Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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domenica 30 novembre 2014

G. Verga, F. De Roberto e Ricordi - Bozze del contratto per il libretto della Lupa - 1891


Scritto da Simone Ricci

Il "ferro" del Verismo andava battuto finché era caldo: si può forse riassumere con questo modo di dire riadattato la vicenda che ha visto come protagonisti Giacomo PucciniGiulio Ricordi e Giovanni Verga. Una vicenda che si colloca storicamente nel periodo in cui le opere liriche cercavano di seguire l'esempio lanciato nel 1890 da "Cavalleria rusticana" di Pietro Mascagni, il cui successo internazionale aveva intensificato la ricerca di soggetti simili. Questo sforzo cominciò prima ancora che "Manon Lescaut", il primo vero trionfo di Puccini, fosse rappresentata per la prima volta al Regio di Torino (1° febbraio 1893). Bisogna infatti tornare indietro al 1891.
Lo stesso Ricordi aveva deciso di siglare un contratto con Giovanni Verga: lo scrittore siciliano aveva il compito di fornire un nuovo libretto, prendendo spunto da una novella tratta da "Vita dei campi", un impegno da portare a termine insieme a Federico De Roberto, altro rappresentate del filone verista. Si trattava de "La lupa", la storia di una donna siciliana piuttosto "vorace" dal punto di vista sessuale (la pubblicazione della novella in questione risaliva al 1880). Comincia in questo maniera la storia di un'opera che non vedrà mai la luce, a causa di una serie di eventi concomitanti, primo fra tutti il maggior interesse nutrito da Puccini nei confronti di quella che poi sarebbe diventata "La bohème".

In seguito alla stesura del contratto, il lavoro era proseguito senza grandi squilli di tromba. Verga era ben immerso nella stesura del libretto, tanto che la sua novella si trasformò rapidamente in un dramma. Nel 1893, il compositore lucchese approvò il primo abbozzo, chiedendo comunque qualche lieve modifica: ad esempio, la parte della figlia della "lupa", Maricchia, aveva bisogno di maggiore tenerezza. Verga andò ben oltre le richieste di Ricordi e nel 1894 l'abbozzo stava prendendo sempre più forma, al punto che Puccini dimostrò un entusiasmo crescente.  "La lupa" aveva buone possibilità di vedere la luce di lì a poco, come testimoniato da una lettera di Verga a De Roberto:

Perché continui a essere felice, ora che sembra così ansioso di cominciare, potresti mandarmi una scena dopo l'altra appena le hai terminate.
Ma cosa pensava esattamente Puccini di questo progetto? A parte qualche scarno riferimento nelle sue lettere (Io per ora lupeggio), il suo obiettivo era quello di mettere in musica un'opera breve, di dimensioni non superiori ai "Pagliacci" o "Le Villi", un atto unico che necessitava di numerosi tagli. Ricordi pensò bene di far visitare Catania al suo pupillo, in modo da assorbire l'atmosfera locale e immedesimarsi meglio. Le distrazioni della Bohème, però, erano troppo forti per fargli pensare a un allestimento del genere. 
La tappa siciliana confuse ancora di più le idee. Una volta tornato a Torre del Lago, Puccini confessò a Ricordi di avere parecchi dubbi sulla Lupa: non voleva accantonare nessun progetto, ma il soggetto di Verga non faceva evidentemente per lui, come spiegato nel viaggio di ritorno alla contessa Blandine Gravina. Il musicista toscano la ascoltò disapprovare lo scioglimento del dramma, vale a dire l'uccisione della protagonista nel corso di una processione. Verga iniziò a sospettare che Puccini lo prendesse in giro, ma attese ben diciassette anni che la sua novella fosse messa in musica, prima di puntare su altri autori. 
Temo che sarà minestra riscaldata. Io e Ricordi parleremo insieme al Puccini, che vuole e non vuole, e lo metteremo al caso di dir netto sì o no.
L'amarezza dello scrittore è più che palpabile (la lettera risale all'estate del 1893), un sentimento che sfocerà in breve tempo in rassegnazione. Bisogna però sottolineare come il tempo perso con "La lupa" non fu inutile e sprecato in senso assoluto. In effetti, Puccini si ispirò a questi abbozzi per comporre il tema di Rodolfo nella Bohème, mentre altre idee e spunti furono sfruttati in seguito per la "Tosca". 
Soltanto nel 1948 (Verga e Puccini erano morti da oltre due decenni), la novella verghiana diventò un'opera, grazie a Santo Santonocito, il quale si avvalse del libretto di Vincenzo De Simone. Chissà come sarebbe stata la Lupa pucciniana: nessuno può dirlo, la vicenda verrà ricordata per i ripensamenti, i sospetti e le indecisioni dei protagonisti, il compositore scartò molti soggetti nel corso della sua vita, ma in questa occasione fu molto vicino a portare a termine il lavoro, prima di metterlo da parte in maniera definitiva.
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Bozze contratto, collezione privata di F. De Roberto (inedito)









lunedì 9 aprile 2012

"La Morte di Giovanni Verga" - di Federico De Roberto 1922

La Lettura - Rivista mensile del Corriere della Sera 1922
  

Il Maestro non si era sentito così bene come negli ultimi tempi, come nell'ultimo giorno.
I disturbi, le sofferenze, le oscure minacce che gli avevano fatto dire più volte: «— La vita mi è di peso», parevano cessati. Si lagnava soltanto del freddo di questo crudo inverno. Il caminetto dove bruciavano i tronchi morti e i rami potati dei suoi cedri e dei suoi olivi di Nuova luce non riusciva a riscaldare la troppo vasta camera. Voleva provvedersi, di stufe elettriche, e ad un amico venuto a trovarlo l'ultima volta aveva fatto provare quelle mandate da un fornitore. Troppo piccole, neanche in due bastavano ad addolcire la temperatura.
— Balocchi —, aveva detto; — buone tutt'al più sulla scrivania, per lavorare.
— Per lavorare? — ripeté l'amico, con la luce d'una speranza, negli occhi.
Egli sorrise, enimmaticamente. '
Prima di uscir di casa parlò d'affari. La crisi degli agrumi, gravissima all'inizio della campagna, si mitigava alquanto : i compratori avevano offerto un prezzo non rovinoso; già si procedeva al primo raccolto dei frutti d'oro. Un'incresciosa questione di proprietà letteraria s'avviava al componimento. Di uno scrittore francese che poco prima gli aveva preannunziato un articolo sul Temps per proporre che gli fosse conferito il premio Nobel, era senza notizie; del resto, non credeva al premio, e come tutte le volte che si parlava delle cose sue lasciò morire il discorso. Poi parlò della crisi politica, disse con parole roventi il suo sdegno contro tutti i responsabili dell'avvilimento della nazione dopo la prova terribile gloriosamente superata,. Manifestò il proponimento di recarsi a Roma per assistere ancora una volta ai lavori del Senato, e ricusò il consiglio di aspettare la stagione più mite.
Parlò anche d'arte e, raro caso, di poesia.
Il  poeta dei Vinti, non aveva mai scritto versi, né gustava molto quelli degli altri. Come sen-timento, la disperazione di Leopardi riusciva cordialmente antipatica al credente nella vita, al creatore di vite.
—  Foscolo, sì... — E ad un tratto, dalle latebre della memoria non più sicura, già involta nelle nebbie della sclerosi, dalle labbra che non avevano più recitato versi dopo i remotissimi anni della scuola, sgorgarono limpidi, come letti, come dettati nell'estro, con voce forte, con larghi gesti, questi dei Sepolcri:
— Il navigante 
Che veleggiò quel mar sotto l'Eubea, 
Vedea per l'ampia oscurità scintille 
Balenar d'elmi e di cozzanti brandi, 
Fumar le pire ìgneo vapor, corrusche 
D'armi ferree vedea larve guerriere 
Cercar la pugna; e all'orror de' notturni 
Silenzii si spandea lungo ne' campi 
Di falangi un tumulto, e un suon di tube,   
E un incalzar di cavalli accorrenti 
Scalpitanti sugli elmi a'.moribondi,  
E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

Le Parche cantavano in quel momento il canto suo ultimo:  Clold cessava di filare e Atropo già brandiva le affilate cesoie..,.
Ma, presso a spegnersi, la lampada mandava, un più vivo guizzo. Per le scale, nelle vie, il passo era fermo; anzi il saldo braccio del gran Vecchio si offriva al braccio del meno vecchio ma anche meno valido amico.
—  Il morto regge il vivo!.. — e la voce rideva, nel ripetere la celia paesana.
Spirito e fibra erano investiti da una nuova onda di vita. D'ordinario, giunto dinanzi al suo Circolo, egli vi si fermava, già stanco, per tirare il fiato : quella sera volle proseguire fino al negozio degli apparecchi elettrici; poi, disassuefatto dai caffè, ebbe voglia di prendere qualche cosa — « Non importa che cosa! » — pur di ricordare altri tempi, i tempi di Milano, i convegni con Boito, con Giacosa, con Capuana, con Luigi Gualdo, con Giovanni Pozza, con tutti gli amici perduti.
L'ultimo giorno, tra i suoi, al Circolo, fu presente a se stesso come non mai; rincasando, passando a salutare la figlia d'adozione, nel quartierino del primo piano, scherzò e rise, giovanilmente. Cenò solo, come d'ordinario, nel suo grande quartiere del piano superiore; dopo cena domandò al cameriere se avesse posto in ordine ogni cosa; alla risposta, affermativa, soggiunse :
— Puoi andare a riposare — Furono le sue ultime parole.
Si preparava a riposare egli stesso. Diede alla sua persona le cure consuete e si chiuse in camera, secondo l'antica, consuetudine. Prese dalla scrivania e portò sul comodino l'ultimo libro ricevuto in dono: il Natio borgo selvaggio di Ferdinando Paolieri, scrittore a cui portava moltissima stima; e sul volume dispose le lenti divenutegli necessarie, da anni a, cagione del  presbitismo.   Caricata la sveglia,  e l'orologio da tasca, cominciò a svestirsi, liberò il braccio destro dalla manica della giacchetta. La folgore lo percosse in quel punto,  sulla fronte.
Il colpo mortale non riuscì ad abbatterlo, nel primo momento. Il primo sintomo, la, nausea, lo sbocco di vomito, lo colse in piedi, contro lo stipite dell'uscio. Poi cadde, ma non di peso, perché nessun rumore fu udito, nessuna lesione fu riscontrata sul corpo. Si piegò, si distese lentamente, compostamente.
E le ore della lunga notte invernale cominciarono a scorrere, nella casa silenziosa, sul corpo immobile al nudo suolo, sotto la gelida luce della lampada, elettrica. Ne scorsero dieci, di quelle interminabili ore: dalle dieci della sera alle otto del mattino. I dottori affermano che la coscienza fu perduta fin dal primo momento. Giova crederlo; perché, se la coscienza restò desta e vigile, per tutte quelle ore, o per qualcuna, o per qualche attimo; se le labbra vollero chiamarle, e non poterono, se il braccio, volle tendersi e non poté, lo strazio dovette essere ineffabile — come quello che egli aveva provato un'altra volta, la prima volta che era caduto ai piedi del letto, anni addietro, e aveva voluto e non aveva potuto gridare aiuto.
« Teneva gli occhi fissi sulla figliuola, e accennava col capo... Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando... Gli occhi, tristi, s'eran fatti più dolci, e qualcosa gli, tremava sulle labbra...»."
Il Maestro non parlava, più, ma gli occhi, erano aperti, e la sua voce usciva, esce ancora, uscirà nei secoli dalle pagine del suo libro imperituro,
—Ti ho voluto bene anch'io... quanto ho potuto... come ho potuto... Quando uno fa quello che può... »,
Egli aveva fatto quanto era umanamente possibile, per queste creature del suo nome e del suo sangue. Trent'anmi addietro, nella piena maturità dell'ingeno, nel massimo fervore della produzione, il domani di Mastro don Gesualdo, mentre scriveva le prime pagine della Duchessa di Leyra, aveva chiuso il quaderno, riposta la cartella, lasciata arrugginire la penna, abbandonate Milano e Roma, per venire a far da padre ai nipotini due volte orfani, per badare alla loro educazione, per garantire i loro interessi. Fino all'ultimo giorno, a ottantadue anni, si era imposta la più rigida economia, si era privato di tante cose, anche necessarie, per amore di queste creature.
La figlia d'adozione gliel'ha, reso. È stata la prima, ad accorrere, la sola a soccorrerlo, durante la mattinata. È stata lei a sollevare da terra, accogliendo tutte le sue forze, il corpo rigido e greve; è stata lei a rendergli i più umili servigi, fino all'ultimo istante.
« Allora l'attirò a sé, lentamente, quasi esitando, guardandola fissa, e l'abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini... ».
La scienza dice che questi movimenti sono, semplici riflessi, dipendenti da fatti d'irritabilità corticale, quindi del tutto meccanici e inconsapevoli; che gli occhi non vedono, che l'anima non sente. L'amore si rifiuta di crederlo, ha fede che l'amore lo intenda e gli risponda.
La diagnosi è di emorragia cerebrale con paralisi totale dell'arto superiore destro e di entrambi gl'inferiori, con forte contrattura del braccio sinistro, abolizione dei riflessi pupillari, rilassamento dei muscoli facciali, impedimento della deglutizione e dei movimenti della lingua. La prognosi è nefasta: concede sol-tanto che questo stato si possa prolungare durante qualche giorno. Ma se egli non è rimasto ucciso sul colpo, se è sopravvissuto alle dieci ore di assideramento, non potrà ancora riaversi?... Non è una speranza, se resterà paralizzato nel corpo, privato delle facoltà più nobili, del pensiero e della parola. Se egli ode, se pensa, ripete certamente a se stesso ciò che ha sempre detto: che è meglio esser portato via di schianto, piuttosto che ricominciare a morire a poco a poco.
Le sanguisughe sono applicate sotto gli orecchi, la cuffia col ghiaccio è adattata, sul capo; si praticano le iniezioni di ergotina. Nessuna alterazione nei lineamenti, ancora: è sempre lui, il suo profilo da cammeo, il suo vivo sguardo. Impossibile credere che quegli occhi non vedano; impossibile osservare la prescrizione di non chiamarlo: tanto pare che distingua ed interroghi.
Preesisteva l'arterio-sclerosi di tutto il sistema, vascolare; ma se il cuore è vecchio, è ancora saldo. Il respiro è libero. Appena, un lieve arrossamento della fronte e delle guance rivela la congestione. Quando, occorre scoprire il suo corpo;, la mano ancora valida ricerca il lembo delle lenzuola, e stira quello della camicia, con un gesto di pudore. È anch'esso automatico?... Occorre tener ferma quella mano, che oppone una gran resistenza; anche la gamba paralizzata ha spesse contrazioni.
Ma verso sera questi movimenti si rallentano, le condizioni generali si aggravano. Il polso comincia ad essere aritmico, con ondulazioni sempre più larghe. Poi si riprende, va d'accordo col respiro. Nulla si può ancora prevedere, se non che passerà la notte.
All'alba del domani il parroco di Santa . Chiara gli dà l'Estrema unzione. Santa Chiara è la badia dove sua Madre adolescente visse tanti anni educanda; dove furono portati, morti, tutti i suoi cari. Con i ricordi della vita delle Clarisse narrati da sua Madre egli compose la Storia d'una Capinera. Dai balconi della sua casa, dal suo letto, egli ha visto durante più che mezzo secolo la facciata della chiesa, sull'altro lato della via, quasi dirimpetto. È stato sempre credente, sebbene non rigoroso osservante. Ogni mese, nel giorno della morte della Madre, ha fatto dire una messa. A Milano, quarant'anni addietro, un Venerdì Santo, un confratello lo vide entrare in chiesa e ne fu un poco stupito e gliene domandò il perché. Egli rispose:
—  Perché so dì far piacere a mia Madre. L'amico osservò :
— Ma tua Madre è a Catania, non lo sa, non ti vede:..
—  Non importa: la vedo io.
Di fianco al letto, sopra una losanga di velluto rosso, sono raggruppati i ritratti della Madre, del Padre, della sorella, dei fratelli, dei nipotini morti. Del Padre vi sono anche, nella stessa camera, due ritratti su tela, grandi al vero, una mezza figura, alquanto fredda, disegnata e colorita dopo la morte, e, d'un'al tra mano, più esperta, la sola testa appena abbozzata, ma piena di vita.
Il parroco, spettatore di tante agonie, assicura che si rimetterà. Ma con l'avanzarsi del nuovo giorno il viso si accende sempre più, il rilassamento dei muscoli faciali del lato destro aumenta. I movimenti sono quasi del tutto cessati, gli occhi non si aprono più; solo la mano sinistra si spinge, di tanto in tanto, chiusa e lenta come quella d'un bambino, verso la guancia. Poi anch'essa si ferma.
E tutti, intorno a lui, hanno le mani legate. Nulla resta da tentare. Non si può far altro che guardarlo, aspettando. A vespro l'aggravamento è più evidente; i dottori dicono che la crisi avverrà prima del nuovo giorno, che l'alba di domani rischiarerà la fredda salma.
Comincia l'ultima veglia, nella notte assiderata. Il respiro non è più libero, ha, le prime soste, seguite da rapide riprese. La temperatura sale al grado della febbre. Sotto la borsa   col ghiaccio la fronte s'imperla di sudore. La boc dischiusa s'inaridisce; per rinfrescarla, a quando a quando un pannolino inumidito è passato sulle labbra e sulla lingua. Il solo gesto è ora quello della mascella inferiore che s'abbassa un poco per poi rientrare nell'altra : e in questo movimento, più che nel candore delle chiome, più che nei solchi delle rughe, si rivela, la grande vecchiezza.
Mezzanotte. Ad uno ad uno tutti i rumori della via si vengono spegnendo, e nel silenzio crescente si comincia a udire il respiro affannoso. L'ansito aumenta d'ora in ora, è già il. rantolo tracheale previsto dai medici : profondo, cavernoso, come un sordo e chiuso bollore. L'inspirazione è più lunga, ma superficiale, in modo da sollevare il solo torace superiore. Il sudore è profuso. La lingua ingrossata e accortaciata, s'insinua fra le labbra vibranti, sembra che debba ostruirle e strozzarlo. La, saliva gorgoglia nella gola, colma la bocca, si riversa sulle guance. Non è tempo di raccoglierla con i batuffoli di cotone idrofilo, che altra ne sale e si spande.
Le veglianti s'inginocchiano e pregano.   
Le tre. Le quattro. La Morte non è puntuale al convegno. Il cuore palpita ancora, il sangue circola. Il polso, fattosi più piccolo, ridiventa frequente.
Soffocata dalla distanza, qualche rumore dì passo, qualche suono di voce vengono dal l'anticamera: sono i cronisti dei giornali e i messi delle pubbliche' autorità, che aspettano anch'essi. 
Ma non è l'ora. L'ora assegnata è trascorsa da un pezzo. Già sale qualche segno del 
risveglio,  dalla via, il cielo impallidisce; Santa Chiara suona a mattutino.                    
Il viso, è sempre più acceso, arso dalla febbre; più copioso il sudore e la bava, più serrati gli occhi. E il rantolo s'incupisce, empie la camera, s'ode dalle stanze attigue, opprime il petto e mozza il fiato ai circostanti.
È giorno; il primo raggio di sole indora il cornicione di Santa Chiara. La vita ferve nella via; ma le voci dei venditori ambulanti, il rotolare dei carri, il rombo dei tram, sono dominati dal rantolo atroce.
Le otto. Le nove. Da quando dura, questo rantolo? L'orologio non dice più nulla. Sembra, che il tempo si sia fermato. È oggi, o è ancora ieri?
 Una pausa: un'ansia, un tacito chiamare, un accorrere silenzioso. Ma il petto si gonfia ancora. Questo gran, cuore non vuol cessare di battere. Il cervello è invaso dal sangue, i polmoni sono imbevuti di siero, tutti i muscoli sono inerti, ma il cuore resiste, da solo: non si lascia sopraffare.
Resisterà ancora un altro giorno?
Le dieci. Un'altra pausa nel rantolo, meno breve della prima. Poi il travaglio dei fianchi e della fauci ricomincia. Un'altra pausa, più lunga, e un'altra ripresa. È già il respiro dei Cheynes-Stokes.
Ora tutti sono intorno al letto. Nessuno ha detto nulla, ma si è udito il passo lieve della Ineviabile. Liberato dall'inutile borsa, la testa si disegna in tutta la sua purezza, la fronte si modella in tutta la sua nobiltà.
Ancora una pausa. E ancora una ripresa. Il gorgoglio tracheale si affievolisce,  è come . un lento rompersi di grosse e rare bolle.
Le pause non si contano più. Dopo una delle più lunghe, tanto lunga, che sembra l'eterna, uno dei dottori, con le mani raccolte, fa un gesto, accenna, col capo di sì. Ma il respiro ricomincia, tenacemente.
A un tratto il torace è percorso da un moto di contrazione, i muscoli del dorso e dei lombi s'inarcano, l'occipite fa leva sul guanciale, come in un supremo tentativo di sollevamento, come per un'estrema resistenza da opporre ad un più violento assalto a corpo a corpo. Ma è un guizzo che si spegne. Il respiro si arresta: il sanitario trae l'orologio. Non è ancora l'ora precisa. C'è ancora una ripresa.
Le dieci e venti. Comincia l'immortalità.
                                                                 F. De Roberto.  

L'ultima istantanea di Giovanni Verga, dinnanzi al Circolo dell'Unione, 


articolo originale







martedì 20 marzo 2012

Arrigo Boito, l'ultima sigaretta - foto con dedica a G. Verga


(Padova24 febbraio 1842 – Milano10 giugno 1918) è stato un letteratolibrettista e compositore italiano. 



Libretti


martedì 15 novembre 2011

G. Verga e M. Rapisardi, dal Don Chisciotte del 3.4.1881 per il terremoto di Ischia

ISCHIA
ED I RECENTI TERREMOTI


SU questo argomento di attualità per
noi è  richiamata oggi l'attenzione generale della grande   famiglia
Italiana per soccorrere i fratelli miseramente colpiti.


CASAMICCIOLA
QUANDO   giunse   la notizia del   disastro che aveva colpito Ischia mi parve di rivedere l'isoletta, quale mi era sfilata dinanzi agli occhi attraverso gli alberi del battello a vapore, in una bella sera d'autunno.
La mensa era ancora apparecchiata sul ponte, e gli ultimi raggi del sole indoravano il marsala nei bicchieri. Dei viaggiatori alcuni s' erano già levati , e passeggiavano su e giù. Altri, coi gomiti sulla tovaglia, guardavano l' immensa distesa di mare che imbruniva sotto i caldi colori del tramontò; su cui Ischia stampavasi verde e molle, e dove la riva s' insenava come una coppa. Casamicciola, bianca, sembrava posare su di un cuscino di verdura.
A tavola due che tornavano dal Giappone discorrevano di seme di bachi; Una coppia misteriosa era andata a rannicchiarsi a ridosso del tubo del vapore. Un giovane che non aveva mangiato quasi, e stava seduto in un canto, pallido, col bavero del paletò rialzato, guardava l'isoletta con occhi pensierosi e lenti, in fondo alle occhiaie incavate.
Tutt' a un tratto sul profilo dell' isola che spiccava dalla luce diffusa del crepuscolo, apparve netto e distinto un fabbricato, quasi sorgesse d' incanto, e l' ultimo raggio di sole scintillò sui vetri, come l' accendesse.
Quel dettaglio del paesaggio che si animava all' improvviso apparve così chiaro e luminoso come se si fosse avvicinato d' un tratto.
Tutti si volsero ad ammirare lo spettacolo, e i negozianti di cartoni giapponesi tacquero un momento. Soltanto la coppia ch' era andata a nascondersi dietro il fumajuolo non si mosse, e gli occhi del giovane pallido che teneva il bavero rialzato non si animarono neppure.
Così succede ogni di; e due sole preoccupazioni bastano a sé stesse, l'amore e la mattìa, l' origine e la fine della vita. Quasi cotesta riflessione fosse venuta istintivamente a tutti in quel momento, si cominciò a parlare dell' azione benefica che hanno le acque e l'aria di Casamicciola, e dei malati che vanno a cercarvi la salute o la speranza. Invece il giovane dal paletò, pensava probabilmente, come si fa delle cose che si desiderano, alle gioie tranquille e ignorate che dovevano esserci in quell ' isoletta verde, fra quelle casette bianche, dietro quei vetri scintillanti. E quando i vetri si spensero, e la casa si dileguò ad un tratto quasi al mutare di una lanterna magica, e i contorni dell'isoletta sfumarono nel mare livido, il suo volto si offuscò. Adesso quella casetta bianca è forse distrutta, e degli occhi senza lagrime e senza sorriso ne contemplano le rovine, dalle occhiaie incavate, su dei visi pallidi.
                                                                                                                G. Verga.



FEBBRAJO

SEMPRE che con tepor primaverile 
Scote ilvario febbraio i sonnolenti 
Arbori, e desta su' diserti rami 
Tenero verde o intempestivi fiori, 
A voi facili sogni, a voi  speranze 
Lusinghevoli io penso, onde s'ingemma 
Anzi tèmpo l' incauta giovinezza 
Datrice alma d'inganni. Irato a un tratto 
Del concesso governo urla aquilone, 
Stagna i vividi succhi, abbrucia i novi 
Germogli, i fiori isterilisce, e a volo 
Precipitando da l' etnea montagna 
Di subito nevischio i campi inalba. 
Guarda il mite cultore, e con un triste 
Riso scrollando la  lanosa testa : 
Ben, esclama, più ch' altro a te s' addice 
Il morso  di rovajo,  o impaziente 
Mandorlo, a cui si  tarda la stagione 
De' fiori; ben a te, pronta a dar foglie 
O  acacia infruttuosa: un' aura dolce 
Basta a sedurvi. Nascerà fra poco 
Zefiro con aprile, e invan, fra' vostri 
Aridi stecchi lene sospirando, 
Chiederà a l' uno i saporiti frutti, 
A l' altra i mazzi de' nettarei fiori.   
Ma de la vigna, che ancor freddi e brevi 
Dal ceppo screpolato alza i potati 
Salci, simili a dita, e ben fu saggia 
A non destarsi a l' aure ingannatrici, 
Pender vedremo nel pomoso  autunno 
Come mamme caprine i pingui grappi, 
Onde il licore de l' oblio si  spreme.
                                         Mario Rapisardi.

domenica 13 novembre 2011

Stato civile della «Cavalleria rusticana». «La Lettura» 1921, di Federico De Roberto


Stato  civile  della   «Cavalleria   rusticana».  
 «La  Lettura»,   Milano,   1°  gennaio 1921.
di Federico De Roberto
*( le correzioni o gli appunti, scritti nel bordo dell'articolo, sono di F. De Roberto).

Giuseppe Deabate, narrando nel fascicolo dell' Illustrazione italiana  dedicato  a Giovanni Verga il Battesimo della « Cavalleria rusticana», attribuisce a Cesare Rossi, fra le molte altre benemerenze, anche quella « di aver compresa, sentita, ammirata alla prima lettura, la bellezza e la forza del bozzetto drammatico del Verga  e  di  non aver esitato un istante a porlo in scena. Fu, questa la gran, lode che andò dai critici al buon naso del Rossi, per ripetere l'immagine con cui essi amavano scherzosamente alludere al gran naso di quel raro e caro attore ».
Chi, sa come precisamente andarono le cose non può far buone le lodi largite in quell'oc-casione dai critici all'attore e capocomico re-putatissimo ; e poiché la Cavalleria rusticana, è l'opera che più d'ogni altra rese popolare il nome, del grande artista ultimamente festeggiato
 da tutta l'Italia — compresa quella uffiale, che 
finalmente, accorgendosi della gloria, di Giovanni Verga, gli ha riconosciuto anche in 
Senato il posto di Alessandro Manzoni — non sarà fuor di luogo ricostruire fedelmente, la storia del piccolo grande capolavoro.


















sabato 18 settembre 2010

Giselda Fojanesi, Giovanni Verga e Mario Rapisardi, visti da Vitaliano Brancati


Più volte, in note di diario e nelle “lettere al direttore” sull'“Omnibus” di Longanesi, Vitaliano Brancati confrontò il successo, la verbosità e le stranezze di Rapisardi all'insuccesso, al silenzio e all'assoluta “normalità” di Verga: e muoveva il confronto sullo sfondo della città di Catania, come sempre nelle sue pagine investita di comica luce. 

Catania amava Rapisardi: il poeta che usciva col parapioggia, che portava con fiero cappello e una cravatta a fiocco; non poteva amare Giovanni Verga, che vestiva come un qualsiasi galantuomo, non era distratto, non faceva stramberie e parlava poco. 

Lo zar di tutte le Russie veniva a sentire all'Ateneo catanese, le lezioni di Rapisardi; Garibaldi gli scriveva: “All'avanguardia del progresso, noi vi seguiremo”, e Victor Hugo, che non aveva nemmeno ringraziato Carducci per l'ode che gli aveva dedicato, a Rapisardi diceva: “Voi siete un precursore” (parole che il Municipio di Catania ha fatto incidere sotto il busto del poeta). 
Tanto amava Rapisardi, il popolo catanese, che quando si seppe del tradimento della moglie, e il terzo era per l'appunto Giovanni Verga, ad esprimere solidarietà al poeta tradito i catanesi gli portarono sotto casa una festosa fiaccolata: il che, per un popolo che solitamente disprezza e dileggia i cornuti, è una strabiliante prova di affetto. 

Nemmeno la tresca con la moglie di un amico, azione che di solito rende stimabile un uomo, in una società fitta di miti e vagheggiamenti erotici, riuscì a sollevare Giovanni Verga nella stima dei suoi concittadini: diventò anzi motivo di accresciuta avversione. ( tratto da Pirandello e la Sicilia, di Leonardo Sciascia.)





XIV (Poemetti)


Dopo tanti anni la rividi, oh quanto
Diversa ! Quella sua fulva, selvaggia
Chioma, che stretto avea con serpentine
Spire il mio cor, fatta era grigia, e come
Nebbia su' greppi d' una brulla rupe,
Le sue tempie lambiva in preda al vento.
Quel sopracciglio suo, che folto e bruno,
Al furiar d'un improvviso sdegno,
Uniasi all'altro, e fra l'eburnea fronte
E il fiammeggiar dei grandi occhi segnava
Una torbida striscia, onde più bello
Nel suo fiero pallor faceasi il volto,
Quel sopracciglio era spianato, e quasi
Stanco di raggrottarsi agl'improvvisi
Moti de la vorace anima, inerte
Stendeasi come lento arco, che tutti
Lanciò i suoi dardi e in polveroso oblio
A una vecchia parete immobil pende.
E le labbra, oh le labbra, a cui nell'alto
Abbandono di me tutto a ber diedi
Il più puro licor de la mia vita ;
Quelle labbra sì belle anco nel pianto,
Che nello sdegno, nel piacer, nell'ira
Avean tremiti arcani, e da cui tanta
Spirava aura di canti e di malìe :
Incantatrici labbra, ove ahi sì spesso
La bugia turpe o il meditato oltraggio
Toni usurpava di gentil fierezza,
Vezzi assumea di verginal candore,
Nappo vuoto or parean, che in geniali
Banchetti prodigato avea l'ebrezza
Al pensiero dell'uomo, e poi caduto
Di mano in man nell'umile bacheca
D'un rigattiere ebreo, la liberale
Bizzarria d'un Inglese indarno aspetta.
Rassegnata al dolore, alla vecchiezza,
Alla morte mi parve. Era un tramonto
D'autunno, e pe' viali ampi del bosco,
Odorati di musco e di languenti
Foglie (oh dolce stagione, a cui da tanto
Fascino il senso del morir vicino !)
In allegre brigate, in rilucenti
Cocchj ondeggiava la città, rapita
Un'ora, forse, alle diurne cure.
Passar la vidi senz'alcun rimpianto,
Senza un sospir. Ma quando al sole opposto
La rosea, vaporosa ombra sua vidi
Allungarsi al mio piede, e lentamente
Confondersi con altre ombre e sparire ;
Quando pensai che dietro a quella umana
Ombra io sfiorato avea le più superbe
Rose della mia vita, un sentimento,
Non so se d'ira o di pietà, m'invase
Tutto, a un punto; contrassi ad un amaro
Ghigno le labbra, ma fra le contratte
Labbra insieme sentii, non meno amara,
Insinuarsi una cocente stilla .

(Mario Rapisardi)

 Egli muore nel 1912 a Catania: al suo funerale parteciparono oltre 150.000 persone,con rappresentanze ufficiali che giunsero addirittura da Tunisi.
Catania tenne il lutto per tre giorni.