith - Lionello Fiumi.
Un ricordo di scuola (racconto) — Alba de Cespedes.
Questo cinema Yankee — Grigius.
Parliamo della rivista radiofonica — Mario Ortensi.
Il bozzetto «Nedda» nello svolgimento dell'arte verghiana — Ermanno Scuderi.
Incontri e scontri.
I libri del giorno (Tempo di uccidere di Ennio Flaiano — G. Manzella Frontini; Età della vendemmia di Fernanda Regalia Fassy — Pier Luigi Mariani; Foscolo, Manzoni e Leopardi di Gianni Gervasoni — Aurelio Corona; Storia e civiltà musulmana di Francesco Gabrieli — Emilio Beer; L'approdo intravisto di Paolo Rio — g. m. f. Indicazioni.

NOVEMBRE 1947
H. Miller & Ci al Confino di polizia — g. m. f.
Italia e Provincie — g. m. f.
Invenzione del personaggio — Lorenzo Giusso.
Un soldato di coscienza —  (novella) — Giuseppe Berto.
Isole di Grecia (poesia) di Kapetanakis (trad. Mario Scartata).
Vergine altera (poesia) di Antonino Machado (trad. di L. Fiorentino).
Profezia (poesia) di Phlippe Dumaine (trad. di L. Fiorentino).
Vedo le foglie agitarsi (poesia) di Armand Bernier (trad. L. Fiorentino).
Il cielo sulle labbra (poesia) di Armand Bernier (trad. L. Fiorentino).
Pagina di una diario — Valentino Bompiani.
L'innesto — Bonaventura Tecchi.
Liriche di Fulvio Longobardi - Nunù Zappala - Renzo Lo Cascio - Giovanni
Strano - Marussya. Destino della narrativa nord-americana — Gius. Grillo. 400mila passi — Virgilio  Lilli. Federico De Roberto — Rodolfo de Mattei. Il bambino (novella) — Milena Milani. Indicazioni. Il libro di un siculo-americano — Libero Bigiaretti.
I  libri del giorno (I pazzi a Taormina, di Massimo Simili — G. Manzella
Frontini; Giorno dopo giorno di Salvatore Quasimodo — Fulvio Longobardi). Notiziario.

DICEMBRE 1947
Orientamenti e no — g. m. f.
Andrè Gide «Premio Nobel» — Lionello Fiumi.
Federico Garcia Lorca — Giancarlo Vigorelli.
Liriche di Padre David M. Turoldo - Mario Stefanile - Giuseppe Villaroel -
Igor Man. Verga e la pace universale — Rodolfo De Mattei. Turno di riposo (novella) — Cesare Meano. La città con l'aureola — Fernando Palazzi. Incontri e  scontri.
La religiosità del «Prometeo legato» — Mario Scarlata. L'America era Los Angeles — Enzo Masso. Un libro di Theodor Storni — Pierre Jouvet.
II  libri del giorno (La romana di Alberto Moravia — Libero Bigiaretti). Indicazioni. Notiziario.

GENNAIO  1948
Uno scontro che è un incontro — g. m. f.
Funzione dello scrittore — Lorenzo Giusso.
Gli uomini non si odiano (racconto) — Dario Ortolani.
Nota di letteratura francese — Antonio Aniante.
Ermetismo poetico e critico — Arnaldo Bocelli.
Dopo (Giovanni Verga) — Aurelio Navarria.
Un grande lutto della poesia: Léon Paul Fargue — Lionello Fiumi.
Albe (poesia) di Léon - Paul Fargue (trad. L. Fiumi).
L'Italia e i poeti d'Europa — Laszlò Cs. Szabò.
Liriche di Alessandro Weores - Vittorio Csorba - Giulio Illyès - Miklòs
Radnoti - (tr. di Francesco Nicosia e Làszlò Tòth - Folco Tempesti). Un pomeriggio, Adamo (novella) — Italo Calvino. Motivi crepuscolari nella poesia di Saba — P. L. Mariani. I libri del giorno (Sole bianco di Dario Ortolani — G. Manzella Frontini;
Cavalli 8... uomini... di Luigi Fiorentino — Giuseppe Villaroel).
Notiziario.
Apocalisse secondo Gian Giacomo — Mario Apollonio.

FEBBRAIO   1948
Esito del Concorso per una novella, Premio «Giovanni Verga» 1947. Vi sono pubblicate le 6 novelle ritenute degne di segnalazione. Precede la relazione, segue il Bando di Concorso per il Premio «Giovanni Verga» 1948.

MARZO - APRILE 1948
L'ultima trincea — g. m. f.
Poesia di Ungaretti — Arnaldo Boccili.
Rievocazioni davanti un reticolato — Giani Stuparich.
Quartiere latino — Adolfo Sarti.
Richard Huch — Bonaventura Tecchi.
I tre momenti esistenzialistici — Leonardo Grassi.
La casa (novella) — Diotima.
D'Annunzio controluce — Giuseppe Villaroel.
Scirocco (racconto) — Arnaldo Fratelli.
Baudelaire e Solitude di Gaston Criel (tr. Nicola Grassi).
Siamo o non siamo cristiani? — Silvio D'Amico.
I   morti di Spoon River — Giuseppe Pistorio.
Il  disgelo — Gualtieri di San Lazzaro.
I libri del giorno  (Il sole è cieco di Curzio Malaparte) — G. Manzella
Frontini). Incontri e scontri. Notiziario.

MAGGIO 1948 
(Fascicolo dedicato alle rappresentazioni classiche di Siracusa). L'Oresteia di Eschilo a Siracusa — Raffaele Cantarella.
La scena di Cassandra nell'Agamennone di Eschilo — G. Manara Valgimigli. Le scene iniziali nelle tragedie di Eschilo — Francesco Guglielmino. Articoli   di:   Annibale  Ninchi;   Giovanna   Scotto;   Mario   Scartata;   Duilio
Cambellotti, G. Francesco Malipiero. Teatro alla luce del sole — Antonino Gandolfo.

GIUGNO   1948
Ogni uomo un fatto — G. Manzella Frontini.
Prosa o Poesia? — Mario Scartata.
Regia premeditata e regia improvvisa — Anton Giulio Bragaglia.
Pensieri dopo la commedia (racconto) — Cesare Meano.
L'ultimo libro di Marcel Arland — Aldo Capasso.
Lorenzo Giusso: L'anima e il cosmo — Renato Lazzarini.
Città felice (racconto) — Ottavio Profeta.
Parlare di sè — Guido Pannain.
Poesìe di Vincenzo Guarnaccia; Sandro Rossi; Eugenio Santaquilani.
Luca Feluca (racconto) — Aurelio Corona.
Il  mare — Gius. Grillo.
La prima stesura dell'«Amante di Gramigna» — Aurelio Navarria.
Rispettare troppo — Massimo Bontempelli.
Note su Sherwood Anderson — Enea Ferrante.
I libri del giorno (Per non morire di Aldo Capasso — Liliana Scalero;
I libri migliori — Dino Provenzal). Notiziario.

LUGLIO   1948
(fascicolo dedicato alla XXIV Biennale di Venezia)
Premessa — G. Manzella Frontini.
Rodolfo Pallucchini, Presidente della Biennale.
«Il novecento e la nuova secessione» — Luigi Ferrante.
Scipione — Giuseppe Marchiori
La sala di Gino Rossi — Leone Minassian.
De Pisis e Campigli — Guido Perocco.
Contemporanei italiani — Vittorio Bellini.
Pensieri per Arturo Martini — Gastone Breddo.
La pittura surrealista — Alvise Zorzi.
La pittura metafisica — Silvio Branzi.
Gli impressionisti — Umbro Apollonio.
Padiglione Guggenheim — Peggy Guggenheim.
Picasso — Italo Faldi.
Il padiglione del Belgio — Bruno Alfieri.
La fattoria di Chagall — Bruno Alfieri.
Egon Schìele — Helma Gironcoli.
L'arte tedesca «degenerata» — Max Peiffer Watenphul.
Violenza e luce di Turner — Geoffrey Grigson.
Oschkar Kokoschka — Jacopo Panozzo.
James Ensor — Leone Minassian.
La scultura di Henri Moore — Geoffrey Grigson.
Georges Braque — Raymond Cogniat.
..........................................................................................................
BIBLIOGRAFIA
Gaetano Zappalà, Don Gesualdo di Trezza, «La Sicilia», Catania, 29 ottobre
1985. Società italiana degli Autori ed Editori, Cronache cent'anni, Arti grafiche
Libra, Roma, 1983.
Lions club Catania Host, Catalogo della mostra della letteratura catanese tra le due guerre, Editrice Giannotta, Catania, 1977.
Venero Girgenti, Verga, gigante senza eredi, «La Sicilia», Catania, 2 novembre 1985.
Camene, nuova serie, Stabilimento tipografico «900», Acireale, settembre 1947 - luglio 1948.




martedì 22 aprile 2014

Lo scapigliato Felice Cavallotti


Nasce a Milano il 6 ottobre 1842. Figlio di un impiegato, vive la giovinezza in condizioni di ristrettezza economica, distratto dai frequenti soggiorni a Ghevio, sopra Meina, presso gli zii e, più tardi, a Dagnente, sempre sul Lago Maggiore, dove acquisterà una modesta casetta. Frequenta il liceo con profitto, segnalandosi per le sue prese di posizione politiche: prima cavouriane e poi garibaldine. Volontario nella seconda spedizione garibaldina in Sicilia (quella guidata da Medici a rinforzo dei Mille), combatte a Milazzo e al Volturno. Nel '66, di nuovo volontario garibaldino, combatte a Vezza.
Precoce la sua attività giornalistica. Nel '63 è redattore alla «Gazzetta di Milano», l'organo della sinistra moderata ispirato da Emilio Treves e Raffaele Sonzogno. Nel '65 fonda e dirige il giornale «Lo Scacciapensieri». Aderisce alla Scapigliatura politica, attestandosi su posizioni radicali. Verso la fine del '67 Achille Bizzoni gli lascia per qualche tempo la direzione del «Gazzettino rosa». Intanto aveva cominciato a scrivere poesie, spesso di contenuto politico e di tono satirico. Tra le sue raccolte di versi, che quasi sempre comprendevano testi anche di diversi anni prima, ricordiamo Anticaglie (1879), Sogni e scherzi - Il cantico dei cantici (senza data, ma uscito come secondo volume delle Opere, pubblicate in dieci volumi tra il 1895 e il 1896) e // libro dei versi (senza data, ma del 1898).
A partire dagli anni Settanta comincia a scrivere per il teatro, conquistandosi anche in questo campo una certa fama. Tra i numerosi titoli di drammi e commedie ricordiamo, negli anni Settanta, I pezzenti, Alcibiade, La sposa di Menacle, e, negli anni Ottanta, 77 cantico dei cantici, Il povero Piero, La cura radicale.
Nel 1873 viene eletto deputato: la sua attività politica durerà sino alla morte, ponendolo a poco a poco come il leader dei radicali (l'estrema sinistra di allora) e come uno dei politici più in vista del Paese, noto per i suoi attacchi a Depretis per il suo trasformismo e a Crispi. Muore a Roma in duello il 6 marzo 1898 (lo sfidante era il deputato Ferruccio Macola, sostenitore di Crispi e direttore della «Gazzetta di Venezia»).

La poesia di Cavallotti non è di grande qualità letteraria: spesso improvvisata, lo stesso autore era consapevole dei limiti artistici della propria produzione, che tuttavia gli era cara, più per i contenuti protestatari che non per un lavorio stilistico che egli per primo riconosceva essere assente. «Questo», commenta Croce (1960:183-184), «ci mostra il suo atteggiamento verso l'arte. Un artista che si accorge di aver fatto opera brutta, che cosa non darebbe per cancellarla dalla faccia della terra e dalla memoria degli uomini? Ma pel Cavallotti, che guardava dal lato pratico, l'arte era nell'arte solo uno degli ingredienti dell'arte, e poteva anche mancare!» Quanto alla lingua, aggiunge Baldacci (1958:766): «Il suo linguaggio è forse il più generico e impreciso di tutta la poesia dell'Ottocento».
In realtà ciò accade perché, come scrive Alessandro Galante Garrone (1979:798), Cavallotti «fu, anche artisticamente, assai più felice come oratore o prosatore - ad esempio nella introduzione alle Anticaglie [...] o nei commenti alle proprie opere e perfino in alcune sue lettere - che non come poeta o drammaturgo».
Versi, tuttavia, quelli di Cavallotti, che documentano, con il resto dei suoi lavori letterari, «il critico passaggio di una cultura classica, sorretta in Cavallotti da seri studi e da ampie conoscenze, ai nuovi valori della ragione e della rivoluzione» (Masini 1977:89).

DA IL LIBRO DEI VERSI 
IL MISTERO DEL FIORE

Un fior sovra un tumulo spiega 
la pompa dei vivi color: 
simile all'amor che ne lega, 
ei vive, lo splendido fior!

Un triste mister dello stelo 
gli dona la ricca beltà: 
ei mesce l'umore del cielo 
con quel che la fossa gli dà.

S'intesson le tenui radici 
con treccie lunghissime d'or...
L'amor che ne rende felici 
le stesse radici ha del fior.

Ma a mezzo la notte, allorquando 
pia scorge la stella brillar, 
il fior, la sua stella adorando, 
da sotto si sente chiamar.

«L'olezzo io t'ho dato e i colori, 
o ingrato, che guardi su in ciel!». 
Ahi, questa fra i nostri due cuori 
rampogna sussurra un avel!

*La poesia scapigliata - Roberto Carnero


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Giulio Pinchetti - Giulio Uberti - Giuseppe Cavallotti

domenica 20 aprile 2014

Necrologio per Mario Rapisardi - 1912


«Niun saprà delle mutate genti / quale io vissi e chi fui; cadrà ne’ gorghi / del tempo il nome mio, su cui maligne / tele d’alto silenzio il vulgo ordisce; / ma l’ideal de’ giorni miei, la face / che il mio misero corpo oggi consuma, / splenderà sotto a’ firmamenti eterno».  
M. Rapisardi -  XIV  Epigrammi



Di Nunzio Vaccalluzzo - 1912








Necrologio per Giuseppe Pitrè - 1916

Foto del 25/01/1884 di F. P. Frontini

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Di Luigi Sorrento - 1916















Tommaso Cannizzaro e Mario Rapisardi, i poeti amici.

Luigi Vita, valente direttore della rivista messinese Battaglia Letteraria, così scriveva, nel vano tentativo di rivendicare l'alto valore del poeta e letterato peloritano Tommaso Cannizzaro, deplorando il poco onore che in genere gli si rende dalla sua stessa città natale: Cannizzaro dovrebbe essere letto, studiato, ammirato assai più, non solamente dai suoi conterranei messinesi, ma da tutti i siciliani.
 
Giustamente il Vita sottolinea che Tommaso Cannizzaro fu onorato di stima e di amicizia da scrittori quali Victor Hugo, Carducci, Mario Rapisardi, G. A. Cesareo, Giovanni Pascoli, Luigi Capuana, Arturo Graf ed altri simili: il riconoscimento da parte dei Grandi è sempre quello che uno scrittore più ambisce e che largamente lo compensa della incomprensione dei superficiali e degli indotti e dei lettori frettolosi.
Opportuno è ripubblicare, qui, un magnifico sonetto che M. Rapisardi scrisse per l'amico T. Cannizzaro e che si legge tra le Foglie sparse, edizione Sandron.

A TOMMASO CANNIZZARO
Tommaso, invan dove la pugna ferve 
Richiami il tuo commiliton canuto, 
Che, libero fra tante anime serve, 
Per l'onore dell'arte ha combattuto.

Ben ei freme al pensier che di proterve 
Menti uno stuol di vanità pasciuto 
D'ogni pura bellezza ha il fior polluto, 
E alle turpi sue voglie Italia asserve.

Ferito al petto, in solitario loco,
Il sangue ultimo ei perde, e ala sua vista
Discolorasi il mondo a poco a poco.

Ma troppo del suo danno ei non si attrista, 
Se l'idea, che il temprò dentro al suo foco, 
Per opra tua novo splendore acquista.

Versi del Cannizzaro scritti per il Rapisardi , sono quelli che il poeta messinese pubblicò nella rivista catanese Istituto di Scienze lettere e arti del 30 Gennaio 1899 e intitolati A Mario Rapisardi, in occasione delle onoranze a Lui: in occasione, cioè, delle onoranze che Catania tributò al suo grande Poeta, allora poco più che cinquantenne, col plauso degli uomini più insigni d'Europa; onoranze di cui segno più duraturo rimase il busto bronzeo del Rapisardi nel giardino Bellini, opera dello scultore Benedetto Civiletti. In questi versi, il Cannizzaro esortava il festeggiato Cantore di Giobbe e di Lucifero a non badare al cavallo della gloria che nitriva alla sua porta, e gli faceva notare che i massimi poeti — l'Alighieri non escluso — non ebbero riconoscimenti e festeggiamenti, ma persecuzioni, incomprensioni, livori, povertà, esilio e che il poeta deve essere « odiato dai contemporanei e dimenticato dai posteri» (anche dai posteri?). Ma vediamo i versi di Cannizzaro:
« Del tuo quieto ostello a le severe porte
il cavai de la gloria odi, o Mario, nitrir,
esso ti attende, e — inforcami, — grida superbo e forte
—  del canto altero Sir. 
Io ti trarrò per selve di lauri maestosi 
dove i venturi secoli un peana a inalzar
verranno su la fulgida urna dei tuoi riposi
—  Mario, non l'ascoltar! 
Volgigli il tergo e lascia ch'ei corra ove più voglia 
dove la vana sete di fama il porterà:
a lui tu nega il varco della modesta soglia dove la Musa sta ... »
Evidentemente Cannizzaro esagerava: Rapisardi non fu mai avido di lodi e di onori: « Poco il biasimo e men la lode apprezzo » scrisse nell'epistola poetica ad Andrea Maffei, nel mandargli una copia del Lucifero. E in una delle Poesie religiose, dedicata a Felice Cavallotti, scrisse di sé:

« Io, che tutta donai la mente al Vero,
Né più mi tocca il cuor biasimo o lode ... ».

Ma che egli dovesse mostrarsi sordo e indifferente al cavallo della gloria, che finalmente nitriva alla sua porta, era troppo.
Rapisardi, rispondendo ai versi e ad una lettera del Cannizzaro, per ciò così gli scriveva nel febbraio del 1899:
« Il cavallo della gloria ha dunque nitrito alla mia porta, ed io, dovevo secondo te cacciarlo via a suon di pedate? Oh, perché, amico mio? Io credo aver fatto qualcosa di più gentile.
Mi sono affacciato allo sportello, in mutande e berretto da notte, e ho detto: Pegaso mio, io ti sono grato del cortese invito; ma, credimi, io non ho più voglia di inforcare le tue groppe e di caracollare per le regioni fragorose della gloria.
Certo non mi vergogno di averti un giorno desiderato (oh, perché dovrei vergognarmene, se i più nobili e fieri spiriti, non esclusi l'Alighieri e l'Alfieri, ti hanno ardentemente desiderato?); ma ora, credi, ho altro per la testa; e il mio vecchio cuore, a parte gli acciacchi e i disinganni dell'età, non ha palpito alcuno per tutto ciò che non si riferisce alla giustizia e alla pace degli uomini ». Coerentemente con questa affermazione, più tardi, nel maggio del 1906, in prefazione all'edizione Nerbini del suo Lucifero, scriveva di sé che « vicino ormai a dissolversi nell'infinito, nel fluttuare di tante idee, nel tramonto di tanti idoli, nella furia fragorosa di sì strane correnti artistiche e letterarie, egli rimaneva fermo in quei princìpi che aveva finalmente riconosciuti per veri, aspirava l'aura dei nuovi tempi, s'inebriava al sentore delle nuove battaglie, ringiovaniva alla certezza del trionfo della Giustizia e della Libertà ».
Chiudendo la lettera suddetta al Cannizzaro, il Rapisardi incalzava: « Mi parli di una gloria fatta di oblio ... dici che del poeta ha da essere obliato persino il nome, salvo poi a lasciar l'ufficio di ripeterne il canto alle foreste, al cielo e al mare. Mio caro amico, te lo confesso: codesti a me paiono indovinelli.
E tali, credo, li avrebbe stimati anche il povero Antero, che, nonostante il suo ascetismo, forniva gentilmente le proprie notizie biografiche ai suoi traduttori e credeva che l'essere onorato e stimato dai contemporanei era pure qualcosa ».
La chiusa della lettera accenna ad Antero de Quental, poeta portoghese, di cui il Cannizzaro, conoscitore sicuro di lingue moderne, tradusse in italiano i sonetti.
La lettera è a pag. 343-44 dell'Epistolario del Rapisardi edizione 1922 dell'editore Niccolò Giannotta di Catania, curata dal Dottor Alfio Toma-selli, il quale, dopo la morte del Poeta etneo, sposò la di lui amica e ispiratrice Amelia Sabernich Poniatowski.
Coerente con questo suo modo strano di concepire l'attività del poeta, il Cannizzaro pubblicava le proprie opere senza nome, o con pseudonimi: « Versi francesi di un anonimo »,« Le quartine di Umar Chayyàm recate in italiano dal traduttore dei sonetti Camoése di Anthero de Quental ». Ragion per cui il De Amicis, scrivendogli, lo invocava: « Gentilissimo Innominato ». E motto abituale del Cannizzaro era: « Nascondi la tua vita, diffondi le tue opere ». Qualcosa di simile pensava il Cesareo quando diceva, a noi suoi scolari nell'Ateneo di Palermo, che quello che resta di un poeta è la sua poesia; la quale, mentre è la sua gloria, è anche la sua giustificazione ».



Morto il Rapisardi, nel gennaio del 1912, il Cannizzaro non mancò di scriverne e notò, tra l'altro, che « Mario Rapisardi visse solitario come un eremita e morì come un filosofo antico, i cui ammaestramenti ci restano quale eredità preziosa che maturerà i suoi frutti nelle generazioni future ».

Ma scrivendo del poco onore in cui il Cannizzaro è tenuto dai messinesi, e dai siciliani in genere, non si può tacere il nome illustre di un altro poeta e letterato messinese cui sembra inflitta una simile incomprensione:   Giovanni Alfredo Cesareo.
Forte e fecondo poeta, che ha pagine degne del Foscolo, e critico saggista paragonabile al De Sanctis, egli è tuttora sottovalutato in Sicilia e in Italia. E non mi risulta che la sua Messina gli abbia eretto un busto; né glielo ha eretto Palermo, dove fu a lungo maestro insigne di Letteratura Italiana.

Per il Cesareo, come per il Cannizzaro e per il Rapisardi e per G. A. Costanzo si aspetta ancora la critica serena e chiaroveggente che assegni loro il posto preciso, cui hanno diritto, nella storia della letteratura moderna.

Bibbliografia
*Articolo apparso in rivista « Battaglia letteraria » di Messina, Gennaio-Febbraio 1967 e in rivista « Palaestra » di Maddaloni (Caserta), Luglio-Settembre 1967.
* Saggi e discorsi di Ignazio Calandrino.

venerdì 18 aprile 2014

Vincenzo Casagrandi 1847/1938 - Nel 1903 fondò la Società di storia patria per la Sicilia orientale.

 CASAGRANDI Vincenzo - Storico e archeologo (Lugo di Ravenna [Ravenna] 1847 - Catania 1938). Appartenente a una famiglia di antiche tradizioni risorgimentali, conseguì a Napoli la laurea in giurisprudenza, ma approfondì, dopo, i prediletti studi storici e letterari. Dopo alcuni anni di insegnamento nei licei di Milano, Genova e Palermo, nel 1888, essendo riuscito vincitore del concorso a cattedra di storia antica, alla fine del secolo scorso fu chiamato a insegnare nella facoltà di lettere dell'università di Catania, e si trasferì definitivamente nella città etnea, dove svolse la parte migliore della sua attività scientifica e del suo impegno civile. Alle monografie di storia greca e romana (sulle orazioni di Tucidide, sulla battaglia di Maratona, su Diocleziano, sui Calpurni minori) seguirono numerosi e importanti saggi sulla Magna Grecia e sulla storia e civiltà della Sicilia orientale (Camarina, Morgantina, Gela, Siracusa, Len-tini). A Catania, in particolare, dedicò importanti studi, tra i quali sono da ricordare quelli sul monastero dei Benedettini, sul famoso organo di Donato del Piano, sul Castello Ursino, sul Siculorum Gymnasium e sulle leggende agatine. Fu appassionato alpinista e lasciò anche alcune monografie sull'Etna. Per questa sua attività amò definirsi « un romagnolo diventato catanese ». Nel 1903 fondò la Società di storia patria per la Sicilia orientale (di cui fu presidente  dal   1924   al  1928),  che ebbe sede nel palazzo universitario, a fianco dell'Accademia gioenia (v.). Avviò la costituzione di una biblioteca specializzata in seno alla predetta Società e della rivista « Archivio storico per la Sicilia orientale » (meglio conosciuto con la sigla ASSO). 






Pubblicò scritti storici di buon pregio: Diocleziano imperatore (1876), Agrippina minore (1878), Storia e cronologia medievale e moderna (1929). Incaricato dal podestà di Catania gen. Antonino Grimaldi di redigere l'inventario dei 621 manoscritti donati dal barone Antonio Ursino Recupero, vi attese dall'aprile 1931 al gennaio 1932. Memorabile, per chiarezza e sintesi, fu sulla Rivista del Comune del marzo-aprile 1929 un articolo in linea coi tempi (politici): La nuova Catania dopo il terremoto del 1693 e la nuovissima dell'epoca fascista. Casagrandi era nipote di Felice Orsini, patriota e rivoluzionario, romagnolo anche lui (1819-1858), decapitato a Parigi con Giuseppe Andrea Pieri. 




Dopo la sua scomparsa (2 febbraio 1938), il Comune di Catania deliberò che le sue spoglie mortali fossero tumulate nel viale degli illustri catanesi, nel cimitero metropolitano.
e. mus.

* Enciclopedia di Catania
* foto mie






sabato 12 aprile 2014

Pochi cenni sul salotto della Contessa Maffei

Tratto da "il salotto della Contessa Maffei" di Raffaello Barbiera 


Capitolo Primo
La famiglia della Contessa


Il salotto di Clara Maffei, a Milano, fu per mezzo secolo il più celebre d'Italia: per cinquantadue anni, fu riunione di patrioti, di letterati, di artisti italiani, e degli stranieri illustri che, visitando la Penisola, passavano  per  la  metropoli lombarda.
ritratto di Clara Maffei


L'influenza, esercitata dal salotto Maffei nel decennio dal 1848 al 1859. nei destini di Lombardia, e possiam dire d'Italia, (influenza grandemente dovuta alle energiche inspirazioni di Camillo Cavour, che vegliava da Torino), non va trascurata da chi studia le origini della terza Italia. La patriottica irradiazione del salotto Maffei si diffuse oltre i limiti di Milano e della Lombardia, si diffuse in altre regioni italiane; e vi portò la parola d'ordine, la parola che ben presto divenne azione. Anche fuori d'Italia, specialmente a Parigi, che pur vanta nella sua storia politica, letteraria e galante, salotti famosissimi, il nome di Clara Maffei era conosciuto e ripetuto con reverente simpatia: «le salon Maffei» veniva citato alle Tuileries come ritrovo d'uomini di gagliarda tempra sul cui senno e sul cui aiuto ........., Camillo Cavour, contava fiducioso. 
Non si tratta, adunque, d'un salotto provinciale, d'un salotto milanese, bensì d'un salotto italiano. Non lo segnalava il lusso esteriore, non il fasto da cui la gentil padrona di casa e i suoi amici di casa abborrivano, bensì l'armonia d'elevati intelletti, di forti caratteri, di cuori ardenti, devoti alla patria, al culto della letteratura,   dell'arte e dell'amicizia.

Poiché è doveroso tenersi lontani da ogni esagerazione, non si creda che Clara Maffei deva essere posta nella storia delle donne notevoli a lato d'una Roland, d'una Récamier, d'una Cristina Belgiojoso; che fosse una mente direttrice, una di quelle regine quasi imperiose di salotti, dove i frequentatori sono, più o meno, sudditi. 
La sua potenza consisteva nell'arte, così ardua, di ricever bene, di riunire nobili elementi; di esser centro di un ordine d'idee civili, liberali, senza farne mostra. Nessuna ostentazione, nessuna posa, nessuno sforzo in lei: sembrava nata per ricevere, per guidare una conversazione eletta, per ispegnere subito abilmente gli attriti, che nel calore delle discussioni possono sorgere. L'arte del ricevere (diceva ) è l'arte del sacrificarsi. E quante volte la buona amica nostra si sacrifica ai gusti degli altri!... Era gentildonna nell'aspetto, nel discorso, nella delicata vivacità, nella scioltezza, nel gesto, nell'anima, e nella finezza con la quale ella poneva ogni nuova persona a lei presentata accanto a un compagno di attitudini, di gusti, di studii.
A' suoi occhi bruni, pensosi, bellissimi, velati spesso da mest'zia, nessuno sfuggiva; perciò fu detto ch'ella aveva... una preferenza per ciascuno. E, se scorgeva qualche amico d'umore non lieto, accorreva a lui premurosa e affettuosa. Allorché temeva che un'amica gemesse sotto il peso d'una dolorosa preoccupazione, correva a casa a trovarla, la confortava con parole soavi che penetrano nelle vie più riposte dell'animo stanco; e quante volte si offriva a soccorrerla, sfidando i pregiudizii e le cattiverie del mondo!
Tutti la chiamavano «contessa» benchè avesse sposato il poeta Andrea Maffei 

cui non aspettava il titolo di conte; ma era nata contessa Carrara-Spinelli, e   nessuna   contessa  d'Europa meritava più di lei quel titolo, tributato più in omaggio alle sue qualità squisite che alla sua  nascita.

Clara Maffei nacque a Bergamo, patria d'un'al-tra dama amica di numerosi poeti e sapienti, la poetessa Paolina Secco Suardo-Grismondi, la buona Lesbia Cidonia del Mascheroni, lodata dal Voltaire.
Dall'atto di battesimo si rileva che Elena Chiara Maria Antonia Carrara-Spinelli, figlia dei conti Giovanni Battista e Ottavia Gàmbara, coniugi, vide la luce il giorno 13 marzo del 1814, in quella città, e precisamente nella «parrocchia di Sant'Agata nel Carmine ».
Il padre di Clara, ottima pasta d'uomo, poeta di classiche eleganze e pedagogista, insegnava lettere in primarie case patrizie di Milano. A' suoi tempi, godeva di bella fama letteraria; oggi, il suo nome è dimenticato. Nessuno si è occupato finora di questo scrittore lombardo che vestiva di elette forme eletti sentimenti; di questo tragèdo, che affollava i teatri più cospicui d'Italia. Ma ahimè! sul teatro presto si muore, e le sue tragedie morirono prima di lui.
Egli discendeva dai Carrara di Bergamo ( l'ultimo dei Carrara di Padova cadde, nel 1435, sotto la scure dei Veneziani) e precisamente dal ramo dei Carrara-Spinelli di Clusone, che avea ottenuto nel 1721 dalla Repubblica Veneta il titolo di conte per ispeciali benemerenze acquistate in Svizzera. A loro spese ( dice il « Libro d'oro dei veri titolati della Serenissima Repubblica), i Carrara-Spinelli avean lavorato per il « buon successo dell'alleanza stabilita con quei Cantoni » e s'erano adoperati « nelle moleste turbolenze della Terraferma nell'occasione de'   passaggi   delle  truppe  di  estere  Corone ».             «
Anche il padre del nostro gentiluomo-poeta (esso pure nato a Clusone, dilettavasi di poesia, ch'era lo sport di  quel  tempo.                            ,
Sparsi in volumi, in volumetti e nei periodici let-terarii d'allora, si trovano almeno trenta lavori del padre di Clara Maffei. Le compagnie tragiche (correva la moda delle tragedie come oggi delle «po-chades » ) gareggiavano nel rappresentare, senza dargli un soldo di compenso, la sua « Isabella di Lara, Gli Arsacidi, Davide, Guido della Torre»; tutte tragedie di stampo alfierano recitate da attori alfierani, tiranni e vittime frementi, che a qualche solitario patriota facevan pensare, con acre amarezza, ad altri tiranni, ad altre vittime... non ideali purtroppo. Nelle odi, egli imitò felicemente ora il Parini, ora il Fantoni. Lasciò una versione dell'epitalamio di Catullo, delle «Georgiche» di Virgiglio, del «Ra-damisto » tragedia del Crébillon. Inneggiò alle nozze di Napoleone I; ed esaltò il generale austriaco Bubna perchè liberò il Piemonte dalle orde giacobine. Sciolse un carme all'«Arco della pace» di Milano, un « Canto ad amore », e un sospiro alla felicità domestica, che il poveretto non godeva troppo con quella moglie sua, irrequieta, ardente. Ei cantava:
Non è sempre di lagrime
Misero albergo la terrena valle,
Se cara donna al roseo
Labbro, all'ondante su le nivee spalle
Chioma ed al guardo che beando va,

Aggiunge ancor la gemina
Leggiadra prole, che s'abbella e cresce, 
Da cui se con ingenuo 
Sorriso pueril baci ti mesce, 
La celeste tu suggi voluttè.

Le sue prose educative contengono consigli preziosi, frutto di esperienza lunga, e forse amara... Apparve nel 1841 l'ultima opera sua, specchio dell'animo rivolto a religiosi pensieri: ò un «Diario ascetico », lutto meditazioni, preci, salmi penitenziali.
Al pari di tutti o quasi tutti i patrizi lombardo-veneti del tempo, il padre di Clara si fece riconfermare dal governo austriaco il titolo di conte, che gli apriva molte porte: eppure non isfoggiava le borie d'altri nobili flagellati dal Parini e dai Porta. Era un patrizio del tipo bonario. Aveva occhi piccoli tagliati a mandorla, capelli ricciuti, naso lungo, mento grosso mezzo sepolto sotto le volute del cravattone di moda, alla Goethe. Bonario il suo aspetto, ma raffinato il suo sentire. Insegnò alla figlia Clara come una gentildonna deve ricevere gli amici: è una pagina, che la figlia, col suo sottile discernimento, deve avere meditata; certo ella ne seguì i consìgli; e devono seguirli tutte le signore chi vogliono  ricever  bene:

«La libertà della buona conversazione non si gode dalle signore che in casa loro: se non che, per fruire di così schietto passatempo, bisogna por giù quel sostenuto e quel contegnoso che a favellare non  invita, e mette quasi in soggezione  colui che avrebbe voglia di conversare. Se la tua conversazione è pel  consorzio dell'amicizia e del merito, puoi sbandire da essa tutti quei riguardi che chiamansi pregiudizii,  i quali inceppano un conversare allegro e disinvolto.  Talora le gentildonne rugose, che hanno lo spirito di vent'anni, sono meglio vedute e frequentate che le giovani fresche ed eleganti ».

L'ottimo  gentiluomo era nato a insegnare.  A Milano,  guidò l'educazione del primogenito della duchessa Camilla Litta Visconti-Arese, nata contessa Lomellini di Tabarca, dama di palazzo dell'imperatrice d'Austria. Da ciò ebbe origine l'amicizia che la contessa Clara nutrì fino all'ultimo suo giorno pei Litta.   Ciambellani e principi dell'impero   Austriaco,  i Litta  erano amici del conte Carrara-Spinelli, che non inclinava punto a lodare i moti democratici, peggio  poi i moti demagogici a' quali avea dovuto  assistere.  Così non lodò il duca Pompeo Litta,   quando   (prima della contessa Lomellini)  volle impalmare, all'ombra dell'albero della libertà, un'americana; finita la rivoluzione e abbattuto l'albero,  il  duca si scordò  della figlia d'oltremare, che tornò in America;  ma gliene erano
rimasti due figli.
La  madre di Clara, contessa Ottavia Gàmbara, discendeva da  patrizii  ancor più rivoluzionarii  del duca Pompeo Litta. Il genitore della contessa Ottavia si segnalò a Brescia per le sue scalmane a 
favore di quel « delirium tremens » che fu la Repubblica Cisalpina.  Racconta un altro Litta, lo storico Pompeo, negli alberi genealogici delle «Famiglie celebri italiane », che quel nobiluomo, nel mutamento civile del 1797  che fu de' primi che distruggessero lo stemma patrizio. Lo stemma dei Gàmbara consisteva in  uno scudo con un bel gambero rosso in mezzo.  Questo gambero, simbolo di regresso, e l'aquila nera a due teste coronate, simbolo di prepotenza,  che sormontava lo scudo garbavano così poco al conte, che s'affrettò a deporre, nelle mani plebee del Governo provvisorio, stemma e diritti feudali. Ma quanti reazionarii del più bel nero diventavano repubblicani del più bel vermiglio, attraverso il fuoco delle meteoriche rivoluzioni! É l'eterna storia del gambero: casca bruno nella pentola e n'esce rosso.
Questo conte demagogo, non ostante le sue smanie sovvertitrici, era un cuor d'oro. Illibati i suoi costumi, inesausta la sua carità verso i poveri. Appassionato pe' fiori, un giorno, mondando una rosa, si punse. Non curò la puntura, ammalò alla mano che non volle gli fosse amputata, e ne morì nel 1805 a quarantun anno, lasciando due figlie: Teresa e Ottavia, la madre appunto della contessa Clara  Maffei.
Teresa, maritata a un elegante scudiero d'Eugenio Beauharnais, visse ritirata dal mondo, modesta, schietta, benefica; fiore ch'esalava (avrebbe detto un poeta romantico) il suo profumo nell'ombra. Morì demente in seguito a un cattivo parto, nel 1834. Ottavia, che sposò il conte Giambattista Carrara-Spinelli raccontava alla figlia Clara, bambina, le virtù di questa povera zia Teresa; ma altre cose le raccontava la madre:
— Tu ti chiami Chiarina in memoria della poetessa  Chiara Trinali,  mia madre.
Questa Trinali era una facile verseggiatrice della scuola anacreontica del Vittorelli, il sospiroso poetino,  cantor d'Irene, cantor della luna:

Guarda che bianca  Luna? 
Guarda che notte azzurra 
Un'aura non sussurra, 
Non tremola uno stel

La virtuosa poetessa Veronica Gàmbara, splendore delle donne italiche nel Cinquecento, apparteneva anch'ella alla casa della madre di Clara Maffei: e nasceva in Pratalboino, feudo della famiglia Gàmbara sul bresciano. Vi appartenevano anche una beata, Gàmbara Costa, un Lorenzo Gàmbara, poeta latino, due cardinali, e un terribile feudatario, un bandito,  morto  nel  1804.
Il conte Alemanno Gàmbara, del castello di Pratalboino s'era formato un nido temuto, co' suoi bravi, appartenenti a quella razza che, come riferisce lo Stendhal nel «Rome Naples et Florence», al principio di questo secolo nei dintorni di Brescia era tutt'altro che sterminata dalla gendarmeria di Napoleone lanciata a darle la caccia. Il volgo parlava di trabochetti spaventosi in quel maniero, del quale rimasero solo poche rovine, ludibrio dei venti. Era vero che in quel castello si commettevano orribili violenze. Una volta, alcuni birri veneziani entrano nelle terre del conte per isnidarne un malvivente. Il conte li lascia venire e li invita ad allegro banchetto; ma, al domani, un pesante carro coperto di cavoli entra in Brescia, e sotto que' cavoli stanno ammucchiate le salme dei gendarmi trucidati. Eppure quest'uomo sanguinario usava modi cortesi, soccorreva i poverelli, e pronto li difendeva dall'altrui prepotenza. Sdegnando di sposare donne ricche, s'impalmò con una marchesa povera dei Carbonara di Genova. Costei s'incapricciò poi d'un conte Maniscalchi di Verona e condusse vita licenziosa colmando d'amarezza il cuore del marito che l'amava. Bandito dalla Repubblica Veneta, Alemanno Gàmbara (il quale poteva servir di modello ai « Masnadieri » di Federico Schiller ) ottenne alla fine perdono e passò da Zara a Chioggia, quindi rivide la patria, e morì vecchio leone desolato nel castello di Pratalboino, testimone delle sue baldanze e de' suoi delitti.
I Gàmbara di Brescia diedero un altro ardente ribello alla Repubblica Veneta, quel conte Francesco (uno dei tre figliuoli d'Alemanno) il quale al primo turbine della licenza giacobina, alla testa di un'orda di bergamaschi e di bresciani, irruppe a Salò, vi rovesciò il Leone di San Marco, fece prigione il rappresentante Veneto, Almorò Condul-mer, disarmò gli Schiavoni, e aperse le carceri. Egli rideva nel veder «tremare la sedia della vecchia verginella» (sue parole), la già superba Venezia. Ma Salò e i dintorni insorsero contro di lui; ed egli cadde prigioniero. La Serenissima (in mezzo a quei torbidi aveva il coraggio di chiamarsi ancora così!) si preparava a tagliargli la testa; ma Bo-naparte, «quell'ommett del cappellinn», come lo chiamava Carlo Porta, giunse in tempo a salvarlo.

Il cittadino Francesco Gàmbara fu uno de' cinque che recarono in pompa magna a Napoleone la nomina a presidente della Repubblica Cisalpina. Più tardi, si consacrò tutto alla letteratura: scrisse sui fatti contemporanei, compose un poema sulla lega di Cambrai contro Venezia, sfucinò una folla di tragedie e di commedie, fra cui... «commedie ad uso degli stabilimenti di educazione ! » Era scritto lassù che questo figlio della rivoluzione dovesse finire in mezzo a una rivoluzione: morì a Brescia nel 1848.
A ben più alta scuola di libertà fu educata, per fortuna, Clara Carrara-Spinelli; ben altri ideali alimentò in quell'anima di bambina la madre. Pure qualche goccia di quel sangue ribelle scorreva nelle sue vene, e, a quando a quando, nella dolcezza consueta di lei, quel sangue ribolliva, invermigliando il piccolo pallido vólto di fata sorridente.
Nel 1837, quando il Balzac (allora nell'apogeo della gloria) venne a visitare la contessa Clara, questa gli suggerì il titolo d'un racconto, ch'era il cognome della venerata marde di lei, Gàmbara: il racconto « Gàmbara del Balzac uscì alla luce in quello  stesso  anno.


CAPITOLO II

La contessa Clara in una lettera a Giulio Carcano, il gentil novelliere degli umili, confessava che l'infanzia era stata la «sola epoca non infelicissima della  sua vita »...
Fu affidata al Collegio degli Angeli di Verona dalla madre, che la raccomandava con molte lagrime a una dama veronese, la contessa Mosconi, e alla gentil figliuola di costei, l'adorabile Teresa, la quale studiava pure in quel collegio e contava sei anni di più della nuova sua piccola amica.
Le due fanciulle contrassero un'amicizia tenerissima che durò tutta la vita. Teresa Mosconi, sposata poi al conte Spiridione Papadopoli di Venezia, fu la prima, la più intima e la più affezionata amica che la Maffei abbia avuto. In collegio, Teresa accennava alla compagna le conversazioni che la propria madre teneva col Pindemonte, con Giulio Perticari, col Monti, con altri scrittori di grido: e tali racconti accendevano in Clara il desiderio di conoscere anch'ella un giorno i poeti più celebri d'Italia. .... - 

CAPITOLO XX - Nuovo periodo del salotto - una bizzarria di Iginio Ugo Tarchetti

Intanto altri visitatori entravano in quelle sale; e il primissimo posto spetta a Graziadio Ascoli, il filologo di genio, creatore d'una scienza, di fama mondiale. Nato a Gorizia, egli attese colà, giovane assiduo, ai traffici paterni in un fiorente opificio, ma ad altre sfere il genio istintivo, irresistibile, delle lingue lo portava. Senza diplomi accademici (cioè senza allori di carta) egli, al pari di Nicolò Tommaseo, di Cesare Cantù, di Carlo Tenca, di Gabriele Rosa, potea vantarsi auto-didattico; e a quali vette volò il suo pensiero! Il suo aspetto è quello d'un biblico profeta, dall'alta fronte di linee bellissime.
Un aspetto di re merovingio avea, invece, un chiomato romanziere, al quale Clara Maffei inviava spesso, in segno d'ammirazione, quel saluto mattutino, de' fiori. Egli, al pari del Tommaseo, sorgeva a difensore della donna: quello che oggi si chiamerebbe un «féministe». Era il romantico Iginio Ugo Tarchetti,

d'Alessandria, nato nel '41; il quale proclamava al pari d'un altro mesto ingegno, Carlo Bini: «La virtù del sacrificio e dell'amore non ha limiti nel cuore della donna», non pensando quante donne sono la rovina d'uomini onesti, di oneste famiglie; ma quante altre sventurate, (è vero) sono spinte al male da noi!... Il Tarchetti era tempra d'alto scrittore; eppure dovette sacrificarsi a essere scrivano presso un'amministrazione militare. Lasciate quelle pastoie, si librò alle proprie geniali inclinazioni, lottando ancora: col bisogno; corona di spine, più sicura della corona di lauro. L'anima sua era byroniana; il dubbio la tormentava; ma aspirava a credere: «Avvi una sventura (egli diceva) che è superiore a tutte le altre, che sfugge a qualunque manifestazione di parole, che si eleva al di sopra della stessa disperazione; fredda, severa, impassibile, quasi feroce nella sua calma; ed è il dubbio, il dubbio tremendo di sé stesso. Quando si ha sacrificato tutta l'esistenza ad un solo principio : quando ci siamo composti con una sequela interminabile di dolori questo fragile edificio, ch'è il soddisfacimento e la stima di noi medesimi, allora viene spesso a collocarsi fra noi e le nostre opere una terribile convinzione: la convinzione della loro vanità, dell'inutilità e del ridicolo dei nostri sforzi! Allora vediamo come la coscienza si faccia giuoco di noi, e tutto ci si spezzi fra le mani, come i balocchi dei fanciulli ». In questa confessione, v'è tutto il Tarchetti; un ammalato morale al pari di tanti del tempo suo, una specie di Manfredo. Il suo racconto « L'innamorato della montagna » riflette lo spirito suo, anelante anch'esso alle altezze. L'espressione del suo giovane volto avea qualche cosa d'inspirato e d'augusto agli occhi di fanciulle bellissime, e bruttissime, che s'innamoravano di lui. Qualcuna, orrenda, lo perseguitò a lungo colle furie d'una irruente passione morbosa. Il Tarchetti ebbe un giorno un'idea: per fuggirla, si recò a Parma; e fece incollare sulle cantonate della città un avviso col quale egli si proponeva alle famiglie qual professore di conversazione inglese. Come mai era sorta quell'idea, a lui che, allora, non conosceva neppur una sillaba d'inglese?... Trovò una cliente, una sola: una signora attempata, che portava un cognome inglese, e sapeva benissimo parlare, dopo tanti anni, la lingua de' suoi poeti favoriti. Quella signora mandò un biglietto d'invito al Tarchetti, che si presento tosto a lei. Ella era.., Ildegarda Manin, sorella di Daniele, moglie all'inglese Meryweather, l'eroina infelice dell'«Edmenè-garda del Prati, che abbiamo trovata, a proposito di questo grande lirico, nell'ottavo capitolo. Non lieve fu lo stupore della signora nell'apprendero la confessione 
del Tarchetti come avesse pubblicato quell'avviso sulle cantonate parmensi solo... .per ispirito   «bohème»   d'avventure!
— Non sapete l'inglese?... ella gli disse. Ebbene, ve lo insegnerò io. — E glielo insegnò. Così da maestro da burla Iginio Ugo Tarchetti divenne uno scolaro sul serio, e imparò bene quella lingua, da colei che era rimasta presa da materna simpatia per il pallido ben chiomato giovane sognante, senza tetto e senza meta.
Clara Maiffei, indulgente, perdonò al Tarchetti quanto egli scrisse contro la vita militare, nella, quale ella vantava a buon diritti prodi amici. Ella avrebbe voluto che quel giovane non fantasticasse troppo, ma ne ammirava i pregi. Quando, nel 25 marzo 1889, egli morì di tifo, non ancora trentenne, la contessa seguì la bara, esprimendo a tutti il proprio acerbo dolore nel vedere uccise con lui tante speranze. 

Al domani de' funerali, un altro romanziere, l'intimo amico del Tarchetti, Salvatore Farina, si recò commosso a ringraziarla del tributo reso al povero giovane; ma ella non voleva ringraziamenti; e, accogliendo l'autor d'« Amore bendato » mentre stava  abbigliandosi davanti  allo specchio, gli  disse:
— Venite pure avanti, Farina; così vedrete che non mi tingo.

* ed. Lorenzo Rinfreschi di A. Piacenza 1914