Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

martedì 17 aprile 2012

Antonio Ghislanzoni, l'intollerante scapigliato. 1824/1893

Antonio Ghislanzoni (Lecco25 novembre 1824 – Caprino Bergamasco16 luglio 1893) è stato un librettistapoeta e scrittore italiano. Il suo nome è legato soprattutto al libretto dell'Aida di Giuseppe Verdi, col quale collaborò anche alle revisioni della Forza del destino e di Don Carlos.


Il Canto di Mignon

Vedeste mai quel paese gentil
Che il sol riveste di tanto splendor;
Il bel paese ove eterno è l'april,
Eterno il riso degli astri e dei fior ?

Ivi ogni murmure d'acqua o di vento
D'arpe celesti somiglia un concerto;
Ivi ogni nota d'umana favella
Somiglia un canto, un sospiro d'amor..

Di quel mio vagheggiato Eden natio
Ho qui nel core un vago sovvenir...
Lo veggo in sogno, e là tornar vogl'io,
Là voglio amare, e piangere, e morir.
                                                                                          
 Musica di Francesco P. Frontini ,1898

*****

Nasce a Lecco il 25 novembre 1824. All'età di dieci anni, il padre, medico e direttore dell'ospedale della città, lo fa entrare in seminario per seguire gli studi ginnasiali. La ferrea disciplina dell'istituto è però poco tollerata dal carattere insofferente del piccolo Ghislanzoni, che, diciassettenne, verrà espulso per il comportamento irriverente: l'anticlericalismo rimarrà una costante della sua ideologia.
Terminato il liceo a Pavia e iscrittosi a Medicina, presto si delineerà per lui una diversa carriera: prima cantante (baritono) e poi scrittore. Quella della scrittura, in realtà, sarà la sua vera attività. Dopo la Seconda guerra di indipendenza (1859) si lega a Milano al gruppo scapigliato. È giornalista assiduo: nel '59 dirige per alcuni mesi «L'uomo di pietra»; nel '62-63 dà vita al «Figaro»; nel '65 fonda la «Rivista Minima» (che, dopo una lunga interruzione tra il '66 e il 71, dirigerà fino al 1875); nel '77 fonda il «Giornale capriccio» (che chiuderà per problemi economici due anni dopo); per non parlare delle collaborazioni alle numerose testate che ospitano suoi romanzi a puntate, racconti, recensioni, interventi di varia natura. Ma non manca l'attività creativa vera e propria: narrativa e poesia. Tra le sue opere di narrativa segnaliamo: Suicidio a fior d'acqua (1864), Le donne brutte (1867), La contessa di Karolystria (X883),Abrakadabra (1884), Racconti e novelle (1884).
Per la poesia ricordiamo Libro proibito (1878), cui arrise un notevole successo di pubblico, tanto che nel 1890 giungerà alla settima edizione. Non vanno dimenticati, infine, i libretti d'opera: Ghislanzoni ne scrisse circa ottanta, tra cui quello dell'Aida verdiana. Un anno dopo la scomparsa della moglie, Maria Bosisio (sposata nel 1859 e da alcuni anni affetta da una grave malattia mentale), morirà anche Antonio Ghislanzoni: a Caprino Bergamasco, il 16 luglio 1893.(Roberto Carnero)

« Dicendo mal di tutti, il vero espressi / Lassù nel mondo; se parlar potessi, / Pietoso passeggier, ora direi / Ogni bene di te, ma.... mentirei. »  
(Antonio Ghislanzoni, Il mio epitaffio)

I suoi epigrammi possono, contribuire a documentare la temperie culturale, sociale e politica del tempo. «I versi del Libro proibito», scrive Gilberto Finzi (1997:165), «riprendono un'atmosfera polemica d'epoca che non tocca, forse nemmeno sfiora, la poesia, ma che bene riconducono a momenti collaterali tipici della Scapigliatura».
In tal senso l'opera di Ghislanzoni è da leggere «in relazione all'affermarsi della scapigliatura e alla sua frantumazione in posizioni e iniziative anche diverse e contrastanti fra loro ma riconducibili in genere a un atteggiamento di rifiuto o di insofferenza verso i valori della società borghese e i modelli letterari che li rappresentavano» (Zaccaria 2000:47). 
Quasi un anticipatore del movimento (cfr. Paccagni-ni 1995:1-48) in quanto di una generazione precedente a quella degli Scapigliati maggiori, su di lui è fortemente limitativo il giudizio di Gaetano Mariani (1967:696): «Dei suoi amici e nemici il Ghislanzoni accoglie in fondo l'esteriorità massiccia degli atteggiamenti, sia umani che letterari, assorbe la carica di rottura che è nell'opera di un Praga, di un Boito, di un Tarchetti nei limiti in cui tale carica si adeguava alla sua visione dell'umanità che è insieme indulgente e spietata, ironica e sentimentale, seria e sorridente...».

Ama, o fanciulla-d’una luce sola


     Si irradia il core, ed è luce d’amor;


     Non potrà il tempo che ogni gioja invola


     Mai quella luce spegnerti nel cor.





Ama! alla età dei disinganni amari


     Dei tedii lunghi, dei vani desir


     La primavera dei ricordi cari


     Sentirai nel tuo petto rifiorir.





Ama, o fanciulla! benedetto e pianto


     Poserà il cener tuo dentro l’avel,


     E all’angelisco spirto amor soltanto


     Presterà l’ali per salire al ciel.



I nostri tempi
La vera sintesi
      Dell’età nostra
      Con breve distico
      Qui si dimostra:
«Tutto si compera,
      Tutto si vende,
      E carta sudicia
      Per ôr si spende.»

La nostra musica

Nell'universo
      Regnò sovrana
      Fin che fu musica
      Italïana;
Volle esser musica
      Cosmopolita,
      E allor d'Italia
      Non è più uscita.

I pseudonimi

Quando d’una effemeride
    Tu imbratti le colonne,
    Presumi invan nasconderti
    Nel vel di un Ipsilonne.
    A ognun che il testo esamini
    Subito si rivela
    Che all’ombra del pseudonimo
    Un asino si cela.





Liriche per musica


Di Ulisse Cermenati, Milano, novembre 1924
Fu uno scrittore arguto, buono, squisitamente italiano: fu «poeta nella vita e nelle opere» così come giustamente è scolpito sul piccolo monumento, che amici e ammiratori, gli eressero nella sua Lecco, cinque mesi dopo la morte.
Nel capoluogo del teatro manzoniano, nella ridente cittadina lariana, che deve la sua fama all'autore dei «Promessi Sposi» e la sua ricchezza all'instancabile febbre di lavoro, Antonio Ghislanzoni nasceva cento anni or sono, al 25 di novembre. In quello stesso 1824, Lecco aveva dati i natali ad un altro suo figlio insigne, l'abate geologo, Antonio Stoppani.
Il padre, dottor fisico Giovanni Battista, avrebbe voluto fare dell'Antonio un continuatore della severa e delicata sua professione, e con questo intento, lo aveva ovviato agli studi classici, indi alle discipline mediche all'Università di Pavia.
Il giovane non era stoffa da Esculapio; in quei tempi egli si sentiva attratto irresistibilmente all'arte lirica. E dalla antica città degli studi, egli spiccava infatti il volo per i teatri d'Italia e dell'Estero, interpretando con la sua bella voce baritonale - così chiara e sicura nel canto, in lui ch'era balbuziente al massimo grado nella conversazione normale - le creazioni di Donizetti, di Bellini e di Rossini.
Della sua avventurosa vita di cantante, egli medesimo ha scritto briosamente in parecchie occasioni, e specialmente nelle «Memorie politiche di un baritono» e «In chiave di baritono», anche per rettificare inesatte dicerie che si sparsero sul suo conto, e che furono raccolte da biografi faciloni, i quali mettevano il Ghislanzoni in luce di eterno burlone, e di sfrenato gaudente, anziché in quella giusta e simpatica di uno dei più puri e geniali componenti la scapigliatura artistica e letteraria, che fiorì in Milano nella seconda metà del secolo scorso, e che tanto raggio d'intellettualità fece rifulgere sulla metropoli lombarda.

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Invero, anche sfrondata da tutte le leggende, la vita di Antonio Ghislanzoni, cantante e scrittore, costituisce una ricca collana di episodi brillanti, così come brillante e piacevole furono il suo carattere e il suo stile. Fu chiamato il Paul de Kok italiano, fa chiamato anche, per i suoi innumerevoli e salaci epigrammi, il moderno Marziale.
Agli antichi trionfi di teatro, egli, però non teneva molto. Anzi...!
«Ripensando a quei tempi - scrisse infatti - mi avviene spesso di meravigliarmi della spensierata gaiezza, che io mettevo nel rappresentare al cospetto del pubblico i personaggi del marchese di Bois Fleury, di dott. Malatesta, di Dulcamara, di Figaro e di don Basilio. Fatto è che una volta slanciato sul palcoscenico io m'investiva siffattamente dell'umorismo musicale di Donizetti e di Rossini da riuscire un attore comico esilarante e inappuntabile. E questo dico senza ombra di orgoglio; poiché ai miei successi di istrione io ci tengo pochissimo, e quasi mi vergogno di ricordarli».
Però amava intrattenersi su quella che fu la parte aneddotica di quei lontani tempi giovanili.
Debuttò nel carnevale del 1846 a Lodi; passò poscia al «Carcano» di Milano, e un episodio saliente di quella stagione teatrale è così narrato da lui stesso:
«Uscito, dopo lunga malattia, dalla casa di salute, l'impresario Boracchi mi mandò a Piacenza, e quindi a Codogno, per cantare nell'Attila la parte di Ezio. Partii da Codogno e scesi all'Albergo dell'Àncora a Milano nel teatrale costume di Ezio, colla daga alla cintura e il grand'elmo a cresta rossa sulla testa».
È facile immaginare le matte risate di chi vide capitare nell'albergo lo strano personaggio così camuffato!
Cantò nell'anno seguente ad Arezzo, e dopo lunghe e avventurose peregrinazioni tentò di recarsi a Roma, ansioso di prendere parte alla difesa della gloriosa e agonizzante Repubblica. Sotto le vesti dei più svariati «eroi» internazionali, di cavalieri antichi e di non meno antichi tiranni, l'artista da teatro non aveva dimenticato di essere italiano e Ghislanzoni il suo dovere di patriotta l'aveva fatto, - senza menarne scalpore in seguito, - anche a Milano durante le «Cinque giornate», delle quali descrisse poi in pagine gustosissime le scene comiche che si svolsero accanto a quelle epiche.
Il Ghislanzoni, s'avviò adunque verso la Città eterna, accompagnato da un'amica, desiosa di emozioni, e che per nascondere il sesso, s'era rivestita di abiti virili. Presso le porte di Roma la coppia fu arrestata dai soldati francesi. La signorina, cavallerescamente rilasciata dagli ufficiali, potè prendere la via del ritorno, ma il nostro Antonio, dichiarato prigioniero di guerra fu rinchiuso, prima all'isola di Santa Margherita poi trasferito a Bastia, in Corsica, dove sofferse quattro mesi di durissimo carcere.
Liberato alfine; un generoso ammiratore del suo talento e del suo inesauribile spirito, gli fornì i mezzi per recarsi in Francia.

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Egli ha raccontato da par suo questo nuovo periodo della sua carriera lirica, che culminò la sera del 2 dicembre 1851 - la sera storica del colpo di Stato, - cantando la parte di Carlo V nell'Ernani, a quel Teatro Italiano.
Il giorno dopo, scoppiati i tumulti, il teatro fu chiuso, e il baritono si trovò sul lastrico.
Nel marzo dell'anno seguente, formò una compagnia, e riprese a pellegrinare per i teatri di provincia, riducendosi a Nimes, con un guadagno netto di 200 lire, che sfumò immediatamente, per una grave malattia che lo colse.
Antonio Ghislanzoni, cantò, o meglio tentò di cantare, per l'ultima volta nel 1855, di ritorno a Milano.
Così da lui è rievocato quel burrascoso spettacolo che doveva di punto in bianco, tramutarlo da baritono, in letterato:
«Nelle varie riprese della mia carriera intermittente non mi era mai accaduto di sentirmi trapassare l'orecchio dal sinistro stridore dei fischi. Questa soddisfazione, che solo mancava a completare la mia biografia teatrale, l'ebbi a Milano clamorosa, spietata, degna di me. Il teatro Carcano, che era stato nel 1847 il mio campo di Marengo, si tramutava otto anni dopo nel mio Waterloo. I fischi, le grida, le contumelie che mi investirono mentre io adunava invano gli ultimi residui delle mie note agonizzanti, per cantare nel «Templario», la parte eroica di Briano, mi intimarono di cedere le armi. All'indomani della sconfitta, io presi risolutamente il partito di abdicare, e confesso che, deponendo i titoli di baritono assoluto e di cantante disponibile, mi parve di rifarmi uomo, di ricostituirmi cittadino.
«L'ottimo Rovani, ch'io non conoscevo di persona, narrando nell'appendice della «Gazzetta di Milano» quel mio primo ed ultimo fiasco, con quella squisitezza che era la luce simpatica di ogni suo scritto, si rallegrava che io abbandonassi la scena, promettendomi degli allori più invidiabili nel campo delle lettere».

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Da quel giorno adunque, Antonio Ghislanzoni, divenne scrittore, e scrisse molto in altri quarant'anni della sua esistenza, distinguendosi nelle forme letterarie più disparate; cosicché parecchi de' suoi lavori furono anche tradotti in lingue straniere.
Il suo romanzo-capolavoro: «Gli artisti da teatro», - col quale si prefisse lo scopo principale di descrivere la tumultuosa vita dei cantanti nella sua realtà inesorabile, ad ammonimento dei giovani che, sedotti dalle false apparenze, intendessero avventurarsi capricciosamente, inconsci ed illusi; e d'altra parte di mettere in evidenza le piaghe sanabili, richiamando su queste l'attenzione del pubblico e dei governanti - ottenne, e ottiene tutt'ora, un meritato successo.
«Gli artisti da teatro» comparso dapprima a puntate nel giornale «Il Cosmorama pittorico» fu raccolto in volume e riprodotto per numerose edizioni, anche recentemente dall'editore di quest'altro suo lavoro.
Molto opportunamente l'amico Matarelli ha voluto, con doveroso e affettuoso pensiero di omaggio, nell'occasione del centenario della nascita del geniale artista lombardo, toglier dall'ingiusto oblio, questa Abrakadabra, che è la dimostrazione di una fantasia fervidissima, e che ha preceduto di molti anni la fortunata opera di Bellamy.
Degli scritti del Ghislanzoni, si leggono ancora con diletto: Le memoria di un gatto - Le donne brutte - Angioli nelle tenebre - Un suicidio a fior d'acqua - La contessa di Karolystria - Le acque minerali di S. R. - Un viaggio d'istruzione - I volontari del 1866 - Un capriccio della rivoluzione - Il diplomatico di Gorgonzola - Il dott. Ceralacca - Due spie - Un apostolo in missione - Storia di Milano dal 1836 al 1848 - I due preti - Il sole della libertà - Dietro una valanga - Una partita in quattro - Autobiografia di un ex cantante - La Corte dei Nasi - Giuda Scariota - Il renitente - Se il marito sapesse - Un uomo colla coda - Cugino e cugina - Gianbarba - I primi passi alla scienza - Il corvo rosso - Ciò che si vuole - Il redivivo - Il violino a corde umane - La tromba di Rubly - Le vergini di Nyon - Memorie di Pavia - Il flauto di mio marito - Le sedici battute dell'Africana - Storia di Lecco dal 1832 al 1848 - I drammi del Natale - Giovane e sconosciuto - Una nuova opera al teatro della Scala - La predica di fra Veridico - L'arte di far debiti; e molte e molte altre novelle di maggiore o minor mole. Scrisse anche pel teatro di prosa, ma con minor fortuna, tre commedie: Tutti ladri - La moda nell'arte - I due orsi.
Assai noti sono inoltre i suoi libretti d'opera, - una ottantina circa, - e in questa forma d'arte egli potè ben essere chiamato «principe» poiché fu tra i primi che la risollevarono a dignità di concezione e di verso.
Il melodramma che gli diede maggior fama, poiché il suo nome fu accoppiato a quello grandissimo di Verdi, ma gli fruttò ben poco finanziariamente, fu senza dubbio l'Aida. Altri come Papà Martin, Francesca da Rimini, Re Lear, Fosca, Salvator Rosa, I lituani, I mori di Valenza, I promessi sposi, Salambò, Edmea, Spartaco, furono rispettivamente musicati da altri insigni maestri, quali il Cagnoni, il Cromes, il Ponchielli, il Petrella, il Catalani, e il Platania.
Ma non qui si è arrestata la sua attività letteraria. Oltre duecento sono gli epigrammi; a centinaia si contano i componimenti poetici sparsi su tutti i giornali letterari e le più importanti riviste d'Italia.
Militò pure nel giornalismo, e fu al Secolo nei primi anni di vita del quotidiano milanese; diresse la Gazzetta Musicale di Ricordi, e fondò la Rivista minima, Il Capriccio e La posta di Caprino, ove profuse a larghe mani le gemme del suo vivido ingegno, lo spirito sano della sua instancabile vena. Un doloroso, stridente contrasto con l'anima gioconda dello scrittore, è stato l'ultimo periodo della sua esistenza, trascorso nel romitaggio dell'alpestre paesello di Caprino Bergamasco, ove volontariamente si era ritirato, per sfuggire ai rumori delle grandi città, per godersi un tramonto tranquillo, fra gente umile e buona. Dettò allora un'epistola diretta «Al dott. L. V.», che resta come un gioiello di poesia, e di pungente satira.
Onesto sino allo scrupolo, disinteressato fino all'ingenuità, egli, che col solo libretto dell'«Aida» avrebbe avuto diritto di guadagnare tanto che gli bastasse per campare agiatamente, dovette invece lottare sempre con le più umili necessità quotidiane.
Ad un giovane discepolo, che stava per lanciarsi a quel tempo nel mondo giornalistico, affidava una lettera per un amico di Roma.
Lo scritto reca la data del 28 marzo 1893, pochi mesi prima cioè della morte.
Da quel foglietto, ormai ingiallito dal tempo, sotto il velo dell'arguzia, traspare purtroppo una profonda amarezza.
In un punto, fra l'altro, il solitario, esclama:
«Io vado invecchiando a Caprino. La mia vita è una, cambiale in sofferenza. Mi approssimo ai settant'anni, e devo scribacchiare per vivere!»
In quello stesso mese di marzo, egli traduceva una poesia di Tennyson, e la traduzione lo fece proclamare vincitore su ben seicento concorrenti.
Sono versi che sembrano preconizzare la fine imminente, e fanno comprendere come lo spirito del Poeta, che sentiva avvicinarsi l'ora suprema, abbia trovato ancora nell'interpretare il mesto canto del vate inglese, tutta la forza, tutto lo scintillio dell'estro giovanile.
Eccoli i versi, che furono il canto del cigno:

«Quando l'ora silente in veste bruna
Intorno al mio guanciale i sogni aduna,
Deh! non mi richiamate,
Mute voci dei morti,
Sì spesso avanti verso l'ima valle
A cui volsi le spalle,
Nè verso il sole che non dà più luce...
Me chiamate piuttosto, o silenziose
Voci, oltre il nulla, nell'etereo smalto
Della stellata via,
Che in alto splende, in alto, sempre in alto!...»

*
* *


Antonio Ghislanzoni, allo spuntar dell'alba del giorno sedici di luglio di quell'anno, moriva.
Quest'uomo, aveva data precoce prova della sua vena umoristica, da scolaretto, nel seminario di Castello sopra Lecco, con una scappatella che ben volentieri ricordava agli amici. Un vecchio e pedante professore di storia, aveva dettato il tema: Che cosa disse Muzio Scevola ai romani, mettendo la mano sul braciere ardente?
Doveva essere il compito più importante dell'anno, quello cioè che avrebbe deciso della capacità e del profitto dell'alunno per essere promosso. Gli allievi ebbero perciò un tempo abbastanza lungo, per riflettere e per svolgerlo con ampiezza.
Il futuro autore degli Artisti da Teatro, e dell'Abrakadabra, fu lesto, e naturalmente per il primo consegnò un foglio grandissimo su cui non aveva vergato che la dolorosa esclamazione: Ahi! ahi! ahi!
E infatti, che cosa avrebbe potuto dire di più mi uomo, sia pure Muzio Scevola, mentre stava bruciandosi le carni?
Il professore, solennemente, al cospetto della scolaresca, che a stenti tratteneva le risa - si indignò e con quel senso di divinazione, che è una specialità dei pedagoghi, scrisse un rapporto in cui sosteneva che il piccolo Antonio sarebbe sempre stato un idiota e un analfabeta.
È il preconizzato idiota e analfabeta, per molti lustri, sino alla più tarda, età, con le sue opere, seminò il più schietto buon umore, fustigò e corresse i costumi con la satira, divertì varie generazioni di lettori, e anche giunto sul passo estremo, poteva annunciare all'amico Monteggia, che sul suo marmo sepolcrale, sarebbe rifiorita ancora la sana e schietta risata!
Invece la sua morte fu crudele, straziante. Non si spense che dopo una lunga, atroce agonia, cosicché si dovette affermare, quando esalò l'ultimo sospiro, che aveva cessato di soffrire.
Qualche giorno prima di chiudere gli occhi per sempre e per, comporsi, finalmente, nella pace, Egli volle attorno al suo letto si raccogliessero i bambini più poveri del paese, per offrir loro a manciate, gustose ciliege.
Con gli occhi bagnati di lagrime, stette a contemplare il quadro simpatico, e a godere dell'ingenua gioia dei piccini. Innamorato d'ogni cosa bella e buona, amante dei deboli e degli innocenti, l'umorista, il poeta morente, volle allietare le ultime sue ore, col sorriso e la riconoscenza dei fanciulli, privi d'ogni altra consolazione, nella povertà della loro infanzia.
E prima d'essere chiamato «oltre il nulla», pur tra le torture del male spietato che l'uccideva, ebbe ancora la forza di mormorare:
«Voglio fiori, molti fiori, con me, nella bara!»,
E con questo omaggio alla bellezza e alla gentilezza del Creato, si irrigidì nella morte.
Da allora riposa nel cimitero di Lecco, ove le sue spoglie per volere dei concittadini, furono trasportate con solenni onoranze, accanto a quelle di Antonio Stoppani.
Sulle tombe dei due insigni lecchesi sta incisa la medesima data: 1824.

sabato 14 aprile 2012

Giulio Pinchetti il ribelle (Como 1845 — Milano 1870), ci ha lasciato un messaggio poetico sottile, convulso e moderno.

« L'uno era un bardo: Giulio era il nome:
Venticinqu'anni splendean nel guardo:
Folte, di corvo nere le chiome,
Bello e superbo: l'estro gagliardo :
Passò guardando: pianse... poi rise:
Tutto è menzogna! — disse... e s'uccise. »
(Felice Cavallotti, Tre ritratti, 1878)




Esempio di quella tematica funebre cara ai poeti scapigliati. La poesia è dedicata a Luisa Cassani, una ragazza conosciuta a Pavia nel 1865, della quale Pinchetti si innamorò subito, ma che morirà neppure un anno dopo. Al suo ricordo rimarrà sempre profondamente legato.
metro: tre quartine di endecasillabi a rima alternata; il secondo e il quarto verso di ogni strofa sono tronchi.


Morta, di Giulio Pinchetti
Musiche di Francesco Paolo Frontini, 1881

„Raccolto avea da que' soavi incendi. Pugni d'amara cenere....." A. Aleardi.

È morta la fanciulla innamorata
E il sasso sepolcral ci posa sù:
La preghiera de’ morti han recitata
E i vivi adesso non ci pensan più!

Lieve, lieve come un sogno estivo,
Profumata d’amori, ella spirò:
E quel grand’occhio nero e fuggitivo,
Il tolto amico, nel svanir, cercò:

Lo cercò lungamente, e non l’affise:
L’amor cercò, le rispondea l’avel!
Ma quel suo sguardo celestial sorrise
Forse pensò, ne rivedremo in ciel!

***
Suicida a venticinque anni, Giulio Pinchetti (Como 1845 — Milano 1870), ci ha lasciato un messaggio poetico sottile, convulso e moderno. (Versi. Como, Ostinelli, 1868). Ribelle alle istituzioni, allo stato e alla chiesa, Pinchetti si rivolta anche contro i loro oppositori nel sistema e finisce per rifiutare tutta la politica, compresa quella rivoluzionaria di repubblicani e di radicali. E un nihilista. Lacera i veli non solo all'ipocrisia delle convenzioni sociali, presidiate dai conservatori, ma anche all' opportunismo e alla demagogia dei sinistri. Per questi ultimi conia il felice neologismo di «brutocesari», cioè di emuli di Bruto, pronti, una volta al potere, a diventare imitatori di Cesare.
Tu sei come il pagliaccio da veglione 
Metà rosso vestito e metà bianco 
Che alterna i due colori all'occasione 
Mutando il fianco.... 
Tu stai col Sol che nasce e te la batti 
Appena il vedi scolorir di raggio... 
Ape in succhiare il fior, dopo lo imbratti 
Da scarafaggio...
Come altri giovani della sua generazione, inquieti e pessimisti, è condannato a vivere in un 'Italia politicamente e socialmente insopportabile, di cui ci dà il ritratto ne La città del sole. Per sfuggire a quest' angoscia, volge la sua ricerca fuori della storia e della vita stessa. Di questo stato d'animo, di questa crisi è testimonianza la poesia Libertas, una libertà, anzi una liberazione esistenziale che il poeta attinge solo con la morte.

LA CITTÀ DEL SOLE
Tigellino incappucciato 
Alla moda di Trasea, 
Un Kartouche incoronato 
Da Cimone la facea:1 
Ne sbraitava l'Alleluja 
Ogni Lazzaro Gianduja.2

Il blasonico vanume 
Dei Rodrighi allodiali, 
Dispregiami il bastardume 
Degli Iloti prediali, 
D'ogni lode egli aspergea...5 
(E tra i baffi la ridea)

V'era a caso un gesuita, 
Un Pirlone,4 un baciapile, 
D'ogni furbo archimandrita,5 
Scalzagatto,6 di cuor vile? 
Ne usurpava7 il tuono molle, 
Sussurrando in do belomme.

Gli scrivani caponati,8 
Mantenuti di becchime, 
Con magnanimi boati, 
Vigoròsi di lattime,9 
Lui dicevano vestito 
Colla scorza del buon Tito.

Con un stil da sagrestia, 
Untuoso, episcopale, 
Giù slacciato a litania 
Di concetti senza sale, 
Ne tessevano gli elogi 
I Cesàrei10 barbogi.

Non del Fisco il Briareo11 
Sguinzagliava i suoi mastini;
E di pace il caducèo12 
Sventolava sui confini: 
Oh! Che vita buttirosa 
Tutta gigli, tutta rosa!

V'eran frati Lojolani 
Che solfavano gli omei,13 
Colla Bibbia fra le mani 
Sovra Turchi e Farisei... 
Però v'era indipendenza 
Nell'esame di coscienza!

Qualche vecchio giusperito, 
Puntellato sul latino, 
Sosteneva incarognito 
Il defunto jus divino... 
Me il buon sir fece palese, 
Esser questo un crimenlese.14

Un Taltibio dell'Altezza, 
La Repubblica bandisce, 
E di pace e sicurezza 
Il diritto a ognun sancisce: 
Il benigno imperatore, 
Sen dichiara Protettore.15

Si parodiano i sistemi
Di Gian Giacomo Rousseau,
E si insaccan gli entinemi 
D'Onorato Mirabeau:16 
Tiene il Re supremazia, 
Con il birro e colla spia.

Si baracca un Parlamento 
Sullo stampo Giacobino,17 
Ne presiede il mandamento 
Il più ciuco cittadino: — 
Spetta al Re però la scelta, 
Per sbrigarla un po' alla svelta.

Una stampa a fricassea 
Di promesse virtuali, 
Vacuante gonorrea 
Di brodose Decretali,18 
Dava luce in ogni lato 
Al paese illuminato.

Evirati maestruzzi,
Al giocondo suon del nerbo,
Imbeccavan latinuzzi
Al cacume un poco acerbo.19
E la ferula amorosa,
Dava il latte a quei Spinosa!


Guerrieri della pace,
I  Rinaldi del Comune,
Tutelavano la brace
Ai Penati nelle cune...21
S'infiltrava l'atonia
Sin fra i banchi d'osteria..!  1865.

1  Tigellino... la facea: si allude a Vittorio Emanuele II e più genericamente alla classe politica e di governo. Cinico e dissoluto (quasi proverbiale è la scelleratezza di Tigellino, prefetto del pretorio durante il principato di Nerone), assume atteggiamenti di grande dignità esteriore (Trasea era un senatore dell'opposizione antineroniana : si dette stoicamente la morte nel 66 d.C). E un birbante e un libertino (Louis-Dominique Bourguignon, detto Cartouche, fu un celebre avventuriero vissuto nella Francia del primo Settecento) ma affetta la saggezza di un Cimone (celebre stratego e uomo politico ateniese del V sec. a.C).
2  Ogni Lazzaro Gianduja: il popolino ignorante. Sono qui associati due personaggi popolari, del Sud (Napoli) e del Nord (Torino).
3 II blasonico... aspergea: il sovrano ricolma di lodi i vanitosi e blasonati signori dell'aristocrazia, che ostentano il loro disprezzo per i ceti sociali inferiori (i detentori di beni allodiali, cioè posseduti con pieno titolo di proprietà, erano nel Medioevo in una situazione privilegiata rispetto a chi possedeva terre legate al vincolo feudale).

4 Pirlone: probabile accenno al Don Pilone di Girolamo Gigli (1660-1722). Nel protagonista della commedia è ritratto il classico tipo del bacchettone falso e ipocrita.
5 D'ogni furbo archimandrita: furbissimo tra i furbi.
6  Scalzagatto: equivalente ironico di «scalzacane».
7  usurpava: imitava.
8 Gli scrivani caponati: i pennivendoli, gli scrittorucoli dall'animo servile (caponati sta per «capponati», cioè «castrati»).
9 Vigorosi di lattime: forse va riferito a boati del verso precedente. L'espressione, allora, si spiegherebbe così: grida (di esaltazione) paragonabili a quelle emesse da bambini mal cresciuti, affetti da crosta lattea.
10 I Cesarei: gli scrittori e i retori filomonarchici.
11 del Fisco il Briareo: gli organi di polizia. Briareo è il mitico gigante con cento braccia e cinquanta teste.
12  caducèo: insegna. Il caduceo è una verga con due serpenti attorcigliati; principale attributo di Mercurio, era interpretato come simbolo della pace.
13  che solfavano gli omei: che recitavano le loro litanie.
14  un crimenlese: letteralmente, un delitto di lesa maestà»
15 Un Taltibio... Protettore: la repubblica è posta al bando, ma in compenso lo Statuto garantisce ad ognuno pace e sicurezza, mentre Napoleone III imperatore assicura la sua protezione al nuovo regno. Taltibio era l'araldo di Agemennone: qui sta per banditore del re.
16 gli entinemi d'Onorato Mirabeau: le idee (l'entinema è, propriamente, una forma di sillogismo) di Gabriel-Honoré di Mirabeau (1749-1791), scrittore e uomo politico divenuto celebre al tempo della Rivoluzione Francese. Egli combatté gli abusi dell'assolutismo ed elaborò la teoria dei «contrappesi politici nello stato». Durante il periodo rivoluzionario si prodigò nella ricerca di un compromesso tra il monarca e l'Assemblea.
17  Si baracca... Giacobino: si mette in piedi un parlamento' che scimmiotta le assemblee della Francia rivoluzionaria.
18  Una stampa... Decretali: nei giornali grandi e confusi sproloqui su arditi programmi di riforma che poi restano sulla carta ; uno stillicidio estenuante (vacuante gonorrea) di leggi inconcludenti e verbose...
19  al cacume un poco acerbo: a scolari un po' tonti.
20  E la ferula... Spinosa: e a colpi di sferza [ferula) vengono istruiti quei filosofi in erba (Baruch Spinoza fu un famoso pensatore olandese del XVII secolo).
21  Guerrieri... cune: i distaccamenti comunali della guardia Nazionale tutelavano la pace dei focolari domestici.

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Scritto per Wikipedia - Giulio Pinchetti 

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Bibliografia 

  • La poesia scapigliata a cura di Roberto Carnero, ed. Rizzoli, 2007
  • Poeti della Rivolta  a cura di Pier Carlo Masini, 1978

lunedì 9 aprile 2012

"La Morte di Giovanni Verga" - di Federico De Roberto 1922

La Lettura - Rivista mensile del Corriere della Sera 1922
  

Il Maestro non si era sentito così bene come negli ultimi tempi, come nell'ultimo giorno.
I disturbi, le sofferenze, le oscure minacce che gli avevano fatto dire più volte: «— La vita mi è di peso», parevano cessati. Si lagnava soltanto del freddo di questo crudo inverno. Il caminetto dove bruciavano i tronchi morti e i rami potati dei suoi cedri e dei suoi olivi di Nuova luce non riusciva a riscaldare la troppo vasta camera. Voleva provvedersi, di stufe elettriche, e ad un amico venuto a trovarlo l'ultima volta aveva fatto provare quelle mandate da un fornitore. Troppo piccole, neanche in due bastavano ad addolcire la temperatura.
— Balocchi —, aveva detto; — buone tutt'al più sulla scrivania, per lavorare.
— Per lavorare? — ripeté l'amico, con la luce d'una speranza, negli occhi.
Egli sorrise, enimmaticamente. '
Prima di uscir di casa parlò d'affari. La crisi degli agrumi, gravissima all'inizio della campagna, si mitigava alquanto : i compratori avevano offerto un prezzo non rovinoso; già si procedeva al primo raccolto dei frutti d'oro. Un'incresciosa questione di proprietà letteraria s'avviava al componimento. Di uno scrittore francese che poco prima gli aveva preannunziato un articolo sul Temps per proporre che gli fosse conferito il premio Nobel, era senza notizie; del resto, non credeva al premio, e come tutte le volte che si parlava delle cose sue lasciò morire il discorso. Poi parlò della crisi politica, disse con parole roventi il suo sdegno contro tutti i responsabili dell'avvilimento della nazione dopo la prova terribile gloriosamente superata,. Manifestò il proponimento di recarsi a Roma per assistere ancora una volta ai lavori del Senato, e ricusò il consiglio di aspettare la stagione più mite.
Parlò anche d'arte e, raro caso, di poesia.
Il  poeta dei Vinti, non aveva mai scritto versi, né gustava molto quelli degli altri. Come sen-timento, la disperazione di Leopardi riusciva cordialmente antipatica al credente nella vita, al creatore di vite.
—  Foscolo, sì... — E ad un tratto, dalle latebre della memoria non più sicura, già involta nelle nebbie della sclerosi, dalle labbra che non avevano più recitato versi dopo i remotissimi anni della scuola, sgorgarono limpidi, come letti, come dettati nell'estro, con voce forte, con larghi gesti, questi dei Sepolcri:
— Il navigante 
Che veleggiò quel mar sotto l'Eubea, 
Vedea per l'ampia oscurità scintille 
Balenar d'elmi e di cozzanti brandi, 
Fumar le pire ìgneo vapor, corrusche 
D'armi ferree vedea larve guerriere 
Cercar la pugna; e all'orror de' notturni 
Silenzii si spandea lungo ne' campi 
Di falangi un tumulto, e un suon di tube,   
E un incalzar di cavalli accorrenti 
Scalpitanti sugli elmi a'.moribondi,  
E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

Le Parche cantavano in quel momento il canto suo ultimo:  Clold cessava di filare e Atropo già brandiva le affilate cesoie..,.
Ma, presso a spegnersi, la lampada mandava, un più vivo guizzo. Per le scale, nelle vie, il passo era fermo; anzi il saldo braccio del gran Vecchio si offriva al braccio del meno vecchio ma anche meno valido amico.
—  Il morto regge il vivo!.. — e la voce rideva, nel ripetere la celia paesana.
Spirito e fibra erano investiti da una nuova onda di vita. D'ordinario, giunto dinanzi al suo Circolo, egli vi si fermava, già stanco, per tirare il fiato : quella sera volle proseguire fino al negozio degli apparecchi elettrici; poi, disassuefatto dai caffè, ebbe voglia di prendere qualche cosa — « Non importa che cosa! » — pur di ricordare altri tempi, i tempi di Milano, i convegni con Boito, con Giacosa, con Capuana, con Luigi Gualdo, con Giovanni Pozza, con tutti gli amici perduti.
L'ultimo giorno, tra i suoi, al Circolo, fu presente a se stesso come non mai; rincasando, passando a salutare la figlia d'adozione, nel quartierino del primo piano, scherzò e rise, giovanilmente. Cenò solo, come d'ordinario, nel suo grande quartiere del piano superiore; dopo cena domandò al cameriere se avesse posto in ordine ogni cosa; alla risposta, affermativa, soggiunse :
— Puoi andare a riposare — Furono le sue ultime parole.
Si preparava a riposare egli stesso. Diede alla sua persona le cure consuete e si chiuse in camera, secondo l'antica, consuetudine. Prese dalla scrivania e portò sul comodino l'ultimo libro ricevuto in dono: il Natio borgo selvaggio di Ferdinando Paolieri, scrittore a cui portava moltissima stima; e sul volume dispose le lenti divenutegli necessarie, da anni a, cagione del  presbitismo.   Caricata la sveglia,  e l'orologio da tasca, cominciò a svestirsi, liberò il braccio destro dalla manica della giacchetta. La folgore lo percosse in quel punto,  sulla fronte.
Il colpo mortale non riuscì ad abbatterlo, nel primo momento. Il primo sintomo, la, nausea, lo sbocco di vomito, lo colse in piedi, contro lo stipite dell'uscio. Poi cadde, ma non di peso, perché nessun rumore fu udito, nessuna lesione fu riscontrata sul corpo. Si piegò, si distese lentamente, compostamente.
E le ore della lunga notte invernale cominciarono a scorrere, nella casa silenziosa, sul corpo immobile al nudo suolo, sotto la gelida luce della lampada, elettrica. Ne scorsero dieci, di quelle interminabili ore: dalle dieci della sera alle otto del mattino. I dottori affermano che la coscienza fu perduta fin dal primo momento. Giova crederlo; perché, se la coscienza restò desta e vigile, per tutte quelle ore, o per qualcuna, o per qualche attimo; se le labbra vollero chiamarle, e non poterono, se il braccio, volle tendersi e non poté, lo strazio dovette essere ineffabile — come quello che egli aveva provato un'altra volta, la prima volta che era caduto ai piedi del letto, anni addietro, e aveva voluto e non aveva potuto gridare aiuto.
« Teneva gli occhi fissi sulla figliuola, e accennava col capo... Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando... Gli occhi, tristi, s'eran fatti più dolci, e qualcosa gli, tremava sulle labbra...»."
Il Maestro non parlava, più, ma gli occhi, erano aperti, e la sua voce usciva, esce ancora, uscirà nei secoli dalle pagine del suo libro imperituro,
—Ti ho voluto bene anch'io... quanto ho potuto... come ho potuto... Quando uno fa quello che può... »,
Egli aveva fatto quanto era umanamente possibile, per queste creature del suo nome e del suo sangue. Trent'anmi addietro, nella piena maturità dell'ingeno, nel massimo fervore della produzione, il domani di Mastro don Gesualdo, mentre scriveva le prime pagine della Duchessa di Leyra, aveva chiuso il quaderno, riposta la cartella, lasciata arrugginire la penna, abbandonate Milano e Roma, per venire a far da padre ai nipotini due volte orfani, per badare alla loro educazione, per garantire i loro interessi. Fino all'ultimo giorno, a ottantadue anni, si era imposta la più rigida economia, si era privato di tante cose, anche necessarie, per amore di queste creature.
La figlia d'adozione gliel'ha, reso. È stata la prima, ad accorrere, la sola a soccorrerlo, durante la mattinata. È stata lei a sollevare da terra, accogliendo tutte le sue forze, il corpo rigido e greve; è stata lei a rendergli i più umili servigi, fino all'ultimo istante.
« Allora l'attirò a sé, lentamente, quasi esitando, guardandola fissa, e l'abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini... ».
La scienza dice che questi movimenti sono, semplici riflessi, dipendenti da fatti d'irritabilità corticale, quindi del tutto meccanici e inconsapevoli; che gli occhi non vedono, che l'anima non sente. L'amore si rifiuta di crederlo, ha fede che l'amore lo intenda e gli risponda.
La diagnosi è di emorragia cerebrale con paralisi totale dell'arto superiore destro e di entrambi gl'inferiori, con forte contrattura del braccio sinistro, abolizione dei riflessi pupillari, rilassamento dei muscoli facciali, impedimento della deglutizione e dei movimenti della lingua. La prognosi è nefasta: concede sol-tanto che questo stato si possa prolungare durante qualche giorno. Ma se egli non è rimasto ucciso sul colpo, se è sopravvissuto alle dieci ore di assideramento, non potrà ancora riaversi?... Non è una speranza, se resterà paralizzato nel corpo, privato delle facoltà più nobili, del pensiero e della parola. Se egli ode, se pensa, ripete certamente a se stesso ciò che ha sempre detto: che è meglio esser portato via di schianto, piuttosto che ricominciare a morire a poco a poco.
Le sanguisughe sono applicate sotto gli orecchi, la cuffia col ghiaccio è adattata, sul capo; si praticano le iniezioni di ergotina. Nessuna alterazione nei lineamenti, ancora: è sempre lui, il suo profilo da cammeo, il suo vivo sguardo. Impossibile credere che quegli occhi non vedano; impossibile osservare la prescrizione di non chiamarlo: tanto pare che distingua ed interroghi.
Preesisteva l'arterio-sclerosi di tutto il sistema, vascolare; ma se il cuore è vecchio, è ancora saldo. Il respiro è libero. Appena, un lieve arrossamento della fronte e delle guance rivela la congestione. Quando, occorre scoprire il suo corpo;, la mano ancora valida ricerca il lembo delle lenzuola, e stira quello della camicia, con un gesto di pudore. È anch'esso automatico?... Occorre tener ferma quella mano, che oppone una gran resistenza; anche la gamba paralizzata ha spesse contrazioni.
Ma verso sera questi movimenti si rallentano, le condizioni generali si aggravano. Il polso comincia ad essere aritmico, con ondulazioni sempre più larghe. Poi si riprende, va d'accordo col respiro. Nulla si può ancora prevedere, se non che passerà la notte.
All'alba del domani il parroco di Santa . Chiara gli dà l'Estrema unzione. Santa Chiara è la badia dove sua Madre adolescente visse tanti anni educanda; dove furono portati, morti, tutti i suoi cari. Con i ricordi della vita delle Clarisse narrati da sua Madre egli compose la Storia d'una Capinera. Dai balconi della sua casa, dal suo letto, egli ha visto durante più che mezzo secolo la facciata della chiesa, sull'altro lato della via, quasi dirimpetto. È stato sempre credente, sebbene non rigoroso osservante. Ogni mese, nel giorno della morte della Madre, ha fatto dire una messa. A Milano, quarant'anni addietro, un Venerdì Santo, un confratello lo vide entrare in chiesa e ne fu un poco stupito e gliene domandò il perché. Egli rispose:
—  Perché so dì far piacere a mia Madre. L'amico osservò :
— Ma tua Madre è a Catania, non lo sa, non ti vede:..
—  Non importa: la vedo io.
Di fianco al letto, sopra una losanga di velluto rosso, sono raggruppati i ritratti della Madre, del Padre, della sorella, dei fratelli, dei nipotini morti. Del Padre vi sono anche, nella stessa camera, due ritratti su tela, grandi al vero, una mezza figura, alquanto fredda, disegnata e colorita dopo la morte, e, d'un'al tra mano, più esperta, la sola testa appena abbozzata, ma piena di vita.
Il parroco, spettatore di tante agonie, assicura che si rimetterà. Ma con l'avanzarsi del nuovo giorno il viso si accende sempre più, il rilassamento dei muscoli faciali del lato destro aumenta. I movimenti sono quasi del tutto cessati, gli occhi non si aprono più; solo la mano sinistra si spinge, di tanto in tanto, chiusa e lenta come quella d'un bambino, verso la guancia. Poi anch'essa si ferma.
E tutti, intorno a lui, hanno le mani legate. Nulla resta da tentare. Non si può far altro che guardarlo, aspettando. A vespro l'aggravamento è più evidente; i dottori dicono che la crisi avverrà prima del nuovo giorno, che l'alba di domani rischiarerà la fredda salma.
Comincia l'ultima veglia, nella notte assiderata. Il respiro non è più libero, ha, le prime soste, seguite da rapide riprese. La temperatura sale al grado della febbre. Sotto la borsa   col ghiaccio la fronte s'imperla di sudore. La boc dischiusa s'inaridisce; per rinfrescarla, a quando a quando un pannolino inumidito è passato sulle labbra e sulla lingua. Il solo gesto è ora quello della mascella inferiore che s'abbassa un poco per poi rientrare nell'altra : e in questo movimento, più che nel candore delle chiome, più che nei solchi delle rughe, si rivela, la grande vecchiezza.
Mezzanotte. Ad uno ad uno tutti i rumori della via si vengono spegnendo, e nel silenzio crescente si comincia a udire il respiro affannoso. L'ansito aumenta d'ora in ora, è già il. rantolo tracheale previsto dai medici : profondo, cavernoso, come un sordo e chiuso bollore. L'inspirazione è più lunga, ma superficiale, in modo da sollevare il solo torace superiore. Il sudore è profuso. La lingua ingrossata e accortaciata, s'insinua fra le labbra vibranti, sembra che debba ostruirle e strozzarlo. La, saliva gorgoglia nella gola, colma la bocca, si riversa sulle guance. Non è tempo di raccoglierla con i batuffoli di cotone idrofilo, che altra ne sale e si spande.
Le veglianti s'inginocchiano e pregano.   
Le tre. Le quattro. La Morte non è puntuale al convegno. Il cuore palpita ancora, il sangue circola. Il polso, fattosi più piccolo, ridiventa frequente.
Soffocata dalla distanza, qualche rumore dì passo, qualche suono di voce vengono dal l'anticamera: sono i cronisti dei giornali e i messi delle pubbliche' autorità, che aspettano anch'essi. 
Ma non è l'ora. L'ora assegnata è trascorsa da un pezzo. Già sale qualche segno del 
risveglio,  dalla via, il cielo impallidisce; Santa Chiara suona a mattutino.                    
Il viso, è sempre più acceso, arso dalla febbre; più copioso il sudore e la bava, più serrati gli occhi. E il rantolo s'incupisce, empie la camera, s'ode dalle stanze attigue, opprime il petto e mozza il fiato ai circostanti.
È giorno; il primo raggio di sole indora il cornicione di Santa Chiara. La vita ferve nella via; ma le voci dei venditori ambulanti, il rotolare dei carri, il rombo dei tram, sono dominati dal rantolo atroce.
Le otto. Le nove. Da quando dura, questo rantolo? L'orologio non dice più nulla. Sembra, che il tempo si sia fermato. È oggi, o è ancora ieri?
 Una pausa: un'ansia, un tacito chiamare, un accorrere silenzioso. Ma il petto si gonfia ancora. Questo gran, cuore non vuol cessare di battere. Il cervello è invaso dal sangue, i polmoni sono imbevuti di siero, tutti i muscoli sono inerti, ma il cuore resiste, da solo: non si lascia sopraffare.
Resisterà ancora un altro giorno?
Le dieci. Un'altra pausa nel rantolo, meno breve della prima. Poi il travaglio dei fianchi e della fauci ricomincia. Un'altra pausa, più lunga, e un'altra ripresa. È già il respiro dei Cheynes-Stokes.
Ora tutti sono intorno al letto. Nessuno ha detto nulla, ma si è udito il passo lieve della Ineviabile. Liberato dall'inutile borsa, la testa si disegna in tutta la sua purezza, la fronte si modella in tutta la sua nobiltà.
Ancora una pausa. E ancora una ripresa. Il gorgoglio tracheale si affievolisce,  è come . un lento rompersi di grosse e rare bolle.
Le pause non si contano più. Dopo una delle più lunghe, tanto lunga, che sembra l'eterna, uno dei dottori, con le mani raccolte, fa un gesto, accenna, col capo di sì. Ma il respiro ricomincia, tenacemente.
A un tratto il torace è percorso da un moto di contrazione, i muscoli del dorso e dei lombi s'inarcano, l'occipite fa leva sul guanciale, come in un supremo tentativo di sollevamento, come per un'estrema resistenza da opporre ad un più violento assalto a corpo a corpo. Ma è un guizzo che si spegne. Il respiro si arresta: il sanitario trae l'orologio. Non è ancora l'ora precisa. C'è ancora una ripresa.
Le dieci e venti. Comincia l'immortalità.
                                                                 F. De Roberto.  

L'ultima istantanea di Giovanni Verga, dinnanzi al Circolo dell'Unione, 


articolo originale