Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

martedì 3 gennaio 2017

LA MAFIA IN SICILIA - 1887


« Nuova Antologia » febbraio  1887, di Enrico Onufrio






1°) Allorquando avviene che le condizioni della pubblica sicurezza in Sicilia si riducono ad uno stato anormale, Deputati, Giornalisti, Governo, individui d'ogni taglia e d'ogni colore ne discutono e ne giudicano come di materia che essi a sufficienza conoscano.
Allora si risolleva la parola mafia, le si attribuiscono significati diversi, la si plasma in moltissime guise, e a (mesto modo si cade in un intricato labirinto di spropositi, che aumenta le difficoltà e riduce il problema ad  un  enimma.
Ultimamente, presentatasi l'opportunità di un'interrogazione in Parlamento da un Deputato siciliano, il Ministro degli Interni,  nel rispondere all'interrogante, si trattenne a parlare del malandrinaggio in Sicilia, e neppure egli potè dispensarsi dal proferire giudizi affatto erronei. Né questo può attribuirglisi a colpa, giacché ritengo fermamente, che nessuno può discorrere, con piena coscienza di causa, di faccende che ignora: sicché dal 1860 a questi giorni, tutti i Ministri italiani, che si sono intrattenuti sulla mafia siciliana, son cascati in errori madornali ed hanno resa più difficile la questione.
Si domanda da ogni parte: che significa mafia? quali sono gli individui che possono dirsi mafiosi? quali rimedii debbono mettersi in opera per ischiantare la trista radice?

2°) Ma prima di tutto bisogna determinare il vero significato di questa parola. Comunemente per mafioso s'intende in Sicilia chi ha del coraggio e sa darne le prove. Oltre a questo però il gregario della mafia dev'essere fornito di certi requisiti indispensabili: deve portare, per esempio il berretto o il cappello un pò a sghembo; i capelli devono terminargli a ciuffo sulle tempie; il suo linguaggio deve essere spiccio e conciso.
Probabilmente la mafia ha un'origine spagnola.
A quei tempi la braveria era all'ordine del giorno, e gli altolocati poggiavano la loro forza sulla bassa canaglia. Il mafioso siciliano ai tempi della dominazione spagnuola ha il suo riscontro nel bravo di Lombardia.
Ci sono naturalmente diversi generi di mafiosi, ma di questo parlerò in appresso. Dico per ora, che lungo il corso delle rivoluzioni siciliane, dal 1820 al 1860, la mafia seguì l'andazzo dei tempi, e non esito a confessare che moltissimi dei suoi gregari, impugnando le armi,   seppero   battersi   con   valore.
Però non abbandonarono la loro trista impronta. Al 1848, per esempio molte squadre di rivoltosi dalle varie contrade dell'Isola convennero in Palermo; ma appena scacciate le truppe borboniche molti di quei ribelli da soldati della patria si mutarono in ladri di piazza e la sera, appostati pe' canti delle vie meno frequentate, rubavano a man salva. Si dovette ricorrere all'estremo  rimedio   della   fucilazione.
Nei tempi che precessero la rivoluzione del 1860 i mafiosi potevano dividersi in tre categorie: camorristi,  ricottari  e briganti.
Parlerò successivamente di questi tre diversi generi di  galantuomini.

3°) I camorristi sono interamente spariti: ritengo che sieno già divenuti monopolio della tradizione. Per lo meno suppongo che pochi ne rimangano ancora. La camorra esiste sempre e dovunque, ma io qui intendo alludere alla camorra com'era a quei tempi organizzata in  Sicilia.
Il nome di camorrista deriva probabilmente da capo morra o mora, che è il gioco prediletto da quella gente e nel cui esercizio suole scegliersi talvolta un direttore o un capo. Infatti il camorrista è colui che s'impone agli altri per mezzo del suo coraggio e della sua forza fisica che gli hanno fruttata una grande autorità morale.
Non c'era un camorrista che fosse sprovvisto di coltello.
Quest'arma era chiamata con vocabolo del gergo, danno, ed era fornita ai detenuti dagli amici di fuori, nascosta  dentro un  pane  di  forma bislunga.
Il capo camorrista era anche sottoposto a quei pericoli che minacciavano i Governi dispotici. Spesso in grembo alla associazione avvenivano congiure ed ammutinamenti, ma l'audace monarca facea pagare ben cara la sua vita.
Di estrema audacia, provvisto grandemente di coraggio e di forza, valentissimo tiratore di coltello, egli non  periva  che  sui   cadaveri   di  parecchi  nemici.
Ecco in poche linee il quadro dei camorristi quali erano un tempo in Sicilia. Evasero tutti dalle carceri per la rivoluzione del 1860, ed impugnate le armi seminarono delle loro ossa i campi di Milazzo e del Volturno.

4°) Estinto non è ancora l'altro tipo della mafia: il ricottaro.
La missione del ricottaro è quella di essere strenuo paladino delle donne perdute e di farsene il difensore di fronte a coloro che vogliano su di esse esercitare dei soprusi. Ma la loro missione comunemente trascende, sicché si muta in quest'altra: esercitare le sopercherie più capricciose per semplice ambizione di prepotenza.
I ritrovi dei ricottari sono le taverne e le case, dove si eserciti un infame mercato e nelle quali ciascuno ha la  propria  amante.
Anch'essi adoperano un gergo stranissimo; vestono abiti dimessi, e mostrano dall'aspetto e dall'abbigliamento il loro strano e turpe mestiere. Essi odiano mortalmente due sorta di gente: il damerino detto don liddo, cioè lindo, pulito, e il birro.
Nel basso popolo di Sicilia l'odio alla Polizia è assai comune, e trae manifestamente la sua origine dai tempi antichissimi del dispotismo borbonico, in cui la sbirraglia, scelta dal grembo della più bassa canaglia, non aveva altra missione che di esercitare violenze e soprusi. Quest'odio verso la Polizia nella classe dei ricottari continua, poiché sono appunto i poliziotti che invigilano su loro, li perquisiscono e li conducono in domo Petri,  quando  occorre.
I ricottari esercitano la loro malaugurata carriera in età  giovanissima, comunemente dai diciotto ai ventiquattro anni. Molti di loro, dandosi all'omicidio e al furto, terminano la loro vita nelle carceri; moltissimi altri s'ingentiliscono coll'esperienza ed a proprie spese  imparano  a  divenir  galantuomini.
L'arma dei ricottari è il coltello, ed è questo il loro amico indivisibile; moltissimi ne diventano abili tiratori, e sanno riceversi e consegnare colla massima disinvoltura   delle  buone  coltellate.
Il linguaggio che essi adoperano è breve e conciso.
Nelle taverne il giuoco prediletto del ricottaro è il tocco.
Qual'è lo scopo del tocco? Nessuno. Non tralascio però di fare un'osservazione. Tanto nella società di camorristi, quanto nel tocco, abbiamo visto de' governi assoluti e dispotici. Il capocamorra e il sotto rappresentano due tiranni in piccolo.
Si avverta che le due usanze, a cui ho accennato, nacquero senza dubbio sotto il governo del dispotismo, e la bassa canaglia, che in faccia alle leggi allo Stato non godeva alcun diritto, pare che si fosse riunita in sé stessa per godere la voluttà d'un dominio e un'apparente indipendenza dagli altri corpi sociali.
La classe dei ricottari se non è distrutta è assai illanguidita nella sua forza d'un tempo. In epoche di continui rivolgimenti e trambusti, essa si agitava liberamente nell'ombra, adempiendo in tutto e per tutto al suo tristo programma. Ma oggidì un mutamento esiste. Il coltello del ricottaro nell'affrontare il don liddo teme la comparsa d'una rivoltella nascosta sotto l soprabito, e nell'affrontare la sbirraglia teme la giustizia  della  Corte  d'Assise.
Ad ogni modo il ricottaro in Sicilia non è spento.
Non è raro che un giovane perisca di ferite all'ospedale senza voler confessare il nome del suo feritore. Quel disgraziato comunemente è un ricottaro, che muore adempiendo scrupolosamente alla sua legge della omertà.

5°) Esiste ancora il brigante.
Parecchi individui che portano questo nome si aggirano attualmente per le campagne dell'Isola, lasciando fama delle loro prodezze. Il più famigerato di loro è Antonino Leone, Valvo, Di Pasquale, Lo Cicero, Capraro, Rinaldi, tutti masnadieri audacissimi, furono uccisi la maggior parte per vendette private o per invidia di mestiere. Capraro di Sciacca fu ucciso dalla pubblica forza. Egli abbandonato dai suoi compagni sostenne da solo due ore di combattimento contro un gran numero di soldati. Valvo fu assalito in una casa, dove trovavasi colla sua amante e morì combattendo. Di Pasquale fu ucciso da Leone per odio personale, Batindari trovasi attualmente in prigione. Egli resistette per parecchie ore contro gli assalitori; abbandonato dai compagni,  continuò  a  combattere;  ferito  gravemente, si diede alla fuga, per più di due miglia, dopo le quali cadde a terra sfinito.
Uomini di tale audacia si impongono facilmente a popolazioni d'intere campagne. Il brigante veramente famoso che rimanga in questi giorni, come dissi più sopra, è Leone, ma le bande di malandrini non mancano. Esse son formate di uomini che non esercitano il brigantaggio per mestiere, ma che si prestano volentieri di tanto in tanto a fare un bel colpo. Dopo la loro impresa essi lasciano il fucile del brigante ed impugnano spesso la zappa del contadino.
Alla distruzione del malandrinaggio in Sicilia sono inutili sino a un certo punto i soldati dell'esercito, e sono spessissimo, quasi sempre dannosi i cosi detti militi a  cavallo.
L'Onorevole Ministro degl'Interni, parlando della pubblica sicurezza in Sicilia, disse com'egli abbia speranza nel concorso delle popolazioni. Per popolazione non può intendersi che devastino le loro campagne uccidano il loro bestiame, incendino i loro boschi. Adunque prima di tutto fa d'uopo che ai proprietari s'infonda la fiducia col forte appoggio, colle promesse fondate, senza lasciarli poco dopo soli all'arbitrio dei briganti, che non dimenticherebbero di vendicarsi di quei proprietari che loro hanno dichiarata la guerra.
Inoltre è buono a sapersi, che l'anormalità della pubblica sicurezza in Sicilia non deriva soltanto da otto o dieci briganti che vanno attorno per le campagne; ma assai più da quei tali (e sono pur troppo in gran numero) che nascosti nell'ombra agevolano il brigantaggio e se ne fanno manutengoli. Costoro, i quali non hanno l'audacia di affrontare a viso aperto la battaglia e la morte, coperti dal mantello della loro vigliaccheria aiutano e fomentano il brigantaggio, formando quella congrega di faziosi che la mano forte del Governo potrebbe agevolmente comprimere. Dappoiché quei tristi sono come i corvi che si avventano sull'uomo, solo quand'esso è cadavere; coloro infatti, che esercitano il manutengolismo per ingordigia di denaro, chinano il capo e si mettono le mani in tasca, quando temono che la loro pelle possa andarne di mezzo.
Perché il Governo possa direttamente intervenire alla estirpazione del malandrinaggio, fa d'uopo che conosca il male negli elementi che lo compongono e negl'individui che lo rappresentano; sicché egli deve infondere intera la fiducia nei proprietari, ed affidare il reggimento delle provincie ad uomini del paese che sappiano, vogliano e possano fare. In quanto ai militi a cavallo io ne ritengo necessaria l'abolizione; ma se deve affidarsi alle truppe il servizio delle campagne, bisogna che si mettano alla loro testa delle guide coraggiose del paese, e che non abbiano punto l'onore di una   qualsiasi  relazione   col   brigantaggio.
Si è detto da moltissimi che la costruzione delle vie ferrate influirà in gran parte alla estirpazione del malandrinaggio, ed io ne convengo interamente. Ma credo altresì che una delle ragioni precipue dell'esistenza della mafia sia la questione economica intorno ai contadini siciliani. A ciò potrebbe provvedere benissimo una certa legge agraria presentata molto tempo addietro in Parlamento, e che credo trovisi attualmente sotto gli studii di una speciale commissione.
In Sicilia, per la maggior parte, la paga massima del contadino è venticinque soldi al giorno e nulla più. In inverno, quando piove, l'agricoltura si mette da parte e il contadino si muore di fame. In estate, in moltissimi paesi dell'Isola, il contadino non ha diritto che a mezza giornata di lavoro. Sicché ognuno può comprendere facilmente in quali misere condizioni versi la classe dei contadini in Sicilia. Venticinque soldi a giorno è il maximum della fortuna, a cui egli possa aspirare, ed un povero diavolo, prima di morire di fame, prima di prostituire le sue figlie, ama meglio farsi manutengolo di un brigante, o brigante egli stesso.
Ci vuole adunque da questo lato una riforma ed una riforma radicale.
Allorquando ai reggitori della cosa pubblica si presenta una quistione sociale, bisogna che essi l'affrontino e si studino in tutti i modi di risolverla. Un problema che oggi si offre per se stesso difficile, domani potrà essere irrisolubile  affatto.

6°) Riassumo brevemente le idee da me innanzi espresse. Ho  dimostrato  colla  storia  come  la  Sicilia  sino  al 1860 vivesse d'una vita tutta propria; e quindi intorno alla mafia nessuno estraneo all'Isola può farsi assai facilmente  un  concetto.
Alla mafia cittadina può provvedere benissimo una Polizia oculata ed onesta. Alla mafia campagnuola con tutte le sue diramazioni affini di manutengolismo è in obbligo di provvedere la mano energica del Governo.
Dopo ciò è inutile ripetere che il tempo saprà fare il resto, qualora cittadini e Governo concorrano entrambi ad agevolare lo sviluppo di que' benefici che la civiltà suole immancabilmente apportare.







domenica 1 gennaio 2017

Frontini Martino, Catania 1827/1909.



Frontini Martino, contrappuntista valentissimo nato in Catania nel 1827 ed ivi morto il 7 novembre 1909.

Fu il maestro dei tanti maestri catanesi che ebbero nome stimato nella seconda metà del secolo scorso, molti dei quali gli rimasero gratissimi, e si mostrarono orgogliosi di avere imparato l'arte musicale dal Maestro Frontini.

Istituì la Banda Municipale e ne fu direttore per più di 30 anni: diresse anche la Banda del R. Ospizio di beneficenza.
Compositore di gusto squisito, produsse un numero notevole di pagine musicali che lo ricorderanno sempre in tutta Italia, come uno tra i meglio ispirati autori di melodie e di ballabili, specialmente di valtzers, in cui fu riconosciuto insuperabile come Straus.
Scrisse ancbe opere liriche e coreografiche che ebbero successi magnifici
Di Lui abbiamo l'opera in tre atti Marco Bozzari, assai lodata dal grande maestro Pacini, che aveva stima immensa del nostro Martino Frontini, e lo ebbe gradito ospite nella sua villa di Pescia.
Abbiamo inoltre il Fatima, azione coreografica, e la Rivolta dell'Olimpo, operetta fantastica riuscitissima; e poi infiniti pezzi da concerto per orchestra, per banda, melodie da camera, ballabili, ecc.
*La Sicilia Intellettuale contemporanea 1911 




***

Il corpo musicale civico - Rivista del comune di Catania gennaio-febbraio 1933

(...)Dal verbale di seduta consiliare del 6 luglio 1861, sopra menzionato, sorge, per la prima volta, per il nostro Corpo Musicale civico, il nome di « Banda Musicale».


 Ne era direttore, in tale periodo, il M° Martino Frontini, padre dell'illustre musicista vivente, nostro concittadino, Comm. Francesco Paolo. La nomina definitiva a direttore il Frontini l'ebbe nel settembre 1861, perché nella seduta consiliare dell' 11 di quel mese, il Consiglio Comunale affidava al  Frontini,  quale Direttore della disciolta Banda, l'incarico di « ricostruirla».

  

 

Dunque, nonostante che la data ufficiale di nomina del Frontini a direttore sia quella dell'11 settembre 1861, il Frontini deve esserlo stato parecchio tempo prima, tanto che nel '60, quando le truppe della Guardia Nazionale di Catania si recarono a Siracusa per prende possesso di quella città sgombrata dai Borboni, la quale, in quella circostanza era già sotto la regolare direzione del Frontini, che prese personalmente parte a quella specie di spedizione.

 E che la Banda dovesse esistere parecchio tempo prima del '60 si desume da altre circostanze.
 Già l'Archivio Musicale della Banda, al Teatro Bellini, offre qualche partitura per «picco!a banda che rimonta a qualche decennio prima. Una «Marcia funebre, del M° Concetto Vezzosi porta la data del 6 marzo 1851, ed il Vezzosi era Vice-direttore della Banda al tempo in cui ne era direttore il Frontini.
 Anche i Maestri F.lli Nicolò e Carlo Sardo sembra che abbiano diretto, in questi albori, la 
banda Nazionale (sin dal suo sorgere e per oltre un ventennio, il popolo la chiamò sempre Banda Nazionale ). Vi fu, in quel tempo, un valente maestro a nome Martino Pappalardo, il quale, dopo la partenza dei F.lli Sardo, si interessò moltissimo delle sorti della Banda che, frattanto, si era sciolta. E poiché la cittadinanza reclamava i suoi bravi concerti pubblici, vi fu un tentativo di formazione di un'orchestra, che si provò, forse più di una volta, ad eseguire concerti in piazza sotto la direzione del detto Pappalardo, il quale era allora definito dalla Autorità Cittadina: 
« maestro di tutti i professori di orchestra di questa città . 
Pare altresì che precisamente in questo periodo di tempo, Giuseppe Verdi, lavorando ai suoi 
« Vespri Siciliani si rivolgesse al detto Pappalardo per avere qualche motivo popolare siciliano.
Ora, se pensiamo che i «Vespri» nacquero nel 1855 e che il detto Pappalardo fu, da quell'anno, per parecchio tempo assente da Catania, si può credere che la Banda Musicale già esistesse prima di tale data.
Se non sono facilmente documentabili le notizie intorno alla banda, prima del 1860, dal '61 
in  poi, però, si può seguire esattamente ogni suo movimento.





 Difatti, avuta la nomina definitiva a direttore, nel settembre '61, il Frontini volge tutte le sue cure al Corpo Musicale, che, come sopra si è ricordato, dal popolo era chiamato « Banda Nazionale oppure « Banda Nazionale della Guardia Nazionale ».

 II Frontini, con valido interessamento dell'autorità municipale, si accinge subito a formare una grande Banda, tanto che verso il 1865 c'è già un organico di 54 elementi, numero veramente imponente per quei tempi. E se a ciò si aggiunga che, allora, vi erano paghe mensili da L. 20 a L. 67 e che il Maestro direttore era remunerato con lo stipendio di L.100 mensili, possiamo comprendere in quanto onore e in quanta considerazione fosse tenuta la Banda cittadina. Essa accoglieva elementi di primo ordine. Dalle Bande militari affluivano, a getto continuo, suonatori assai provetti, e ancora si ricordano solisti di eccezione, quali i flautisti Giovanni Spampinato Torrisi, il clarinista Antonio Martinez ed il celebre Carlo Sardo, straordinario suonatore di cornetto, i quali, anche isolatamente, tenevano concerti da camera nei paesi vicini
 Con tali elementi e con un direttore quale era il Frontini, - coadiuvato per molto tempo dal M° Vezzosi - la Banda Musicale teneva sempre alto l'entusiasmo del popolo, il quale, non pago di assistere ai pubblici concerti, si accalcava anche alle prove, tanto che il M.° Frontini fu costretto, per il normale svolgimento della preparazione dei concerti, a richiedere l'intervento di una Guardia Municipale, perché questa impedisse 1' affluire del pubblico nella «Sala delle ripetizioni ».
 E che i pubblici concerti della Banda Municipale fossero tenuti in grande considerazione dal pubblico - che non era costituito soltanto dalla massa popolare - si rileva dal fatto che i più illustri musicisti catanesi dell'epoca confortano e propugnano, con la loro piena ed incondizionata adesione, lo sviluppo della Banda. 
 Difatti, il M.° Pietro Platania, che fu Direttore dei Conservatori Musicali di Palermo e Napoli; il M.° Pietro Antonio Coppola, il quale, dopo il suo ritiro da Lisbona, fu per parecchio tempo soprintendente municipale per tutto quanto riguardava manifestazioni musicali cittadine; i M° Antonino Gandolfo, operista molto stimato; il M°Rosario Spedalieri, Direttore stabile dell' orchestra del Teatro Municipale, e molti altri, frequentando assiduamente, quando erano in città, i pubblici concerti, mostrarono sempre la più viva simpatia e prodigarono i loro più larghi consensi alla Banda municipale.
 Assunta, pertanto, a tali fastigi, la Banda comunale seguiva laboriosamente la sua via.
  Autorità municipali, prefettizie e politiche, favori popolari, attenzioni e benevolenze di
illustri rappresentanti dell'Arte e delle Lettere, tutta  si può dire, la cittadinanza seguiva con legittimo orgoglio, lo sviluppo istituzione, la quale, sia per quello che offriva alla città, sia per i successi che otteneva nelle sue frequenti gite,  nei paesi e nelle cittadine della Provincia e fuori di questa, rappresentava un potente ed efficace mezzo di divulgazione e di educazione musicale.
 La Banda continuò, così, per la sua diritta via, quando nel 31 gennaio 1872, al Consiglio comunale vien fatta la.... melanconica proposta della trasformazione di essa in « Filarmonica ».
 II Consiglio rimanda la discussione ad altri seduta. Si insiste di nuovo, dopo un anno, nella seduta del 17 gennaio 1873, ma il Consiglio rimanda ancora, con l'impegno, però, che la giunta presenti un progetto di trasformazione della banda in Orchestra . 
 Nella seduta del 27 maggio 1873 non si  prende ancora alcun  provvedimento.
 Si rinvia il provvedimento ancora una volta e si giunge, così, al 1875, quando, nella seduta del 21 giugno di quell'anno, affermata, dalla maggioranza dei Consiglieri, 1a massima che l'Orchestra richiede maggiore spesa, è messa ai voti la proposta della più volte sostenuta trasformazione, la quale viene respinta con voti    14 contro 6. E la Banda municipale continua ancora la sua strada tra il sempre crescente consenso della Cittadinanza.
Nel 1882, sotto la direzione del Frontini, si reca a Roma in occasione del Pellegrinaggio Nazionale per il Re Vittorio Emanuele II e tiene due applauditi concerti al Plincio: avvenimento, questo, senza dubbio molto importante - e non unico - per l'entusiasmo che,  a memoria di molti, quei due concerti riuscirono a suscitare.
 Verso il 1890, dopo circa 35 anni di ammirevole direzione, il Frontini è costretto, per ragioni di salute, a trascurare un po' la Banda, la quale, difatti, dal 1890 al '92, attraversava un periodo di decadenza; fin tanto che, collocato a riposa il Frontini, viene nominato, il 25 luglio 1893, nuovo direttore del Corpo Musicale il M.° Domenico Barreca.










martedì 29 novembre 2016

"Federico De Roberto consigliere per forza" (per la sua candidatura)



L'esordio di Federico De Roberto nel giornalismo risale al settembre-ottobre del 1876, quando ancora quindicenne ma cronista diligente, nelle mani una copia a stampa del Diario delle feste di Catania per la traslazione in patria delle ceneri di Vincenzo Bellini, a cura del comitato presieduto da Francesco Chiarenza, inviò un resoconto ampio denso e brillante (corredato da numerose fotografie) all''Illustrazione Italiana, rivista nuova (in vita dal 1875), ma già bene accreditata. Nel 1880, diciannovenne, fu direttore per pochi mesi di un giornale quotidiano il Plebiscito, con sottotitolo «organo ufficiale per gli atti dell'Associazione costituzionale » (alla quale aderivano i monarchici catanesi). 

ritratto di De Roberto

Giuseppe De Felice fu anche lui giornalista e direttore precoce, quando nel maggio 1878, non ancora diciannovenne, volle dare nuovo slancio ad una vecchia, ed ormai asfittica, testata Giornale di Catania (in vita, pur con intermittenze, dal 1849). Poi, nel 1880, la collaborazione ad un periodico di rottura Lo Staffile, giornale ebdomadario, ma i suoi articoli non sono ancora impregnati di politica (si occupava di ricerche bibliografiche).
Inizia ora il trentennio, di cui parlavamo all'inizio, che vedrà man mano l'ascesa ininterrotta fino alla piena maturità: affermazione valida per entrambi. De Felice: consigliere comunale nel 1885, rieletto nel 1887, poi per alcuni mesi assessore comunale, nel 1889 consigliere provinciale (decaduto nel 1891), prosindaco per un quadriennio dal 1902, sulla cresta dell'onda — anche se con difficoltà per l'inchiesta Bladier sull'amministrazione comunale — al termine del decennio.
De Roberto: da direttore del Don Chisciotte, giornale domenicale (1881-1883), ai volumi di novelle e racconti, ai saggi, ai romanzi (I Viceré, del 1894), alla collaborazione lungamente agognata al Corriere della Sera dal novembre del 1896 ininterrottamente per l'intero successivo decennio.
Dal 1882, De Felice, fiero repubblicano, redattore dell'Unione, organo del Circolo repubblicano, inizierà un'azione di propaganda politica e di critica alle istituzioni, promuovendo alleanze strane, anzi strani connubi, iniziati nelle elezioni amministrative del 16 ottobre 1887, che lo porteranno in cinque anni alla Camera dei Deputati (1892), e nel 1902 alla conquista del Municipio di Catania. E polemica ad oltranza — gli autori mimetizzati dagli pseudonimi o celati dall'anonimato — anche con persone che non svolgono attività politica, ma sono con evidenza di segno opposto alla linea perseguita dall'organo di stampa.


Echi lontani spenti ormai da oltre un secolo, segnali deboli che cercheremo di amplificare. È da premettere che l'imminente inizio delle pubblicazioni del Don Chisciotte (direttore De Roberto, redattore Pietro Aprile di Cimia, editore N. Giannotta) fu annunziato in questi termini di valenza politica « Ne è direttore un giovane distinto per cultura, e per ingegno, che tenne per qualche mese, anche la direzione del Plebiscito. Ne sono collaboratori poi quasi tutti i segretari e vice segretari del'Associazione Costituzionale, di guisa che non può essere dubbio il suo colore politico» (Il Plebiscito, quotidiano, a. II, n. 32, Catania, 9 febbraio 1881, p. 3). Chiarissimo il discorso; se si aggiunge che accanto a De Roberto vi è il coetaneo Pietro Aprile,, barone della Cimia, esponente della predetta Associazione e ben presto emergente nel giornalismo e nella politica il discorso diventa completo. De Roberto aveva già dato alle stampe un volume di saggi critici Arabeschi (1883), e una raccolta di novelle La sorte, nel 1887.

L'attacco, fin dal titolo «I seguaci di Martoglio» (senior), è all'ultimo furore. Dopo un capoverso di insulti (non si tratta ovviamente di critica), la prosa continua con livore «Eppure cotesto volume ha avuto la sorte di essere trasportato, a cavalcioni di articoli alati e [...] smaccati, negli spazi siderei della letteratura; ed ilFanfulla, essendo di Lodi, le [...] medesime ha profuso a piene mani, perfino con vocaboli nuovi, coniati alla zecca del mutuo fregamento». Segue altro capoverso con riferimento al periodico e ai duelli «si mise a donchisciottare, ma non volle assumere mai la responsabilità delle sue provocanti trullerie» (Unione, a. Vili, n. 45, Catania, 20 novembre 1887, p. 3). L'articolo non è firmato.
L'occasione dell'offensiva antiderobertiana fu data dalla candidatura del medesimo a consigliere comunale caldeggiata dal quotidiano Il Corriere di Catania, di cui è diventato proprietario dal 1° gennaio 1887 il giovane Aprile di Cimia, allora ventinovenne (nato a Caltagirone nel novembre del 1858). L'articolista, Crisostomo, dopo avere declinato la proposta di •candidatura per il barone Aprile (« siamo autorizzati a dichiarare ch'egli non accetta la candidatura») così prosegue, con un elenco di nomi, fra cui spicca quello di Giovanni Verga «Tra i nomi nuovi di giovani eletti per patriziato, intelligenza e carattere, come il Principe di Biscari, il Barone Camerata, il Villarmosa, il Ferlito Bonaccorsi, il Verga, il Majorana, etc. ve ne ha uno, che non compreso in alcuna lista autorevole, lo raccomandiamo con maggior calore perché può rendere degli utili al paese, e forse, diciamo, un pochino più degli altri, perché più abituato alla vita pubblica: è FEDERICO DE ROBERTO» (il carattere maiuscolo è nel giornale che citiamo). Aggiungeva ancora un invito e una forte perorazione finale «Tutti coloro che volessero votare per l'Aprile, noi li preghiamo in nome di Aprile, a votare per il De Roberto. Oltreché essi, gli elettori amici nostri, non perderebbero il loro voto, darebbero anche, indirettamente, un segno di stima all'Aprile. E noi di ciò fin da ora li ringraziamo» (Corriere di Catania, a. IX, n. 242, Catania, 7 ottobre 1887, p. 2 «Commenti della lista del Circolo degli Operai»).

La sostituzione proposta non fu gradita a tutti e un quotidiano, l'indomani, contrastava fermamente la candidatura alternativa «Non conosciamo il sig. De Roberto, e quindi non possiamo discutere il suo nome, che dobbiamo anzi ritenere commendevolissimo, appunto perché presentato dal Barone Aprile. Non possiamo, però, né intendiamo accettare la sostituzione, perché il voto dato al Barone Aprile, quest'anno deve rappresentare la riconoscenza affettuosa di una intiera cittadinanza, la quale siamo certi vorrà rammentarsi di chi nel momento del pericolo stette sulla breccia» (il Telefono — Eco dell'Isola, rivista quotidiana, a. I, n. 72, Catania, 8 ottobre 1887, p. 3 «Per il Barone Aprile»).
Un cenno di ragguaglio sui risultati elettorali ci sembra interessante (le elezioni si svolsero il 9 ottobre 1887, prevalse la lista «Circolo degli Operai»). Il barone Aprile, nonostante la dichiarata repulsione per la candidatura, fu eletto con voti 461 (era stato eletto per la prima volta nelle elezioni del 3 maggio 1885); Federico De Roberto — nonostante le raccomandazioni di così autorevole padrino — ottenne solamente 62 voti di preferenza, collocandosi come 54° dei candidati non eletti.
Per le elezioni del 25 settembre 1910, per il rinnovo del Consiglio comunale, i materiali sono abbondanti e le testimonianze numerose. Una notazione preliminare: De Felice per la composizione della lista dei candidati adoperava una «tecnica» collaudata, sperimentata per la prima volta nelle elezioni comunali del 1885 e perfezionata nelle successive del 1887 e del 1888. Consisteva essa nel coinvolgimento di rappresentanti della borghesia e dell'aristocrazia, di professionisti ben noti e di altri ceti del commercio e dell'industria, con la diplomazia della persuasione e di volere valorizzare qualità finora sprecate e l'assicurazione data di una sicura elezione (l'invenzione della formula appartiene al giurista Vincenzo Gagliani, che l'applicò per vincere le elezioni del 5 aprile 1813, quando a Catania nelle prime votazioni la borghesia, alleandosi con una parte dell'aristocrazia, conquistò il Palazzo comunale).
Nell'estate del 1910 la coalizione defeliciana, che amministrava Catania dal 1902 (ovviamente con i rinnovi delle elezioni parziali), scricchiolava, anzi stava per naufragare. Il sindaco cav. Salvatore Di Stefano Giuffrida (eletto il 25 febbraio 1910), il 20 luglio repentinamente si dimetteva; il 21 luglio poneva la candidatura a consigliere provinciale nel Mandamento San Marco, in contrapposizione ai candidati defeliciani; nel medesimo giorno al Municipio si insediava il Commissario prefettizio cav. Saverio Castrucci: « La consegna degli ufficii gli venne fatta dal sindaco cav. Di Stefano Giuffrida» (L'Azione, quotidiano, a. IV, n. 197, Cat., 22 luglio 1910). Contemporaneamente una vibrata lettera aperta di critica al metodo di amministrazione imposto da De Felice, veniva inviata — e pubblicata dal medesimo quotidiano — dall'avvocato Enrico Pantano, prestigioso consigliere della maggioranza, che segnava il distacco e il passaggio all'opposizione (lo ritroveremo nella lista del «Blocco cittadino»).
Domenica 24 luglio si votò per i consiglieri provinciali e nei mandamenti San Marco e Borgo i tre candidati defeliciani furono sconfitti. Immediate, e inaspettate, il 21 luglio, le dimissioni da deputato annunziate da De Felice con un messaggio agli elettori (cui seguì un immancabile discorso).
Seguirono settimane convulse. Le trattative ed i colloqui per la ricerca dei sessanta candidati che formeranno la lista, che avrà la denominazione suggestiva di «Fascio democratico» rimangono ovviamente segrete. A noi interessano solamente le vicende della candidatura di Federico De Roberto.
Il grande manovratore è all'opera: De Felice riesce a prendere contatti con molti, ricerca uomini nuovi non compromessi con il passato, da unire ai vecchi per dare un volto rinnovato e nuova credibilità alla futura amministrazione. Le conversazioni, svolte sotto l'incalzare del breve tempo non sempre ottengono una risposta pronta e chiara. Per quanto riguarda De Roberto è possibile ricostruire le fasi dell'invito a candidarsi, della resistenza, del diniego e della repulsa, per mezzo delle lettere scritte e pubblicate a Catania e a Roma.
In quella inviata ad Alberto Bergamini, direttore del Giornale d'Italia, pubblicata dal quotidiano il 22 settembre, molti i dettagli interessanti con riferimenti a personaggi noti come il prof. Francesco Guglielmino e l'avvocato e docente Vincenzo Finocchiaro, e che rimane fondamentale per la comprensione dell'intero episodio. Riportiamo la parte centrale di essa.
«Invitato la prima volta dall'on. De Felice addussi tutte le ragioni che mi impedivano di accettare e lo pregai vivamente > di rinunziare al mio nome. Quelle ragioni ripetei prima all'avvocato De Cristofaro, più tardi al prof. Guglielmino perché gliele confermassero più efficacemente. Ciò non di meno partito per la campagna ricevetti una nuova visita dell'on. De Felice accompagnato dal professore Finocchiaro e dal dott. Rapisarda, durante la quale commisi un errore che confesso con la stessa ingenuità che me lo fece commettere, quello di sperare che sarei riuscito a liberarmi con una resistenza cortese. Per evitare l'equivoco prodotto da questo errore misi sulla carta la precisa espressione del mio sentimento in due lettere indirizzate al Finocchiaro e al De Felice». Le lettere furono recapitate tempestivamente, prima della pubblicazione della lista, ma non sortirono l'effetto voluto dal De Roberto (cfr. La Sicilia, quotidiano, a. X, n. 263, Catania, 24 settembre 1910, p. 1).
Nella lettera pubblicata nei due quotidiani, De Roberto accennava a «un piccolo manifesto agli elettori», che a Catania fu affisso «sulle mura» mercoledì 21 settembre: «Agli Elettori, alieno e lontano per indole e proponimento dalle lotte della vita pubblica, dichiaro di non poter accettare la candidatura cortesemente offertami. F. De Roberto».
Severo il commento del quotidiano sul metodo di coinvolgimento di persone nell'attività politica, dando atto del corretto comportamento del De Roberto, che «appena venuto a conoscenza che era comparsa la lista popolare col suo nome, non esitò a far la pubblica dichiarazione che abbiamo riportato e che mentre onora lui, ricade ad onta e confusione di coloro che da lui avevano avuto l'audacia di servirsi per il proprio tornaconto elettorale» (La Sicilia, a. X, n. 261, giovedì 22 settembre 1910, «Un uomo di carattere»).
Leggiamo ora la versione del Corriere di Catania: l'on. De Felice e l'avv. De Cristofaro si recarono a Zafferana Etnea, dove si trovava in villeggiatura la famiglia De Roberto. Lì iniziarono le ricerche di Federico, con l'aiuto del fratello Diego, che poi li accompagnò a Catania. Qui altre ricerche e telegramma finale di Diego a De Felice «Riuscito impossibile trovare Federico. Suppongo partito per Nicolosi». Non manca la raccomandazione finale accattivante «A questo punto, pur apprezzando la squisita modestia dell'illustre scrittore, esortiamo gli elettori a dargli testimonianza solenne, il giorno 25, dell'alta stima di cui Egli è degnamente circondato» (Corriere di Catania, a. XXXII, n. 259, 22 settembre 1910, p. 3 «La candidatura di Federico De Roberto»).
La collocazione nella lista, per l'ordine alfabetico, viene subito dopo «De Felice Giuffrida Giuseppe, socialista«, ma la qualificazione per Federico De Roberto molto distinta e unica «letterato apolitico e amantissimo delle cose di Catania» (Corriere di Catania, a. XXXII, n. 264, martedì 27 settembre 1910).
La lotta di De Roberto per evitare la candidatura, defatigante per le lettere e i telegrammi, gli incontri e le fughe diplomatiche, fu dunque vana. Uno dei motivi che lo spingevano a rifiutare (nonostante due viaggi a Zafferana di De Felice, e le esortazioni di Guglielmino e di Finocchiaro) era certamente il fatto che la lista del « Blocco cittadino » aveva come capolista Pietro Aprile di Cimia, deputato al Parlamento, amico fraterno da trent'anni.
Siamo ansiosi di conoscere i risultati elettorali, ormai a ridosso del 25 settembre, giorno della votazione. Ancora una volta risultava vincente la lista del « Fascio democratico », che prevaleva con voti 3.895 (la lista del «Blocco cittadino» soltanto 3.159 voti). De Roberto risultava il 48° ed ultimo eletto della lista, con a cifra elettorale individuale di 3.524 (De Felice, il più votato, otteneva voti 4.724, ossia ben 829 preferenze aggiunte; opiniamo che De Roberto fu depennato da 371 elettori, forse in seguito al rifiuto della candidatura). La Sicilia, del 27 settembre, attribuiva a De Roberto voti 3.887 (in questo caso sarebbe stato depennato da pochissimi elettori).


***

Ormai tutto doveva rimanere alle spalle ed essere dimenticato: il 3 ottobre successivo fu eletto sindaco l'ing. Giuseppe Pizzarelli (capo della massoneria catanese). Federico De Roberto non presentò le dimissioni da consigliere, anche se la sua assenza non risultò giustificata nella prima seduta; sappiamo che collaborò con l'amministrazione civica in qualche manifestazione d'eccezione (nel 1913 dettò una lapide commemorativa per l'anniversario della morte di Mario Rapisardi, voluta dal Municipo). E il suo nome illustre fu registrato anche nelle guide con questa sola qualifica «De Roberto Asmundo Federico, consigliere comunale» (Guida-Annuario Galàtola per la Sicilia Orientale, Catania, 1911, p. 161).
(La Sicilia, 1985) Sebastiano Catalano





domenica 27 novembre 2016

Salvatore Paola Verdura sommo civilista catanese.

Catania, in ogni tempo, ha espresso giuristi ed avvocati prestigiosi, che hanno onorato il suo Foro e la cui fama ha varcato i confini non solo della città ma della Sicilia. «Il foro di Catania in particolare non è inferiore al foro di Napoli, di Torino, e di Parigi, né nella scienza del diritto, né nella energia della difesa» (così, nel gennaio 1861, affermava nel discorso inaugurale dell'anno giudiziario il Procuratore generale avv. Gabriele Carnazza




Fra i grandi civilisti della seconda metà dell'Ottocento, un posto eminente occupò certamente Salvatore Paola Verdura (Catania, 1837 /20 luglio 1916). Ottenuta la licenza di procuratore nel 1858, a ventun'anni, fu attratto irresistibilmente dall'entusiasmo che destava — anche in Sicilia — l'imminente guerra contro l'Austria e fu, nell'anno successivo, tra i più infervorati nel corso delle manifestazioni patriottiche a Catania «il cui centro era il gabinetto di lettura Fanoj » (come ricorderà il Paola in una memoria — inedita — stilata quarantanni dopo verso la fine del secolo). Nel giugno 1860 lo troviamo a Palermo prendere parte ad una grande dimostrazione unitaria organizzata da Giorgio Tamajo e con le funzioni di segretario in una delle commissioni che preparavano il plebiscito. «Nel 1862, quando Garibaldi entrò in Catania feci il mio dovere di soldato nella Guardia Nazionale» (e durante il servizio avvenne l'incontro con Giovanni Verga, anche lui milite, e l'inizio di un'amicizia durata oltre mezzo secolo, fino alla morte del Paola: vedi « L'amico avvocato », La Sicilia, 25 gennaio 1981).
Diamo ora rapidi cenni sulla sua presenza nell'amministrazione comunale. Dal 10 giugno 1860, quando fu nominato con decreto del Governatore del distretto di Catania Vincenzo Tedeschi, componente del Consiglio civico, poi consigliere sempre rieletto fino al 10 agosto 1897 (ed assessore il 2 settembre 1874 e più volte dopo, ed ancora eletto in Giunta il 7 gennaio 1891), diede negli incarichi tutti prova di rara competenza e probità. Alla fine del secolo, lo troviamo presidente della commissione consiliare per la Circumetnea.

Il 26 gennaio 1861 conseguì la laurea (e la coeva iscrizione nell'albo degli avvocati) e quindi — dopo un periodo trascorso nella fucina del grande Filadelfo Faro (che venne definito «ultimo della pleiade degli insigni avvocati catanesi», e che nel 1884 — primo anniversario della morte — degnamente commemorò) —, ebbe inizio un'attività professionale di tale fulgore, che dopo un quarantennio fu definito il primo avvocato d'Italia. Nel gennaio 1875 (a seguito della legge 8 giugno 1874) gli avvocati catanesi elessero il loro primo consiglio e Salvatore Paola fu uno dei quindici componenti. Trentacinque anni dopo, nel 1910, fu eletto presidente dell'Ordine (il quinto della serie), incarico che mantenne per i sei anni successivi fino alla morte.
Le scarne notazioni che precedono non mettono appieno in risalto la statura del giurista e dell'avvocato, ma d'altra parte non mancano testimonianze, episodi, giudizi, espressi in vita o dopo la morte da personalità di primissimo piano. Abbiamo posto in risalto che Paola fu amico fraterno di Giovanni Verga, che ricorreva spessissimo ai suoi sapienti consigli ed aveva fiducia illimitata solamente in lui. In tutte le cause che si svolsero a Roma, Torino, Milano (per i diritti d'autore di «Cavalleria rusticana», anche se i patroni di Verga erano professionisti di quelle città, sappiamo dall'epistolario che il deus ex machina rimaneva Salvatore Paola, con le citazioni comparse e memorie che spediva da Catania. 

Lettera inedita di Giovanni Verga all' avv. Paola (per Malìa)

In una lettera — a tutt'oggi inedita — all'inizio delle vicende giudiziarie di «Cavalleria rusticana», Giovanni Verga esprimeva profonda delusione per la chiacchiera dei forensi (e va oltre adoperando spregiativamente « sproloquiavano ») e nel contempo riesce a mettere in buona evidenza la qualità di fondo > del Paola: la dialettica fine e sottile (rimarcata poi nella commemorazione del 30 luglio 1916, pronunziata da Gabriello Carnazza per incarico dell'Ordine forense):
«Milano, 27 maggio 1891 — O Paola! Anzi, o Turiddu Paola! Dove sei? dove eri ieri, mentre questi deputati ed ex ministri sproloquiavano delle ore per non dire nulla? Dov'è la logica serrata e stringente delle tue conclusioni, in luogo di questi volumi che nessuno legge e che è inutile leggere? [...] G. Verga».

Ed è ancora il Verga che riferisce, in una lettera del 1902 (che possiamo annoverare fra quelle di valore storico) inviata da Milano al Paola, un giudizio espresso dall'insigne giurista Emanuele Gianturco (nel 1901 ministro di Grazia e Giustizia):
«Milano, 16 ottobre 1902 — Carissimo Amico, l'altra sera, pranzando con Donna Elena Cairoli, seppi da lei, con gran piacere, che Gianturco in casa sua a Roma aveva parlato di te, con altri, come del 'primo avvocato d'Italia'. Il tuo nome cadde nel discorso a caso, e la Cairoli mi riferì le parole del Gianturco senza sapere affatto che io ti sono tanto amico (e neppure che io ti conoscessi); il che mi affrettai a dichiarare come puoi immaginare, perché dell'amicizia tua sono lieto e orgoglioso, e l'alta stima in cui ti hanno uomini come il Gianturco, e la fama che accompagna il tuo nome mi fanno piacere immenso.
Ti abbraccio tuo aff.mo G. Verga».

Catania e la Sicilia furono sconvolte dall'affare che ebbe per protagonista l'ex ministro Nunzi Nasi, accusato di peculato in danno dello Stato. E Catania si mobilitò: il 21 aprile 1907 con n comizio indetto dai partiti popolari e il 17 luglio successivo con una manifestazione di protesta per l'avvenuto arresto (oratore l'avvocato Giuseppe Simili). Ricordiamo ciò per due motivi: il caso giudiziario ebbe l'epilogo avanti la nostra Corte di appello (in sede di rinvio) e perché l'atto di appello a stampa («Sul diritto elettorale di Nunzio Nasi», Catania, Tip. del Popolo, 1913, pp. 33), presentato alla fine di gennaio, fu sottoscritto come primo difensore dal comm. avv. Salvatore Paola (e di seguito da ben quaranta avvocati catanesi, di cui sette docenti universitari).

Nonostante la fama e la deferenza della clientela altolocata, dei colleghi, dei magistrati, delle personalità politiche che lo ricercavano, non conobbe vanità e superbia: «Corretto, elegante e semplice nella conversazione, non parlava mai di cause e molto meno di successi; deviava, anzi, l'argomento» (così delineava il carattere e lo stile l'avvocato Salvatore Boscarino nell'ottima «Rievocazione» del 18 aprile 1936 al Palazzo di Giustizia).
E una consuetudine cara all'ultimo Verga viene ricordata da G. Poidomani, già vice prefetto di Catania, «sedeva al ' Circolo Unione ' con gli inseparabili amici avvocato Paola e prefetto Minervini». Ma la testimonianza e l'elogio più alto per l'avvocato provengono dalla Magistratura catanese: «Ebbe felice e fulmineo l'intuito, la visione chiara, netta, precisa della controversia, ed il suo parere conteneva la sentenza che inderogabilmente doveva chiudere il dibattito » (così il procuratore del Re Giovanni Binetti nell'Assemblea generale del 6 novembre 1916).
A un professionista eccezionale non poteva mancare un singolare privilegio: l'epigrafe sul marmo della sua tomba fu dettata da Giovanni Verga:

«Qui la salma / di / Salvatore Paola Verdura / e il cuore dei suoi / con la reverente memoria / di quanti ne conobbero / l'alto spirito e l'opera».
(La Sicilia, 21 luglio 1981) Sebastiano Catalano