Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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giovedì 8 dicembre 2011

M. Rapisardi, G. Marradi e A. Costanzo per gl'inondati 1882.

(tratto da Caritas strenna per gl'inondati 1882.83)


RONDO'
Precipita, o sole, precipita,
Raggiante tra folgori d'or: 
La notte si dorme, si oblia, si fantastica, 
E intero ne' sogni sprofondasi il cor.


Precipita, o notte, precipita,
O corso stellato del ciel : 
Eterne son l'ore che il tarlo ci numera 
D'un vigile tedio, d'un'ansia crudel.


Precipita' dunque, precipita
O tempo si lento per me ! 
Ahi lungi dagli òcchi, dagli occhi suoi d'aquila, 
Più stella non ride, più sole non c'è!
                                                                          Giovanni Marradi.

*****

Le bianche membra tue, le tue fiorenti 
Membra, desìo de' miei sensi codardi, 
Quando t'abbraccio, divengon serpenti 
Ignei serpenti, onde m'attorci e m'ardi:


Scoccan fischiando da' tuoi nivei denti 
Suoni che paion voci e pur son dardi, 
Saettan gli occhi tuoi lampi non sguardi, 
Fiamme non baci da le labbra avventi.


Mi divincolo invan, misero, in tali
Strette; ma pigra lambendo mi strugge 
La serpentina fiamma, e tra mortali


Spasimi il sangue e l'anima mi sugge.
Se 'l vede Amor, vigliacco, e, non che l'ali 
Darmi a la fuga, a me si avvinghia, e rugge.
                                                                                    Mario Rapisardi

Di Vincenzo Giordano Zocchi

O giovani, "Vincenzo Giordano-Zocchi era giovine candido e fremente come voi, ed egli, scrivendo le sue Memorie di un Ebete, guardava confidente l'avvenire, perchè lo vedeva pregno di tempeste e di vendette. Ma l'avvenire siete voi, o fervidi e valorosi giovani, e voi farete giustizia al nostro caro e grande estinto.
Giordano-Zocchì è morto da tempo, oramai; è morto, si può dire, sulla breccia, protestando contro l'alta e bassa' canaglia che fa siepe : agl' ingegni, soffocando in loro la grande patria. Le basse invidiuzze, i silenzi patteggiati, l'indifferenza e l'ingiustizia ufficiali se poterono strappare e disfare anco la trama delicata della sua travagliata esistenza, non riescirono a schiacciare con la pietra della fossa il suo nome, il quale oggi è più vivo di prima: i tratti simpatici, caratteristici, luminosi del suo ingegno, del suo nobile spirito ed originale, voi, o giovani, li troverete in gran parte in questo prezioso volume (1), che io offro alla giovinezza dell'anima vostra.
E voi le accoglierete queste pagine, queste fibre del cuore del vostro compagno d'armi ; ed il vostro culto, il vostro amore, giustizia postuma verso il mio povero amico, saranno la sua più alta vendetta.
 Sia clemenza o giustizia della vita e della storia, è cèrto che i congiurati silenzi, le frecce velenose ed acute degli emuli, innanzi a una pietra sepolcrale, si spuntano; e il nome della vittima, circonfuso di poetica aureola, balza su con la terribilità di un'idea, sgomento de' lepidi carnefici in sessantaquattresimo, che a colpi di penna non seppero e poterono spegnerlo, amore, benedizione, bandiera di coloro, che questo tempo chiameranno antico.
Questa convinzione è, di per sé, la forza de' grandi caratteri, degli ingegni veramente superiori e solitari come Giordano-Zocchi.

Anch'egli, nell'intimo presentimento che l'idea, a furia di sconfìtte e catastrofi, sempre più s'individua, specifica e generalizza — onde la eternità del pensiero — trovò, come i pochi suoi pari, l'eroismo del sacrificio, la devozione e l'amore dell'ideale che lo signoreggiava, dell'ideale bello in sè e per sè, indipendentemente dal basso utilitarismo e de' fischi e de' plausi, effimeri spesso, sospetti sempre, de' contemporanei, nella maggior parte opportunisti, calcolatori, fraudolenti,  partigiani guerci e fegatosi. 
(1) Il volume a cui allude, sarà  messo in vendita quanto prima, ed ha per titolo: Saggi d'arte.

                                                                                      Gius. Aurelio Costanzo

curioso romanzo filosofico-autobiografico, improntato ad amari accenti di pessimismo, pubblicato per la prima volta, postumo, nel 1877 (l'autore si era spento di malaria poco tempo prima). Vincenzo Giordano Zocchi (Napoli, 1842-ivi, 1877) fu scrittore e giornalista affine agli Scapigliati, nonché professore di filosofia nel Liceo di Catanzaro. Collaboratore di numerosi quotidiani e periodici, è oggi noto soprattutto per il presente libro. Cfr. Giuseppe Aurelio Costanzo, Vincenzo Giordano Zocchi, Napoli, 1883.


ANTIFONA

                                                                         Dixit dominus • • •
Disse il Signore al servo suo cosi:   .
—  Pecca l'uom giusto sette volte al dì.
—  La donna giusta quante può fallire? 
Questo il Signor non ce lo seppe dire.
                                                                        Jorik



lunedì 28 novembre 2011

Come amò Garibaldi la patria, di Francesco Perez -1882


Come amò Garibaldi la patria
(Estratto  dall'Orazione pronunziata nel Politeama di Palermo il 2 luglio 1882).

.....   Perigliando più anni così nell'altro emisfero, per la difesa di stranieri popoli oppressi, non per questo gli uscì mai dal pensiero la patria lontana.
La patria, quale intendevala Garibaldi, quale la intesero le più grandi anime italiane — Dante e Mazzini su tutti — era ben altra da quella che idolatrarono gli antichi. Per costoro straniero e nemico furon sinonimi, e la stessa parola, hostis, valeva a significar l'uno e l'altro. Al modo stesso che ciascuna gente voleva avere i propri suoi Dii, nulla aventi che fare con que' d'altra gente, così pur della patria. 
Amare la patria valeva odiare, o per lo meno sprezzare chi di quella non fosse. E ci vollero i tempi maturi e inoltrati della romana civiltà perché si udisse il motto, solitaria aspirazione a tempi futuri « son uomo, e nulla di umano reputo alieno da me; », e perché Lucano potesse dir di Catone « non sentirsi nato a se stesso, ma a tutto il genere umano. »
Il concetto della patria repellente, esclusiva dominò non solo ne' tempi degli Dei speciali a ciascun popolo, ma ed anche, e forse più, nel medio evo, quando già a quegli Iddii erano succeduti i Santi protettori e patroni di ciascuna città e d'ogni singola classe.
E questo sì egoistico e meschino concetto di patria fosse pur anco mutato ne' tempi odierni! —Ma no. Prepotere con egoismo sulle altre nazioni è tuttavia l'ideale di certi uomini di Stato, che osan deridere noi fautori della pace universale e dell'arbitrato internazionale ; noi liberi economisti, che sentiamo la grande solidarietà del genere umano; che sentiamo e pensiamo come la natura stessa, spartendo inegualmente i suoi doni, non tutto concedendo ad ogni nazione, le costringa tutte ad affratellarsi, a scambiare reciprocamente i lor prodotti materiali e morali, per raggiungere tutte il gran fine della vera civiltà, la pace e l'universale benessere.
Né così lungamente inteso l'amore di patria, l'amore della propria nazione, cesserà d'avere ragione d'esistere, o riuscirà meno vivo. 
La razza, le indelebili speciali attitudini, che da essa e da' vari climi e territori derivano, la storia e le tradizioni proprie di ciascun popolo è, sintesi di tutto ciò, la lingua comune, resteranno pur sempre vincolo di distinta nazionalità, creeranno doveri e diritti speciali e precedenti a quelli universali e comuni a tutto il genere umano. 
Ond'è che il cittadino dell' èra nuova, che rifulgerà quandocchessia dalla vetta del Campidoglio, se amerà fortemente la patria, se sarà pronto a dare il sangue per essa, a volerla indipendente da qualsiasi servaggio interno od esterno, non vorrà per questo soggiogare la patria altrui, ingerirsi negli affari propri di quella sotto i mille pretesti che gli odierni sofisti hanno saputo inventare; non  pretenderà preminenza alla sua; non vorrà con armi e dogane far guerra alle altre, ma le amerà tutte sorelle; e solo vedrà nemiche e combatterà fino all'ultimo sangue le prepotenti che osassero negare indipendenza alla sua, insultarla, avvilirla, ingerirsi nelle sue faccende domestiche, foss'anche con ridicole propagande che pretendessero recare libertà a chi ne ha tanta da farsene ad altri imitabile esempio!
Tale era la patria che idolatrò Garibaldi.  E mentre per essa non era ancora suonata l'ora del riscatto, mentre i più generosi suoi figli apparecchiavansi alla riscossa, ei sentì commuoversi al grido degli oppressi di là dall'Atlantico. Pugnò e vinse per essi, levando ad altissima stima dovunque il nome italiano. 
E apparecchiava così gli esuli alle patrie battaglie, e creava, senza saperlo, intorno a sé quell'aureola di gloria, quel fascino su' suoi seguaci, che fu la più valida tra le sue forze, e che più tardi in Italia potè fargli dire :
« Soldati! Io vi offro fame, sete, fatiche, pericoli, morte. Chi ama la patria mi segua. »
E tutti il seguirono!
                         Devmo Francesco Perez.

*(tratto da Caritas strenna per gl'inondati 1882.83)

- Una patria, a cui sia limite il polo,
una famiglia, a cui sia fede il vero. - Mario Rapisardi  

domenica 13 novembre 2011

Stato civile della «Cavalleria rusticana». «La Lettura» 1921, di Federico De Roberto


Stato  civile  della   «Cavalleria   rusticana».  
 «La  Lettura»,   Milano,   1°  gennaio 1921.
di Federico De Roberto
*( le correzioni o gli appunti, scritti nel bordo dell'articolo, sono di F. De Roberto).

Giuseppe Deabate, narrando nel fascicolo dell' Illustrazione italiana  dedicato  a Giovanni Verga il Battesimo della « Cavalleria rusticana», attribuisce a Cesare Rossi, fra le molte altre benemerenze, anche quella « di aver compresa, sentita, ammirata alla prima lettura, la bellezza e la forza del bozzetto drammatico del Verga  e  di  non aver esitato un istante a porlo in scena. Fu, questa la gran, lode che andò dai critici al buon naso del Rossi, per ripetere l'immagine con cui essi amavano scherzosamente alludere al gran naso di quel raro e caro attore ».
Chi, sa come precisamente andarono le cose non può far buone le lodi largite in quell'oc-casione dai critici all'attore e capocomico re-putatissimo ; e poiché la Cavalleria rusticana, è l'opera che più d'ogni altra rese popolare il nome, del grande artista ultimamente festeggiato
 da tutta l'Italia — compresa quella uffiale, che 
finalmente, accorgendosi della gloria, di Giovanni Verga, gli ha riconosciuto anche in 
Senato il posto di Alessandro Manzoni — non sarà fuor di luogo ricostruire fedelmente, la storia del piccolo grande capolavoro.


















mercoledì 2 novembre 2011

ANARCHIA DEL GENIO - Lezioni di Mario Rapisardi

"Egli pensava che la scuola è un istituto di massima importanza nella vita pubblica, che essa deve essere fucina di valori morali e palestra di educazione delle giovani generazioni, riteneva che la scuola non può essere estranea alla vita, se di essa non si vuol fare un esercizio di espiazione ovvero un museo di fossili."

ANARCHIA DEL GENIO

1
Quando un edificio minaccia rovina, si ricorre provvisoriamente ai puntelli; quando una istituzione è marcia, si ricorre alle leggi. Le leggi circondate di tanta maestà dall'interesse di chi le manipola e le promulga; le leggi riverite e temute dalla moltitudine, che vede in esse le regole immortali della propria condotta e quasi tanti riflessi della volontà e della potenza divina, non sono per lo più che l'espressione del volere dei più forti a tutela e vantaggio proprio, a danno e spavento dei deboli; la così detta santità delle leggi non è spesso che la sanzione dell'astuzia o della violenza, la tutela del privilegio, la canonizzazione della vendetta. Un tempo si fece derivare il diritto, che altro non e in sostanza che la maschera della forza, dal seno stesso di Dio; più tardi s'inventò un diritto naturale, quasi che le leggi inculcate dai vincitori ai vinti fossero un riflesso delle leggi che governano l'universo, si trovò poi un ordine morale e un ordine giuridico, esistenti per sé e superiori alla vita umana nello spazio e nel tempo, quasi due metacosmi epicurei inviolati ed eterni, abitati da demiurghi misteriosi che movessero immoti l'organismo politico e morale entro un cerchio adamantino.
Si cominciò finalmente a sospettare che tutti questi ordini e sottordini, quando non servono di reti e di tranelli, siano metafisicherie d'intelletti barcollanti nell'ebrezza dell'orgoglio umano fuori della natura e del vero; che tutte le norme, credute immutabili ed immortali, siano anch'esse soggette ai mutamenti e alla morte, non solo per essere sostituite da altre più razionali e più giuste, ma per lasciar libero il campo a una concezione della natura e della storia scevra di tutto quel meccanismo, che la paura, la metafisica e l'ipocrisia umana hanno sovrapposto in ogni tempo alla realtà delle cose.
Il concetto dell'anarchia di un organismo cioè che si conserva e si perfeziona per virtù della propria natura, senza volontà esteriori a se stesso, senza altre leggi da quelle che risultano dal principio universale della vita; il concetto che desta tante apprensioni e tante paure al misoneismo borghese; il concetto che sarà nel campo sociale di così tarda e difficile applicazione, ha pure il suo riscontro e la sua giustificazione nella realtà dell'universo. La natura è intimamente anarchica. La mente umana, nonostante il perpetuo ciarlare d'infinità e d'eternità, è portata dalla sua stessa essenza a definire e circoscrivere le cose della natura nell'ambito ristretto della sua comprensione; e s'è fatto però della natura una macchina con forze e con fini determinati. Non sapendo poi spiegarsi il congegno molteplice di una tal macchina, e il come e perchè d'ogni sua operazione, e non potendo risalire la concatenazione infinita di cause e d'effetti, ha tutto riferito ad una causa soprannaturale, a un macchinista ogniscibile e onnipotente, che l'ha tratta dal nulla, l'ha costruita a suo modo e a suo capriccio, sottoponendone ogni moto alla sua volontà, e assegnando a ciascuna parte di essa una intelligenza e una forza regolatrice di ordine inferiore, soggetta al suo potere e alla sua intelligenza suprema. Così le gerarchie sociali furono, per uno strano sdoppiamento della mente umana, attribuite alla natura, e tutto l'universo divenne un'immensa antinomia di numi e di mortali, di sovrani e di soggetti, di oppressori e d'oppressi. Era riserbato alla concezione epicurea l'onore di liberare la natura e la storia d'ogni intervento di forze soprannaturali, e di riconnettere tutte le leggi dell'essere a quell'Ananke democritea, alla necessità cioè di tutte le manifestazioni della vita universale, che scientificamente corrisponde al determinismo moderno. Ma volendo Epicuro accordare questa intima necessità delle cose con la pretesa libertà delle umane azioni, ricorse a quella ingegnosa ipotesi del clinamen atomorum, che tanto diede da fare alla critica, ch'è una prova dell'armonia e della logica inflessibile della mente ordinatrice di quel sistema, ma che resterà pur sempre fra' ripieghi metafisici per ispiegare un fenomeno che ha perpetuamente lusingato la mente umana, facendola credere libera e quasi avulsa dalla universale fatalità. 
Molto più razionalmente avrebbero proceduto i filosofi, se invece di cercare la cagione del fenomeno, si fossero prima studiati di rendersi ragione del fenomeno stesso, e avessero sospettato uno dei tanti miraggi dell'umana superbia, là dove non vedevano che una realtà. La teoria atomistica di Democrito e di Leucippo, in quanto vede nella natura una concatenazione di cause e d'effetti senza interruzioni nè eccezioni di sorta alcuna, si può considerare in questo particolare come più scientifica dell'epicurea.
La nuova concezione dell'universo, non solo esclude ogni forza superiore ed estranea alla materia e ogni potenza e volontà regolatrice dei fenomeni della vita, ma tende a ridurre unicamente al moto, cioè alla forza intima dell'essere, tutte quelle che noi chiamiamo le leggi della natuta, e che non sono in sostanza che ipotesi più o meno felici, e modi convenzionali per intenderci intorno a certi gruppi di fenomeni e a certe costanti apparenze dell'essere nell'infinito. La gravitazione, l'attrazione, l'evoluzione, le leggi di Keplero, di Newton, di Darwin non sono che dei termini e delle regole ideali, a cui il pensiero scientifico cerca di ridurre le manifestazioni della vita universa. La legge vera, reale, universale, la legge unica che governa la vita è la vita stessa. Data la materia e il moto, tutte le combinazioni, le ripulsioni, gli aggruppamenti, gli organismi, i conflitti e le armonie che ne derivano, sono effetti necessarj; e noi diciamo ch'essi ubbidiscono a leggi speciali, in quanto che essi avvengono in un certo ambito e sotto date condizioni, e si riproducono e si ripetono perpetuamente. La pietra che cade, la fiamma che s'alza, gli astri che descrivono un cerchio o un'eclissi non ubbidiscono in realtà che alla propria natura; e se ubbidire a se stessi equivale ad esser liberi, tutte le manifestazioni della vita, non che gli effetti umani, son libere, non soggette cioè a forza alcuna al di fuori e al di sopra di sè. In questa concezione altamente anarchica della natura, a me sembra, coincidano e concordino i due concetti di necessità e di libertà, senza bisogno di ricorrere a ipotesi speciose e ad arzigogoli metafisici. Un seme gettato in terreno propizio germoglia, cresce, si dirama, stende libetamente le sue radici, spiega liberamente le sue foglie, s'abbella dei suoi fiori, s'insapora dei suoi frutti: esso si svolge pienamente, secondo le proprie forze: e in quanto non rova nella terra e nell'aria alcun ostacolo, noi possiamo ben dire che si svolge liberamente. La pianta però non ha facoltà di muoversi, di crescere all'ingiù, di recar fiori e frutti diversi di quelli che la sua natura comporta: in ciò essa segue la forza dell'esser suo, è quello che deve esser, soggiace alla necessità naturale. In questo senso ogni essere, ogni corpo, ogni atomo di materia è libero al tempo stesso e soggetto alla necessità: libero in quanto si muove senza ostacoli esteriori in un dato spazio; soggetto in quanto non può assolutamente valicare i limiti assegnati e di svolgersi o manifestarsi diversamente. La Natura, così intesa, ci appare come una infinità di atomi, di corpi, di esseri che si muovono nello spazio, ubbidendo ciascuno alla necessità dell'esser suo; come un insieme meraviglioso d'individui, che portati dalla propria forza, ch'è una specie di volontà di vivere, si aggregano, si agglomerano, uniscono i propri agli altrui moti, si accrescono e si circoscrivono a vicenda, formando quella varia, molteplice, infinita armonia di movimenti, da cui nasce la conservazione eterna della materia in uno scambio e in una equivalenza perpetua di forze.
Noi troviamo così nella natura l'esempio e la base di quella forza, che nel campo morale e sociale noi chiamiamo dell'egoismo e dell'individualismo, e ch'è come il nucleo e il fuoco centrale di tutte le attività, il principio da cui muove e il fine a cui tende ogni manifestazione del mondo fisico e del mondo morale; la ragione di quell'immensa armonia, che non risulta da norme e da leggi sovrapposte alle cose e prestabilite da forze e da volontà superiori, ma dalla libera estrinsecazione delle forze comuni confluenti tutte per necessità congenere alla conservazione e alla propagazione della vita nell'infinito. Osservate una madrepora. Milioni d'esseri microscopici lavorano, ciascuno per il proprio conto, senza un fine prestabilito, per legge intima, cioè per necessità della propria natura. Dalla necessaria e naturale coordinazione delle loro forze, dal libero esercizio dell'attività di ciascuno, limitata soltanto dall'esercizio dell'attività di tutti, risulta un lavoro armonico in cui è riposto il fine della loro vita e il loro relativo benessere. Questi infinitesimi lavoratori che costruiscono i continenti, che quali immensi cetacei si affacceranno dai mari e stenderanno i dorsi immani al sorriso fecondo del sole, non sono dissimili dagli astri, dai soli, dai mondi, come noi enfaticamente li chiamiamo: essi formano delle associazioni, dei sistemi: regolari, cioè, agglomerazioni di esseri attratti dalla simiglianza della loro natura ad unirsi in un lavoro comune per attingere attraverso i secoli il medesimo fine ch'è la conservazione e la propagazione della loro specie.


2
Il così detto consorzio civile non differisce da tutte le altre associazioni vitali che nel grado della consapevolezza individuale e sociale: la coscienza non è una qualità miracolosamente concessa agli uomini soli, ma è una stratificazione, non dissimile dalle formazioni geologiche, la quale ha le prime e più profonde e rudimentali manifestazioni negli infimi gradi della scala zoologica.
Quando si grida che per migliorare le condizioni umane bisogna conformare le nostre azioni alle così dette leggi della natura, non si considera probabilmente abbastanza, che la natura non conosce nè contiene altro in sè che individui, di cui ciascuno attende necessariamente al suo lavoro per attingere un fine ch'è comune a tutti gli altri esseri; e che per conformare le leggi sociali alle leggi della natura, bisogna anzi tutto disfarsi di tutte quelle leggi che, deviando con mille ostacoli la libera estrinsecazione della energia individuale, assoggettando alla forza e all'ambizione dei pochi le forze ed il diritto dei più, alzando limiti e fondando privilegj a tutela e a vantaggio unico dei più forti, distolgono il lavoro comune dal suo fine naturale, conculcano la libertà individuale, dimezzano l'umana personalità, fanno della società umana una vasta prigione, in cui i vinti, i poveri, i deboli sono costretti a lavorare sotto la sorveglianza crudele e a beneficio unico di pochi sfruttatori. Abolire tutto ciò che v'è di artificiale e di metafisico nella concezione della natura; di convenzionale e di falso nella morale, di privilegiato e d'iniquo nella società; liberare insomma la mente e la vita umana da tutte le catene, gli spauracchi e le ipocrisie, di cui l'hanno ingombrato l'ignoranza e la prepotenza, gl'impostori del tempio, della reggia e della scuola: a questo tende il pensiero scientifico-sociale moderno, che dalla conoscenza sempre più reale e positiva della natura riceverà mano mano un crescente irresistibile impulso. Il pensiero, come ha con immagine sublime cantato lo Shelley, è simile alla frana: esso s'accresce a poco a poco nel silenzio solenne delle grandi anime; ma appena si sferra dalle vette sublimi del genio, cresciuto dalle forze congiunte di tutta una generazione, esso precipita facendo rintronare di mille echi la valle e abbattendo e strascinando con sè tutti quegli ostacoli, che parvero inconcussi ed insormontabili.
Finora, tutto ha congiurato a snaturarci, a distoglierci dalla via del vero, dal seno stesso della natura, gittandoci dietro a fantasmi, e a larve senza soggetto, spingendoci, dopo d'averci accecati, nella notte mostruosa dell'infinito, sì che dopo d'avere brancolato per qualche tempo nel vuoto, ci siamo accasciati sotto il fardello della vita, come sotto il peso della maledizione materna. Abbiamo chiamato piangendo e bestemmiando nella tenebra inesorata il santo nome della natura; abbiamo sprecato le nostre forze giovanili in uno spasimo e in un contorcimento supremo dello spirito; ma la natura non risponde a fanciulli paurosi della notte e dell'eco della propria voce; e gli sforzi non ordinati ad un fine possibile sono condannati a disperdersi nel vuoto. L'educazione e la legislazione fondate su preconcetti e su pregiudizi metafisici, ci hanno reso artificiali, ipocriti, schiavi, e soprattutto miseri: essendo la miseria economica effetto della miseria delle anime, dell'ignoranza cioè del nostro stato e della nostra destinazione.
La libertà, nel significato e nelle funzioni che le abbiamo più sopra riconosciuti, è stata piuttosto l'incubo che la ispiratrice degli educatori e dei legislatori, i quali invece di renderci a noi stessi nella piena coscienza delle nostre forze e dei nostri fini, ci hanno circondati e costretti di fasce incerate, mummificandoci e seppellendoci sotto l'immenso cumulo dei loro errori; hanno reso, ciò che essi chiamano il nostro spirito, la parte più alta di noi una misera gatta impagliata con gli occhi di vetro e col naso di guttaperca. Hanno trattato l'uomo come un essere anomalo incapace di seguire da sè stesso (egli l'essere pensante e cosciente) quella via che la natura dischiude innanzi a tutti gli altri animali, e che tutti seguono spontaneamente; lo hanno distinto pomposamente da tutti gli altri esseri, ne hanno fatto il sovrano di tutti, ma arrogandosi il diritto di governare i menomi suoi atti, e interpretando quale contraria alla natura ogni manifestazione spontanea della sua libertà, gli hanno messo la camicia di forza dei loro assiomi, delle loro leggi. Gli esseri più artificali, più manchevoli e più ingannevoli, più scellerati insieme più vili si sono riputati i più savj, perchè più conformi all'esemplare e al tipo dell'uomo civile, proposto ed imposto al povero gregge umano da religioni stolte e da istituzioni codarde; si sono assunta la potatura degl'ingegni ribelli, il dimezzamento e lo smembramento della coscienza, l'umiliazione e la degradazione della parte più numerosa, più laboriosa, più utile e più onesta dell'umanità. E dopo la perpetrazione di tanti delitti, in nome dell'ordine, delle leggi, della civiltà e della giustizia, hanno osato ed osano parlare di natura, di scienza, di progredimento! Per tornare alla natura, per conformare alla scienza la vita, per avanzare nella via della giustizia e della fratellanza umana, bisogna cominciare dal mandare a gambe levate tutti questi istitutori e censori ed eviratoti del genere umano e fare un bel falò dei loro trattati di morale, di economia e di diritto, dei loro codici e delle loro istituzioni.

3
Quello che osserviamo nella natura e nella storia, si rispecchia assai fedelmente nelle manifestazioni dell'arte letteraria: non per nulla si dice che la letteratura è lo specchio della vita. Il prete, il birro, il pedante sono stati e sono purtroppo finora la triplice espressione della tirannide umana, la trinità eviratri-ce del pensiero, il triplice tormento dell'umana coscienza. Natura senza Dei; società senza padroni, letteratura senza pedanti ecco il triplice objetto della scienza, dell'arte e della vita civile dell'umanità. Ma non c'è liberazione senza rivoluzione. Il genio, ch'è il precursore d'ogni umana liberazione, è perciò stesso il perpetuo ribelle.
I Romani fecero del genio una divinità particolare, destinata alla tutela di ciascun mortale, e stimarono ch'egli nascesse e morisse con l'uomo: onde Orazio: Sit genius natale comes e quel che segue. Seneca, presentendo il cristianesimo, pone il genio fra le divinità inferiori, al contrario di Varrone che lo annovera fra' più potenti. Spettava alla religione delle catacombe il fulminare e confondere coi demonj questo indagatore indefesso e indomabile della natura, quest'autore d'ogni più profondo rinnovamento umano, questo ispiratore sublime d'ogni capolavoro dell'arte.
Comunque sia della vecchia mitologia e della nuova, il genio si distingue dall'ingegno in quanto che l'uno inventa, e rappresenta l'Ideale, l'altro lo comprende e lo studia; l'uno è la forza sintetica, la forza creatrice, l'altro la forza analitica, la paziente indagine, la virtù ordinatrice dei trovati dell'altro. Una maggiore o minor dose d'ingegno tutti gli uomini l'hanno; il genio è privilegio di pochi eletti. Esso fonde in una meravigliosa unità il senso, l'intelligenza e la volontà di coloro che investe; dirige ad un fine unico tutte le loro facoltà, a traverso gli ostacoli, le lotte, le sciagure, onde fu sempre fecondo agl'innovatori il terreno sociale, ingrassato dal privilegio e abbellito dall'ipocrisia; è veramente un demone, come Socrate lo chiamava, uno spirito familiare quale appariva al povero Torquato, un diavolo addosso come lo definiva il Voltaire, una forza altissima, spesso inconsapevole, ribelle sempre.
La nuova scienza borghese, impasto congruo, per lo più di vecchio e di nuovo materialismo, con guarnitura di cifre statistiche più o meno attendibili e impepato d'una spregiudicatezza molto aromatica e poco piccante, ha recentemente ridotto il genio a una malattia dell'anima, confinante da un lato con la follia e dall'altro con la delinquenza, a una psicosi congenere e degenerativa, che a tramontana ha il manicomio e a mezzogiorno l'ergastolo. Come si vede il salto dall'est deus in nobis è piuttosto considerevole; e le due prospettive del genio sono assai consolanti: forse per questo i genj si vanno facendo più rari! Certo la sensibilità e l'eccitabilità nervosa di questi esseri straordinarj, che noi qualifichiamo di genj ha qualcosa di morboso; certo alcuni abiti del corpo e dello spirito, alcuni atti ed espressioni di costoro si distinguono radicalmente da quelli del comune degli uomini; la loro ideazione è più rapida, più concitata, più varia; più violente le loro passioni; scontinuata ed irregolare la loro attività intellettuale; balzante da un estremo all'altro la loro volontà; più intensa, più acuta la loro vista interiore, più felice che in tutti gli altri la disposizione a cogliere i rapporti ideali delle cose; più scarsa, anzi quasi nulla, l'adattabilità alle circostanze della vita cotidiana: sordi alle voci squillanti delle Sirene plebee della ricchezza, degli onori del potere, essi sono sensibilissimi a cogliere le voci arcane delle cose, le armonie misteriose dell'essere, la pulsazione dell'anima infinita. Ma se questo costituisce una degenerazione, in verità, noi non c'intendiamo più sul significato delle parole e alto vorrà dire basso, ultimo significherà primo. Degenerazione è svolgimento in peggio, è tralignare, essere meno virtuoso dei genitori. Or se le manifestazioni del genio sono le più sublimi della mente umana, non s'intende davvero come a tanto possa giungere un essere degenerato. Non si vuol credere al genio-miracolo, e si attribuisce alla degenerazione la facoltà miracolosa di produrre le opere più perfette dell'ingegno umano! Il genio non è certamente un prodotto miracoloso della natura; ma esso non è neppure un prodotto che la natura stessa contraria e degrada, condannandolo alla sterilità, alla disperazione, e alla morte precoce. Si parla sul serio della sterilità, del celibato, della balbuzie, della calvizie (perfino della calvizie!), della morte prematura e della follia di alcuni uomini di genio, senza pensare, che, pure riducendo a questa superficiale e triviale osservazione di caratteri accidentali l'analisi del genio, per quanto la si possa lardellare di dati statistici, noi potremmo provare con le cifre alla mano, che questi tali genj sono eccezionali. [...].
Le neuropatie dunque a cui vanno soggetti gli uomini di genio, sono infermità comuni a una gran parte del genere umano, a tutti gl'individui di temperamento nervoso. Quando il Lombroso parla di genj degenerati, egli attribuisce ai genj soli parecchie infermità caratteristiche di tutta una classe umana. E mi pare inoltre ch'egli abbia, seguendo un suo costume di generalizzare il particolare, e di concludere troppo presto argomentando dal particolare al generale, ch'egli abbia, dico, avuto di mira non i genj veri, i grandi rinnovatori, cioè dell'ambiente morale e sociale, ma quel bulicame di spostati e di squilibrati, come ora comunemente si dicono, che del genio hanno l'apparenza, e qualche volta la pretenzione, ma che in sostanza non sono altro che stravaganti, inetti a qualunque serio lavoro, e incapaci di mettere le forze del loro ingegno e della loro volontà a servigio d'un alto e nobile ideale. Quest'ultima fase dellaciviltà borghese, a cui abbiamo la fortuna di assistere, malefi-cando sempre più le fonti dell'esistenza e indebolendo coi continui galvanismi d'una vita fittizia i poveri nervi di queste generazioni d'isterici, ha smisuratamente cresciuto il numero di questi detraqués, ciondolanti fra la carcere e il manicomio. Ma costoro hanno tanto del genio, quanto i frutti imbozzacchiti per gelo o magagnati dai vermi o dalla grandine, i quali cascano dal ramo prima di essere colti e si putrefanno tra' il fango, hanno dei frutti sani ed odorosi, che sorridono tra le foglie, allettando la mano che li colga e il palato che li gusti. I malati, i folli e qualche volta, purtroppo, i delinquenti sono propriamente costoro. Ma alla scienza borghese torna conto di metterli in fascio co' genj veri; perchè sa che il genio è destinato a cangiare a poco a poco la faccia di questo brago sociale, in cui vive ed ingrassa beatamente la prepotenza legale e la scientifica bacchettoneria; perchè essa sa che il genio è naturalmente ribelle. Fermiamoci alquanto su questo carattere sostanziale del genio.

4
L'opera del genio, qualunque essa sia, è personale ed originale per eccellenza. Perchè un'opera sia originale, bisogna ch'essa, e per il concetto che l'informa, e per la maniera, onde tal concetto si esprime, esca dalle vie comuni, sia annunziando verità nuove, o guardando da un aspetto nuovo le già conosciute, sia rappresentando in maniera tutta propria le proprie o le altrui passioni, calpestando le regole fin allora credute sacre e varcando senza scrupoli quei termini, entro a cui la critica, cioè il pregiudizio imperante, pretendeva circoscrivere le manifestazioni dell'arte. Originalità dunque vuol dire ribellione. E il genio è essenzialmente ribelle: Voi gli tessete intorno una rete vulcanica di precetti, di assiomi, di leggi, ed egli la spezza e la sprezza, si forma e s'impone altre leggi, manda all'aria le forme sacramentali e i canali privilegiati in cui si vorrebbe gettare e far correre il pensiero creatore e ne crea altre che la critica si scalmanerà invano di inventariare, di classificare, di ridurre alle vecchie misure legali per allogarle finalmente nel suo casellario fuligginoso. Questa ribellione che manda a gambe levate tanti bachina a demiurghi, non crede inviolabile nessuna legge, ancor che consacrata dall'uso e dall'ubidienza universale. Egli ha la visione chiara d'un Ideale, e vuole raggiungerlo e incarnarlo: gli ostacoli che gli oppone la fede, la prepotenza, la critica non fanno che accrescere il suo desiderio e la sua forza: li affronta sorridendo con la noncuranza di un Dio; ed anche allora che più gli resistano, e già sembra che il suo vigore si franga in una lotta ineguale, anche quando soggiaccia alla loro resistenza brutale, la sua fronte s'illumina d'una soave speranza, perchè egli presente e prevede in quell'ora [...]* il suo trionfo immancabile nell'avvenire. Sì perchè il genio è il precursore del superuomo, l'annunziatore e l'apostolo dell'Ideale.
L'anarchia del genio, la libertà dell'opera d'arte, l'indipendenza assoluta di essa da tutti i canoni e le leggi d'una critica impotente e pretenziosa, ci porterà nei futuri discorsi a trattare le più vitali questioni dell'arte dal punto di vista sociologico, e a renderci conto dei capolavori della poesia italiana, considerati principalmente dall'aspetto estetico e sociale.
Il pensiero che mi persuade a presentarvi tali studi è di ridare all'insegnamento letterario quell'importanza filosofica, ch'esso ha generalmente perduto per opera d'una critica miope e meschina, che intesa unicamente a razzolar date ed aneddoti, ha perduto e fatto perdere di vista gl'intenti dell'arte e gl'ideali della vita; di rivendicare l'indipendenza del lavoro geniale dalle codificazioni della critica burbanzosa ed inetta; di richiamare finalmente l'attenzione e lo studio vostro, se pur mi sarà possibile sull'intima relazione tra' fenomeni artistici e sociali, considerando l'arte come il più nobile strumento delle conquiste civili, come un mezzo di simpatia e di carità universale, una facoltà di armonizzare, secondo la frase del Guyau, l'individuo umano al gran tutto, abbattendo nel campo estetico quelle barriere che la ragione ha da un pezzo abbattuto nel campo scientifico, e che l'azione concorde di tutti i lavoratori si accinge ad abbattere nel campo economico e sociale.
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* bibliografia
Prose, poesie e lettere postume a cura di Lorenzo Vigo-Fazio -1930
L'odio di Francesco Petrarca a cura di Mario Sipala - 1990





martedì 1 novembre 2011

Municipio di Catania - avviso di concorso - (Don Chisciotte 1881)

Tratto dal settimanale Don Chisciotte del 17.7.1881 n.23, fondato da Federico De Roberto

* AVVISO DI CONCORSO
Dovendosi procedere, ai termini degli articoli tot e tot della legge comunale e provinciale, alla fornitura di N. 15 personaggi automatici incaricati di scaldare le panche del Consiglio Comunale, la Giunta municipale ha deliberato di aprire il concorso fra gli aventi diritto alle seguenti condizioni:
a)  Di non avere una statura inferiore a quella dell' Assassore delegato.
b)  Di avere una costituzione fisica robusta ed una costituzione morale elastica, che permetta le transazioni e gli accordi, il tutto da accertarsi mediante visita medico-chirurgica-veterinaria.
c) Di sapere leggere e scrivere correttamente e le prime operazioni dell'abaco. La mancanza della presente condizione, non costituisce motivo di nullità.
d) Di essere nati e domiciliati in Catania. Occorrendo si può essere nati e domiciliati anche fuori senza che per questo non si possano difendere gl' interessi cittadini.
e)  A parità di condizioni saranno preferiti i celibi, i parenti degli assessori, i più alti di statura e coloro che provengono dall' arma dei Carabinieri reali.
I candidati debbono stendere formale domanda in carta libera, corredata dei seguenti documenti:
1.  Fede di nascita.
2.  Certificato medico comprovante la completa dentizione.
3.  Licenza della 2 classe elementare.
4.  Fede comprovante di avere sostenute o provocate cause contro il Municipio.
5.  Dichiarazione di adesione alle opinioni dell' Amministrazione.
Alle ore 15 , 72 estra meridiane del giorno stabilito i concorrenti dovranno trovarsi presenti in quest' Ufficio municipale, per subire gli esami e la visita medica.
Se saranno trovati idonei, si darà loro l'appoggio delle guardie di città e degli accalappiacani, ed occorrendo quello delle guardie di questura, dietro consenso della superiore autorità prefettizia.-
I nuovi ammessi si assoggetteranno ad un esperimento di sei mesi, dopo di che, se nulla sarà trovato in contrario, saranno assoldati definitivamente, a norma del Regolamento.
Catania, 32 Quinquembre, 0881.
PEL  SINDACO
COMMENDATORE CALI. 
Il Segretario particolare
Don Chisciotte


giovedì 9 settembre 2010

Siciliani dimenticati, Giuseppe Aurelio Costanzo l'eroe della soffitta.

« Gli Eroi della Soffitta

Chi sono? - Quanti assetano
Di vasto impero e di superba altezza,
Quanti piegar disdegnano
La groppa al basto, il collo a la cavezza.
(continua qui).

In G. A Costanzo, abbiamo, due poeti, due maniere diverse, l'una diversa dall'altra! Abbiamo il poeta dell'affetto e abbiamo il poeta della ribellione, dell'umorismo.



Frammento
..........................................
Che rimarrà di noi, di quanti assetano,
Riarsi, di giustizia e di vendetta?

Nulla! in affanno tormentoso, assiduo
Si corre tutti come acqua a la china;
Ma il nulla ci sovrasta, il nulla, l'ultima.
La gran parola de la gran ruina!

Archi, colonne, obelischi, piramidi,
Massi di bronzo, massi di granito,
Opre di cento razze e cento secoli,
Che siete voi dinanzi all' infinito ?

Tela di ragno, macerie, giocattoli
Di fanciulli, ora in pace ed ora in bizza,
Giocattoli e macerie in cui la picciola
Scintilla di Prometeo indarno guizza.

Ahi, tutto muore e tutto nasce: e, ogni attimo,
Tra vita e morte, ondeggia la natura;
Ma in questo cozzo, in questo dramma assiduo
C'è pur qualcosa che mi fa paura!

Tela di ragno! Sì, quanto t'invidio,
O vecchierella, che, de'tuo'destini
Ignara o certa, in riva al padre Tevere,
La tua tela bianchissima sciorini.

Vivi sempre, così, ne la tua semplice
Fede, tra' rosei nipotini, e sia
La famigliuola tua l'ultimo palpito,
L'ultima tua parola: ave Maria!

Meno trista di me che scruto e investigo,
O vecchierella da le argentee chiome,
Se, in ansie veglie, non ti rode l'anima
L'intimo tarlo d'un perchè, d'un come.

In nove carte io più stempro e macero,
Più corro de la morte in su la traccia;
Ne la gran lotta più mi affanno a vincere,
E più sento l'eterno che mi schiaccia.
...............................................................

Quando, alcuni belli spiriti l' attaccarono, egli disse sorridendo agli amici:
Si, hanno ragione. Ma si sono dimenticati di una cosa. Non hanno ricordato che, quando essi vagivano in cuna, io ero lanciato nella rivoluzione del 1860 o davo la caccia a' briganti della Calabria.

(si riscontreranno similitudini con links esterni, fanno parte di miei contributi, fatti antecedentemente- P. R.)
* BIBLIOGRAFIA
Frammento, tratto da Album dell'Associazione della stampa periodica - Roma, 1881 ed. Forzani & c.
Giuseppe Aurelio Costanzo, di Giuseppe Cimbali, 1886.





Poeta e letterato, professore e Direttore del R. Istituto Superiore di magistero femminile di Roma.
Ebbe il primo indirizzo letterario da Emanuele Giaracà di Siracusa.
Frequentò l'Ateneo napoletano (1861-1864) sotto Francesco De Sanctis, Luigi Settembrini, Antonio Tari, Augusto Vera, Silvio Spaventa, Federico Persico ed altri.
A Napoli compose i primi versi che attirarono l'attenzione di letterati, e ispirarono al Settembrini una lunga prefazione.
Nel 1869 fu chiamato dal Ministero della P. I. all'insegnamento delle lettere italiane al Liceo di Cosenza, alla cattedra medesima lasciata dallo Zumbini, e quando nel 1878 il Ministro Francesco De Sanctis fondò a Roma l'Istituto superiore di Magistero, Costanzo fu chiamato ad insegnarvi letteratura, e più tardi, alla morte del Direttore di quell'Istituto, Giovanni Prati, Costanzo ebbe affidata la Direzione.
Partecipò insieme ad altri, ad un volume commemorativo sullo Zola, pochi mesi dopo la morte (cfr. Per Emile Zola, numero unico a cura di Salvatore Rago, Avellino, Tip, Pergola, 7 dicembre 1902).
Questo scrittore fu anche Segretario particolare dei ministri Correnti (1872) e Perez (1879), fu in contatto con Alessandro Manzoni, Ruggiero Bonghi e altri letterati italiani.

Oltre ad un immenso numero di scritti sparsi per le riviste di ogni specie, il Costanzo ha pubblicato i seguenti lavori:


  • Versi - Napoli, 1869.
  • Nuovi Versi — Napoli,1873.
  • Fragmentum Carminis epici, exametra- J.Prati(Versione)Napoli, 1873.
  • Un'anima — Napoli, 1874.; Milano 1894 e 1899.
  • I Ribelli - Napoli, 1876.
  • Berengario II — Napoli, 1876.
  • Cenni storici sul sec. X — Napoli,1876.
  • Gli Eroi della soffitta - Roma, 1880;Milano, 1894 e 1897; Messina, 1903;Roma, 1904.
  • Nuovi versi — Roma,1882.
  • Funeralia — Roma, 1886
  • Minuzzoli — Roma, 1886.
  • Nuovi Canti — Roma, 1892.
  • Fosforescenze — Messina, 1903.
  • L'Essere — Roma, 1903.
  • Dante — Poema lirico — Casa editrice Roux Viarengo, Roma-Torino, 1903.
  • Bricciche letterarie — Catania, cav. N. Giannotta editore, 1904.

Poesia - Baci - di Giuseppe Aurelio Costanzo
Musica - Confidence amoureuse - di Francesco Paolo Frontini


Baciami, baciami, baciami ancora ...
Meglio che un secolo, vale quest'ora,
Che in lungo e tenero sospir d'amore
Due cuori battono come un sol cuore.
Ah, tutta un bacio la vita sia,
Sia tutta baci l'anima mia!
CONTINUA QUI

sabato 28 agosto 2010

LA VERA STORIA DEL FUTURISMO, la parola a Gesualdo Manzella Frontini

-Futurismo e Passatismo -
Per quanto riguarda l'appartenenza di Gesualdo Manzella Frontini al movimento futurista, bisogna risalire a quando lo scrittore, ventenne, aderisce ai motivi e alle forme di quella generazione irrequieta che sotto il Consolato austriaco grida “Viva Trento e Trieste”, generazione, inoltre, carica di una certa insofferenza per tutto ciò che andava determinandosi del tramontato Ottocento. (vedi anche qui )
Così, insieme ai compagni di studio, attacca la vecchia cultura e tutto ciò che si riferisce al passato.
Il Manzella, nel gennaio del 1907, lancia un manifesto dove sono già espresse, prima che lo facesse il Marinetti, le idee e la rivolta futurista. E a questo punto penso interessante riportare gli stessi appunti manoscritti del Manzella raggruppati in una carpetta dal titolo “Futurismo e Passatismo”.
Gli appunti servirono al Manzella per una conferenza tenuta al Kursal di Luino il 29 marzo del 1913.
Ecco cosa scrive: “ Nel gennaio del 1907 io lanciavo un manifesto che preludeva la pubblicazione d'un giornale letterario, “Critica ed Arte” forse non ignoto a qualcuno di voi. Il manifesto fu accolto con ostilità molte: esso portava fra le righe frasi stilizzate la rivolta futurista, ma non ne conteneva il nome, né la prepotenza aggressiva. Ebbi pochi aderenti e tra questi un giovane di genio, Filippo Tommaso Marinetti, che fu collaboratore nel mio giornale e che mi divenne amico affettuoso.
Era trascorso un anno quando il Figaro, il giornale diffuso parigino, lanciava al mondo col nome di futurismo un grido di elevazione di rinnovamento di nuovo orientamento, e il Marinetti eroicamente affrontava con la stessa idealità e con mie identiche la lotta ch'io non avevo saputo sostenere...”
Il manifesto lanciato dal Manzella nel gennaio del 1907, prima ancora di quello del Marinetti del 1909, non ha fortuna e la rivolta, ch'era futurista, esposta-vi dal Manzella Frontini viene accolta senza entusiasmo. 
Ma continua Gesualdo Manzella: “ Così nasceva il futurismo. Il proclama (del Marinetti) piacque a me, ed era umano che fosse piaciuto, poiché io vi leggevo la eco dell'anima mia, eco lontana che datava fin dal 1903 quando pubblicavo il mio primo volume dal titolo “Novissima – semi ritmi” ove per primo in Italia cantavo in metri liberi canzoni che la critica giudicò audaci, sconvenienti, poco sereni... Io intesi il bisogno di scrivere al Marinetti non già per aderire – ch'egli era stato un mio efficace collaboratore un anno prima – ma per ricordargli che sotto la forma di aggressiva irruenza egli non faceva che ripetere quanto avete voi già inteso nel mio manifesto...


Mi sembra opportuno, a questo punto, riportare le parole che la redazione di “Critica ed Arte” indirizza “ agli artisti giovani e alla gioventù contemporanea”: “ Parta dalla terra del sole, dalla feconda terra fiorita, e dalla città ardita sotto l'incubo ognora minaccioso del possente ubèro di fuoco, o fratelli giovani, dispersi fra le ruine d'Italia, la voce di rinnovamento. Rispettosi verso coloro che abbiamo ammirato, non chiederemo il loro contributo; vogliamo che il glorioso passato giudichi il presente ardito e l'avvenire che NOI rechiamo in Noi. Cadremo forse nella lotta, ma superbi di una tale caduta”. (Critica ed Arte – Catania, gennaio 1907).  Il giornale procura tali noie al Manzella, che al quinto numero si ritira.

Proseguendo la conferenza di Luino (1913) così egli si esprime: “ So che alcuni di voi, parenti della mia piccola falange scolaresca, sono già scandalizzati per il fatto, in verità non nuovo, d'un insegnante che si occupi d'altro che non sia la scuola ed i registri e le medie e le raccomandazioni. Quest'uomo fortunatamente non è vecchio e possiede perciò quella grande virtù che il mondo non ha saputo e non saprà cantare: la fede audace, ed è così che egli vi parlerà stasera del Futurismo, convinto, convintissimo di arrecare alle vostre menti chiarezza di idee e convinzione perché possiate giudicare questi pochi apostoli fiduciosi ed esaltati di volontà”. Continuando: “ Il buon pubblico nostro non vuole operare alcun sforzo, ama che gli si dia la sua brava porzioncina di poesia o di pittura o di musica... per aperitivo o digestivo, e non crede opportuno spiegarsi alcun tentativo di novità, sia pure fatale, rispondente a necessità ideologiche o sociali. Non dice: forse non comprendo; - ma s'affretta a gridare: - siete pazzi – a coloro che sono stati chiamati dalla Natura a precorrere le vie nuove e ardite”.
Significativa è la definizione che da del Futurismo, prima del 1909: “ Se Futurismo significa esaltazione della vita, di quella vita energica ch'è moto, velocità, irruenza, violenza significa espressione perfetta della nostra anima di arrivisti, di industriali audaci e avidi, di commercianti subdoli, d'operai scontenti e rivoluzionari”. 


Lettera indirizzata a Giuseppe Lipparini il 7 luglio 1911, che riporto: “ Credetemi, caro Lipparini, noi abbiamo inventato il “futurismo” per la gravezza paludosa dell'aria che ci sta attorno e ci corrompe e ci pervade entro le vene il sangue e le carni ed il cervello; abbiamo inventato il “futurismo” per bisogno ineffabile ed impellente di nuovo, ci siamo ribellati a tutto e a tutti perché volevamo scorgere, dopo l'empietà dell'incomposta distruzione, qualcosa la quale non fosse il putrido presente incolore, astioso, convinti magari di non aver niente da dire, se non parole di ira, accenti rotti di sdegno, sconvenienze; ma era fede profonda la nostra, ed ora si è capito anche dalle persone serie, era speranza d'invenire fra i rottami il segno vivo di ciò che volevamo.
E se non esistesse bisognerebbe crearlo un movimento simile.. e chiamatelo se più vi piace anarchismo”. 
Intanto il Marinetti, pubblica il suo Manifesto e da questo momenteo inizia la corrispondenza con Manzella-Frontini. “ ….....Marinetti è un uomo che non è affatto pazzo, ma uno degli uomini più rappresentativi e geniali di questo primo quarto di secolo. Marinetti che è tempista come Mussolini e come Mussolini è d'una straordinaria sensibilità politica, abbandonando agli ulteriori sviluppi i vari futurismi, volle porsi all'avanguardia dell'anima nazionale e creò il Futurismo nazionale italiano.


L'errore nostro fu quello di aver confuso gl'indistinti moti di rivolta contro la podagrosa Italietta umbertina con l'ispirazione e con la serena visione della vita e del mondo” (L'arte fascista non sarà l'arte futurista - 1926)



***
lavori per wikisource, vedi qui



Canto  d'allarme.«Novissima Semi ritmi» (1904)

Perché,  o mio cuore,  questa sera  impaziente
tu  batti con fremito d' allarme ?
Senti tu forse il lontano ululato de la livida schiera
minacciosa dei pensieri ?
Penetra il soffio violento do la lotta e si stende
su la landa arida del cervello.
Tu fremi,  o mio cuore fedele,  nel vano  richiamo
de le disperse speranze, degli ideali lontani ;
ma non vedi gli stinchi al suolo
e l'olezzo non  senti de le carcasse imputridite?
Non vedi la schiera de le mulacchie
gracchiani su gli scheletri spogli
volteggiare ne 1' aria ?
Tu batti ancora il funebre canto de la sconfitta !
Io sento a la gola i singhiozzi de le ruine.



Bibliografia
G. Manzella Frontini, di D. Di Bella - relatore Prof. Ermanno Scuderi  1976/77
Futurismo e Passatismo, manoscritto per conferenza tenuta al Kursal di Luino, 29 marzo1913
G. Manzella Frontini, Corriere di Sicilia, 13 aprile 1963
La Redazione, Agli artisti giovani e alla gioventù contemporanea, in Critica ed Arte gennaio 1906
A Giuseppe Lipparini, Corriere di Catania, 7 luglio 1911 

Biografia – G. Manzella Frontini di Vito Finocchiaro, 1985.

Il ricordo di Gesualdo Manzella Frontini è ritornato piacevole e grato alla mia mente con lo «speciale» di Gaetano Zappalà, «Don Gesualdo di Trezza», pubblicato su «La Sicilia» del 28 ottobre 1985, nella ricorrenza del centenario della nascita del letterato catanese. Definire letterato il Manzella Frontini è, forse, un poco riduttivo, anche se l'essere cultore della letteratura, e cultore come lo fu lui, è pregio non da poco. Riduttivo, nel suo caso, perché egli non fu soltanto un eccezionale, coltissimo conoscitore e profondo studioso dell'«insieme delle opere, pertinenti ad una cultura o civiltà, affidate alla scrittura», non un semplice fruitore delle opere altrui, ma un soggetto attivo, un protagonista del fatto letterario. Fu, infatti, scrittore, poeta e giornalista raffinatissimo, impegnato, espressivo e fecondo (dei suoi ottantanni di vita ne dedicò più d'una sessantina allo scrivere!), un nome autentico a livello nazionale ed europeo, se è vero, com'è vero, che lo troviamo con Filippo Tommaso Marinetti tra i fondatori del futurismo, nel 1910 tra i firmatari del «Manifesto dei drammaturghi futuristi» dello stesso Marinetti (è con i poeti Gian Pietro Lucini, Paolo Buzzi, Federico De Maria, Enrico Cavacchioli, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni, Libero Altomare, Luciano Folgore, Giuseppe Carrieri, Mario Bètuda, Enrico Cardile, Armando Mazza, assieme ai pittori Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini ed al musicista Balilla Pratella) e tra le personalità che figurano nel «Manifesto delle avanguardie letterarie ed artistiche europee» firmato da Guillaume Apollinaire nel 1913 a Parigi (nell'elenco vi sono Marinetti, Picasso, Carrà, Matisse, Palazzeschi, Strawinsky, Papini, Soffici, tanto per fare dei nomi che dicono molto a tutti).
Laureato in lettere e diplomato in filologia, insegnante nei licei classici di Prato, Luino, Cassino e Catania («Cutelli» e «Spedalieri») nonché nel liceo dell'Istituto San Michele di Acireale, Gesualdo Manzella Frontini diresse i giornali romani «L'idea liberale» (1914), «Le fonti» (1918), «Corriere africano» (1930) e collaborò a numerosi giornali e riviste, tra cui «Delta», «Vita nova», «Popolo di Roma», «Anthologie», «Lavoro fascista», «Corriere emiliano», «Ausonia», «Misura», «La rassegna», «Il resto del Carlino», «Novella», «Corriere della sera», «Corriere di Sicilia», «Popolo di Sicilia», «La Sicilia», «L'ora», «Giornale di poesia», «La fiera letteraria» e «Poesia», la rivista di F. T. Marinetti. Fu autore prolifico e versatile, come si conviene a chi nutre molteplici interessi ed ha il desiderio intenso (direi meglio, figurativamente, la smania) di soddisfarli tutti. Scrisse, infatti, ben ventisei opere (e va da sé che mi riferisco a quelle pubblicate in volumi), spaziando dalla poesia al teatro, dai racconti alla letteratura ed alla retorica, dagli studi critici e dai saggi ai romanzi. Val proprio la pena di elencare i suoi libri (e lo farò in appendice, anche per ricordarne alcuni che oggi sono poco noti), divisi per sezioni, non senza notare che ognuna di queste l'Autore curò non episodicamente ma per lunghi periodi della sua intensa vita, con ampio respiro di continuità, dando corpo a coerenti sequenze temporali, che si avvertono particolarmente nei campi della poesia, della saggistica e della narrativa.
Non è, comunque, questa la sede, per chi, come me, non è un critico letterario né sa portare avanti con autorevolezza disquisizioni in chiave di puro estetismo, per approfondire il discorso su Gesualdo Manzella Frontini, scrittore ed operatore di cultura nel senso più largo dell'accezione. ........


OPERE DI G. MANZELLA FRONTINI
 
POESIA: 
«Novissima Semi ritmi» (1904),
«Le rosse vergini. Rime pagane»(1905),
«Il prisma dell'anima» (1911?),
«Sul gigli gocce sanguigne»(1920),
«Il mio libro dai campi P.W.» (1949).

RACCONTI: 
«Le lupe» (1906),
«Quando la preda è stretta» (1921).Premio “Il Seminatore”

STUDI CRITICI E SAGGI:
«La Lozana Andaluza» (1910),
«Contemporanei e futuristi» (1910),
«Auro d'Alba» (1927),
«Mario Puccini» (1927),
«Il Santo mediterraneo» (1931).
«Abate» (1932)


TEATRO: 
«L'altro sangue» (1922?),
«Verso le ombre» (1923),
«La madre immortale» (1935).

LIBRI DI LETTERATURA E DI RETORICA:
«Note di letteratura» (1921),
«Lingua e stile» (1931),
«Idee estetiche e gusto»  (1924).

ROMANZI: 
«L'Uomo che non seppe odiare» (1924),
«Il testamento di Giuda» (1925),
«Pupetta» (1926),
«Circo Barum, naja e sciacalli» (1933), premio “Accademia d'Italia”
«Scale» (1935), premio “Foce”
«Crocifissi alla terra» (1953),
«Sorte» (1961), quest'ultimo con presentazione di Bonaventura Tecchi.

VARIE: 
«Volare» (1927),
«L'eroico imperiale» (1928),
«Italia una e diversa, tutte le regioni» (1923).

***
Vedi anche: 

COSA É IL FUTURISMO ? Commento al decalogo di Gesualdo Manzella Frontini (1910) e Critica a MAFARKA-EL-BAR romanzo africano - QUI

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Dal 1903 al 1965 scrive per La Sicilia, il Corriere dell'Isola, La voce dell'Isola, Orizzonti, Libera parola, Il Tevere, Quadrivio, La Gazzetta delle Arti, Ultimissime, Momento Sera, Le Lettere, Il lavoro Fascista, Tribuna Agricola, La Gazzetta del Sud, Il Resto del Carlino, Pomeriggio, Il Risveglio, Milano Sera.
I due pseudonimi (in sicilia) Eligio Flora e Deodato Perduti.

Collabora alle riviste
1903 Fantasmagoria
1904 La Lettura
1906 Critica ed Arte
1909 Poesia
1915 Imo de Pectore
1920 Rivista delle Signorine
1921/28 Le Fonti
1922 Il Polline
1923 Delta
1925 Polemica
1926 Bibliografia Fascista
1926/27 Le Thyrse
1926/28 Vita Nova
1926/29 L'Arte Fascista
1927 Quaderni Fascisti. Volare.
1930/31 Il Corriere Africano
1932 L'Asceta
1932/33 In Aevum
1938/39 Il Nuovo Stato
1946 Rassegna
1947 Misura
1947/48 Le Arti Belle
1947/48 Camene
1950/53 Doctrina
1955 Rassegna
1956/62 Catania
1957 Realtà
1957/60 Battaglia letteraria
1959 La Lucerna
1960 Vie Mediterranee.

A la sala anatomica. «Novissima Semi ritmi» (1904)

Oh,  ricordo perenne ! 

Un profumato autunno di tuberose, 
un acre odore d' acido fenico. 
Entrai  ne la sala anatomica  illuminata 
da le ultime fiammate d'un vespero di viola e di croco. 
Stavano stesi i cadaveri, squarciati, 
di sangue e di  grumi su le tavole chiazzate; 
Un vecchio, con l' occhio schizzato, 
avea un torace microscopico, 
su la glutine de l'occhio fetente le mosche 
importune un inno cantavano liete. 
Uno straccio di vecchio giornale turava la bocca d' un tisico, 
sul quale attenti lavoravano dei giovani : 
cedette lo sterno
fremettero i consunti, lividi polmoni 
imputriditi.
Quando su l' ultimo marmo, 
una donna vidi, da le anche spiccate, 
ed il seno avea floscio, 
ed il ventre squarciato colante materia, 
l'immagine vostra,  divina creatura, 
ne la sua carne di molle biancore 
improvvisa mi svelò la sua fresca.... 
ma pur vana bellezza.

Il dramma "La madre immortale" di Gesualdo Manzella Frontini





 Archivio Storico Luce - Attrice Marcella Albani
Giornale Luce B0485 del 06/1934