Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

martedì 19 gennaio 2016

Biografia di Domenico Tempio - Vincenzo Percolla ed. 1867

"Me non nato a percotere Le dure illustri porte, Nudo accorrà, ma libero Il regno della morte. Nò , ricchezze, nè onore Con frode o con viltà, Il secol venditore Mercar non mi vedrà".
PARINI


Domenico Tempio (Catania22 agosto 1750 – Catania4 febbraio 1821)



Chi sei ? chi fosti ?
Chi giudicar ti può? Qual fia la lode Degna di te ?


Il Tempio è famoso fra quanti vati illustrarono l'alloro nel sicolo dialetto.
Egli nasceva in una terra ove tutto è poesia : nasceva nella metà  del  secolo decimottavo in Catania, culla di grandi Uomini e di quel Cigno  peregrino i cui canti melodiosi avranno un eco in ogni cuore finché il sole starà. Sin dall'infanzia mostrò  esser dotato di un' anima focosa e concitata, e divenne il fanciullo più frugolino del suo vicinato. Crebbe;   ed il padre attese con tenera   diligenza a farlo  compiutamente istruire. Il giovinetto faceva  inarcar  le ciglia di stupore a'più schifi — Crebbe ancora—e negli studii più serii sfrenavasi ad un volo d' aquila sovra gli altri : apprese le lettere latine ed italiane, rettorica, filosofia ed i primi elementi delle scienze esatte con tale alacrità e discernimento da non temer paragone. Vero  è che  a'suoi dì qualche nube  della prisca barbarie aggravavasi tuttavia, qual massa di piombo, sulle menti d' alcuni de' nostri ; ma pure era sempre il secolo di Giangiacomo , di Montesquieu , di Voltaire , di Filangieri , di Beccaria, di Romagnosi, di Parini , di Foscolo , di Monti e di Botta — astri luminosi dell' alba d' un giorno novello ed avventuroso !.. ed una sola scintilla dell' immensa lor luce poteva sciogliere e dissipare pe' quattro venti la ruggine di cento secoli ; poteva diffondere il baleno della folgore sulle, tenebre più dense ed impermeabili della credula antichità.
Ed egli, imberbe ancora , apostatando il pessimo insegnamento, canonizzato dal prestigio della longeva ignoranza , quasi leone che da vecchia catena si sferri, seppe correre dietro il genio filosofico di quel secolo rigeneratore ; e lo seguì con maggior lena rinvigorito poi dall' esempio e dalla voce dell' immortal Ventimiglia e del Biscari , che , chiamando alla sant' opera il De Cosmis, il Gambino ed altri, gittarono le fondamenta d'un immenso e sublime Santuario, dove arder dovesse perenne, come il fuoco di Vesta , la face del vero sapere ; il quale, indi a non molto, dovea ripurgare delle passate scorie gl'intelletti del popolo, e richiamarli a novelli e migliori destini.
Fra tante belle conoscenze  due cose trassero a sé singolarmente il giovine Tempio : la storia e la poesia. Egli accoppiava  con bel nodo Livio ad Orazio , Tacito a Giovenale , Ovidio a Rollin, Virgilio  a  Goguet ,al Varchi, al Guicciardini, al Machiavelli. Ma quando meditò sulla Divina Commedia e sulla Gerusalemme Liberata ; quando scorse 1' Orlando Furioso ed . il Canzoniere del Cantore di Laura, oh allora vide di che poteva esser egli capace; e sentì che un torrente d'imagini gli corse ratto per le vie del cuore e della fantasia , e sentì che le sue fibra oscillavano commos se. Il Vate! egli tosto esclamò — oh il Vate   è l' eco pella voce di Dio ! — il Vate , come in una fonte d'acqua lustrale, può tergere e ripulire i costumi di un popolo ! !

Il padre volle opporsi a questa sua nobile vocazione con volerlo per sempre  dannato al penoso   studio della giurisprudenza: triste e comune sorte di quasi la più parte de'poeti più insigni ! — Ma il nostro Domenico si sarebbe contentato di stare inceppato piuttosto in una galea al   remo,   che rassegnarsi a quel cenno paterno : e difatti anziché dilombarsi curvo sulle polverose glosse del gelido Accursio, egli leggeva di celato il sommo Alighieri ed il Tasso. Talora   voleva esercitarsi aringando, come a pien popolo, o innanzi a Magistrati e trovava d'avere invece tradotto, senza avvedersene , un' egloga di Virgilio, un'ode del Venosino.   Sdegnatosi impertanto con se medesimo, sforzavasi risolutamente di dar sempre il bando alle muse;  e ad ogni istante gli rigurgitavano nel cuore rime e d'ogni maniera versi— e   gli   sgorgavano indi incessantemente dal labbro. Sì, egli  era   tradito dal suo genio : egli era Poeta  nato !  Ma  le  impressioni che aprivano  la sua  fantasia a quei   siffatti  slanci , non erano gli spiriti e i nani malefici, non gli spettri e le anime dannate , come suole ne' giovani. ma erano quelle della stessa natura ; erano le bellezze del mondo   esteriore ;   erano le scene   che   appresentano magnificamente il cielo , la terra ed il mare. Né potea rincontrarsi in oggetto della creazione senza sentirsi un interno guizzo di vene, senza inebbriarsi d'una gioia secreta, che l'invogliava ad ardue cose e gli suggeriva ad un tempo l'idea e la nota. Gli astri, gli alberi, le pianure , i colli, gli uomini, i monumenti avevan per lui una favella da pochi intesa ,   da nessuno udita.  In   essi  leggeva le speranze   d'una vita-avvenire, le sventure e le glorie d'un tempo che fu, i fasti ed i rovesci de' secoli — e il presente , e il futuro, e l'ispirazione, e l'armonia, e l'amore e Dio — Dio ch' è di tutte   cose  spirituali e corporee , domestiche e civili , profane e sacre alto ed   unico fondamento e sorgente.
Egli era dunque preso delle bellezze della natura obbiettiva ; n' era il pittore — n' era il cantore, ed in esse scopriva nuovi tesori poetici. Egli avea letto i classici ; e credendo d'imitarne le bellezze , creava anche da sé; s'ingegnava di ritrarre da'classici, perchè allora non era sorta questa moderna scuola che, scimiando dagli oltramontani , ha inaridito le sorgenti del vero bello , ed ha l'oro al fango sacrilegamente rimestato.
Ma poche furono le delizie della sua giovinezza. Giunse il tempo del disinganno doloroso della vita, e tutto gli parve cambiar di colore sotto il suo sguardo? stato abbastanza illuso : gli cadde la benda dagli occhi, e tosto s'accorse come dalla perfìdia degli uomini nasca quell' amara solitudine di cuore che ti rende misantropo. Allora quest'immenso teatro di maraviglie che ne circonda , più non valse a sedurlo gran fatto ; nel cielo più non mirò che un orribile campo di fiere tempeste ; nella terra non udì che gemiti e grida disperate ; nelle acque non trovò che marosi , naufragi e morte.
Ogni oggetto della natura perdette il suo primiero incanto — tutto tornò muto, freddo, nudo senza quelle foglie d'oro da cui era stato orpellato : da ciò una vita tutta privata e diffidente; un'esistenza più concentrata e solitaria — e l'anima dissugata, rannicchiandosi in sé stessa , non cominciò a pascersi che di cupe meditazioni. Piegò lo sguardo al suo secolo, e che vide? — vide la tirannide in seggio — vide l'idra feudale, non ancora abbatutta , saettar dalle fauci le sue lingue trisulci ed insanguinate, e guatar minacciosa e furente ; vide le leggi guerce, senza nerbo, in duplice linguaggio , e quasi sempre in gergo ; la libertà civile compressa , e divenuta un vocabolo senza realità di concetto ; le distinzioni di razza e di sangue dominanti oltremodo, come se i Baroni fossero preadamiti o non isfognassero egualmente dalla comun madre ; vide il popolo, perchè ignorante e senza esistenza politica , soperchiato dalla miseria e da' potenti : il bene pubblico fatto patrimonio esclusivo di alcuni soli voracissimi ; l' industria smessa affatto ; il vizio infame insignito d' onori e premi mal tolti e venali ; la virtù iniquamente bestemmiata. Ah sì, queste furono le condizioni in che Tempio dovette vivere — se non che la luce del buon insegnamento veniva a poco a poco rischiarando le nubi dell'ignoranza e molcendo di salutifero balsamo le comuni piaghe inasprite.

Egli n'ebbe l'anima vivamente commossa;   quindi sin d'allora non vagheggiò che un pensiero—quello di giovare dell'ingegno la patria ,   poiché ogni altro argomento gli era vano. Ma qual via doveva  egli tenere ? — porsi a scranna  e dettare alteramente  pre-cetti di morale e di virtù? svolger massime filosofiche in prò del ben pubblico e contro il vizio ?  Mai no : egli sapeva che tante volte gl' Istitutori delle cattedre non fanno che dire e gridare al deserto ; egli sapeva che i migliori libri non sono neanche scartabellati — Ma come dunque riuscir nell'intento? Col solo diletto — col poetare. Tolse a guida Flacco ed Aristofane — Esopo ed Anacreonte — Borni e Luciano, ed eccolo divenuto poeta civile —poeta nazionale. Pinse  al vivo nella  sua lingua vernacola il carattere , i costumi, i pregiudizii, le magagne  del   suo paese ; e ruzzando e ridendo svergheggiò acremente il vizio e la prepotenza ;  rese un diadema   di venerazione alla  povera virtù: turò il simulato labbro alla vile calunnia, profferse tributo di laude alla voce del Saggio, che tante fiate è derisa.
E sebbene il più delle sue opere da vane giullerie abbia pigliato materia ; sebbene gli argomenti da cui trae cagione di scrivere, non siano che alcuni casi ed aneddoti dappoco e sterilissimi , pure è colà che tu ammiri il suo genio impareggiabile , la sua immaginazione feconda , il suo estro poetico vivificante , la sua originalità ne'pensieri, nello stile e nel vezzo di berteggiare tutto suo ; è colà che rinvieni tanti eletti fiori dì filosofia e di morale sparsi e serrati in mezzo al fitto d' una messe di serio e di giocoso, d'eroico, di burlesco e di mordacità a bello studio gaia e bicipite, che sorprende e diletta, come nelle opere più gustose e venuste de' latini e de' greci. Ma qui pure i suoi versi ricchi di frizzi e di bei motti scorrono talvolta tinti da una vena di bile magnanima, che stringeva da gran pezza le viscere del vate; ed anziché appalesarti un' anima spensierata e folleggiante, ti rivela un genio indomito per dispetto ed estremamente irritato e quasi presso a consumare sè stesso. Nella sua poesia dunque sta tutta accolta la storia del suo cuore , delle sue passioni . de'suoi patimenti , delle sue speranze : ma sempre vi campeggia tuttavia la natura fisica, che fa spesso germogliare in lui gli ardimentosi concetti; egli non pensa e non sente che a seconda le idee esterne che gli entran per gli occhi. Di bellezze morali non è già scevro , ma le fisiche lo prendono maggiormente. Il creato si è aperto a' suoi piedi ; egli vi si slancia, lo percorre ... ed osserva, dipinge e canta versando , come da inesausta fonte , poesia, critica, popolarità, sarcasmi, amore, entusiasmo e derisione ; canta stampando ovunque le orme del suo Genio creatore. Vero è che nelle sue poesie sono scurrilità e lascivie: ma egli è forse peccato il mescer talvolta (per dirla con Flacco) stultitiam con-sitiis brevem?—E poi non è per insozzarci di quelle lordure ch' egli le mette in mostra : è solo perchè dalle turpitudini altrui l'animo nostro rifugga, ed al vivere onesto si componga.
Le composizioni del Tempio sono di vario genere, di vario metro, di vario colore. Trattò l'ode, l'anacreontica, il ditirambo, l'idillio, l'apologo, l'epitalamio, il dramma, il poema e tutto trattò : percorse tutti i metri — toccò tutte le corde. E qui è piano e festevole—là è satirico e maestro di frizzi ; qui franco , elevato e serio — là dolce ed amabile: qui brioso e lascivetto —là cantore e pittore: o per dir meglio ora è Virgilio ed ora Flacco—quando Teocrito e quando Berni—ora Aristofane ed ora Redi-ora Tasso ed ora Lucrezio. Oh davvero ch'egli era poeta
per eccellenza ! !
Ma vediamolo col fatto ; gustiamo a reciso qualche brano delle sue opere. Ecco il principio di un' Ode saffica sopra la necessità origine d'ogni bene, ch'è una bella imitazione dell' ode di Orazio — Iam satis terris nivis ec.

Ccu tirrimoti, strepiti e ruini 
Focu a li mini dunanu li trona, ; 
Lenta è la zona, e di lu celu rutti 
Su l' aquidutti. 
Giovi sdignatu fremi furibunnu, 
Voli lu munnu subbissari sanu , 
Ed a dui manu scarrica saitti 
'Ntra li suffitti. 
Eulu tutti scatinau li venti, 
Nè foru lenti , già pri l' aria sparsi, 
Feri a truzzarsi 'ntra li soi cuntrasti 
Comu li crasti. 
Lu gran Nettunu furiusu arraggia 
Contra la spiaggia , e lu marinu sali 
Va'ntra sipali, e pri la lunga praja 
Sborrica raja. 
Gonfiu Simetu li campagni scupa, 
Casi sdirrupa, gnuttica paghiara, 
E li massara , comu li larunchi, 
Natanu unchi. 
Cala Dittainu, e comu avissi sennu, 
(Giovi dicennu, iu non ci accunsentu) 
Va viulentu, e arrobba a li vicini 
Porci e gaddini. 
Dà Gurnalonga ad iddu , chi si unisci, 
Di petri lisci lu tributu,, qnannu 
Jungi, tirannu scanni, vanchi e tauli 
Pipi a li cauli !
Lu Judiceddu suttirraniu sbraca
Ogni ccruaca, e pr'unni curri e. passa 
Prijnchi, e scassa ccu lu so futuri 
Li sepulturi. 
Tutti li morti 'ntra la lorda scuma 
Natanu 'nsuma , e cui non sa natari, 
Non c'è chi fari, chi annijatu resta 
Da la timpesta.

Se non fosse per tema di riuscir troppo lungo, vorrei qui trascriver per intero questa bellissima ode saffica , in cui risplendono tutti i pregi d' una poesia veramente originale. Ma dal poco che qui ho recato , può ciascuno veder di che tempra siano codesti versi Tempiani, i quali portano in sé stessi l' impronta del genio. Queste prime strofe sono altrettante perle. Il Viceré Caraccioli se le faceva ripetere spesso dall'Arciprete Scrina, come cosa oltremodo pregevole ; e Saverio Mattei, il traduttore de'Salmi , non sapeva ristarsi dal leggerle di sovente e declamarle.
Né men belli per freschezza e novità d'immagini sono a stimarsi i due Ditirambi sul vino, de'quali uno ha molte belle imitazioni del Bacco in Toscana di Redi,  il primo comincia così :

Era la notti e già faceva scuru ; 
Ed ogni armali o sia di pinna o pilu 
A lu so nidu, o 'ntra lu jazzu duru 
Aggiuccatu durmeva , e facia chitu , 
Quannu Varvazza succidu ed impuru 
Pri la sudura. chi scurreva a filu, 
Doppu aviri durmutu una jurnata 
Si susi , e fa una longa pisciazzata

Nel secondo Ditirambo si hanno molte bellezze poetiche in diverso metro, ch'io qui tralascio per brevità Ne' Drammi poi e ne' Dialoghi il nostro Tempio ha fatto rivivere Aristofane,   Nel poemetto — Lu  Veru Piaciri — riluce una vivacità di colorito , che solo l'arte d'un diligente pennello poetico può dare. Nei-1' Ode Li Vasuni ha tutta la grazia , il brio e la delicatezza d' Anacreonte. Nelle favole ha tutta l' ingenuità di La-Fontaine e le grazie del Passeroni; e seno fra esse da ricordarsi come scelte : Lu Sdegnu, — La Superbia— La Faccitosta ed altre poche.
Nè alle poesie messe a stampa van di sotto per numero o per pregio le cose inedite ; le quali se più eleganti o più immaginose, se più nuove o più terse siano delle prime , non è facile giudicare. Sono fra esse dialoghi , canzoni , drammi e sonetti italiani e vernacoli, che ogni buon poeta stimerebbe un gran bene poterli dir suoi. È però rincrescevole che molti di questi componimenti, per le lascivie onde son lorde , non potranno veder mai la luce del giorno; sebbene l'autore non abbia tralasciato di cavar sempre da esse utilità morali ; e lo dice in aperto egli stesso:

Scrivu chi sunnu l' omini,
E fazzu a la morali
Di lu presenti seculu
Processi criminali. 
A quali signu arrivanu
Mia musa si proponi
Dirvi li brutti vizii
E la corruzioni ; 
Chi di la Culpa laidi
Tanti l' aspetti sunu,
Chi basta sulu pingirla
Per abborrirla ognunu.


Ma le ali del genio di lui non potevano raccogliersi così tosto lassù dove sale la più parte de'vati paghi dello scarso favor delle Muse ad essi impartito, e stanchi dell'altalena durata. No; egli qual aquila peregrina, poteva animoso slanciarsi in una plaga più sublime , poteva spaziare pel firmamento , varcare gli spazi infiniti delle sfere, e furando la fiamma di co-lassù , scuotere il mondo di maraviglia e d' ammirazione. E venne l'ora: e che aspetti? gli disse il genio — Scrivi e crea : egli scrisse , e creò un gran poema , la Carestia : il cui soggetto è la sommossa popolare seguìta in  Catania nel 1798 per le dolorose conseguenze della carestia di quell' anno. È qui da notare che quel poema non fu dapprima fatto a bello studio e con proposito, ma quasi di repente nato nel-1' occasione ch' egli scriveva una lirica a Nice sul cen-nato argomento. Scelse perciò il metro settenario col suo sdrucciolo alternato, proprio delle brevi composizioni di questo genere ; ma da che vide l'autore crescere mano mano il suo componimento, pensò , per non perdere il già fatto, di andare innanzi senz' altro e distendere tutti quei casi del tumulto, come gli capitavano a mente. Se è così , com' è verissimo , egli fece d' uno zipolo una lancia, come suol dirsi : ed oh le singolari bellezze che per ogni canto, per ogni strofe della sublime epopea rincontransi!. Sicché ben alta è la venerazione che la patria tributa alla Carestia del nostro Vate. Egli meritava di già una corona d' alloro per le sue rime : ma i venti canti del suo Poema son tuttavia altrettanti raggi di gloria pe'quali egli immensamente rifulge.
Tempio, scriveva il Prof. Longo , è il poeta della ragione, della filosofia, dell'immaginazione ; e ciò non pertanto è il Poeta del suo tempo e del suo paese. Egli fa servire le sue cognizioni storiche, filosofiche, politiche a dipingere gli uomini quali sono in sé stessi, co'loro vizi, colle loro virtù, secondo lo stato dei lumi e della civiltà e secondo l'educazione buona o rea, ricevuta nella puerizia, e l'istruzione grossolana o raffinata, propria, di ciascun ceto e di ciascuna condizione di persone. Tempio è il pittore degli uomini e de' costumi del suo tempo : voi nelle sue composizioni avete, la storia del suo paese , la storia di lui medesimo. I suoi argomenti non trattano che soggetti peculiari, non tramandano che avvenimenti, che aneddoti del suolo che lo vide nascere, e ch' egli sembra non avere abbandonato giammai. Che miglior cosa de'suoi Ditirambi? che cosa più animata, più graziosa , più piccante de' suoi Drammi ? — Che cosa più ardita , più pittoresca della sua ode saffica : La Necessità origine d'ogni bene? che maggior varietà ne'suoi poemetti ? che più vasto soggetto della sua Carestia-poema nazionale, poema che non è né classico né romantico , poema indefinibile , poema della più ardua difficoltà, poema ch'è nel tempo stesso epico, lirico, comico, allegorico e satirico?.


Il nostro Poeta visse  quasi nella solitudine.
Come appena s' avvide a quante bassezze ed a quanti pericoli conduca sovente il vivere in seno all' umana società , volontariamente si ritrasse dal consorzio degli uomini per menare un vivere più tranquillo e sicuro fra le sue mura domestiche. La sua vita civile quindi non presenta nessuna circostanza notevole: egli non ambì cariche ed onori ; visse con le sue poche fortune , e quasi dimentico de' raggiri di questo basso mondo. Non usciva di casa che rarissime volte , passando gran parte de' suoi giorni fra un crocchio di veri amici, che ne apprezzavano l'ingegno ed il merito : ed era fra essi ch' egli, ne' luoghi di ritrovo , dando spesso, per loro inchiesta, libero sfogo alla sua infiammata fantasia , creava quelle sue portentose liriche— Ebbe a lottare con l'avversa fortuna; e negli ultimi anni di sua vita si trovò in tali strettezze, che gli amici (siccome era debito loro) ebbero a soccorrerlo con una mensile contribuzione, sebbene egli fruisse altresì di parecchi assegnamenti vitalizii sulla Mensa Vescovile e sul patrimonio del Municipio. L'amicizia e la gratitudine furono da lui come cose
celesti venerate. Amico de' dotti e de' grandi del suo tempo , il merito vero di essi lodò ne' suoi Canti; ma non fu adulatore giammai ;  perchè  il poetico fuoco nell'adulazione si spegne, quasi face ell'onda. Fu marito e padre tenerissimo; fu cittadino integerrimo, e non aspirò che alla libertà della patria.
Era di complessione piuttosto vigorosa e d'alta statura ; chiaro e schietto di cuore e d' un carattere un pò sentito : il suo volto era notevole per una cert'aria di nobile gravità , che imponeva il rispetto e la confidenza : ma nel suo sguardo acutissimo dinotava un ingegno prepotente — un ingegno capace di Usare lo splendore de'cieli e le maraviglie della terra senza smarrirsi o titubare. Era lo sguardo del poeta che infoca la musa, come per leggere nel futuro.

 Il giorno 4 Febbraio del 1821 fu quello in cui l'anima  dell' ispiralo Tempio passò a sfera migliore ; e con lui,   starei per  dire ,   s'estinse  la nostra musa vernacola. La sua salma ebbe, sepoltura nella Chiesa di S. Giov. Battista: ma non un monumento che faccia a' posteri onorevole ricordanza del suo gran nome. Questo è il destino a cui gli uomini   ingrati   dannarono sempre la memoria de'Grandi. Ma tu, o Catania vetusta, madre di Eroi, madre  di sovrani intelletti, placa le Ombre degl' Illustri tuoi figli ! Onora il nome di Domenico Tempio, che per te è nome di gloria. Leva tra'lauri ed i trofei che li mercano riverenza dovunque, il simulacro al tuo gran Vate — al tuo Dante ! e ne avrai plauso altissimo non che dall' Italia , dalle più culte Nazioni del mondo.
                                                                                                       Catania 1867  Vincenzo Percolla 

martedì 22 dicembre 2015

Mario Rapisardi e l'amore di Amelia Poniatowski


(...)Casa Rapisardi lungi dai rumori e dalle beghe, era un tempio non dell'arte soltanto, entro il quale folgorasse come in un mondo chiuso eppure in relazione vivente e continua con tutto il mondo intellettuale, non solo italiano ma mondiale, il genio dell'artefice illustre, del pensatore ribelle; all'ombra della quercia immane, si effondeva altresì il profumo dli una, grazia fatta di soavità e di amore, la grazia, inestinguibile di Amelia Poniatowski. Chi frequentò quella, casa e mi esprime i ricordi ineffabili e le baldanze di una prima giovinezza, aperta tutta alle idealità dell'arte e ai fremiti generosi della vita, e che la vita poi afferrò e costrinse — ahimè — nelle sue ferree morse tanto lungi, come egli mi diceva rimpiangendo, da quei sogni quasi divini, un amico e discepolo caro al Maestro e Poeta per temperamento, per ingegno e per cuore, Francesco Nicolosi Raspagliesi, quella casa mi descrive come il ridotto delle muse impersonate in una, che delle antiche avesse avuto il vivido ingegno e delle nostre moderne lo spirito di umiltà, di abnegazione che va oltre ogni consueto limite e che comprende in tutta l'estensione della parola il vivere una vita per un amore. 

Amelia Poniatowski in quanti la conobbero suscitò fervida ammirazione per le qualità rare della mente e del cuore, che intorno al Poeta per venticinque anni le fecero profondere i tesori della sua natura ricchissima; ed Alfio Tomaselli appunto, poiché il Poeta, fu spento, conobbe in lei la compagna che sola poteva interpretare il suo sentimento, e consacrò in un vincolo civile quello spirituale già esistente nell'amore che congiungeva per generosità, venerazione, devozione la compagna e lo scolaro intorno al Grande, fiaccola viva ed accesa dei più puri ed elevati sentimenti.
Alfio Tomaselli sposò Amelia Poniatowski; ma, come sempre, poiché un avverso destino sembra contrastare duramente agli umani i sogni più belli, Amelia Poniatowski in breve morì, e con la sua dipartita, mentre, se esiste un mondo dell'al di là, certamente di questo migliore e più felice, ove le anime elette si ritrovano, ella, andò a raggiungere novamente quella del Grande cui già aveva donato tanta parte di sé, lasciò bensì nella solitudine e nel pianto inconsolabile il secondo compagno il quale, forse, si era ripromesso, nella sua dedizione alla donna gentile, di darle col suo affetto quella parte di gioia ch'era potuta sfuggirle in una, vita troppo chiusa,  trascorsa senza varietà di colore presso' un uomo che, forse appunto perchè di eccezione, non era quanto a carattere d'umor sempre lieto, e riversava, come avviene, le sue inquietudini e i suoi travagli interiori, che il Rapisardi ebbe molti, anche senza volere sulla creatura più amata. Amelia Poniatowski era d'altra parte la sola, che potesse accogliere tutta la piena spesso amarissima dei vari affetti e degli orgasmi che turbavano l'animo del Rapisardi. Vissuto questi, come dice il Tomaselli, sempre fuori e di sopra dalle competizioni di piazza; schivo degli onori come anche degli strisciamenti; disgustato e diffidente in seguito alle ingiuste lotte mossegli contro da ogni sorta di avversari; contrario egli a tutte le fazioni politiche e religiose; temperamento diritto ed intero, è facile immaginare i dolori, le amarezze, i fastidi di mille generi sofferti tra le calunnie, le contumelie, gli scandali attraverso la doppia bruciatura del suo «Lucifero», eseguita l'una dal tipografo Barbèra, l'altra dall'Arcivescovo di Catania, e le lotte per la pubblicazione del « Giobbe », e quelle per le « Poesie religiose », e i sequestri delle poesie più significative sui vari giornali, e i processi, da cui a mala pena poterono salvarlo devoti ed illustri amici, quali il Bovio e il Saffi e l'insigne Graziadio Ascoli.

Amelia divideva con lui ogni, amarezza ed ogni fatica. Tra le «amorevoli gentilezze» e le "affabilità preziose" di lei, egli appariva più florido, diveniva più bello. Allietava ella in ogni modo le sue solitudini: gli leggeva libri, redigeva e raccoglieva corrispondenza, svegliava i silenzi con la musica fascinatrice, era insomma l'anima vivente, pietosa e giuliva della tranquilla casa lungi dai rumori, spa-ziante, « tra gli orti e i campi aprici » —come dice lo stesso Poeta — ove traevano in pellegrinaggio nella raccolta ombra uomini insigni di tutti i paesi ed amici e discepoli, ma ove trascorrevansi altresì lunghissimi periodi di solitudine, e da cui egli il Maestro non uscì affatto più, nemmeno in carrozza, per tutti gli ultimi anni, schivando quasi con passione di vedere ogni gente, di far conoscenze nuove, infastidito da ogni sorta di malanni che gli vietavano la gioia, infastidito dalla stessa luce che, pur troppo, quantunque egli amasse moltissimo, gli era divenuta insopportabile, accrescendogli la quasi quotidiana emicrania. L'impareggiabile creatura assisteva il Poeta in tutto. Dal dì che lo conobbe, 20 maggio 1885, giorno che il Rapisardi ricorda con indicibile emozione :

O fausto giorno
Che consentisti di venirmi a fianco !
Per incanto d'amor giovine torno

sino al giorno ultimo della sua vita, 4 gennaio 1911, ella gli consacrò l'esistenza, facendo di due vite, quella del Maestro declinante e battuta dall'avverso destino, e la sua, fiorente e ricca d'ogni celeste dono, di bellezza, di grazia, d'intelligente e spirituale bontà, una vita unica e sola, venendo ringagliardita la prima di tutti i tesori di giovinezza e di amore che erano rinchiusi nella seconda. 
Alla vicinanza di Amelia, Rapisardi riaprì l'anima, come un fiore. Una limpida vena scaturì novamente e più meravigliosamente dal cuore suo. Le « Poesie religiose » furono per la maggior parte della nuova ispirazione. Da indi innanzi vivificata dalla donna gentile fu tutta, la sua produzione.
Dopo il 20 maggio 1885, dopo i primi mesi dalla benedetta unione, mesi di letargo, come egli dice scrivendo al suo Reina nei primi dell'86, una nuova polla abbondantissima si manifesta, e dalle parole di lui ai raccoglie tutta l'intima e gaia resurrezione :
« Mi son finalmente rimesso a poetare, egli scrive, e le poesie religiose fioccano: figurati, ne ho scritto sei in meno di quindici giorni ». 

Ma lontano da Amelia si sente sfinito. Essendosi dovuto allontanare una volta da lei, per venire a Roma il 28 settembre dell'86, dopo 33 ore eterne di viaggio, le scrive : " Mi pare un anno che sono lontano da mia madre e da te, oggetti carissimi della mia vita", e più sotto « ho maledetto il momento d'essere partito», e attribuendo alle tenere cure di lei forse questo infiacchimento, che rivela invece il grandissimo prezzo del tesoro ritrovato e ch'egli nella sua appassionata esclamazione mette in rilievo : « io non mi sento più io : tutto è mutato agli occhi miei, tutto mi è caduto dal cuore, fuorché il tuo dolcissimo amore, che spero mi accompagnerà fino all'ultimo istante della mia vita ».
Altrove, sempre nella stessa circostanza e già sulla via del ritorno, ma trattenuto in quarantena (13 ottobre '86, da Napoli) ancora ad Amelia, che invita a raggiungerlo a Reggio : « Ho bisogno, anzi necessità di te: che la malinconia e la tristezza s'è talmente impossessata di me, che mi par di perdere la testa ». 
 
Intanto, dopo aver dato all'Italia «una forma nuova di poema, l'epopea del pensiero», il poema filosofico, eccolo a darle il poema satirico. Già sono apparse — altra fatica — le poesie di Catullo, interamente tradotte, ed ecco nel giugno 1891, scrivendo al Reina, annunciargli «sette canti già belli e finiti dell'Atlantide ». Sette canti ohe sono, come egli dice, « sette flagelli di scorpioni rotati con braccio d!i ferro e con riso di Lucifero su tutte le menzogne e le perfidie e le viltà del secolo ». Né basta; che un'altra novità è alle viste : la versione del « Prometeo' liberato » di Shelley, pubblicata nel '92. Dello stesso anno ancora sono l'« Empedocle » ed altri versi.
Come si vede, a fianco della sua benevola fata, egli non perde il suo tempo. Proseguendo, una commedia « La famiglia del signor Teofilo » intitolata, poi « Un santuario domestico » è rappresentata per la prima volta in Catania nel '93 dalla Compagnia Pietriboni. Nel '95 al 28 dicembre è pronta l'intera traduzione metrica delle « Odi » di Orazio, di cui manda come primizia il « Carme secolare » a Felice Cavallotti.
E continua la sua operosità in mille modi. Nella raccolta postuma delle « Nuove foglie sparse » sono molte delle poesie scritte nell'ultimo decennio di vita, come pure poemetti, epigrammi, iscrizioni e prose trovansi nelle altre due raccolte : « Poemetti e iscrizioni » e « Pensieri e giudizi ».
Ancora quando travagliato, dal male : « Cinque anni io sono stato — scrive a Edmondo De Amicis nel '97 — fremendo e spasimando, tra le spire di .un perfido male, e se non mi fossi io stesso condannato agli ozi forzati, e non avessi avuto l'assistenza generosa di questa nobile creatura ohe m'è compagna, il suicidio avrebbe spezzato il mio cuore, e la mia ragione travagliata da pubblici e da privati dolori si sarebbe inabissata nel baratro della pazzia», ancora la Musa. va a visitarlo qualche volta,, quella Musa, ch'egli abbraccia e bacia.
piangendo. Una collana di sonetti « Nozze immortali » è pubblicata nel 1898 dalla « Nuova Antologia ». « Non ostante i soliti acciacchi » corre non di meno sempre dietro « ai fantasmi dell'Ideale ». Ma il male con la fine è ormai alle porte. Ora egli si limiterà a scrivere ad amici, a conoscenti, a sollecitatori ed ammiratori. Amelia lo sorregge e l'accompagna nell'altro travaglio. Come ricordavo sopra, ella gli è d'accanto ognora, scrive per lui, corregge, legge, interpreta, annota. Non v'è lavoro che non porti ormai l'impronta delle sue mani, non v'è ispirazione che non rasenta la perpetua freschezza, del suo sorriso.  M. A. Personne

* Nuova Antologia anno 59 - 1° luglio 1924

http://rapiasrdi.altervista.org/la_contessa_lara.htm

lunedì 7 dicembre 2015

Pietro Platania nobilissima figura di musicista e di maestro (Catania, 1828 - Napoli, 1907)

« Solo la guerra o le rivoluzioni possono indurre i governanti a non riservare attenzione adeguata alle arti, che riprendono tutto il loro vigore nello stato normale, fanno parte della vita civile, son decoro di un popolo, e segno non dubbio della sua civiltà… » P. P.


Fin da bambino mostrò una spiccata tendenza per la musica, e nonostante il desiderio del padre — il quale avrebbe voluto fargli seguire la propria professione di avvocato — inizio i suoi studi musicali con Giuseppe Abbatelli, in quel tempo maestro di Cappella della Cattedrale di Catania.
Quanto tempo e fino a che punto studiò con l'Abbatelli, non sappiamo, sappiamo però — dalle cronache locali — che nel 1843 fece eseguire una « Sinfonia del dilettante », un Quartetto e un gruppo di arie per canto e piano.
Nel 1844 fece eseguire alcuni brani di una sua opera (composta quando aveva sedici anni) ricavata dal famoso romanzo di Eugenio Sue: I misteri di Parigi.
A Catania continuò negli studi fino al 1848. Nel 1850 — grazie a un sussidio annuo assegnatogli dal Comune, in premio dei suoi evidenti meriti — decise di continuare e completare gli studi nel Conservatorio di Palermo sotto la guida di Pietro Raimondi, il grande contrappuntista che era direttore e insegnante di composizione in quel Conservatorio fin dal 1833. Gli bastò un solo anno per mettere in ordine e rinnovare la tecnica musicale appresa dal maestro di Catania, e sentirsi libero di esprimere il suo mondo interiore con perfezione di scrittura e di forma. Tra tutte le forme musicali, l'opera lo   attraeva   maggiormente, e appena uscito dal Conservatorio cominciò una Matilde Bentivoglio che fu rappresentata nel teatro Carolino di Palermo, nel marzo del 1852. Il successo fu veramente entusiastico; il ventiquattrenne compositore fu evocato alla ribalta oltre venti volte. Rappresentata a Catania, l'anno successivo, la Matilde confermò lo stesso entusiastico successo ottenuto a Palermo. Il giovane musicista catanese volle dedicare l'opera al Comune della sua città natale.
Un altro successo, il Platania, ottenne con l'opera successiva Piccarda Donati, rappresentata ancora al teatro Carolino di Palermo il 6 marzo del 1857, seguito dall'altro più clamoroso dell'opera Vendetta slava (Palermo, 1865). In esse il musicista appare padrone della tecnica compositiva che egli sa dominare con la sua ispirazione e sottoporre alla volontà di rinnovare la tecnica, le forme e l'espres-sione dell'opera in musica, ancora stretta tra i ceppi della convenzionalità.
Fin dal 1863, Pietro Platania era stato nominato direttore del Conservatorio musicale di Palermo e maestro di composizione, succedendo in queste cariche rimaste scoperte per dieci anni, a causa dei soliti intrighi che non hanno mai niente a che fare con l'arte, al suo maestro Pietro Raimondi.
Ma tutto questo non potè che ritardare lo sviluppo straordinario che prese l'antico istituto musicale siciliano. Il Platania aveva assimilato perfettamente dall'insegnamento del suo maestro la straordinaria perizia nell'intrecciare ed equilibrare le voci in vaste ed elaborate trame polifoniche.  Di  questo suo  veramente  eccezionale magistero  -     tanto  raro  nell'Italia  di   quel   tempo   — nacquero:   il   « Pater  noster »   a   5   voci   e  organo; l'« Ave Maria » a otto voci e 2 campane; la « Messa da requiem » per soli, coro e orchestra eseguita nella chiesa di S. Domenico di Palermo il 9 febbraio  1878 in occasione del trigesimo della morte di Vittorio Emanuele II; il Salmo « Laudate pueri », steso in forma di cantata per soprano, coro e orchestra;   composto  nel  1880,  fu  eseguito  in  Roma, nel palazzo Doria-Pamphili in occasione delle celebrazioni in onore del Palestrina; il Salmo « Exurgat Deus »  a 24 voci,  aggruppate in sei cori a 4 voci ciascuno,  che rimane l'inno più grandioso  e-levato alla Divina potenza di Dio Creatore. Composto  a Palermo  intorno  al  1872  esso   rimase   sepolto in un cassetto per nove anni  come un orgoglioso spiegamento di forze che difficilmente poteva tradursi in realtà sonora   (secondo una nota dell'Autore,  l'esecuzione  del  detto  Salmo  esige  32 voci  per  ogno  coro,  facendo  assommare  a   192   il totale degli esecutori). Ma a conoscenza della singolare  creazione,  gli  alunni  del Platania  spinsero il loro maestro,  nel  1881,  a presentarla  alle  esposizioni di Milano e di Parigi. In entrambe le città il  Salmo   « Exurgat   Deus »   venne   premiato   con medaglia d'oro. Dedicato a papa Leone XIII, il Salmo fu stampato in Germania.
Nello stesso anno 1881, Pietro Platania — su indicazione dei maestri Franco Faccio ed Amilcare Ponchielli — fu chiamato a coprire la carica di maestro di Cappella del Duomo di Milano, rimasta vuota dopo la morte del maestro Quarenghi.   Il  Platania  accettò  la  nomina  ma  temporeggiava a stabilirsi nella capitale lombarda poiché l'abbandono del posto di direttore e insegnante che teneva nel Conservatorio di Palermo, non gli avrebbe fruttato nessun riconoscimento, da parte dello Stato, del servizio prestato a Palermo per 19 anni.
Nei tre anni che tenne la carica di maestro di Cappella del Duomo di Milano, poche volte partecipò personalmente alle sacre manifestazioni che vi si svolgevano; ma espletò il suo dovere inviando musiche appositamente composte adeguandole alle ottime possibilità che gli offriva la Cappella, e cioè un buonissimo coro e due organi. E, infatti, tenedo presente quelle possibilità, egli compose tra l'altro, « Resurrexit » (1882) a otto voci e due organi; un « Credo » (1882) per due cori e organo; un « Gloria » (1883) a otto voci per soli, cori e 2 organi e la « Messa solennis » per soli, coro a 8 voci e 2 organi, scritta secondo il rito ambrosiano. Compose inoltre un gran numero di Inni, Corali e Mottetti.
A dette musiche sacre, composte per il Duomo milanese, dobbiamo aggiungere le altre composte dopo, a Napoli, tra le quali meritano particolare menzione la Fuga a sette voci « Stella quam viderunt Magi » (1892) e l'antifona « Ave Mater Fìlio Orbata» (1893), per soli, coro a 8 voci e strumenti a percussione. Composizioni, queste, che rimangono le ultime grandiose espressioni del magistero   polifonico   del   grande   compositore.
L'opera polifonica di Pietro Platania (e cioè tutta la musica sacra nella quale essa è sostegno e  trama) racchiude in sé ogni aspetto della sua complessa personalità di artista: tecnica, invenzione, padronanza dei mezzi, dominio sicuro e geniale impiego della materia; magistralmente fusi, questi elementi ci mostrano il mirabile equilibrio del   suo   spirito    di    costruttore   e   di   creatore   e
—  soprattutto — di credente.

Dal   punto   di    vista    della   tecnica   polifonica
—   fine a se stessa o mezzo per manifestare il proprio sentimento religioso — troviamo che i meriti del Platania non sono solamente artistici. Bisogna anche parlare del suo coraggio nel rimetterla in pratica. In un'epoca nella quale pareva che soltanto il teatro dovesse essere l'unica espressione della musica italiana, il catanese creava monumenti imperituri alla polifonia vocale, cioè al contrappunto puro (quale non si adoperava più dopo i secoli XVI e XVII) dando così all'Italia la sola, seria possibilità di allinearsi con le altre nazioni europee che quel genere di musica coltivavano ancora.
Pietro Platania fu il primo musicista italiano che sentì quel risveglio culturale che, negli altri paesi vicini — la Francia e la Germania in testa — aveva già rinnovato la tecnica, le forme e l'espressione  del  discorso  musicale.
Rinnovamenti che, nella musica del catanese, possiamo anche riscontrare nelle composizioni strumentali e vocali per il concerto e per la camera. Fin dalle prime manifestazioni del suo talento di compositore, anche nei pezzi da salotto, inni o marce occasionali, troviamo che il musicista cercava sempre una espressione nuova, sia nella linea della  melodia   che   nell'accompagnamento,   sia  nel le armonie che nel disegno ritmico.   Ciò   osserviamo nelle Cantate in onore, di Bellini, della regina Margherita, in celebrazione del centenario della Fondazione dell'Albergo dei poveri; l'osserviamo ancora nei brani per orchestra « Epicedio per Gaetano Donizetti», «Festa valacca», «Elegia a Giovanni   Paisiello»;   nelle  sinfonie  «L'Arno»,   «Italia »;  nella « Meditazione » per archi  e pianoforte; nell'« Ode » composta in onore di Rossini; nell'« Ode » per la traslazione in patria delle ceneri di Bellini; nella « Sinfonia funebre » in morte di Pacini; nel duetto   «Tra   i  fiori»,   la   caratteristica  «Preghiera  di  Agar  nel  deserto »;    nei    quattro    Quartetti per  archi   (in  mi  min.;   in  la  min.;   in  sol  min.; in do min.);  nel Quartetto per voci sole, su versi del Metastasio  e nel  Quintetto  per  soli  strumenti a  fiato   (flauto,   oboe,   clarinetto,    corno,   fagotto). Le sue ultime composizioni di musica strumentale, rimaste   inedite,   sono   un   fascicolo   di   Sonate   per violino e pianoforte,  e un fascicolo di Sonate per pianoforte solo.
A questa notevole attività di compositore, bisogna aggiungere quella non indifferente di insegnante, illuminato e rinnovatore che curava paternamente ma rigorosamente la propria scolaresca per la quale scrisse anche dei trattati didattici i quali certamente, misero in scompiglio — sia a Palermo che a Napoli — l'insegnamento tradizionale basato su regole utili nel secolo precedente ma in quello successivo alquanto invecchiate, poiché la didattica musicale aveva pressoché rinnovato il proprio indirizzo; ricordiamo soltanto il « Trattato d'armonia » e il « Corso completo di fughe e canoni », pietre miliari della nuova didattica introdotta dal Platania nelle scuole musicali.
E nemmeno nel campo del teatro, il Platania rimase inattivo. Alla Vendetta slava, rappresentata a Palermo nel 1865, seguirono — tra completate e no, ma mai rappresentate — le opere: La corte di Enrico III, Giulio Sabino, Francesca Soranzo, Il gladiatore di Ravenna, Carlo di Brianza, Il Mago e Camma; opere le cui partiture autografe, complete o frammentarie sono reperibili nella Biblioteca del Conservatorio di Napoli.
Nel 1885, Pietro Platania abbandonò la direzione del Conservatorio di Palermo per assumere quella del Conservatorio di Napoli, rimasta scoperta fin dal 1870, dopo la morte di Saverio Merca-dante. La carica come è risaputo venne offerta a Giuseppe Verdi, dal corpo insegnante con Francesco Florimo in testa; ma Verdi si sentì costretto a rifiutare, rispondendo con una nobilissima le-tera rimasta famosa.
Il rifiuto di Verdi mosse l'appetito di molti pretendenti che — a furia di rimestamenti, maneggi, ripensamenti, compromessi ecc. — tennero la sede vuota per circa quindici anni, per poi essere occupata da Pietro Platania segnalato al Ministero fin dal primo momento. Il glorioso istituto musicale, in poco tempo, si mise alla testa degli altri conservatori italiani, grazie al nuovo impulso  conferitogli  dal  nuovo  Direttore.
Una benemerenza del Platania che non merita di  essere trascurata,  è l'avere  egli sostenuto,  con il peso della sua autorità, la validità artistica della Cavalleria rusticana di Mascagni, presentata al Concorso bandito dall'editore Sonzogno nel 1890, per un'opera in un atto. Il Platania faceva parte della commissione giudicatrice insieme con Filippo Marchetti, Giovanni Sgambati, Amintore Galli, Francesco d'Arcais e Alessandro Parisotti e fu il primo ad apprezzare il lavoro dell'allora sconosciuto musicista, mettendone in rilievo le singolari bellezze, il carattere italiano dell'espressione melodica, le novità della veste armonica, il vigore drammatico della musica. La gratitudine di Pietro Mascagni per il maestro catanese che gli tenne a battesimo l'opera primogenita, fu grande. « Non potrò mai dimenticare la sua paterna affezione — scrisse il compositore livornese in una lettera ancora inedita — ...e prosegue: « Le assicuro che nel mio cuore rimarrà per sempre scolpito il nome di chi mi ha dato la mano per sollevarmi dall'abbandono, dall'avvilimento; e m'incoraggerà nel lavoro e nello studio il bacio che Ella generosamente volle darmi... ».
Il 30 marzo 1891, al teatro San Carlo di Napoli, fu rappresentata l'opera Spartaco di Pietro Platania, su libretto di Antonio Ghislanzoni. E' la maggiore affermazione del musicista nel campo operistico.
Oggi lo Spartaco — pur nelle sue spettacolari dimensioni (4 atti e 8 quadri) — appare il lavoro di un musicista italiano che intende rimanere tale nella espressione e nella chiarezza del discorso melodico, pur mostrando di accettare l'evoluzione   subita  dal  melodramma  tradizionale  dalla seconda metà del secolo sia nel rinnovamento  del la forma che nella tecnica armonistica.
L'opera è redatta in pezzi chiusi  — molti dei quali presentano una forma assai diversa da quelle  consuete — ma ciascuno  di  essi è  collegato a quello  che  lo  precede  e  all'altro  che lo  segue  da sviluppi  tematici  trattati   sinfonicamente.  Ai recitativi   sono   sostituiti   dei   declamati   vigorosi,   aderenti alla linea prosodica e al carattere dei personaggi.   Spartaco,   insomma,   reca   i   segni  inequivocabili  di  un  radicale rinnovamento   dell'opera   in musica.  Come  esempio  citiamo  il  « Proemio  sinfonico »   che   sostituisce   il   tradizionale   preludio,   e nel quale contrastano — sinfonicamente trattati — i  due  temi  fondamentali  sui  quali   è   imperniata la vicenda dell'opera:  libertà e amore; l'assolo del soprano ricco di accenti passionali che manifestano i sentimenti che si agitano nell'animo del personaggio;   il   pel  duetto  d'amore  che  infrange  gli schemi usuali;  il baccanale nel quale il magistero del   compositore   e  l'arte  del  musicista  creano  un affresco  nel  quale l'equilibrio  tra  suoni,  colori,  espressione e vitalità dinamica può dirsi perfetto.
Lo Spartaco, che pur ottenne uno straordinario successo al San Carlo, oggi è totalmente dimenticato. Forse la scarsa fortuna che ebbe dovrebbe essere attribuita al nuovo orientamento del melodramma italiano di quell'epoca verso il genere verista, inaugurato l'anno avanti dalla 
Cavalleria Rusticana di Mascagni; genere immediatamente seguito  da una pletora  di  giovani.
Argomenti,  proporzione,   espressione   dell'opera tradizionale appaiono radicalmente mutati. Qua si credeva ai personaggi creati dalla poesia o dalle espressioni letterarie; là i palcoscenici dei teatri d'Opera appaiono popolati da personaggi, che presi dalla cronaca nera di ogni giorno, si esprimono rudemente con un linguaggio violento e, talvolta, volutamente volgare: naturalmente in omaggio alla verità.
Fu una svolta decisiva nella storia dell'Opera in musica, ma fu anche un movimento rinnovatore che rivelò l'arte di altri musicisti e diede nuovi successi all'Italia. Va da sé che questo movimento allontanò dai palcoscenici dei teatri d'Opera ogni altro lavoro che mostrasse di seguire il genere tradizionale. Tra le opere travolte dall'ondata rinnovatrice è da includere lo Spartaco di Pietro Plata-nia. Ma oggi — in tempi di assoluta magra come quelli che attraversiamo — la storia e la critica hanno il dovere di segnalare che lo Spartaco rimane l'ultimo contributo di un musicista alla più gloriosa creazione dell'arte musicale italiana: il melodramma.
Pietro Platania si spense a Napoli, e là è ancora sepolto. Catania attende, fin dal 1907, che i resti di uno dei suoi figli migliori, venga a riposare nel suo grembo materno.
                                                                             Francesco Pastura 
                                 Secoli di musica Catanese ed. Giannotta 1968 






venerdì 30 ottobre 2015

"Memoria" di Federico De Roberto


 Federico senior

Federico De Roberto (Napoli16 gennaio 1861 – Catania26 luglio 1927) . Nacque a Napoli nel 1861, da Federico senior, ex ufficiale di stato maggiore del Regno delle Due Sicilie e dalla nobildonna di origini catanesi, ma nata a Trapani, Marianna Asmundo.
Trasferitosi con la famiglia a Catania nel 1870 dopo che il giovanissimo Federico subì la dolorosa perdita del padre, travolto da un treno sui binari della stazione di Piacenza. 


Memoria

Federico De Roberto Maggiore di 1° Classe nel corpo dello Stato Maggiore
Dopo aver retto per sei anni Comandi Militari di Circondario, anché a posto di
Luogotenente Colonnello, per la soppressione di detti Comandi, fu piazzato in aspettativa per
riduzione di corpo, posizione in cui da circa due anni si trova.
Avezzo all'operosità Militare fin dalla puerizia, mal reggeva l'ozio
di detto stato, e privatamente impegnò la superiore benignità, già sperimentata, dall'ottimo
Sign. Generale Gibbonè, da cui legasi dagli Ufficiali dell'arma suddetta, quasi unicamente dipendono, per essere riabilitato in un Comando; ma non lo potè conseguire per non essere fra i primi a richiamarli.
In proseguo vocò il Comando di Catania che, trovandosi sul luogo (…) un viaggio, facendo capo della singolare benignità del prelodato sign.Generale, gli scrisse nuovamente in via privata, se mai avesse potuto conseguirlo; chè, quandunque posto di Luogotenente Colonello talvolta tali posti sono stati surrogati da maggiori anziani.
Ma vi ebbe in garbatissimo riscontro che oltre al trattarvi (…) Luogotenente Colonnello non ancora era prossimo il turno di richiamo del chiedente, che pertanto non poteva essere proposto al comando di una Provincia.

Ora essendosi approssimato detto turno per essere De Roberto il terzo, (…), egli, fruendo di bel nuovo del bel cuore del suo Generale, gli à scritto particolarmente che, se i precedenti a le note caratteristiche non vi si opponessero, avendo retto sei anni Comandi Militari, senza essere stato giammai fra gli Ufficiali Superiori applicati, nella difficoltà di conseguire il Comando di Catania, sperava essere proposto ad altro Comando qualsiasi.

L'esponente è in attesa del risultato di quest'ultima sua richiesta; e, poiché già due Comandanti destinati a Catania ànno ottenuto il loro riposo; ed il terzo già da tempo non raggiunge il suo posto essendo probabile che ottenga al destino, il De Roberto bramerebbe che, senza stancare la bontà superiore, fosse rammentato se mai finalmente, in caso di terza mancanza, potesse conseguire il desiderato Comando di Catania; ed, ove ciò riesca di assoluta impossibilità, gli si conceda quello attualmente vuoto nel grado di Maggiore in Massa e Carrara, ad altro primo a vacare.


E dove pregò

martedì 27 ottobre 2015

DA LA CANZONE DEGLI UMILI all'asino lontano - di Mario Puccini.



All'asino lontano -

Per una strana ironia, asino, le nostre anime si sono prese, quella volta. Salivamo - ricordi ? il sentiero pietroso ed il maggio canzonava la nostra lentezza con le voci delle anime inebriate, con effluvii di profumi ignoti, con le giulive armonie del suo fiorire, invano attendendo un coro della nostra meraviglia. Tu, cui di recente il potere egoistico dell'uomo aveva tolto il diritto d'amare, ti sforzavi nell'ascesa dolorosa e non potevi avere inni di dolcezza per quella vita ardente che ti si mostrava e che tu ricordavi di aver vissuto, quando non invano la femmina annusava l'aria nel desiderio di te. Ora, dopo una sofferenza atroce del corpo, l'anima si apriva alla completa sventura e tu ritrovavi nel lento giro dello sguardo, volto alla montagna, i luoghi dove più  la femmina t'aveva soddisfatto.
Seppelliamo, o amico, quest'onda di ricordi che ci serra la gola e non ribelliamoci.
Vedi? La sorte ci ha fatto cosi e ci ha divisi
Lontani, forse ci ricorderemo. Vicini, per la mia necessità o per il mio egoismo o per la malvagità che s'impone alla compassione tu forse mi avresti padrone sdegnoso.
Ora mi ricordi. Salivamo ed io non osavo richiedere alla tua debolezza uno sforzo che gli altri asini sapevan  fare.
Tu eri immiserito, povero amico, come la mia anima.
L'ho detto: i nostri palpiti in quel lento andare, ebbero un momento di  passione.
Tu, perduto l'orgoglio del maschio, inorridivi  per   le   prossime fatiche, a cui per sempre sarebbe mancato il sollievo del piacere.
Amico, la natura è cattiva, nel suo creare e chi soggiace non avrà conforti.
Me lo dicesti (credi che io dimentichi?) in uno slancio di sincerità e d'odio verso la vita.
Perchè t'avevan creato? Nemmeno la consolazione di fare dei figli l'uomo aveva lasciato per ricompensa al tuo sudore.   Nulla.
Che ti rimaneva, asino?
Combattere e lottare. Tu lo sai, amico, che è questa la sorte di tutti gli umili, il retaggio, ecco l'ingiustizia, dei lavoratori onesti.
Non ribelliamoci. Anch'io, sai. mentre tu narravi la tua storia, calcavo le vecchie orme di una vita e m' avviavo, soffrendo, a formarne di nuove.
Vane orme, se tutto il resto della natura è cosi grande da seppellirle con un semplice alito. Non m'illusi. Fu specialmente in quel momento della nostra salita, quando ogni bellezza rifulgeva e le montagne intorno mandavano lampi di meraviglioso ardire, che io perdetti la completa illusione dei vecchi sogni.
E con te vissi, perchè il sole volle esserci compagno, fino all'ora in cui il bianco spino della siepe si abbassò al nostro andare, la calma del rassegnato che si contenta del fonte per la sua sete, che si soddisfa de sole per il suo lavoro, che gioisce e s'inebbria per lo stellato che testimonia il  suo sognare.
*
Asino, questo libro è nato in gran parte nell'ora strana in cui le nostre due anime perdevano l'orgoglio della propria forza.
Non ho migliorato, credimi, per vanità né per valore. Semplice sono restato e semplice mi offro al maggio della tua montagna, né altro chiedo che il tuo compiacimento.
                                                                                                             Mario Puccini.

*     Tratto da :


domenica 25 ottobre 2015

Amelia descrive Mario Rapisardi in una lettera ad Angelo De Gubernatis

"O fausto giorno
Che consentisti di venirmi a fianco! 
Per incanto d'amor, giovine torno". M.R.













Lettere di Amelia 7 — Ad A. De Gubernatis.



Chi lo conosce intimamente il Rapisardi, non   può che ridere della fosca leggenda che gli ha tessuto intorno l'ignoranza e la malignità di alcuni gazzettieri.
È superbo come Lucifero, dicono; fa l'aquila; fa il Nume;« si ride di tutto e di tutti; non vuol vedere nessuno; scaccia anche quei pochi che si avventurano a visitarlo. Niente di più falso di tutto questo. Coloro che hanno il coraggio di avvicinarlo si accorgono subito che la leggenda è maligna; l' orso che si aspettavano di trovare è il più affabile e il più modesto degli uomini : " pare una dama „ suol dire il suo editore Giannotta a quei forestieri che hanno paura di essere accolti male. Con le signore poi, specialmente con le giovani, è di una gentilezza... eccessiva. Se gliene faccio carico, mi si scusa coi noti versi del Parini :

A me disse il mio genio....


Il popolo che lo venera e lo chiama : U patri ranni (il padre grande), e, negli avvenimenti solenni viene ad acclamarlo, deve contentarsi di vederlo soltanto. Egli non è buono a fargli dei discorsi ; un saluto, una parola affettuosa di conforto e di consiglio, e basta.

Nei due giorni delle sue onoranze, o delle sue esequie, com'egli le chiama, pareva un condannato. Anche il leggere all' Università, dopo trent'anni d'insegnamento, lo agita come la prima volta. Quando trova la sala molto affollata, egli è tentato di svignarsela.
Non si è mai aggregato a nessuna scuola, a nessuna accademia, a nessun partito ; vuol vedere coi propri occhi, egli dice, pensare con la sua testa. Forse per questo ha nemici ed amici in tutti i partiti. Mentre, un R. Proc. di Milano sequestravagli un' ode per delitto di lesa maestà, e un giornale socialista  l' offendeva stupidamente a Roma, un senatore illustre s'adoprava in sua difesa e Cesare Lombroso lo proclamava un genio autentico, il Lucrezio e il Giovenale di Italia.
Egli ha un'adorazione selvaggia per la libertà-  Per questo vive fuori di città, in una casa aperta a tutti i venti, dalla cui terrazza può vagheggiare l'Etna e il mare, i suoi due grandi amici. Il suo sguardo, come l'anima sua, ha bisogno di spaziare nell'infinito. I liberi orizzonti, mi diceva l'altra sera, alimentano in me l'amore alla libertà e la religione dell'Infinito. E ai giovaci dell'Università romana, che gli chiedevano una conferenza, diceva : « Sono uccello di bosco : per cantare ho bisogno di solitudine e di libertà „.
La sua vita è semplicissima. Esce di casa raramente : ora che i malanni lo assediano, passa dei mesi senza mettere il piede fuori dell'uscio. Si leva di tutte le stagioni alle quattro. È di una frugalità e d' una sobrietà straordinarie. Lavora ad intervalli; ma quando ci si mette, non fa altro; mangia meno del solito, dorme quasi punto. Eppure egli non si sente mai così bene come in questo periodo di lavoro febbrile ; dimentica e disprezza gli acciacchi ; è perfino ilare e giovanile, egli, ordinariamente malinconico ed austero.
Nel concepire ed abbozzare è d'una rapidità meravigliosa ; ma nel limare e finire i suoi lavori, d' una lentezza e d'una incontentabilità disperata. Per correggere, ricopia ; ricopian do, suol dire, le correzioni non vengono a freddo, si fondono col testo, paiono di primo getto. Copia, ricopia, torna a copiare, in calligrafìa chiara, fino a cinque e sei volte, non solo i componimenti brevi, ma anche i più lunghi : del Lucifero, del Giobbe, dell' Atlantide   fece una   mezza dozzina di copie.
Ai periodi di febbrile attività succedono periodi d' ozio forzato e quasi di letargo. Allora sta malissimo. Tutti i suoi malanni, la muta dei cani infernali, lo assalgono e lo tormentano in tutti i modi. Passa le giornate ciondolando per casa o dondolandosi in una poltrona. Non legge, non scrive neppure una lettera ; vorrebbe non pensare ; ma pensa, purtroppo, e fantastica e sì tormenta. Bovio lo chiama autofago, ed egli è davvero un mangiatore di sé stesso.
Ai periodi di febbrile attività succedono periodi d' ozio forzato e quasi di letargo. Allora sta malissimo. Tutti i suoi malanni, la muta dei cani infernali, lo assalgono e lo tormentano in tutti i modi. Passa le giornate ciondolando per casa o dondolandosi in una poltrona. Non legge, non scrive neppure una lettera ; vorrebbe non pensare ; ma pensa, purtroppo, e fantastica e sì tormenta. Bovio lo chiama autofago, ed egli è davvero un mangiatore di sé stesso.
Dei poeti non rilegge con entusiasmo che Omero e i tragici greci. Ama ed ammira Lucrezio, che, secondo lui, è il solo poeta grande che ebbero i latini. Studia Virgilio e Orazio quali maestri di stile. Ammira Dante, ma non lo idolatra, come fanno certi dantisti o dentisti, come egli li chiama. Legge spesso l' Ariosto, ma predilige il Tasso. 
Degli stranieri ama Shakspeare, ama Schiller; ha un culto speciale per lo Shelley e per Victor Hugo. Molto si compiace di libri scientifici : Darwin, Moleschott, Lubbock, Spencer, Ardigò ed Haeckel sono i suoi santi Padri.
La sua biblioteca è poco numerosa di volumi ; ma ricca dei capolavori di tutte le letterature, e di antiche e pregiate edizioni. Ha tutti i classici latini cum notis variorum; molte aldine, fra cui tutte le opere di Cicerone ; un Sallustio e un Lucrezio del 1515, e, di questo stesso anno il dantino, curato dal Bembo. Ha inoltre un bellissimo Orazio del 1483 ; l' edizione principe del Petrarca ; la Gerusalemme liberata del 1583, oltre a quella con le figure di B. Castelli; un buon Orlando Furioso del Valgrisi. Molti di questi suoi libri sono stati da lui stesso rilegati, un po' stranamente se vogliamo, specie nei colori del taglio e dei tasselli del dorso, ma cuciti stupendamente e d' una solidità eccezionale.
A coloro che lo hanno beneficato e difeso serba gratitudine e culto quasi religioso. Tiene sulla scrivania i ritratti di Victor Hugo, che lo battezzò poeta precursore ; di Garibaldi la cui lettera, dopo letto il Lucifero, egli chiama la sua medaglia al valore; di Francesco De Sanctis che lo nominò professore ordinario ; del Trezza che lo difese a viso aperto, attirandosi le ire dei criccaiuoli. Degli amici e di sé stesso mette volentieri in canzonatura le debolezze e disegna le caricature con troppa vivacità spesso, onde alcuni pauperes spiritu, se n' hanno a male.
Da coloro che lo corteggiano per secondi fini si guarda quanto può e se li tiene lontani; qualche volta però è cascato nella rete, e più d'uno ch' egli amava come fratello e figlio, ottenuto l'intento, gli ha voltato le spalle, non solo, ma s' è ascritto apertamente tra le file dei suoi nemici. Di queste defezioni e perfìdie si rammarica, ripetendo i versi del Rosa :
Più d' un Pietro mi nega e m' abbandona 
E più d' un Giuda ognor mi veggio a lato.
Molto ama e molto odia ancora, non ostante i suoi 64 anni; ma gli amori e gli odi suoi sono oramai rivolti più alle idee che agli uomini. Degli uomini non odia se non coloro che crede nemici di quelle sublimi idealità a cui egli ha consacrato, con somma abnegazione, la vita.
Da un pezzo il Rapisardi non iscrive più versi; ha però scritte molte epigrafi monumentali pubbliche e private, e ne ha raccolto un centinaio. 
Il ritratto che Le mando è opera pregevole del Di Bartolo e mi pare che corrisponda ai suoi desideri.

Aggiungo altre cosette che mi tornano a mente.
Ai giovani liberisti che gli fanno carico della forma classica dei suoi poemi, risponde che la poesia viva, quella cioè che dà vita a tutto ciò che tocca è di tutti i tempi e di tutti i paesi, e che per questa qualità divina il poeta più moderno di tutti i tempi è sempre Omero.
Accusano generalmente il Rapisardi di tenersi troppo in disparte. Il De Sanctis lo classificò fra gl' ingegni solitari, come il Leopardi. I pappagalli, anche i più benigni, ripetono che egli è fuor della vita. Il poeta se ne scagiona dicendo che, per amare gli uomini, è necessario tenersene lontano, e per osservare bene le battaglie sociali non bisogna buttarcisi dentro.
Egli però crede, a ragione, che la solitudine e lo starsene in disparte come il Saladino è necessario al pensatore e all' artista. " Voi siete troppo idealista „ gli disse un giorno la signora Iessie Withe Mario, che venne a visitarlo; " Voi vivete fra. le nuvole „ ... "Come i fulmini „ soggiunse prontamente il poeta.
Se altro Le occorre, mi faccia l'onore di rivolgersi a me...





*Epistolario di Mario Rapisardi a cura di Alfio Tomaselli 1922

domenica 27 settembre 2015

Vincenzo Giordano-Zocchi " Memorie di un ebete" - 1842/1877

"Queste pagine non sono nè una prefazione, nè una biografia di Vincenzo Giorndano-Zocchi: contengono solo qualche osservazione, qualche appunto, o ricordo, così come viene, senza nesso e misura: non parole abburattate, non vezzeggiamenti di costrutti, non periodi fatti al tornio".



 "Memorie di un ebete" - PDF1 - PDF2

 Aurelio Costanzo - Bricciche letterarie, Catania, Giannotta, 1904, da pp. 3/51 (col titolo Un eroe della soffitta).




























 Memorie di un ebete - PDF1 - PDF2
curioso romanzo filosofico-autobiografico, improntato ad amari accenti di pessimismo, pubblicato per la prima volta, postumo, nel 1877 (l'autore si era spento di malaria poco tempo prima). Vincenzo Giordano Zocchi (Napoli, 1842-ivi, 1877) fu scrittore e giornalista affine agli Scapigliati, nonché professore di filosofia nel Liceo di Catanzaro. Collaboratore di numerosi quotidiani e periodici, è oggi noto soprattutto per il presente libro. Cfr. Giuseppe Aurelio Costanzo, Vincenzo Giordano Zocchi, Napoli, 1883.