ecco atteggiamenti quasi incompatibili nelle persone che li assumono, ecco mani applaudire, braccia agitarsi in discussioni; nei volti dei cento spettatori mille espressioni, mille volontà, mille volti.
Appena un attimo di silenzio; poi squilla daccapo la voce del venditore ambulante che ti offre una manciata di ceci ; in un angolo — avvolta in una nube di fumo che pare voglia renderla evanescente e voglia farla scomparire come essere misterioso e tenebroso — una donnetta mesce acqua a meno di un soldo il bicchiere dopo che, ad uguale costo ha fornito il pubblico di un biglietto per assistere alla rappresentazione che or ora incomincia. Quasi una bolgia infernale. Un caldo asfissiante, un rumoreggiare di ragazzi e di adulti e di donnicciuole, uno sberleffare e un motteggiarsi a vicenda, un lanciar frizzi, acuti come sa fare il catanese, se per caso si scopre in mezzo al popolino il signorotto che non disdegna di assistere ad una rappresentazione che ha luogo al Teatro Machiavelli.
La rappresentazione è annunziata da un manifesto murale su cui si è sbizzarrita la fantasia di un pittore da strapazzo : in esso è dipinta, a vivissimi colori, una scena che l'uomo comune non può in alcun modo decifrare ; qualcosa come le anime del purgatorio nel crocicchio dei « bravi » : uomini che sembrano alberi dalla gigantesca statura, alberi che sembrano strani insetti mai visti ; una chiesa, una stradicciuola, un'Etna che dovrebbe essere di là dal gruppo descritto e che invece è posta come nel centro dell'abitato e che, con la sua presenza, quasi incombente su uomini e cose, dà forse il senso della grandiosità, dell'infinito e dell'imperscrutabile all'ambiente. Di traverso al cartellone è attaccata una trisciolina di carta sulla quale il calligrafo di turno ha scritto :
OGGI : « CAVALLERIA RUSTICANA » CON FUMO E SANGUE
intendendo dire che i non minuscoli attori di legno dispongono di speciali attrezzi per mezzo dei quali il puparo — che sta dietro le quinte e che, sudato, li manovra — ha la possibilità di presentare i personaggi in maniera assai realista e molto vicina al vero.
Si alza il sipario. Da questo momento incomincia la vita del più grande attore tragico che abbia avuto la Sicilia, d'uno dei più grandi attori che la storia teatrale ricordi.
Se qualcuno, in quel momento, pensò di penetrare, attraverso la piccolissima porta d'accesso al palcoscenico, fino all'angolo nel quale il «puparo», circondato dalle sue marionette e ingrovigliato in mezzo a cassepanche, a fili e ad attrezzi « parlava », come si dice nel gergo, i personaggi — notò certamente che il giovine figlio di don Angelo era come trasumanato.
Occhi egli aveva vivi e profondi, e negli occhi era tutta una vita, tutta una primavera che sbocciava fiori come nei campi della terra che lo aveva visto nascere — e poi la primavera mano mano sbiadiva e lontanava, e tumultuose le nubi che avevano gravato sull'orizzonte foriero di tempeste sopraggiungevano; e gli occhi avevano lampeggiamenti strani; tutta la forza d'una natura esuberante, di un volto capace di assumere mille espressioni, di un cuore che batteva fortemente e quasi ti faceva toccare con mano i suoi palpiti, era in quegli occhi. Il giovinetto che il padre aveva educato a stare rigido dietro le quinte per seguire solo con la voce i movimenti dei suoi « pupi », adesso invece si animava alla vicenda, e le sue braccia descrivevano nell'aria larghi gesti, e poi con le mani si arruffava i capelli corvini e ricciuti — i bei capelli di eterno ragazzo — o si premeva nel petto come per dire che di là, di là scaturiva tutto quel tumulto di passioni, tutta quell'ardente rete d'amore e di dolore, di gelosia e di dolcezze, di voluttà e di amarezze che gli tormentava l'anima e di cui pareva che dicesse ; vedete ? la colpa non è mia ! Intanto i « pupi » seguivano giù, nel breve palcoscenico, la voce; la mano nervosa di chi li manovrava li faceva passeggiare da destra a sinistra, li faceva sostare o girovagare, faceva loro muovere appena i piccoli legni ch'erano posti al luogo
delle braccia, ma eran « pupi »..... L'attore,
quello vero, quello di carne e d'ossa, era come imprigionato: parlava, si esaltava, rappresentava di già, ma un'altra sofferenza — oltre quella dell'arte, oltre quella del personaggio — si abbatteva contro di lui e tentava di soffocarlo.
Io dico che il segreto per potere comprendere la grandezza di Giovanni Grasso, la ragione per cui questo attore d'eccezione potè commuovere tutti i pubblici e potè fare sussultare con lui l'impassibile inglese come il cupo moscovita, l'aristocratico parigino come il sospettoso siciliano, l'americano chiassoso o il tedesco raccolto; il segreto per potere comprendere, dicevo, la grandezza di Giovanni Grasso consiste appunto nello scoprire quella sofferenza dei primi momenti — la sofferenza di colui che sa di patere essere e non è, che sa di avere un volto e di essere costretto a mettersi una maschera.
Quando questa maschera sarà strappata si rivelerà intero l'uomo; nel gesto di colui che toglie il posticcio che gli impiastrica il volto è la caratteristica dell'attore.
Coloro che giudicarono Grasso prendendo il suo punto di partenza come il centro della sua personalità e che credettero di ravvisare il gran-de attore nell'antico «puparo», il futuro Compar Alfio nello stilizzato e convenzionale Orlando, che attribuirono alla sua arte le qualità passionali di quei fantocci ch'egli era costretto a presentare e nei quali il suo cuore non poteva palpitare, costoro errarono. Grasso interprete di Rinaldo di Montalbano, di Gano di Ma-gonza, di Rodomonte, di Merlino e di Malagigi non era Grasso ; oppure — che è la stessa cosa — le figure del ciclo carolingio nella presentazione di Grasso assumevano altra forma, altro aspetto, altro valore. Quelli erano tipi, erano personaggi e non persone ; la poesia che emanava ed emana ancora dalle loro gesta nasceva da tutt'altra ispirazione che non da quella che sbocciò in mezzo alla zagara dei nostri giardini che hanno come sfondo l'Etna e che si concludono con un mare più azzurro, più profondo, più arioso di quello per il quale navigò l'eroe della Chanson. Quando il figlio di don Angelo — spinto dal bisogno di attirare il popolino fedele alla tradizione paterna nell'antico teatro — metteva in scena i casi di Orlando non scavava certo in profondità se scambiava la generosità del personaggio con la generosità propria del siciliano, se attribuiva la pazzia dell'innamorato di Angelica alle esaltazioni che poi doveva avere, per esempio, il suo Vanni del Feudalismo», se infine dava alla galanteria del difensore del Cristianesimo lo stesse spirito che poi doveva avere Turiddu Macca, dal basilico all'orecchio e dai pantaloni a campana.
Quella della prima giovinezza fu scuola per lui.... forse nemmeno scuola: fu la necessaria sofferenza che ad ogni artista impone la vita, quella catena che si è costretti a trascinare, che spesso si maledice ma che invece è stata benedetta da Dio perchè lima e raffina la nostra anima, perchè ci insegna la via del mondo e ci rivela completi — quelli che noi siamo, quelli che dobbiamo essere. Tale catena trascinò Giovanni Grasso per qualche tempo e fu fortuna per lui; fu fortuna perchè nella ribellione consistette la sua grandezza e la sua personalità. Ed allora, diavolo ribelle, si accorse che quanto aveva dato di sé alle sue marionette era stato vano, quanto aveva cercato di ritrovare nei personaggi che si muovono con fili ed hanno volto ed occhi immobili era stato illusione, ciò che prima era stata la sua preghiera e la sua canzone era falso. Non è vero, che Grasso apprendeva dai « pupi » ; che Grasso andava loro incontro lieto di accogliere il loro mondo nel suo mondo con volto sorridente e con animo pronto; non è vero che lo spagnuolismo di maniera al quale era sembrato avesse aderito il suo cuore poteva essere simile a quell'altro spagnuolismo, meno formale e più profondo, che contraddistingue noi siciliani impetuosi ed aggressivi.
Ho sottolineato poco fa le parole con le quali venne annunziata la recita di « Cavalleria rusticana eseguita dalle marionette di Grasso — la seconda maniera del leone siciliano, dopo il tentativo che subì come eredità paterna e prima della completa rivelazione — : amore al realismo, ho detto ; richiamo verso la verità. Fu, questo, il primo passo; l'altro, meno lungo ma più significativo e più compendioso, doveva compierlo appena dopo, senza ch'egli stesso se ne accorgesse ; la vera rivelazione della caratteristica di Giovanni Grasso fu quando il « puparo » si decise a diventare attore, e non perchè — notate bene — nella nuova veste avesse agio di meglio mostrarsi al pubblico, con tutte le sue possibilità e con tutte le sue infinite sfumature d'espressione, (questa è cosa secondaria quando si vuole ricostruire il temperamento di un attore e si vogliono ricercare le ragioni per le quali il suo nome è degno di sopravvivere alla sua persona) ma perchè con quel gesto egli era ritornato bambino, aveva annullato quanto di formalistico poteva esservi nel mondo ch'egli conosceva, e, liberandosi del fardello del tempo, aveva dimostrata una fede nella natura, nelle brute forze della natura che sono capaci di sconvolgere in un attimo quanto ci circonda e quanto la natura stessa aveva prime creato.
Esteriormente, la civiltà era per lui rappresentata dal «pupo», dalla marionetta che gli altri — le altre marionette che ci circondano — vogliono così e così, con quell'abito, con quel sorrisino affiorante nelle labbra, con quel volto tinto, e che deve dire di sì e di sì anche quando il cuore vorrebbe dir di no e deve restare impassibile anche quando l'anima piange o si vorrebbe sghignazzare; la natura era invece rappresentata dalla persona, dall'uomo il quale si presenta al mondo così com'è, senza trucchi, senza inganni, col solo lasciapassare della sua sensibilità, della sua volontà, della sua innocenza.
Ed ecco l'uomo dinanzi agli altri uomini. Il cammino di Giovanni Grasso, da questo momento in poi, è coerente, lineare, logico; è il cammino di colui ch'è ritornato alla primitività, che non riconosce altra legge all'infuori eli quella del suo cuore, che vive nell'istinto della sua anima la quale non può suggerire cose errate perchè sente di essere pura e di vedere in purità ciò che ad essa si avvicina e ciò che la circonda.
Gli affetti più dolci, più spontanei diventano il centro del nuovo teatro ; la venerazione della madre, l'amore alla propria donna, il rispetto all'amicizia sono i punti fondamentali sui quali si basano i drammi che Giovanni Grasso presenta al mondo il quale, attonito, non ha nemmeno la possibilità di discutere questa nuova forza che ha annullato ciò che prima sembrava intangibile e inviolabile. E tali affetti non hanno confine : la madre è tutto, la propria donna è tutto, l'amico è tutto; chi tradisce una di queste tre regole fondamentali — che sono la legge dell'amore — è degno di essere punito, ed è punito non perchè la logica vuole così, ma perchè così comanda l'istinto, il cuore. E' punito, non per l'odio che suscita il traditore, ma per l'amore che ispira il tradito; non per vendetta della colpa, ma per l'annullamento della colpa.
Ricordo di Giovanni Grasso una interpretazione che andò celebre durante il primo periodo della sua vita teatrale : un drammetto che non aveva niente d'artistico, ch'era anzi la negazione dell'arte e che solo una mentalità antiletteraria poteva concepire : era un atto che fece un poco imbizzire Giovanni Verga. Era intitolato Dodici anni dopo e voleva essere la.....
continuazione della Cavalleria : Compar Alfio ch'esce dal carcere dopo di avere scontato la sua pena e che s'incontra col figlioletto di Turiddu Macca. La si direbbe un tiro dell'attere alla poderosa opera del genio di nostra stirpe, se non si conoscesse la devozione che Grasso nutriva per Verga. Si dice infatti che Verga una sera sia andato ad assistere alla rappresentazione con la ferma volontà di richiamare il sue interprete e di impedire lo scempio. Ebbene, quando l'artista fu di fronte all'attore; quando l'attore ebbe il tempo di farsi ascoltare, allora ogni rancore scomparve.
Grasso aveva una battuta semplicissima, ma egli dava ad essa tutta la potenza d' espressione che possedeva ; il suo volto — le ricordate ? pallido, butterato e nello stesso tempo gentile — il suo volto pareva fosse stato tagliato a pezzi, pareva fosse liberato di tutta la carne che 1'avrebbe impacciato, e le parole erano pronunziate con lentezza, lanciate in una volta e nello stesso tempo soffocate come l'urlo d'un leone ferito; e la ferita era il rimorso, la necessità di accusarsi, il riconoscimento del peccato: « U mmazzai jù a tò patri ! » ed era giù a terra, come un colosso abbattuto, piangendo, singhiozzando.
Questo gesto è significativo nel nostro grande attore: è ancora una volta l'abolizione del formalismo e dell'esteriorità; è l'uomo che ha bisogno di scontare a modo suo la pena, con ciò che maggiormente potrebbe umiliarlo ed affliggerlo: la confessione. Non solo; è la dichiarazione precisa del suo animo che mosso solamente dall'amore per cui, se uccide Turiddu Macca pensa che con quella morte ha salvato l'amico e la propria donna dal peccato, peccato che inchioda in una lama di coltello unta d'aglio. Infine come ha liberato la sua arte d'ogni formalismo, così vuole che la realizzazione sia priva di fronzoli e d'artifici, costituisca anche uno sconvolgimento di tecnica e di stile ; quella tecnica e quello stile ch'erano la conquista di tanti altri attori del suo periodo — non ultimo di quell'Ernesto Rossi che gli offrì, entusiasta e sincero, un posto gratuito alla Scuola di recitazione di Firenze, quasi che l'aquila si potesse imprigionare in una gabbia o il leone potesse diventare più espressivo se addomesticato e trasformato in cagnolino, pronto a sollevare dietro un cenno le zampe anteriori e a fare la riverenza, o non meglio se non lo si lascia libero a vagare per la foresta e ad atterrire col suo urlo tutta la jungla.
Primitivo dunque fu Grasso nel senso più vasto e più largo della parola; fu primitivo come artista e fu primitivo come attore; e questa primitività, questa scompostezza, questa irrequietezza del sentire e dell'esprimere diedero vita — perchè tali caratteristiche sono quelle che contraddistinguono la nostra gente — diedero vita al teatro siciliano; non solamente a quel teatro dal quale dovevano poi uscire Angelo Musco e Marinella Bragaglia, Mimì Aguglia e tutti quegli altri attori che elessero il Grande del Teatro Machiavelli come maestro e lo venerano come tale, ma sopratutto a quel teatro eh è la realizzazione artistica del nostro tormento isolano, nel quale ogni siciliano si chiude appunto come dentro un'isola, a quel teatro che comprese il genio di Giovanni Verga e la finezza di Luigi Capuana e la sottigliezza di Nino Martoglio, quel teatro ch'è un punto d'arrivo e un punto di partenza non soltanto di tutte le letterature dialettali ma di quelle che hanno dignità e vita nazionali.
Chi mi ha seguito fino a questo momento, si sarà accorto che il centro di questa possente forza nata per sbalordire fu l'amore: amore rude, selvaggio, ma amore; quello stesso del quale egli sapeva parlare con tanta leggiadria, con tanta dolcezza, con tanta simpatia alla Rusidda di Pietra fra pietre, alla « dolce mugghiredda » di Feudalismo, alla Marta di Capitano Bianco, a Chiara di Notte senz'alba, a tutte le infinite altre creature, madri e spose, che popolarono il suo repertorio; e fu amore per la terra, amore per il suo dolce orizzonte, per il suo cielo, per il suo mare, per le piccole cose come per le grandi, per la « pecorella bianca », per l'orologio che « batteva le ore durante l'assenza del personaggio » che egli incarnava, per la casa dove ogni angolo è un mistero e un mondo ; amore detto talvolta con troppa enfasi che però non era retorica; l'amore che può avere ,un bambino il quale si risveglia — come l'Aligi della tragedia dannunziana che Borgese per lui tradusse — dopo lungo sonno e tutto ciò che vede all'intorno diventa meraviglioso e diventa nuovo ed inusitato.
In questo amore fu un tradito ed un calunniato. Purtroppo, assai superficialmente taluni o troppo lo ammirarono o troppo lo denigrarono, perchè videro in lui l'accoltellatore della scena finale, quasi che fosse gesto di maffia quella che invece era la catastrofe nella quale — come gli eroi del mito eschileo, come Oreste, come Edipo, come il padre di Ifigenia — egli rimaneva un vinto, schiacciato dal suo stesso atto di rivolta.
Oggi, dopo sei mesi dalla morte, dopo quei lunghi anni di silenzio che dovette imporsi per il terribile male che lo doveva colpire nel sonno, il nome di Giovanni Grasso è pieno di luce, è vivo come furono vive le sue creature, è presente in noi che lo amammo e in coloro che non lo conobbero nemmeno. Abbiamo perduto il suo gesto, non rivedremo più gli occhi suoi, il suo volto, la sua gigantesca figura, non riascolteremo più la sua voce tremante di emozione e di commozione, quella voce che faceva sussultare tutte le platee e faceva fremere tutti i pubblici, ma la grandezza della sua arte chi potrà cancellarla mai ? A differenza di ciò che avviene con gli altri attori, dei quali l'espressione, che vive con loro, si sperde nel tempo — il tempo in Giovanni Grasso ha operato un altro miracolo, che fu l'ultima riconoscenza della Natura madre : quello di confondere nel mito la sua arte ; ed il suo nome resta il simbolo di tutta una gente.
VITO MAR NICOLOSI
Rivista del comune di Catania maggio-giugno 1931
Giovanni Grasso, 1908 Di Nikolai Nikolayevich Sapunov
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