Una Myriam Manzella quindicenne scrive la sua serata romana del 1939 tra locali e protagonisti del tempo «a diventar matti dalle risate» sul «sacramentale cosmico»
Su 4 foglietti, trovati fra le pagine de “Il poema dei Sansepolcristi”, scrive il 20 luglio 1939 una Myriam Manzella quindicenne: «Ieri sera ò passata una serata che non dimenticherò mai più. Bella, interessante, e strana. In casa di Marinetti il simpatico futurista, abbiamo conosciuto un giovane poeta sardo, direttore di un giornale “Mediterraneo futurista”, Pattarozzi, col quale assieme ai coniugi ci siamo intrattenuti in interessantissima conversazione. Si parlava di arte, di politica, del dolore, di gelosia, di popoli, di costumi; insomma un genere di conversazione che à fatto volare il tempo. Marinetti è un Sansepolcrista idolatra di Mussolini come mio padre e Pattarozzi quindi trovandosi perfettamente d’accordo anche in questo campo la conversazione non languiva. Io ò avuto regalato da Marinetti un suo libro con la dedica che mi à procurato un immenso piacere. Dimenticavo di dire che c’era con noi una simpaticissima ed intelligentissima signora amica nostra. Pattarozzi ci ha accompagnati fino al filobus e coi lui ci siamo puntati per le dieci in caffè. Lì abbiamo trovato un filosofo mezzo pazzo con la moglie, e un architetto amici di Pattarozzi. Mentre si parlava simpaticamente ecco che il filosofo, che oltre ad essere pazzo era anche divertentissimo, ci chiede se ci fossimo mai occupati del “sacramentale cosmico”; ricevendo risposta negativa incomincia a spiegare. Bisognava starlo a sentire. Discorsi senza capo né coda senza un nesso logico, senza una conclusione, c’era da diventar matti dalle risate. Si beveva della birra di cui l’amico non faceva economia; ad un certo punto ci lascia “per andare a bere un calice! ”. La moglie un tipo di gatta infatuata dai discorsi del marito à l’incarico di spiegarci il “sacramentale cosmico” che poi è diventato il mito della serata. Insomma non si viene a capo di niente. Ed ecco che il “pazzo filosofo” dopo un dieci minuti di assenza si fa risentire attraverso il telefono dicendo di trovarsi alla “Rupe Tarpea” invitandoci a raggiungerlo immediatamente. Divertiti da questi contrattempi accettiamo allegramente.
La “Rupe Tarpea” è un ritrovo interessantissimo, che ricorda i tempi degli antichi Romani nella sua costruzione, locale caratteristico Romano, ritrovo di strana gente. Poeti, cantanti, filosofi, donnette stralunate. Tutti bevono a gara e mangiano olive salate. Ci sediamo su delle botti che fanno da sedie accanto ad un rozzo ma bel tavolo di quercia, si sturano parecchie bottiglie di Chianti, Lambrusco, Moscatello, Frascati di cui ne beve in massima parte il filosofo che ad un certo punto invita il poeta a declamare qualche sua poesia, noi approviamo con entusiasmo: versi strani, che non ò mai sentito, forse perché finora non conoscevo poesie futuriste, ma dotate specialmente in certi punti di una grande forza, tratti decisi, sagome stagliate, contorni balzanti. Insomma sono piaciuti a tutti. Il filosofo era già brillo e voleva assolutamente che Pattarozzi recitasse “forte sempre più forte, tutti debbono sentirti! ”. E quello che gli dava ascolto e si riscaldava nella eccellente declamazione esaltandosi un po’ da futurista. Dietro il nostro tavolo attraverso una strana ringhiera di legno lavorato si vedevano seduti tre coppie uomini e donne che cantavano a sfiata polmoni; ancora più oltre, due uomini ad un tavolino, gli occhi negli occhi, tratti nei tratti discutere animatamente interrompendosi solo per bere. Proprio sotto un’anfora antica romana che stava sospesa in un angolo della sala, due uomini ed una donna che rideva e rideva, ubriachi fradici. Rendevano ancora più strano il locale gli impeccabili camerieri che silenziosamente scivolavano attraverso le botti e i tavoli come se fossero stati estranei a tutto ciò. Lucerne ciondolanti dal soffitto volevano forse con la loro luce malata cercare di soffocare quel chiasso. Non so da dove, trapelava a tratti della musica che sembrava quasi cercare d’infiltrarsi nelle brevi pause delle voci... e il poeta cantava i suoi “archi cilestrini” i suoi “coltellacci di sole”, “i porti ansimanti della Sardegna”.
Uscimmo da quel locale a mezzanotte passata. Il “Filosofo” a braccio della moglie completamente sbronzo che con i suoi strampalati discorsi ci faceva letteralmente crepare dalle risate, il poeta eccitato, l’architetto occhialuto che tentava di spiegarci il valore della finestra in una casa. Roma dormiva sotto un cielo incendiato di stelle, vegliavano solo le fontane, i cui bianchi spruzzi baluginavano come bianche braccia di donne sopra un tessuto di notte. E il poeta volle ancora cantare alla città addormentata, forte, che tutta Roma lo sentisse, dimenticammo noi stessi e dove ci trovavamo, ci riportò alla realtà il “filosofo” che voleva assolutamente tornare a casa in carrozza. Ridendo ci muovemmo alla caccia d’una carrozza che finalmente fu trovata. Ci volle un bel pezzetto per convincere il “filosofo” che nella carrozza non ci si stava tutti, e finalmente ci accomiatammo dopo avere ancora una volta pregato “l’ubriaco” di spiegarci il “sacramentale cosmico”. Mentre per via Nazionale si perdeva lo zoccolio del cavallo ci avviammo sotto braccio al nostro albergo. 20 Luglio».
Cara Marussja, quando la memoria tace rimane solo la parola scritta a ricordarti come eri, rimane l’abbraccio di chi ti accompagna e con te condivide la povertà che ci rende fragili: quella del tempo. Ma tu rispondi col titolo della tua ultima raccolta di poesie: “Che importa il tempo”. È vero: ora ci hai trascinato in quella lontana serata futurista e anni fa ci hai nutrito con la bellezza dei racconti pubblicati su “La Sicilia”. Auguri madre. - LUNEDÌ 22 SETTEMBRE 2014
VANIA DI STEFANO
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