Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

martedì 29 maggio 2012

COSA É IL FUTURISMO ? Commento al decalogo di Gesualdo Manzella Frontini (1910)


COSA É IL FUTURISMO ? Commento al decalogo di Gesualdo Manzella Frontini



I. Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità — Il coraggio l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
E perciò, o signori critici, nessuna impennata: in ogni caso quest'affermazione è restrizione del mondo poetico non già allargamento di confini.
Senz'essere futurista la buon'anima di Tirteo piantava gli acuti speroni ai fianchi dei muscolosi guerrieri spartani cantando l'amor del pericolo e della temerità: l'abitudine all'energia erasi assimilata e s'esprimeva nella bellezza plastica di quei corpi, che il ginnasio aveva foggiati, mirando lontano ad un ideale di forza bella.
O gli speroni acuti del canto bronzeo volante di Tirteo.
O gli Hypothékai, o gli Embatéria.. pulsanti e forti di temerità !
Ma la critica non à il dovere di saper leggere le intime relazioni e le mutue rispondenze che trascorrono tra i balzi del tempo, legandolo in anella possenti e sotterranei la corona delle esistenze, ed in onde il mare agitato dei commovimenti umani.

IILa letteratura esaltò fino ad oggi, l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febrile il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
Meritatissimi schiaffi e meritatis-simi pugni, o pacifici borghesi, che avete condannato l' anima a far le pulci entro la berlina aperta agli scaracchi del primo venuto! Poi avete riso al Poeta che osava ribellarsi con incomposti movimenti ed impetuose scosse e divincolamenti, con la scusa ch'era ridicolo.
Per tutti i capelli di San Pietro, meglio, assai meglio il verso che avesse l'agilità d'un salto mortale, la sonorità d'uno schiaffo, la velocità appena percepibile d'una corsa e la persuasione.... d'un buon pugno alla Johnson, che la putrida velma verminosa d'un sonettaccio contemplativo, laudativo, inneggiante... alla cocolla o al panno chiazzato d'una qualunque bimba di clorotica salute!
Ed ora l'avete anche con me! Badate alla pesca e alle adunche branche dei granchi... (che serie di gruppi... gutturali-nasali) !
Io  non sono un avvocato futurista! Figuratevi che il Marinetti ad un
certo punto del suo proclama dice: « Ci opponete delle obiezioni?.. Basta! Basta! Le conosciamo... Abbiamo capito!.... La nostra Bella e mendace intelligenza ci afferma che noi siamo il riassunto e il prolungamento degli avi nostri. Forse!... Sia pure ! Ma che importa? Non vogliamo intendere!....
Guai a chi ci ripeterà queste parole in faccia!... » 
Ebbene io tante volte gli ò ripetuto in faccia quest' accusa ed ancora ritorno ad accusarli... Quindi non sono sospetto di... partigianeria.
Il   secondo comma del decalogo però mentisce: signori critici, e cosa mai cantava l'Unico, l'enorme, l'irriducibile Pindaro?
Inni, peani, ditirambi, epinicii! Eternità del Kallinicos, consacrata dalle ampie volate delle strofi palpitanti!

Voi, signori, che non avete osato parlare del Futurismo mentre dall'imo fegato la bile per la via dei polmoni v'urgeva irruenta alla gola, conglobata in triviali insulti, in fulminanti parolacce pesanti come un poema rapisardiano, voi, signori, avrete naturalmente inteso che gli epinicii di Pindaro esaltavano il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto... il lancio del disco, la lotta violenta corpo a corpo....
E allora anche Simónide e allora Pindaro furon futuristi?
Tutto ciò non potrà magari piacere al Marinetti, ma i signori critici non dicano che ò torto....
In tutti i casi si difenderanno, che ne àn diritto, distinguendo futurismo da futuristi! Io per tanto son con loro: Non tutti gli spartani eran valorosi e coraggiosi allo stesso modo; ne tutti i poeti di Italia àn cantato una Divina Commedia!...

III. — Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una nuova bellezza: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa, col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
Questioni di gusti. È stato forse determinato da alcuno, che ne abbia avuto formale incarico dall'Umanità, l'ambito entro cui la ispirazione dell'Artista s'abbia a contenere? Non può forse la fantasia del Poeta sferrare per l'eccelse plaghe dei cieli intentati ?
Un solo monito ed una sola legge: Seguire ed imporsi un sogno di bellezza. Allora quando sentirà intensamente ed in egual misura saprà riprodurre le  sue sensazioni, l'Artista à creato opera vitale, e gli uomini avranno da Lui preteso non ingiustamente e non oseranno chiedergli oltre.
Massimo Bontempelli elogiava l'automobile e la sua donna scalmanata nella corsa, quando ancora il futurismo non aveva proclamato i suoi diritti; ed il maltrattato Monti — or è molti anni — tesseva una sua classica ode al signor di Mongolfier, speranzosa e profetica, come tutto ciò che s'abbandona con fiducia al futuro.
Ciò non pertanto la Vittoria di Samotracia resterà a significare l'espressione d'uno stadio di bellezza oltrepassato, non condannato, nè irriso, e maraviglioso. Si deve per ciò incancrenire ed immarcire la energia nuova con innesti anacronistici? Non crediamo.

IV. — Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la terra, lanciata a corsa,  essa pure, sul circuito della sua orbita.
Bella ed efficace figura retorica per dire che tirate le somme pànta réi! Tutto scorre, si muove, agisce; che la dinamica par sia per sostituire, nella esatta concezione dell'universo, la statica, Energheia: ecco la decima Musa. Non è forse la filosofia bergsoniana che tanta fortuna solleva in Europa, poggiata sulla mobilità del reale ? E perchè solo ai futuristi, contro i cui petti luccicano occhi sgranati di sdegno e di irrisione, s'à da reclamare il foglio di via della loro origine?
Ma lasciate che gli episodi della vita si compiano, senza intralci: niente è più sacrilego ed infecondo che il sopruso e la violenza perpetrata a danno dell'entusiasmo.

V. — Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sforzo e munificenza, per aumentare l'entusiastuo fervore  degli  elementi primordiali.
Né alcun passatista, come direbbe il Marinetti, negherà l'approvazione a questo numero.... del proclama.
Infatti l'Artista è come certe ruote d'ingranaggio, le quali ànno un congegno tale da centuplicare il primitivo impulso e restituire una forza attiva, avendo ricevuto l'urto con l'energia latente. Egli elabora con ardore la materia grezza ed aumenta il fervore dell'elemento primo.

VI. — Non v'è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo.
Tutte le consorterie sono esclusiviste: il futurismo come tutti gli aggruppamenti letterari, che in buona fede credono d'avere risolto il problema estetico, é una consorteria, intesa nel senso benevolo ed originario della parola. Epperò io — il quale sono una quantità come un'altra, forse negativa per molti — sarò futurista quando il Marinetti avrà dichiarato esplicitamente le sue vere intenzioni nell'atto di dettare il proclama, or mai celebre, e quando per conseguenza avrà risciacquato nel puro lavacro originale l'unica etichetta che — in questo caso solo — avrebbe una ragione d'esistere, futurismo: cioè negazione di tutte le etichette, scuole, cenacoli, accademie, consorterie.. Proclama di grandi verità, benissimo sintetizzate in una felice, semplice e vecchia frase.... fatta: l'Arte è la Vita, per dire fra l'altro che il Passato anche glorioso non è la Vita, ma l' antitesi di essa.
Quando poi il carattere aggressivo imposto dal futurismo all'opera d'arte perchè possa essere un capolavoro, avesse avuto nell'intenzione dello scrittore significato di intensità suggestiva noi sentiremmo la verità alzar la voce a suo vantaggio: nè alcuno potrebbe dar torto.

VII. — Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perchè dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell' impossibile? Il tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo nell'assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente.
Questa mia è opera di divulgatore ed illustratore, cerchiamo perciò di ridurre in più democratica forma il pensiero dei miei illustri amici : né conto d'interpretare esattamente quello che àn voluto dire....
Noi siamo sul promontorio... cioè: Noi siamo il risultato di una somma d' esperienza tale da permetterci  un atteggiamento di superiorità innanzi alle vicende della specie. Noi abbiamo superato le possibiliià umane e ci avviamo energicamente a scassinare le porte dell' Impossibile, per trafugarne il mistero... Frattanto siamo l'assoluto onnipresente, cioè oltre la storia ed oltre... la Terra: nessun colore di tempo né di razza impronterà le nostre concezioni.
O io mi sbaglio, ed allora ò torto, o non mi sbaglio, allora non ò ragione, poiché m'è saltato sul naso il grillo di discutere anche questo.... degli articoli il più spurio, così come certi numeri di programma dai quali l'impresario s'aspetta un trionfo e vi cadono ch'è un piacere.
Qui i miei amici scattando sull'acciaro dei loro muscoli corsero per afferrare la mosca bianca da collocare sul làbaro e si trovarono d' aver colto un pappo.

VIII- —Noi vogliamo glorificare la guerra—sola igiene del mondo — il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
Sia gloria alla guerra... patriottica quand' essa si trascina dietro anche il militarismo, così leggero del resto in grazia delle corazzate di Terni ; sia laude al libertario che sul formidabile ordegno d'una macchina infernale pone il fiore rosso della propria vita per il più rosso fiore dell' Idea esaltata ; siano prodighi i Poeti di canzoni a chi muore per un sogno fantasioso...
Epperò — e vorrei scriverlo con tre p — permettete, o Marinetti, che entro l'alone d'un bel gesto io possa, e con me, le retroguardie del Futurismo, scorgere la linea incerta della concreta bellezza, la figlia prediletta dello spirito dell'uomo. E se di quest'uomo voi mi fate un clown che ridicolosamente vi balli sopra un filo di ferro per divertivi... la folla, questa è azione da dilettante, da snob, non da Grande Poeta, quale io sento che voi siete. Credete ch'io vi predichi morale?... Bel pulpito la sconfinata mia coscienza per una predica!...
È ch'io non capisco l'incomposto arrabbattarsi d'una falange geniale per un frivolo istinto di rappresaglia. Chè la vostra guerra — igiene del Mondo — ed il vostro militarismo mi sanno di tendenza antisocialista lontano.... molto lontano!
E credete voi sul serio che una scuola letteraria — come vi piace chiamare il futurismo—possa concretarsi su basi, le quali non abbiano nelle profondità dell'essere il primo e più forte piano? La sincerità, ecco la sola   igiene del mondo! tranne non vi sorrida una   umanità  che  sia  la  resultante degli invalidi, dello scarto delle leve e di vecchi e di donne..... Delle quali pare ci si debba guardare come dalla... spinite: del resto è caso tipico in cui la causa per l'effetto calza, e come calza. Scherzi a parte sotto certi aspetti il futurismo l'à piantata giusta sull' affare della donna.
I belati, i piagnucolamenti, i deliqui e gli svenimenti ci àn rammollita un pò la colonna vertebrale, ed è tempo che l'uomo ritrovi il midollo della sua naturale vigoria maschia di propulsore e dominatore, specie quando una innumere turba di suffragettes à imposto alla tradizionale serietà britannica una veste da camera mostruosa, per arrivare più svelta, in mutandine, a carpire l'arma micidiale e sovvertitrice: il voto!... E l'à carpita!
Nè centro dell'universo, nè macchina da far figli, e s'intende non a torto oggi dal futurismo messa alla gogna, quando s'inveschia a farla da pepe in ogni minestra... la più spiccia della mensa politico-sociale.
Dice il futurismo: meno carne e più... nerbo. E sia!

IXNoi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
La bufera degl'improperi s'è avventata contro l'innocente grido di rivolta, quado classicisti degni dell'umanesimo— e valga uno per tutti Ettore Romagnoli, mio illustre maestro—già da anni non pochi, s'armano dell'acuta amara satira, densa d'attico sale, per colpire la turba degli accademici, musoni topi miserabili, tignole bibliofile....
Dice: È la forma, il modo che offende !... Non li credete ! È che àn trovato da far bene il lor gioco su quattro audaci, audacissimi, ma giovani e di questi, alcuni ribelli per istinto, perché inesperti di.... materiale storico (ahi! quanto... materiale!) e ci si son messi col silenzio agghiacciante, coll'ironia sboccata e col ridicolo....
Ah, in quanto a questa positura di guerra benedetto tre e quattro volte e anche sette il futurismo del più irresistibile ed imponderabile futurista... Servirà anche dal suo canto a sbarazzarci la via troppo ingombra di materiale... 

X Noi canteremo le grandi folle agitate dal  lavoro, dal piacere o dalla sommossa ecc. ecc.
Cantate, cantate, o ardenti cicale, di questa estate rossa, purchè non veniate a schiacciarci innanzi le tignole raccolte fra i palinsesti o i codici adespoti e a gabellarci quell'esercitazione poco pulita per... un dattilo acatalettico in flagrante furto d' una sillaba!...
*Critica al Manifesto del Futurismo - Le Figaro - 20 febbraio 1909

***
(Critica...)
romanzo africano



Avendo finito di leggere, la mia grande curiosità gelosa s'era rilasciata in una stanchezza d'esasperazione.
Non ci si avvicina ad un libro d'un uomo d'ingegno, specie se quest'uomo è un nostro amico, con serenità né tanto meno con indifferenza. Anch'io ò creduto spesso alla cara illusione d'una critica impersonale, ma oggi più che altra volta, mi son trovato uomo di parte, chè se l'irritazione prodottami da «Mafarka-el-Bar» il romanzo futurista di F. T. Marinetti, mi fosse venuta da altri e per l'altra via, son certo che non avrei scritto queste note per paura dell'art. 295 del C. P.
Curiosità !
Io volevo sentire la prosa di romanzo del Marinetti, ma non potevo concepire fino a che punto possa trascinare il fanatismo d'una idea fissa o la coscienza della propria magnifica sostanza intellettiva, ed il Marinetti ch'è un milionario non avrebbe dovuto sprecare tanto fior di sangue e di nervi per colmare le mani, non piene mai, di coloro che àn bisogno esca onde dar fuoco alla paglia fumosa... soffocante.
D'un altro avrei forse detto che s'era sbagliato a suo mal grado, ma per il Marinetti ò la presunzione di affermare che Egli à scritto un libro per èpater le bourgeois (scandalizzare la borghesia).
Che si possa discutere un'opera di arte dal punto di vista della sua significazione etica e sociale, sebbene ancor oggi lo si pretenda e quel ch'è peggio lo si faccia, io non credo.

Infatti se, ad esempio, la Patria lontana del Corradini, di cui ò parlato, è stata posta allo strazio della discussione, anche da giovani di alti criteri d'arte, non è avvenuto già perchè la Patria lontana intenda combattere una battaglia, ma perchè il suo autore più che al titolo d'Artista, di cui d'altronde è degnissimo, tiene a quell'altro d'uomo d'azione.
Ed è per queste mie speciali vedute che io non indendo condannare a priori « Malarka », ma è pur troppo dalle stesse ch'ei vien condannato. Mi spiego.
Se un libro dovesse rispondere del corso ch'esso si compiace di assegnare ai valori della vita, e se dovesse subire lo strazio d'una inchiesta, ordinata a rivederne le alterazioni, nessun artista potrebbe dislacciarsi dalle strette tòrtili. L' artista crea, e la sua, ch' è in fondo una rievocazione dalle più scure ed insondate profondità dello spirito, è opera sacra, già che a volte parla strane voci per i mortali sensi degli uomini, mentre è in Lui una corrispondenza ideale con le forze occulte della natura.
Chi non à inteso ripetere almeno una volta nella sua vita che non è prudente richiedere all'Artista donde venga e a che miri ? Eppure c'è tanta gente la quale facendosi un dovere di appellarsi alla tradizione condanna le opere d'ingegno, cancellando ed insultando quella tradizione alla quale si appiglia perché la ignora, e vituperando d'immoralità tutto quanto non risponde ad una misura stabilita.
Ingenuità delle ingenuità, direbbe uno scrittore biblico, ma non è naturale che le opere d'arte siano tutte amorali se vogliono rispondere ad solo fine, all'Arte? E intendiamoci: amorali nel senso più comprensivo; vale a dire logiche nella loro logica fittizia, naturali nella loro artifiziosità di luci, di scorci e di profili per cui ne risulta una illusione di realtà più vera della verità stessa, poi che non suscettibile di decadenza; etiche nella loro etica opportunistica. Ma prima e sopra tutto pervase da quel senso di indefinibile e complessa elevazione ch'è nell'opera d'arte, cioè la bellezza.
E così non preoccupandomi della balorda ed imponderabile accusa di oltraggio al pudore, per cui il libro del Marinetti è stato sequestrato dalla Procura Generale di Milano, ritorno al mio pensiero: il romanzo del Marinetti non à ragione d'essere poi che non è opera amorale, ma tende sin dalle prime pagine ad una esaltazione che è poi una tesi.
Ripeto non ò il diritto di preoccuparmi della tesi, ma ò quello di sviscerare il valore quantitativamente, in ciò ch'è la sua ragione d'essere, la ragione estetica.
* *  *
Gran poema di barbarie, ove le parole son  orde  selvagge di negri, che rispondono al ritmo d'un fragoroso rombo di tuoni per lanciarsi nella mischia fulminei, sui cavalli sfrenati, il « Mafarka » nella sua prima metà, sarebbe bastato alla gloria d'un poeta primìparo. Infatti senza le posteriori volute avremmo dimenticato le inopportune fila della tesi esposte sin dall' inizio.
Procede il romanzo per grandi quadri non altrimenti d'un poema, epperò un sol pensiero di quella vita intensamente fittizia cui accennavo poco fa, troppo spesso mal frenato, mal chiaro entro il bronzo del periodo, traluce.
Bisogna oltrepassarsi per poter fissare tutti gli strati inferiori della vita senza rimpianti, e nessun mezzo migliore di temprare questa volontà di elevazione, che il rappresentare la bétise degli uomini, crudamente, nella sua debolezza e nella sua istintiva irruenza.
Questa la  sintesi  del  romanzo,  e questa io penso la ragione delle frequenti imaginì lussuriose e delle scene carnali e della macabra, maravigliosa tregenda fallica, Lo stupro delle negre, degna di chi à concepito Re Baldoria, vale a dire del poeta più imaginoso, visionario, originale contemporaneo.
Egli à mezzo di contrapporre cosi' la granitica tagliente volontà di dominio e di purezza, alla molle flessibilità di schiena degli esseri inferiori che s'armano di verga e per essa vivono battendo i fiori sanguigni delle due bocche femminee.
Intorno a « Mafarka », al fratello suo Magamol, che finisce miseramente con la promessa sposa Ourabelli-Charchar per essere stato morso da un cane idrofobo, intorno a Coloubbi, che pretende essere stata la madre e l'amante del figlio di Mafarka Gazourmah, poi che lo stato dionisiaco, in cui Egli concepì il mostro alato e lo fuse e gli die moto, pretende Coloubbi d'averglielo essa prodotto con un suo sguardo possente, s'agitano le turbe schiave di Mafarka e del suo rivale condottiero di negri Brafane-el-Kibir.
O, le arse e spasimose cavalcate pel deserto dietro un'ombra o dietro un sogno del Marinetti, truccato da re barbaro!.... O, le onde di sabbia infoncata che morde le carni lucide, l'ansito caldo dei petti larghi, le grida strazianti dei feriti, o i gemiti delle negre stuprate in un'orgia titanica! Pagine di impeto e di concezione superiore.
L'estetica del futurismo è puramente e semplicemente dinamica, ma nel suo condottiero assurge alle irrequietezze più folli dell'azione.
E può parere un controsenso che in questo romanzo del Marinetti manchi proprio l'azione del senso più elementare.
Vi manca infatti una linea di svolgimento, quando invece attorno a Mafarka tutto vive una vita intensa. Egli vuole, sa ottenere, s' oltrepassa ma non ci persuade, già che la sua volontà d'elevazione sconfina dal senso umano di visione del mondo. Almeno sino a quando non sarà più ridicolo pensare ad una ideale umanità che faccia dei figli « sans le secours de la vulve! » tranne che non si voglia pensare ad una serie d'esperienze ultravulvari....
M'ero proposto di non discutere il romanzo nella sua tesi.
Mafarka enuncia una sua serie di affermazioni, e nel discours futuriste arriva a questa conclusione « Il est possible de pousser hors de sa chair, sans le concours et la puante com-plicité de la matrice de la femme, un géant immortel aux ailes infail-libles! » Date a questa idea delle premesse e sottoponetela a conseguenze e troverete l'uomo-areoplano, l'uomo-macchina.
Per questo fine, solo per questo fine, ch'è il punto ultimo dalla vita mortale, l'eroe Mafarka-el-Bar acumina l'acciaio delle sue membra e lo stile della sua volontà di dominio sulla cute ossea delle schiene umane.
Gl'istinti primitivi della specie ricondotti alla espressione di una razza eroica: potremmo magari discutere sino a che punto gl' ideali della nuova società democratica si possano e si debbano anzi accordare con questi istinti: la loro contraddizione appar-rebbe meno irriducibile di quanto si pensa. Ma non sarà mai lo sforzo della gente universa teso alla conquista d'un sogno poetico ultra-umano, contro natura.
Belle le sante battaglie dell'ideale, ma fino a quando avranno premesse e finalità umane, come quasi tutti i capisaldi del movimento futurista, ma quando trascendono e danno un balzo a capofitto nell'irrisorio, quale il figlio inorganico di Mafarka,  allora non   entrano   nemmeno   nel   mondo delle visioni.   
E per questo e per ragioni meno fondamentali, ch'io non son uso apportare quando parlo d'un'opera d'ingegno non comune, Mafarka-el-Bar non è un libro riuscito.

***
Vedi anche:  

LA VERA STORIA DEL FUTURISMO, la parola a Gesualdo Manzella Frontini 


"Volare - Il tema della sfida allo spazio aereo attraverso il volo meccanico, con le relative opportunità che essa offre di avventura umana e di sogni imperiali, viene aggiudicato nella collana della Bemporad al poeta futurista Gesualdo Manzella Frontini. Il quale ha tutti i titoli, come futurista, anche se nel corso degli anni Venti viene prendendo le distanze da certe radicalizzazioni dei giovani compagni di strada e viene sottoscrivendo le riserve critiche degli ex futuristi fiorentini, Papini, Soffici, Palazzeschi, ma anche come fascista della prima ora, come reduce della Grande Guerra, come portatore di una fantasia estrosa e generosa, per confrontarsi con questa prova."
G. Manzella Frontini e Carlo Carrà

mercoledì 23 maggio 2012

Mario Rapisardi - di Giuseppe Villaroel

Gente di ieri e di oggi - di Giuseppe Villaroel


Mario Rapisardi
In alcuni temperamenti c'è una forma di timidezza spirituale e psichica che reagisce con espressioni verbose e modi aggressivi puramente fantastici; una forma orgogliosa, e vorremmo pur dire letteraria, di spavalderia. Certe volte si tratta di rare e irrazionali impulsi istintivi che sfociano in traslati iperbolici, come, per esempio, nel caso Leopardi (« l'armi, qua l'armi — combatterò, procomberò sol io »);e certe volte, invece, di soprastrutture culturali e mentali, che finiscono per deformare la personalità e il carattere di un artista. Ecco il caso Rapisardi.
Il poeta, che cantò « Lucifero », la ribellione, l'anarchia e scrisse i più feroci versi dinamitardi e rivoluzionari dell'età sua, il poeta, che ebbe immagini grasse e truculente nella satira, nella polemica e nell'invettiva, era, di converso, il più mite e bonario e morigerato uomo del mondo. Già, bastava guardarlo in viso. Con quella sua chioma molliccia e ondulata di antico bardo, con quegli occhi languidi, quasi svenevoli, con quel nasetto petulante e femineo, con quei mustacchi pènduli, ovale di volto, èsile ed alto di statura, non dava sicuramente l'idea di un temerario sanculotto o di un temibile regicida. Ebbe, inoltre, il gusto di aggeggiarsi in nero, con cravatte lugubri e svolazzanti, colletti alla robesbierre, berretto bicorne e babbucce con fibbia: un modo tetro e romantico d'acquistare rilievo sulle folle, che parve geniale bizzarria ai fanatici e manierato esibizionismo ai nemici. Molti credettero, insomma, ch'egli si concedesse alla platea. Era rimasto, invece, casalingo e borghese quant'altri mai; e, tòlti siffatti paramenti, l'uomo viveva in esemplare e modesta semplicità. Tanto è vero che alla moglie (la Giselda), venuta in Sicilia dai climi eleganti e leziosi del nord, risultò trascurato e borghigiano. Forse, così, la donna volle attenuare, dopo il distacco, una colpa, che, ad esser sereni, non può avere altre attenuanti se non quelle della fragilità e della leggerezza di certe nature femminili. Giudizio dispettoso e ingiusto, dunque; e mal rispondeva agli accenti di gentile malinconia e di umana pena che il poeta ebbe per lei. Perché, diciamolo ad alta voce, Rapisardi fu di cuore sensibilissimo, generoso e indulgente. Ma, ironia della sorte, sembrò del tutto l'opposto. Sembrò gravido di rancore, selvatico e grossolano. Ed era, viceversa, un timido e un buono, cui spesso l'ira toglieva il senso della misura; più nelle parole, che nei fatti. E, se difetti egli ebbe, altri non furono che quelli di un eccessivo orgoglio e di un'ombrosa suscettibilità. « Poetae irritabile genus ». In fondo, la polemica con il Carducci nacque da ciò. Se il maremmano si fosse attenuto alle buone regole di cortesia (allora in uso), e non avesse ricambiato col silenzio i primi omaggi del catanese, probabilmente quel duro, spiacevole scontro non sarebbe avvenuto. Il Rapisardi cadde nella scatologìa, com'ebbe a scrivere il Carducci. Già, già; ma il Carducci non aveva tolto, mica, termini e immagini dal « Florilegio per le educande ». Ed è lecito, al sentir dire che la propria arte ha « le brache puzzolenti », che un uomo possa rispondere, come rispose il Rapisardi:

La fama che con lui fornica in piazza, 
posto il trombon tra l'una e l'altra lacca, 
ai quattro venti il nome suo strombazza.

*  * *

Del resto, prima che movesse decisamente all'assalto del Carducci, il Rapisardi tentennò alquanto e agì in modo da mettersi dalla parte del torto, mentre, in sostanza, aveva ragione; aveva, cioè, i suoi buoni motivi per dolersi della inciviltà del Carducci. Agì insufflato dal Fanfani: il famoso Fanfani delle « postille ». E, se, da un canto, volle far vedere al suo dotto amico di Firenze, che non risparmiava le frecce contro l'« idrofobo cantor, vate da lupi », dall'altro, sperò che il Carducci non si accorgesse del coperto strale. Ingenuo ! Si mise in moto la scuola bolognese, e il Carducci, avvertito, chiese perentoriamente al Rapisardi l'esplicita conferma dell'allusione. Il Rapisardi negò (ecco l'errore, ecco il timido) e fece la figura dell'insidioso e dello sleale.

* * *

Usciva di casa, difilato verso l'Università, dove — dicono — svolgeva le sue lezioni con grave e dotta modestia. Nessuna aria, nessuna albagìa, nessun tono aggressivo. In casa, passava i suoi giorni ad elaborar poemi e canti, deambulando, nelle buone stagioni, lungo la balconata prospiciente sull'ultimo tratto della via Etnea, là, in alto, nei quartieri del vecchio borgo. E, di là, con la fantasia, costruiva quei mondi farraginosi, di personaggi, simboli, mostri, scene, profezie, cavati dalla Bibbia, dal mito, dalla classicità, dalla filosofia, dalla storia; di là, abbatteva nemici, avversari, tiranni, troni; di là, evocava Satana sulla terra e prediceva l'avvento del proletariato.
Era il tempo delle rivendicazioni popolari.
A Catania: i socialisti al potere. E Mario Rapisardi, solitario, chiuso, lontano da ogni pratica della cosa pubblica, aveva dovuto subire, suo malgrado, il ruolo di cantore e interprete delle nuove ideologie.
Il primo maggio, i lavoratori, in tumultuose colonne, assiepavano la casa del poeta, con canti, evviva e spiegamenti di bandiere rosse, e richiedevano, a gran voce, un discorso d'occasione.
Negato all'oratoria di piazza, scontroso, impac-ciatissimo, sospinto dai soliti scalmanati, terreo, funereo, con quel suo tradizionale berretto nero, in bilico sulle chiome agitate dal vento, Mario Rapisardi si sporgeva dalla ringhiera e, senza mover labbro, rientrava precipitosamente in camera.
Ecco, nella sua realtà, l'uomo che le beghine superstiziose credevano posseduto « dalle dimonia ».
Questa contraddizione fu, secondo noi, il dissidio segreto (e, forse, inconscio) della vita e dell'arte di Mario Rapisardi. Egli non si accorse che, sul suo vero mondo spirituale (che era di natura elegiaca, idillica e meditativa) si attaccarono incrostazioni dottrinali, politiche e filosofiche di carattere problematico e programmatico. In altri termini: egli era nato lirico e volle fare l'epico, proprio, quando l'epica, come genere letterario, era già morta e sepolta da un pezzo. L'annuncio funebre l'aveva pur dato il Carducci. Ma il Rapisardi non vi credette. Sugli schemi dei grandi e dei piccoli poeti classici, pensò, lo stesso, di potere immettere nella poesia lo scìbile, senza riflettere che, come la storia aveva sostituito i poemi eroici, la scienza e la filosofia avevano sostituito ormai, per sempre, i poemi didascalici, gnomici e parabolici. Entrò in questa immane fatica senza riuscire a districarsi dalle ri-miniscenze e dai modelli, anche dal punto di vista prosodico e linguistico. In questo senso i richiami del Croce sonò inoppugnabili. Per fortuna del Rapisardi, quando la vitalità lirica del suo mondo interiore, superato il gravame delle costrizioni sociologiche, dialettiche e speculative, riuscì ad aver libero sbocco nel sentimento e nella fantasia, ecco il poeta ritrovar se stesso e consegnare al tempo, qua e là, nelle « Religiose », nei « Poemetti » (e persino in alcuni brani dei suoi pletorici poemi) un'arte durevole. È questo il Rapisardi elegiaco, desolato e scettico (ma di uno scetticismo che non si essicca e ripone fede nelle forze eterne e nel mistero della natura); è questo il Rapisardi nostalgico. Allora il poeta coincide con l'uomo; e i suoi tristi occhi stupiti interrogano la vita, le stelle, l'infinito. Allora le chiome lunghe si addicono alla sua grande solitudine spirituale e le parole combaciano col suo temperamento di trasognato amante della libertà e della giustizia umana.

* * *

L'ultima volta che lo vidi era infermo da tempo. Affondato nella poltrona, con una coperta sulle gambe, pisolava. Cèrea la faccia smagrita, grigi e radi i lunghi capelli riversi sulle spalle, scarne e ossute le mani. La Poniatowski (l'affettuosa compagna che lo assisteva) entrò piano piano, gli pose sul tavolinetto, ingombro di libri e carte, una tazza fumante;   e   scomparve.
Il poeta sollevò le palpebre e le richiuse. Era abituato a sentir gente attorno. Quando si svegliò, del tutto, sorrise e cominciò a sorseggiare la bevanda.
« Come  state,   maestro? ».
« Parliamo d'altro —, disse. — Oggi, sfogliando alcuni miei vecchi appunti, ho trovato questa nota. Leggete ».
Era un biglietto lógoro e gialliccio. Di sbieco, con calligrafìa nervosa, v'era scritto: « Incontro a Firenze, all'angolo di via Tornabuoni, Giosuè Carducci... ».
« Vi sembra una postilla oziosa, è vero? ».
« Oziosa, no; ma non c'è nulla di strano ».
« Nulla di strano? Era solo. Ci siamo quasi strisciati spalla contro spalla. Procedeva borioso, massiccio,  duro.  Finse di non vedermi.  Ed io mi son sentito salire il sangue al cervello. Frugo, convulsamente nelle tasche. Per fortuna non trovo più il mio solito coltello-tempera-lapis. Dico: per fortuna. Glielo avrei  conficcato  nel cuore... ».
Salto su, sbalordito: « Maestro, voi non lo avreste fatto. Non era possibile ! ».
Mi osserva, stanco, esangue, con l'occhio opaco, lontano. Strappa in minutissimi pezzi il cartoncino e sospira: « Sto male. Molto male; bisogna distruggere questi brutti ricordi. Avete ragione, amico. Non era possibile... ».



lunedì 7 maggio 2012

Il pittore Natale Attanasio - Catania 1846 - Roma 1923

 Natale Attanasio — Artista, pittore di solida fama, nato in Catania il 24 dicembre 1846

Da ragazzo dimostrò una spiccata attitudine al disegno e alla colorazione, ed ottenne dal Comune una borsa di studio per frequentare a Napoli l'Accademia. Fu allievo del Morelli e riuscì artista di gusto fine e di genialità notevole.
Nel 1881 espose a Milano due lavori: Un accattone alla porta della chiesa e La Sibilla in ritardo, giudicati una buona promessa.
Due anni dopo presentò alla Mostra di Roma un altro quadro che fu premiato, e nel 1884 portò al­l' Esposizione di Torino due grandi lavori: Le pazze in orazione che oggi trovasi nel museo civico di Catania, e Bernardo Palissy nell' atto che riesce ad inventare una nuova maniera decorativa della ceramica.
Dal 1886 al 1889 fu docente di disegno nella Scuola d'arte e mestieri di Catania.

Per commissione del Municipio di Catania eseguì i ritratti dei Sovrani d'Italia, Umberto I e Margherita di Savoja, che decorano una delle sale del Palazzo civico.
I lavori dell'Attanasio sono sparsi in molte città d' Europa. Le sue opere si snodano su una tematica di dolore e di disperazione.
Si ricordano con queste tele: Il pensiero dominanteLagrime e delittiLe vittime Ricchezza e miserieCorinna L' Orfana dell'Annunziata Una figlia dell'Etna Dopo la messa.
All' Esposizione di Venezia presentò il quadro Lachryme rerum(Le pazze in orazione - il capolavoro). 

Attanasio, che aveva allora trentott'anni si era defintivamente stabilito nella capitale e in un manicomio femminile studiava le espressioni e gli atteggiamenti delle ricoverate, annotandoli, di volta in volta, in uno schizzo a matita o a pastelli colorati. Ne son rimasti, di questi « appunti », centinaia. Un neuropsichiatra può distinguervi a colpo d'occhio la paranoica, la psicastenica, la ne­vrotica, la schizofrenica. Il quadro fu esposto a Torino nell'84 e otto anni dopo a Palermo, Attanasio  sperava che la acquistasse la Galleria d'arte moderna di Roma; ma le trattative non andarono e regalò il quadro al Comune di Catania, la tela si trova al Castello Ursino.
(Suonatrice di krar)
All'Esposizione Nazionale di Palermo, presenta nel 1892: Una cucina economica e Una scuola industriale.
Inoltre ha eseguito molti ritratti anche per commissione di personaggi stranieri.

(I parenti dei carcerati)

Bibliografia
* La Sicilia intellettuale - Catania 1911 
* Enciclopedia di Catania - ed. Tringale

ritratto di Federico De Roberto

domenica 6 maggio 2012

Salone di Torino: Regione Sicilia rende omaggio al poeta Mario Rapisardi

Salone di Torino: Regione Sicilia rende omaggio al poeta Rapisardi



Palermo, 4 mag. - (Adnkronos) - Dal 10 al 14 maggio, l'assessorato dei Beni culturali e dell'Identita' siciliana, partecipa con la Biblioteca centrale della Regione al Salone di Torino, vetrina internazionale dell'editoria, con uno stand che ospita una nutrita rappresentanza di editori siciliani, coordinati dall'Associazione siciliana editori. Quest'anno, la galleria dei "grandi siciliani" rende omaggio a Mario Rapisardi nel centenario della morte. Poeta e letterato catanese, i suoi versi si collocano ai livelli piu' alti della poesia italiana del secondo Ottocento. Nello stand ci sara' anche spazio per la presentazione, sabato 12 maggio alle 12, della prossima riapertura della Villa del Casale di Piazza Armerina, inserita dall'Unesco nella World Heritage List, in vista della conclusione dei lavori di restauro. Saranno inoltre esposte per la consultazione del pubblico le recenti pubblicazioni scientifiche e divulgative prodotte dagli Istituti dell'amministrazione dei beni culturali in Sicilia (soprintendenze, biblioteche, musei, parchi archeologici), con particolare attenzione agli strumenti divulgativi multimediali che verranno proiettati su un grande schermo al plasma. 

domenica 29 aprile 2012

Edoardo Giacomo Boner e i suoi anni catanesi. 1893

(Messina5 marzo 1866 – Messina28 dicembre 1908) è stato un poetascrittore e giornalista italiano.





Quando, nell'ottobre del 1893, Edoardo Giacomo Boner venne nella nostra città il suo nome era già abbastanza noto.
Si sapeva che oltre ad essere un buon narratore (i « Racconti peloritani » ne erano una prova sicura) egli era un letterato, versato anche nelle scienze e ricco di dottrina e d' ingegno, che aveva al suo attivo libri come « Leggende boreali » (1886), che De Amicis aveva trovate «interessantissime», e come «L'Italia nell'antica letteratura tedesca » (1887), che dimostrava non solo la sua profonda conoscenza della lingua e letteratura italiana e tedesca, ma ben anche la sua grande erudizione e le sue notevoli qualità di scrittore.
Ma più di tutto si sapeva che Boner era un poeta (le edizioni dell'editore milanese Quadrio, « Novilunio » — 1884 — e « Plenilunio » — 1889 — erano state nelle mani di tutti) e questo bastava a renderlo caro particolarmente ai giovani, che di poesia e di poeti son sempre stati ghiotti, forse perché la giovinezza è poesia essa stessa.
Boner allora non aveva ancora pubblicato « Musa crociata » i cui versi oltre ad un giudizio del Pascoli («Boner ha straordinari l'ingegno, la fantasia, la dottrina, la vena e l'abbondanza del sentimento, ma semina rovesciando il sacco, non attingendovi con la mano ») gli frutteranno una lettera (21 luglio 1899) di Giovanni Verga che merita di essere riportata : « Musa crociata fa onore non solo al suo ingegno ma anche al sentimento che le ha ispirato i bei versi e me ne congratulo maggiormente con l'amico e col poeta di questi tempi piccini per tutto ciò  ch' è  sentimento  e poesia ».
Ma a non pochi grossi calibri delle patrie lettere, tra cui Tommaso Cannizzaro, Luigi Capuana, Giovanni Alfredo Cesareo, Domenico Ciampoli, Federico De Roberto, Giovanni Gentile, Francesco Guglielmino, Sabatino Lopez, Concetto Marchesi, Luigi Natoli, Enrico Panzacchi, Giovanni Pascoli, Giuseppe Pipitone Federico, Girolamo Ragusa - Moleti, Mario Rapisardi,  Giovanni Verga, ecc., non erano sfuggiti i versi giovanili boneriani di «Novilunio » nè quelli più maturi di «Plenilunio», che nella Prefazione lo stesso Boner definiva « un pò meno scialbi, un pò meno freddi (di quelli di « Novilunio »), ma sempre fiori d'ombra schiusi alla luna », nè quelli che, col titolo appunto di «Versi, 1880 - 1892 », egli aveva dato alle stampe a Girgenti nel 1893, alla vigilia cioè del  suo  trasferimento  a  Catania.
Ma in questa sede non tanto interessa conoscere l'opera di Edoardo Giacomo Boner, che, del resto, essendo vasta e complessa meriterebbe un lungo e meditato discorso (1), quanto parlare dei suoi anni catanesi e, naturalmente, di quella parte dell' opera sua che qui balzò alla luce della sua anima e del suo pensiero, o che, comunque, dalla nostra città fu ispirata ed essa canta ed esalta  nelle  sue  bellezze  e  nei  suoi  grandi.
*
Ancora diciassettenne, avendo alcuni affari sbagliati del padre (un commerciante di gran talento ma sfortunato, trapiantatosi dalla natia Svizzera tedesca in Messina, dove sposò, in seconde nozze, Anna Larini, che fu la madre del Nostro) gettato la famiglia in gravissime ristrettezze economiche, Edoardo Giacomo Boner fu assunto, grazie alla sua già matura conoscenza del tedesco e di altre lingue estere, dall' Istituto « Dante Alighieri » di Messina per insegnarvi lingua  tedesca.
E Boner insegna e continua a studiare. Iscritto infatti alla facoltà di lettere di quella Università, egli è nello stesso tempo insegnante e studente. Studia dunque e insegna e, per guadagnare di più e poter così aiutare la famiglia, viaggia, anche, durante le vacanze. Viaggia per incarico di importanti ditte industriali di Messina che apprezzavano la sua serietà e la sua perfetta padronanza delle lingue estere. Viaggia per guadagnare, ma, viaggiando, segue dei corsi di letteratura tedesca, latina e neolatina presso le Università di Lipsia e di Berlino e approfondisce la sua conoscenza delle lingue e letterature straniere e affina sempre più la sua preparazione e la sua cultura.
Finché, nel 1892, conseguita frattanto (nel 1890, presso l' Università di Napoli) l'abilitazione all' insegnamento della lingua tedesca negli Istituti Tecnici, e nel 1891 (presso l'Università di Roma) quella per l'insegnamento delle lettere italiane nei Licei, passa ad insegnare tedesco all' Istituto Tecnico « Michele Foderà » di Girgenti, con lo stipendio annuo, aggiungo per i curiosi,  di  L.   1920.
A Girgenti, a 28 anni, comincia dunque la vera e propria carriera scolastica di Edoardo Giacomo Boner ; quella carriera che nel 1906 lo porterà a conquistare — primo in graduatoria ad unanimità di voti — la cattedra di letteratura  tedesca  nell'Università  di  Roma.
Un anno appena Boner insegnò a Girgenti ; ma se in seguito egli scriverà (Le Siciliane, p. 8) questi  versi :
« Salve, o Girgenti, eremo asil che adoro ! 
Vigor tu desti e luce al pensier mio, 
E da te appresi,  altera in tua sfortuna, 
Esser tra mie sfortune altero  anch' io »
vuol dire che quel breve soggiorno deve avergli insegnato qualche cosa e lasciato nell' animo suo un dolce ricordo e impronte indelebili.
Da Girgenti, nell'ottobre del 1895, Boner passò a Catania.
*
Appena Edoardo Giacomo Boner ebbe notizia del suo trasferimento da Girgenti a Catania, avendo qui dei parenti, pensò di incaricare un d'essi, precisamente il cugino marchesino Giovanni Palermo, di procurargli una camera mo-bigliata comunque fosse, purchè il fitto non superasse le lire venti mensili.
Il marchesino si mette subito all' opera. E dopo non poco girare trova. Trova non già la solita stanza in famiglia, bensì una davvero bella e decorosa camera in casa di persone dabbene, arredata con un certo lusso, naturalmente di gusto ottocentesco, e, fra l'altro, a breve distanza da quell' Istituto Tecnico « Carlo Gemmellaro » in cui appunto il Boner dovrà insegnare. Insomma, una camera ideale secondo il cugino, per cui egli è lieto e felice.  Tanto  che,  giunto il poeta a Catania, lo accoglie a braccia aperte, lo accompagna, lo presenta. Tutti sono contenti. E Boner, apparentemente soddisfatto, si installa in quella bella camera e, per riposarsi del lungo viaggio,  va  addirittura   a  buttarsi  sul  letto.
Ma trascorso qualche giorno, una grande sorpresa attendeva il marchesino recatosi a trovare il cugino.
— Il professore ? risponde la padrona. Ma ha lasciato la camera il giorno dopo del suo arrivo. Non aveva ancora nemmeno riposta la biancheria nei cassetti del comò. Né tirato fuori i libri  dalle  casse  e   dalle  valige.
E, allo stupore del cugino, soggiunge : — Ma possibile che lei non sapesse niente, che non sappia nulla ? Andando via, il professor Boner ha detto che era obbligato da gravi motivi a raggiungere  subito la famiglia a Messina.
La sorpresa del marchesino Palermo è grandissima. Non sa che cosa dire, che cosa rispondere a quella povera signora visibilmente contrariata, quasi offesa. E se ne va confuso, mortificato, offeso anche lui. Da un cugino come Boner poteva egli aspettarsi un fatto simile ? E non sapendo che fare, gli scrive a Messina. Ma il giorno appresso chi ti incontra in via Stesicoro-Etnea ? Proprio Boner. Il quale, alla meraviglia e al risentimento del cugino, risponde con l' aria più naturale che « non essendo riuscito a sopportare quella stanza bella si ma terribilmente imbottita di tende, di divani, di tappeti, di mobili e senza luce nè aria nè vista », aveva là per là inventata la scusa del richiamo urgente della famiglia e, chiamata una carrozzella che passava, vi aveva caricato su tutti i suoi bagagli e, gridato al cocchiere: «in piazza Manganelli», era  scappato  via.
Era avvenuto questo. Che lo stesso giorno del suo arrivo, andato in giro per la città, aveva scoperto, attraverso chi sa quali indicazioni, una cameretta tutta bianca di calce e piena d' aria e di luce al quarto piano di un palazzone sito appunto all' angolo di piazza Manganelli e via Recalcaccia ;  l' aveva subito presa in  affitto e vi si   era   andato   ad  allogare  a  precipizio  felice  e contento.
Il poeta, il romantico nutrito di studi classici, la mente e l'anima piene, affollate di miti, di leggende, di favole, di fantasmi, aveva bisogno, per stare a suo agio e ispirarsi, di una grande finestra (altro che la stanza insaccata in quel budello di Corso Vittorio Emanuele) che sovrastasse e dominasse la città e dalla quale si potesse liberamente contemplare il cielo e, di là dalla interminabile e grigia fuga dei tetti, anche il mare, l'immensa   glauca   distesa   dello  Jonio :
« Del mar fisando i ceruli perigli, 
Quante volte sognai,  là,  su quel molo, 
A le  biond'albe,  a'  vesperi vermigli! ». (Le Siciliane, p. 12)
Desideroso infatti com'era, avido, anzi, d'aria, di libertà, di paesaggio, e insofferente delle aule chiuse, polverose, mefitiche, il professor Boner preferiva condurre i suoi alunni all' aperto, ora in  uno, ora in un altro sobborgo :
« Tutto  è  fuori un  giocondo  inno  all' aprile 
E olezzan  fior,   cantano  augelli ...» (Versi, p. 35)
E là, toltasi, se faceva caldo, non solo la giacca, ma anche la camicia e la maglia, e rimasto a torso nudo, incominciava a parlare. Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Foscolo, così, a capriccio, secondo gli dettava l'estro, erano i suoi temi prediletti e preferiti.
Cominciava piano, una parola dopo l' altra, quasi le soppesasse e misurasse. Poi, a mano a mano che andava addentrandosi nell'argomento, parlasse in italiano o in tedesco, s' accalorava talmente da durare ore e ore a parlare, senza stancarsi, con una foga da ispirato, che finiva immancabilmente col trascinare i suoi giovani ascoltatori all'entusiasmo e alla commozione. Erano quelli — mi diceva il povero Benedetto Condorelli, caro e indimenticabile amico, che aveva conosciuto Boner ed aveva preso da lui delle lezioni  private  di  lingua italiana   —  le più belle e proficue lezioni del professor Boner, anche se fuori programma, anche se in una materia che non era quella d'obbligo che lui doveva insegnare.
E avveniva sempre che alle sue lezioni non solo non mancava mai un solo scolaro, ma, a quelle all' aperto, si contavano spesso degli « uditori » che si mescolavano agli allievi per ascoltare la dotta, bella, alata parola di Edoardo Giacomo Boner.
Concetto Marchesi, che gli fu collega al Liceo   « Maurolico » di Messina,  disse che   « di città in città,  di scuola in scuola, Boner fu adorato dai discepoli come  nessun  altro mai ».
Parlatore e improvvisatore formidabile, davvero dotato dalla natura, gli bastavano pochi appunti essenziali, che nemmeno scriveva, ma elaborava a memoria, per fare qualunque discorso su qualsiasi argomento. Francesco Guglielmino, che lo aveva acclamato più volte, ricordava Boner oratore con parole veramente ammirevoli. Memorabile è rimasto il discorso « fortemente suggestivo, altamente poetico, ricco di evocazioni, di   voli   lirici,   di immagini squisite, smagliante nella forma e nei concetti » da lui improvvisato al Giardino Bellini il 22 gennaio del 1899, davanti ad una folla di letterati ed artisti, in occasione dello scoprimento del mezzobusto in bronzo di Mario Rapisardi, opera dello scultore palermitano  Benedetto  Civiletti (2).

* * *


Gli anni che Edoardo Giacomo Boner trascorse in Catania, dal 1893 al 1895, erano gli ultimi di quel sec.   XIX° (oh quanto   stupidamente disprezzato e forse da coloro che segretamente più lo invidiano) e la nostra città viveva uno dei momenti più fulgidi della sua esistenza e della sua storia. Fervidissima e piena d'iniziative la vita industriale e commerciale per cui la città prendeva sempre maggiore impulso e sviluppo ed importanza. In gara con questa, la vita dello spirito era addirittura incandescente. In ogni attività Catania brillava di luce propria intensissima. Dappertutto, in letteratura e in arte, uomini di primo piano : Verga, Rapisardi, Capuana, De Roberto, Gaetano Ardizzoni,  Lucio Finocchiaro, Antonino Gandolfo, Natale Attanasio, Epifanio Licata, Giuseppe Sciuti, Francesco Di Bartolo, Giulio  Moschetti,  Francesco  Paolo  Frontini.
Anche la chiesa, per le grandi virtù del Cardinale Dusmet, raggiunse allora uno splendore inusitato.
In un clima letterario ed artistico che perfino Firenze ci invidiava, attorno ai maggiori ora nominati, viveva, lavorava, prosperava una pleiade di scrittori, di poeti, di letterati, di artisti, di giornalisti, di musicisti, di uomini politici, dal cui ingegno sprizzavano e s'irraggiavano scintille di sapere, d'arte, di poesia, di vita, di bellezza, da richiamare l'attenzione, l'interesse, l'ammirazione del mondo.
In siffatto ambiente, la cui temperatura raggiungeva sovente gradazioni da altiforni, trascorse i suoi anni catanesi Edoardo Giacomo Boner, alternando l'insegnamento e lo studio all'attività creativa.
Qui infatti furono concepite, se non scritte, non poche delle poesie di «Le Siciliane». E non importa se questo volume, in cui il Boner versò il meglio della sua produzione poetica, anche se in una lettera (8 gennaio 1900) a Mario Rapisardi lo chiamò « ultimo fardelletto di sciocchezzuole versificate », non importa se apparve nel 1900, quando cioè egli aveva da circa cinque anni lasciato la nostra città.
E se a far uscire il Giannotta da una indecisione che tormentava Boner fu Mario Rapisardi, che consigliò al suo editore di pubblicare senz'altro il libro di Boner («ma cos'ha contro di me che continua a rifiutare le mie offerte di pubblicazioni?»), vuol dire che l'opera doveva valere, che il Rapisardi non era certo di facile contentatura, nè proclive alle raccomandazioni non meritate.
Ma non è questo che può interessare ai Catanesi. Ai Catanesi possono interessare i versi, veramente commossi e ammirati, che Boner ha scritto in   « Periplo »   per  la loro  città :
« Catania  è qui,  vaghissima fanciulla,
Che fra 'l suo mar distesa e il suo cratere,
Su le sue  lave al sol canta e si culla».
Ai Catanesi possono interessare i versi che nella stessa lirica Boner ha scritto per il loro Bellini:
« Ma perchè all'appressar de la Montagna 
In cor mi suona il pianto  d'Adalgisa 
E Amina per le vane aure si lagna? 
Torno all' infanzia  mia  di fedi arrisa, 
Vedo  le stanze,  odo  i soavi  accordi 
Onde l'anima mia fu pria conquisa,
 E su quel mar di sogni e di ricordi 
Tu splendi ancor, Bellini,  angel vocale, 
Moderator  d'edenici arpicordi. 
Parmi che  immense apra il tuo genio l'ale 
Su questi lochi, a te propizia  culla, 
E ogni aura, ogni onda, è un tuo spiro immortale ».
Ai  Catanesi   possono interessare i versi che Boner ha scritto  per il loro  Giardino  Bellini : 
« Or qui nel riso  di acclivi pergole, 
Di culte aiole,  di chioschi ombratili, 
Sonando i lai divini Etna, del tuo Bellini, 
Pompeggiar cocchi, monili splendere 
Tu vedi, e baldi trascorrer  giovani, 
E frotte di fanciulli chiassose in lor trastulli».
Ai Catanesi, infine, possono interessare ì tre atti in armoniosissimi martelliani della commedia «Bellini», la cui prima idea indubbiamente germogliò in lui mentre risiedeva nella nostra città.
Pubblicata nel 1903 nella vallardiana «Natura ed Arte », con illustrazioni di Riccardo Salvadori (3), questa commedia di Edoardo Giacomo Boner (purtroppo rimasta ignorata nonostante il tema suggestivo e i pregi letterari) dimostra, tra l'altro, quanto fosse vasto e versatile il suo ingegno, se egli poteva dedicarsi alla narrativa, alla poesia e al teatro, mentre non trascurava, tutt' altro, di coltivare severi studi scientifici e lo studio delle lingue e letterature straniere, particolarmente le tedesche.
L'azione si svolge in tre luoghi lontani nel tempo e nello spazio.  Il primo atto a Napoli, in casa di Maddalena Fumaroli (primo grande e sfortunato amore di Bellini) all' indomani del felice esordio del giovane musicista («'u guaglione») al Teatro San Carlo con lo spartito di « Bianca e Fernando». E si assiste al nascere di quell'idillio che non ebbe meriggio.  Il secondo atto ha luogo a Milano cinque anni dopo. Bellini è già celebre. Ma i milanesi, che già avevano applaudito «Il Pirata», «La Straniera», «La Sonnambula», alla prima di «Norma», la sera del 26 dicembre 1831 al Teatro La Scala, la fischiano clamorosamente. Tutto l'atto è imperniato su quel solenne fiasco (4). Intorno a Bellini, perchè a lui più vicini e cari allora, sono Giuditta Turina, Felice Romani, Francesco Fiorimo Il terzo atto si svolge a Puteaux a quattro anni di distanza dagli eventi del secondo atto. Col trionfo dei « Puritani » al Teatro degli Italiani a Parigi, la sera del 25 gennaio 1835, Bellini ha conquistato la gloria. Ma la malattia, che da tempo lo mina, e il dolore per la recente scomparsa della Fumaroli sovrastano la gioia del trionfo. Ed ecco, improvvisa e fulminea, la scena del trapasso del Cigno catanese, con la  quale la commedia finisce.
Edoardo Giacomo Boner era un assai fine letterato e poeta per ammannire uno di quei polpettoni che di solito i commediografi o drammaturghi imbastiscono attorno ai grandi nomi e fatti della storia e dell' arte. Egli ha invece semplicemente sceneggiato, ma con grazia inimitabile, tre tappe o momenti, della vita artistica ed amorosa di Vincenzo Bellini, scegliendoli tra i più salienti e densi di significato e di destino e, perciò stesso, di contenuto drammatico. Ha così scritto un' opera che aderisce compiutamente al mito romantico di Vincenzo Bellini.
E saputo e risaputo che Bellini amò molte donne e che molte donne amarono lui. Ma appunto per ciò, forse non uno solo degli amori di Vincenzo Bellini attinse alle profonde misteriose radici dell'amore e del dolore. Nessuna donna, nemmeno la Turina, che si può dire fu la musa vivente del nostro Cigno, riuscì ad attanagliare, ad avvincere, a possedere compiutamente l'anima belliniana, perennemente rapita da ben altri miraggi, da ben altre visioni, da ben altre armonie. La vita amorosa di Bellini, e tanto meno, si capisce, quella artistica, non poteva dunque offrire sufficiente materia al commediografo ; ne ha però offerta moltissima al poeta. Tanto meno poteva offrirne al trageda e al drammaturgo. Non è forse, quindi, senza valore e significato, il fatto che il Boner, che aveva prima chiamato « dramma » questo suo lavoro teatrale (5), poi, pubblicandolo interamente, lo chiamò « commedia » . E la commedia, piace osservarlo, finisce con la morte del protagonista.
Due cose son certe : la prima, che anche in quest' opera, Edoardo Giacomo Boner rimane essenzialmente un poeta, e non soltanto per la stesura in versi dell'opera stessa, bensì per la concezione, per l'impostazione e per lo svolgimento ; la seconda, che questa commedia bone-riana è un nobilissimo omaggio del grande messinese non solo a Vincenzo Bellini, ma anche alla nostra città,  patria di Bellini.
E la nostra città — non per sdebitarsi di tanto omaggio — ma per dimostrare, sia pure a mezzo secolo di distanza, di averlo gradito e apprezzato,  voglia far semplicemente apporre, sulla acciata dello stabile di Piazza Manganelli dianzi ricordato, una piccola lapide marmorea che ricordi che in quella casa abitò, dal 1893 al 1895, Edoardo Giacomo Boner, poeta, scrittore, letterato, maestro messinese (1864-1908). Data propizia sarebbe quella del 28 dicembre 1958, cinquantenario del terremoto di Messina in cui il Boner morì. 
Amante del bello e di ogni bellezza artistica, naturale, fisica, eccetera, Boner sentiva profondamente il fascino delle donne, e di esse facilmente s'invaghiva.
E com'era al sommo della felicità mentre durava l'illusione d'amore, così, quando questa svaniva, l'amaro della delusione lo abbatteva tremendamente continuando ad addolorarlo, a tormentarlo, ad intontirlo, ad avvilirlo e scoraggiarlo per anni ed anni, per cui gli « pareva di non poter più credere nè più fidare in nessuna donna al mondo ».
Quanto sconforto e quanta sfiducia nell' avvenire traspaiono da qualche lettera sua al « caro e grande Mario » .
Decisamente, Edoardo Giacomo Boner non ebbe  fortuna  in amore, anzi fu uno sfortunato.
Per rifarsi della seconda delusione dovettero passare ben sei o sette anni e quando finalmente si sentì guarito e potè riversare tutta la passione e tutto l'amore di cui era capace l'animo suo nella vaghissima Graziella Arena, ecco l'avverso destino tendergli l'agguato più feroce e inaspettato. Tornato infatti, nel dicembre del 1908, da Roma a Messina per trascorrervi le vacanze natalizie e poscia, il 3 gennaio, passare a nozze, la notte del 28 veniva travolto, e come lui anche la sua dolce Amely (Graziella), dal cataclisma che doveva fare della bella Messina « un feretro grande ».
In una poesia al mare della sua infanzia («Sul mare», Le Siciliane, p. 143) così Boner chiudeva una  sua invocazione : 
« Ma  presso a te, ma presso
Le tue salse fragranze,  e l' armonia
Posi la spoglia mia.
E là,  per tutto e sempre tu lo stesso,
Là, de la sepoltura
Ne la gran pace oscura,
Cantami ancora le tue canzoni, o mare.
E il dio  dei poeti lo esaudì.
* * *
Verga, Rapisardi, Capuana, De Roberto, Francesco Guglielmino, Sabatino Lopez, allora a Catania, conobbero Boner e come amarono l' uomo, ammirarono il poeta e ne apprezzarono il grande ingegno e l'immensa cultura. « Era di una cultura che quasi faceva spavento » ha scritto di lui Sabatino Lopez.
Grazie a quella sua immensa cultura, Edoardo Giacomo Boner poteva insegnare qualunque materia e, all' occorrenza, sostituire qualsiasi collega.
A Catania, al « Gemmellaro », mentre reggeva la sua cattedra di tedesco, insegnò anche, in sostituzione di altri colleghi, francese e italiano ; e italiano insegnò anche nel Ginnasio « Spedalieri » e nel Liceo «Cutelli». Contemporaneamente fu lettore di lingua tedesca nell' Università : incarico conferitogli per interessamento di Mario  Rapisardi.
L'amicizia tra il Rapisardi e il Boner incominciò nel 1883. Ce lo dice lo stesso Boner in una sua lettera al Rapisardi (la prima) datata Messina, lì 15 giugno ' 84 : « Avendo avuto il bene di conoscerla personalmente l'anno trascorso...». 1884: «anno infaustissimo» per Mario Rapisardi, come lui stesso lo definì in un epitaffio apposto alla fine del ms. della traduzione  delle Odi di Orazio.
Dalle lettere di E. G. Boner a M. Rapisardi, pubblicate da Sebastiana Cannavò (6) — quelle del R. al B. andarono disperse tra le macerie della casa in Messina dove Boner trovò la morte — la corrispondenza sarebbe  cessata nel 1905.
E l'amicizia? Durò ancora? E, del resto, perchè non doveva durare ? Sta di fatto questo : che nell' unica lettera riguardante Boner compresa nell' Epistolario Rapisardiano, così Mario Rapi-sardi scrive (aprile 1911) al «Comitato per le Onoranze a E. G. Boner: Non sarò l'ultimo dei soscrittori per un ricordo marmoreo al nostro caro Edoardo, che io stimavo ed ammiravo fraternamente ». E, con una punta di sarcastica amarezza, soggiunge : « Ma per il buon successo dell'opera nostra, prego offrire la presidenza delle Commissioni a persona più autorevole e meno siciliana di me. Tutto ciò che muove da questa infima Italia non trova facili simpatie negli uomini letterati appartenenti al cervello e al ventre della nazione (7).
Una parentesi. Ritrovati in circostanze prodigiose, a diciotto mesi dal terremoto, i resti del Boner (la testa staccata completamente dal corpo) nel punto designato da una fanciulla (certa Carmelina Alibrandi) che aveva visto in sogno il poeta, essi furono tumulati nel Cimitero di Messina a spese del Comune.
Nel 1911, per dare un assetto decoroso alla tomba, sorse il Comitato di cui alla lettera del Rapisardi ora riportata. Nel medesimo tempo tale Giuseppe Portaro pubblicò un racconto garibaldino «Camicia rossa» «a beneficio di un ricordo marmoreo a G. Edoardo Boner in Messina» (8).
Ma tale ricordo marmoreo, ossia una lapide (opera dello scultore calabrese Vincenzo Jerace) raffigurante il Poeta e il momento del miracoloso ritrovamento delle sue spoglie, e recante la seguente epigrafe :

«EDOARDO  G.  BONER
VISSE PEI SUOI FANTASMI
DI POESIA E D'AMORE
E PEI CARI DISCEPOLI
PERÌ NEL TERREMOTO DEL XXVIII DICEMBRE MCM VIII
MESSINA NEL CUSTODIRE ED ONORARE LA SALMA
QUASI PER PRODIGIO SOTTRATTA ALLE MACERIE
VUOLE TRAMANDARE
IL CULTO DI UN'ARTE PURA E GENTILE
LA PIETÀ D'UNA GLORIA INFRANTA
A GENERAZIONI MENO SVENTURATE»

fu realizzato soltanto nel  1927.   E la   parentesi è chiusa.
« Durante il suo soggiorno catanese — scrive la Cannavò (9) —- il Boner non tralascia occasione per recarsi presso il Rapisardi, là, al Borgo, nella casa da cui si gode la vista dell' Etna maestoso e dell' immensa distesa azzurra dell' Jonio che s'infrange spumeggiante contro la scogliera lavica di Aci Castello. Ivi i due passano ore lietissime in comunione di pensieri ; i vecchi amici frequentatori della casa ricorderanno le loro lunghe partite a scacchi ».
Cordiali furono i rapporti del Boner, oltre che col Rapisardi e col Verga, anche col Capuana e con Federico De Roberto e col fratello del De Roberto, Diego, altro brillantissimo ingegno scomparso immaturamente. Col Lopez furono addirittura fraterni.
Non solamente Lopez e Boner si vedevano tutti i giorni a scuola, dato che, come s' è detto, insegnavano entrambi al « Gemmellaro », ma a-bitavano nel medesimo stabile, presso una certa Signora Sani che Sabatino Lopez, pur dopo mezzo secolo, ricordava ancora e con tanta simpatia. « Abitavamo — mi scriveva fra l'altro nel 1937 — dalla signora Sani, che era una tanto brava Signora continentale, vedova che rimase a Catania e ci maritò bene due figliuole. Lui, Boner, però, abitava al piano di sopra, uno o due, non rammento ».
Anche i pasti prendevano insieme nello stesso ristorante, il Savoja, che era in via Mancini, in uno stabile allora di proprietà Mollica, ora di un grande Istituto bancario.
Sabatino Lopez volle bene a Boner fin dal loro primo incontro a Catania e ne seguì con gioia l' ascesa sino alla cattedra universitaria romana, e ne conobbe e ammirò l' opera, dai primi versi alle ultime pubblicazioni dense di dottrina e di sapere. E deve averne pianto la morte accoratamente se, quando nel 1946, accolte dalla Civica Amministrazione di Messina le istanze di chi scrive (10), si intitolò a E. G. Boner la via delle Fabbriche, così tra l'altro mi scriveva : «Ma più ancora la ringrazio per avermi dato notizia che finalmente la Città di Messina ha intitolalo a Edoardo Giacomo Boner, il poeta insigne e l'uomo tra i più buoni e colti che abbia mai conosciuto, la via in cui egli abitò e morì. Tanti anni ormai e ne provo dolore come di una morte di ieri ».
Una sola opera del Boner, cosa strana davvero, ignorava Sabatino Lopez : la commedia « Bellini ».
Difatti, quando, accingendomi a scrivere di essa, io lo pregai di darmi delle notizie, egli mi rispose con insolita laconicità: «Non conosco il « Bellini » e quindi non posso darle alcuna notizia ».
Ma, scritto e pubblicato l'articolo, anzi gli articoli, sulla commedia boneriana (11) e mandatigli i giornali : « La commedia o dramma di Boner — mi scrisse — oggi innanzi a un pubblico pagante e vario non troverebbe favore perchè non siamo più abituati al verso martelliano. E, per la verità, salvo che per un breve e lieve componimento, oggi, ci sembra intollerabile. Peccato ! Le sue osservazioni sono giustissime circa i mutamenti, direi quasi i pentimenti del Boner. Accade, del resto, frequentemente, che i ritocchi, in parte giovano e in parte guastano ».
*
Ho sin qui parlato di Edoardo Giacomo Boner, tratteggiato, soffermandomi sugli anni da lui trascorsi in Catania, la sua figura di poeta, di scrittore, di studioso, di maestro ; illuminato, attraverso qualche episodio, il suo carattere e il suo temperamento originale ; accennato alla sua sfortuna amorosa, alle sue amicizie, alla sua fine e al prodigioso ritrovamento della sua salma ; ma un ritratto di lui non è ancora uscito dalla mia penna. In verità, non 1' ho nemmeno tentato. Perchè? Perchè il ritratto di Edoardo Giacomo Boner l'ha tracciato, in una lettera scrittami il 30 novembre 1937, Sabatino Lopez ed io ho voluto riservarmelo per chiudere queste mie note. Eccolo, schizzato in punta di penna, ma somigliante e vivo, come poteva tracciarlo soltanto Sabatino Lopez che il Boner conobbe, amò, pianse : « L'ebbi collega e gli volli bene fino dal giorno che l'incontrai a Catania. Semplice, affabilissimo, in cordiale dimestichezza con gli allievi, che lo adoravano ; con gli occhietti miopi e, penso, affaticati dai lunghi studi ; con la sigaretta in bocca, sempre; era di una coltura che quasi faceva spavento. Glielo dicevo, e lui rideva. Poeta, lirico e scienziato, sognatore e pratico, cuore e mente aperti a ogni sano palpito e ad ogni bellezza, fu onore di Messina, che amò e predilesse. Anche la sua fine rende più cara e pietosa la sua memoria ».
                                                                                                               Francesco Granata  (1957 - tratto da Catania vecchia e nuova)

* scritta per wikipedia, biografia qui 

***
« ..Edoardo Boner era stato travolto sotto il peso di due piani. La sua casa era spiombata per largo tratto sulla strada arrovesciandosi tutta e accomunando le sue con le macerie di altre case. Il cumulo delle rovine giungeva all'altezza del secondo piano, fino alla dimora di Edoardo. Qua e là carte, documenti, lettere, frammenti di libri, fradici di piova e di fango, attestavano lo scempio brutale che nella furia delle ruine e dei predoni avean patito le cose più care di quell'anima innamorata. Tra i rottami stava, mezza nascosta, una cassetta di zinco scoperchiata in mezzo a un fascio di bigliettini rosei e azzurri, di mano femminile. Eran documenti di amori lontani che l'acerbo rimpianto del poeta non aveva voluto disperdere e che ora stavano su in alto ad accertare il viandante che il poeta si sfaceva là sotto. Della suppellettile domestica, della casa, nessuna traccia; solo poco più in alto, fra due muri squarciati, l'angolo di uno stanzino, intatto. Mi arrampicai fin lassù e vi trovai, poiché piovigginava, un rifugio. Che pace là dentro, in mezzo a quell enorme silenzio di devastazione!. Quell'angolo pareva aspettasse anzi che l'ultimo colpo di piccone, il compimento della mano dell'uomo. Conteneva ancora il lavabo con il catino dell'acqua bianca di sapone, lo spazzolino pei denti, la bottiglia dell'acqua Magone che odorava di lavanda e un asciugamano ancor umido e arrotolato, attaccato al muro. Quel luogo, tutto pieno di una suggestione di vita, mi dava l'impressione certa di un'attesa. Qualcuno dovea là ritornare, fra poco. E l'allucinazione si coloriva, si arricchiva, sin che m'avvenne di chiamare con impazienza: Edoardo! Scosso dalla paura balzai fuori inciampando e barcollando come se tutte le midolla si dissolvessero nel sudore che mi colava abbondante... »
(Commemorazione - Rivista d'Italia - ottobre 1909. Concetto Marchesi)

Lettera al comitato per le Onoranze di Edoardo Giacomo Boner, di Mario Rapisardi. aprile 1911

Non sarò l’ultimo dei soscrittori per un ricordo marmoreo al nostro caro Edoardo, che io stimavo ed ammiravo fraternamente.
Ma per il buon successo del l’opera nostra, prego offrire la presidenza delle commissione a persona più autorevole e meno siciliana di me.
Tutto ciò che muove da questa infima Italia non trova facili simpatie negli uomini letterati appartenenti al cervello e al ventre della nazione.