Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

venerdì 30 ottobre 2015

"Memoria" di Federico De Roberto


 Federico senior

Federico De Roberto (Napoli16 gennaio 1861 – Catania26 luglio 1927) . Nacque a Napoli nel 1861, da Federico senior, ex ufficiale di stato maggiore del Regno delle Due Sicilie e dalla nobildonna di origini catanesi, ma nata a Trapani, Marianna Asmundo.
Trasferitosi con la famiglia a Catania nel 1870 dopo che il giovanissimo Federico subì la dolorosa perdita del padre, travolto da un treno sui binari della stazione di Piacenza. 


Memoria

Federico De Roberto Maggiore di 1° Classe nel corpo dello Stato Maggiore
Dopo aver retto per sei anni Comandi Militari di Circondario, anché a posto di
Luogotenente Colonnello, per la soppressione di detti Comandi, fu piazzato in aspettativa per
riduzione di corpo, posizione in cui da circa due anni si trova.
Avezzo all'operosità Militare fin dalla puerizia, mal reggeva l'ozio
di detto stato, e privatamente impegnò la superiore benignità, già sperimentata, dall'ottimo
Sign. Generale Gibbonè, da cui legasi dagli Ufficiali dell'arma suddetta, quasi unicamente dipendono, per essere riabilitato in un Comando; ma non lo potè conseguire per non essere fra i primi a richiamarli.
In proseguo vocò il Comando di Catania che, trovandosi sul luogo (…) un viaggio, facendo capo della singolare benignità del prelodato sign.Generale, gli scrisse nuovamente in via privata, se mai avesse potuto conseguirlo; chè, quandunque posto di Luogotenente Colonello talvolta tali posti sono stati surrogati da maggiori anziani.
Ma vi ebbe in garbatissimo riscontro che oltre al trattarvi (…) Luogotenente Colonnello non ancora era prossimo il turno di richiamo del chiedente, che pertanto non poteva essere proposto al comando di una Provincia.

Ora essendosi approssimato detto turno per essere De Roberto il terzo, (…), egli, fruendo di bel nuovo del bel cuore del suo Generale, gli à scritto particolarmente che, se i precedenti a le note caratteristiche non vi si opponessero, avendo retto sei anni Comandi Militari, senza essere stato giammai fra gli Ufficiali Superiori applicati, nella difficoltà di conseguire il Comando di Catania, sperava essere proposto ad altro Comando qualsiasi.

L'esponente è in attesa del risultato di quest'ultima sua richiesta; e, poiché già due Comandanti destinati a Catania ànno ottenuto il loro riposo; ed il terzo già da tempo non raggiunge il suo posto essendo probabile che ottenga al destino, il De Roberto bramerebbe che, senza stancare la bontà superiore, fosse rammentato se mai finalmente, in caso di terza mancanza, potesse conseguire il desiderato Comando di Catania; ed, ove ciò riesca di assoluta impossibilità, gli si conceda quello attualmente vuoto nel grado di Maggiore in Massa e Carrara, ad altro primo a vacare.


E dove pregò

martedì 27 ottobre 2015

DA LA CANZONE DEGLI UMILI all'asino lontano - di Mario Puccini.



All'asino lontano -

Per una strana ironia, asino, le nostre anime si sono prese, quella volta. Salivamo - ricordi ? il sentiero pietroso ed il maggio canzonava la nostra lentezza con le voci delle anime inebriate, con effluvii di profumi ignoti, con le giulive armonie del suo fiorire, invano attendendo un coro della nostra meraviglia. Tu, cui di recente il potere egoistico dell'uomo aveva tolto il diritto d'amare, ti sforzavi nell'ascesa dolorosa e non potevi avere inni di dolcezza per quella vita ardente che ti si mostrava e che tu ricordavi di aver vissuto, quando non invano la femmina annusava l'aria nel desiderio di te. Ora, dopo una sofferenza atroce del corpo, l'anima si apriva alla completa sventura e tu ritrovavi nel lento giro dello sguardo, volto alla montagna, i luoghi dove più  la femmina t'aveva soddisfatto.
Seppelliamo, o amico, quest'onda di ricordi che ci serra la gola e non ribelliamoci.
Vedi? La sorte ci ha fatto cosi e ci ha divisi
Lontani, forse ci ricorderemo. Vicini, per la mia necessità o per il mio egoismo o per la malvagità che s'impone alla compassione tu forse mi avresti padrone sdegnoso.
Ora mi ricordi. Salivamo ed io non osavo richiedere alla tua debolezza uno sforzo che gli altri asini sapevan  fare.
Tu eri immiserito, povero amico, come la mia anima.
L'ho detto: i nostri palpiti in quel lento andare, ebbero un momento di  passione.
Tu, perduto l'orgoglio del maschio, inorridivi  per   le   prossime fatiche, a cui per sempre sarebbe mancato il sollievo del piacere.
Amico, la natura è cattiva, nel suo creare e chi soggiace non avrà conforti.
Me lo dicesti (credi che io dimentichi?) in uno slancio di sincerità e d'odio verso la vita.
Perchè t'avevan creato? Nemmeno la consolazione di fare dei figli l'uomo aveva lasciato per ricompensa al tuo sudore.   Nulla.
Che ti rimaneva, asino?
Combattere e lottare. Tu lo sai, amico, che è questa la sorte di tutti gli umili, il retaggio, ecco l'ingiustizia, dei lavoratori onesti.
Non ribelliamoci. Anch'io, sai. mentre tu narravi la tua storia, calcavo le vecchie orme di una vita e m' avviavo, soffrendo, a formarne di nuove.
Vane orme, se tutto il resto della natura è cosi grande da seppellirle con un semplice alito. Non m'illusi. Fu specialmente in quel momento della nostra salita, quando ogni bellezza rifulgeva e le montagne intorno mandavano lampi di meraviglioso ardire, che io perdetti la completa illusione dei vecchi sogni.
E con te vissi, perchè il sole volle esserci compagno, fino all'ora in cui il bianco spino della siepe si abbassò al nostro andare, la calma del rassegnato che si contenta del fonte per la sua sete, che si soddisfa de sole per il suo lavoro, che gioisce e s'inebbria per lo stellato che testimonia il  suo sognare.
*
Asino, questo libro è nato in gran parte nell'ora strana in cui le nostre due anime perdevano l'orgoglio della propria forza.
Non ho migliorato, credimi, per vanità né per valore. Semplice sono restato e semplice mi offro al maggio della tua montagna, né altro chiedo che il tuo compiacimento.
                                                                                                             Mario Puccini.

*     Tratto da :


domenica 25 ottobre 2015

Amelia descrive Mario Rapisardi in una lettera ad Angelo De Gubernatis

"O fausto giorno
Che consentisti di venirmi a fianco! 
Per incanto d'amor, giovine torno". M.R.













Lettere di Amelia 7 — Ad A. De Gubernatis.



Chi lo conosce intimamente il Rapisardi, non   può che ridere della fosca leggenda che gli ha tessuto intorno l'ignoranza e la malignità di alcuni gazzettieri.
È superbo come Lucifero, dicono; fa l'aquila; fa il Nume;« si ride di tutto e di tutti; non vuol vedere nessuno; scaccia anche quei pochi che si avventurano a visitarlo. Niente di più falso di tutto questo. Coloro che hanno il coraggio di avvicinarlo si accorgono subito che la leggenda è maligna; l' orso che si aspettavano di trovare è il più affabile e il più modesto degli uomini : " pare una dama „ suol dire il suo editore Giannotta a quei forestieri che hanno paura di essere accolti male. Con le signore poi, specialmente con le giovani, è di una gentilezza... eccessiva. Se gliene faccio carico, mi si scusa coi noti versi del Parini :

A me disse il mio genio....


Il popolo che lo venera e lo chiama : U patri ranni (il padre grande), e, negli avvenimenti solenni viene ad acclamarlo, deve contentarsi di vederlo soltanto. Egli non è buono a fargli dei discorsi ; un saluto, una parola affettuosa di conforto e di consiglio, e basta.

Nei due giorni delle sue onoranze, o delle sue esequie, com'egli le chiama, pareva un condannato. Anche il leggere all' Università, dopo trent'anni d'insegnamento, lo agita come la prima volta. Quando trova la sala molto affollata, egli è tentato di svignarsela.
Non si è mai aggregato a nessuna scuola, a nessuna accademia, a nessun partito ; vuol vedere coi propri occhi, egli dice, pensare con la sua testa. Forse per questo ha nemici ed amici in tutti i partiti. Mentre, un R. Proc. di Milano sequestravagli un' ode per delitto di lesa maestà, e un giornale socialista  l' offendeva stupidamente a Roma, un senatore illustre s'adoprava in sua difesa e Cesare Lombroso lo proclamava un genio autentico, il Lucrezio e il Giovenale di Italia.
Egli ha un'adorazione selvaggia per la libertà-  Per questo vive fuori di città, in una casa aperta a tutti i venti, dalla cui terrazza può vagheggiare l'Etna e il mare, i suoi due grandi amici. Il suo sguardo, come l'anima sua, ha bisogno di spaziare nell'infinito. I liberi orizzonti, mi diceva l'altra sera, alimentano in me l'amore alla libertà e la religione dell'Infinito. E ai giovaci dell'Università romana, che gli chiedevano una conferenza, diceva : « Sono uccello di bosco : per cantare ho bisogno di solitudine e di libertà „.
La sua vita è semplicissima. Esce di casa raramente : ora che i malanni lo assediano, passa dei mesi senza mettere il piede fuori dell'uscio. Si leva di tutte le stagioni alle quattro. È di una frugalità e d' una sobrietà straordinarie. Lavora ad intervalli; ma quando ci si mette, non fa altro; mangia meno del solito, dorme quasi punto. Eppure egli non si sente mai così bene come in questo periodo di lavoro febbrile ; dimentica e disprezza gli acciacchi ; è perfino ilare e giovanile, egli, ordinariamente malinconico ed austero.
Nel concepire ed abbozzare è d'una rapidità meravigliosa ; ma nel limare e finire i suoi lavori, d' una lentezza e d'una incontentabilità disperata. Per correggere, ricopia ; ricopian do, suol dire, le correzioni non vengono a freddo, si fondono col testo, paiono di primo getto. Copia, ricopia, torna a copiare, in calligrafìa chiara, fino a cinque e sei volte, non solo i componimenti brevi, ma anche i più lunghi : del Lucifero, del Giobbe, dell' Atlantide   fece una   mezza dozzina di copie.
Ai periodi di febbrile attività succedono periodi d' ozio forzato e quasi di letargo. Allora sta malissimo. Tutti i suoi malanni, la muta dei cani infernali, lo assalgono e lo tormentano in tutti i modi. Passa le giornate ciondolando per casa o dondolandosi in una poltrona. Non legge, non scrive neppure una lettera ; vorrebbe non pensare ; ma pensa, purtroppo, e fantastica e sì tormenta. Bovio lo chiama autofago, ed egli è davvero un mangiatore di sé stesso.
Ai periodi di febbrile attività succedono periodi d' ozio forzato e quasi di letargo. Allora sta malissimo. Tutti i suoi malanni, la muta dei cani infernali, lo assalgono e lo tormentano in tutti i modi. Passa le giornate ciondolando per casa o dondolandosi in una poltrona. Non legge, non scrive neppure una lettera ; vorrebbe non pensare ; ma pensa, purtroppo, e fantastica e sì tormenta. Bovio lo chiama autofago, ed egli è davvero un mangiatore di sé stesso.
Dei poeti non rilegge con entusiasmo che Omero e i tragici greci. Ama ed ammira Lucrezio, che, secondo lui, è il solo poeta grande che ebbero i latini. Studia Virgilio e Orazio quali maestri di stile. Ammira Dante, ma non lo idolatra, come fanno certi dantisti o dentisti, come egli li chiama. Legge spesso l' Ariosto, ma predilige il Tasso. 
Degli stranieri ama Shakspeare, ama Schiller; ha un culto speciale per lo Shelley e per Victor Hugo. Molto si compiace di libri scientifici : Darwin, Moleschott, Lubbock, Spencer, Ardigò ed Haeckel sono i suoi santi Padri.
La sua biblioteca è poco numerosa di volumi ; ma ricca dei capolavori di tutte le letterature, e di antiche e pregiate edizioni. Ha tutti i classici latini cum notis variorum; molte aldine, fra cui tutte le opere di Cicerone ; un Sallustio e un Lucrezio del 1515, e, di questo stesso anno il dantino, curato dal Bembo. Ha inoltre un bellissimo Orazio del 1483 ; l' edizione principe del Petrarca ; la Gerusalemme liberata del 1583, oltre a quella con le figure di B. Castelli; un buon Orlando Furioso del Valgrisi. Molti di questi suoi libri sono stati da lui stesso rilegati, un po' stranamente se vogliamo, specie nei colori del taglio e dei tasselli del dorso, ma cuciti stupendamente e d' una solidità eccezionale.
A coloro che lo hanno beneficato e difeso serba gratitudine e culto quasi religioso. Tiene sulla scrivania i ritratti di Victor Hugo, che lo battezzò poeta precursore ; di Garibaldi la cui lettera, dopo letto il Lucifero, egli chiama la sua medaglia al valore; di Francesco De Sanctis che lo nominò professore ordinario ; del Trezza che lo difese a viso aperto, attirandosi le ire dei criccaiuoli. Degli amici e di sé stesso mette volentieri in canzonatura le debolezze e disegna le caricature con troppa vivacità spesso, onde alcuni pauperes spiritu, se n' hanno a male.
Da coloro che lo corteggiano per secondi fini si guarda quanto può e se li tiene lontani; qualche volta però è cascato nella rete, e più d'uno ch' egli amava come fratello e figlio, ottenuto l'intento, gli ha voltato le spalle, non solo, ma s' è ascritto apertamente tra le file dei suoi nemici. Di queste defezioni e perfìdie si rammarica, ripetendo i versi del Rosa :
Più d' un Pietro mi nega e m' abbandona 
E più d' un Giuda ognor mi veggio a lato.
Molto ama e molto odia ancora, non ostante i suoi 64 anni; ma gli amori e gli odi suoi sono oramai rivolti più alle idee che agli uomini. Degli uomini non odia se non coloro che crede nemici di quelle sublimi idealità a cui egli ha consacrato, con somma abnegazione, la vita.
Da un pezzo il Rapisardi non iscrive più versi; ha però scritte molte epigrafi monumentali pubbliche e private, e ne ha raccolto un centinaio. 
Il ritratto che Le mando è opera pregevole del Di Bartolo e mi pare che corrisponda ai suoi desideri.

Aggiungo altre cosette che mi tornano a mente.
Ai giovani liberisti che gli fanno carico della forma classica dei suoi poemi, risponde che la poesia viva, quella cioè che dà vita a tutto ciò che tocca è di tutti i tempi e di tutti i paesi, e che per questa qualità divina il poeta più moderno di tutti i tempi è sempre Omero.
Accusano generalmente il Rapisardi di tenersi troppo in disparte. Il De Sanctis lo classificò fra gl' ingegni solitari, come il Leopardi. I pappagalli, anche i più benigni, ripetono che egli è fuor della vita. Il poeta se ne scagiona dicendo che, per amare gli uomini, è necessario tenersene lontano, e per osservare bene le battaglie sociali non bisogna buttarcisi dentro.
Egli però crede, a ragione, che la solitudine e lo starsene in disparte come il Saladino è necessario al pensatore e all' artista. " Voi siete troppo idealista „ gli disse un giorno la signora Iessie Withe Mario, che venne a visitarlo; " Voi vivete fra. le nuvole „ ... "Come i fulmini „ soggiunse prontamente il poeta.
Se altro Le occorre, mi faccia l'onore di rivolgersi a me...





*Epistolario di Mario Rapisardi a cura di Alfio Tomaselli 1922

domenica 27 settembre 2015

Vincenzo Giordano-Zocchi " Memorie di un ebete" - 1842/1877

"Queste pagine non sono nè una prefazione, nè una biografia di Vincenzo Giorndano-Zocchi: contengono solo qualche osservazione, qualche appunto, o ricordo, così come viene, senza nesso e misura: non parole abburattate, non vezzeggiamenti di costrutti, non periodi fatti al tornio".



 "Memorie di un ebete" - PDF1 - PDF2

 Aurelio Costanzo - Bricciche letterarie, Catania, Giannotta, 1904, da pp. 3/51 (col titolo Un eroe della soffitta).




























 Memorie di un ebete - PDF1 - PDF2
curioso romanzo filosofico-autobiografico, improntato ad amari accenti di pessimismo, pubblicato per la prima volta, postumo, nel 1877 (l'autore si era spento di malaria poco tempo prima). Vincenzo Giordano Zocchi (Napoli, 1842-ivi, 1877) fu scrittore e giornalista affine agli Scapigliati, nonché professore di filosofia nel Liceo di Catanzaro. Collaboratore di numerosi quotidiani e periodici, è oggi noto soprattutto per il presente libro. Cfr. Giuseppe Aurelio Costanzo, Vincenzo Giordano Zocchi, Napoli, 1883.


venerdì 19 giugno 2015

IL CASO RAPISARDI di Giuseppe Giarrizzo - 1987


«La storia della letteratura è rettilinea: chi non va sulla via maestra sarà falciato come una mala erbaccia. Chi si ricorderà in una storia letteraria futura di coloro che, vissuti al tempo del Carducci, non furono suoi alunni? Chi sono oggi grandi e gloriosi poeti se non i giovinetti carducciani d’una volta? E qual potenza hanno sulla nostra vita e sulla nostra arte Mario Rapisardi con i suoi cento, Arturo Graf con i suoi mille?» 
                (Rivista “Hermes”, Prefazione, 1° gennaio 1904)


 
disegno di Antonino Gandolfo 



IL CASO RAPISARDI

1987

qui PDF

martedì 2 giugno 2015

"Sicilia perla del mediterraneo" - Poeti arabi di Sicilia

Gli Arabi furono in Sicilia nei secoli IX e X. Amarono tanto questa magica terra, che la considerarono la loro perla più pre­ziosa, la perla del Mediterraneo. Per essi la Sicilia divenne il giardino più fiorente e Palermo una delle capitali più belle di quel tempo, e anche molto oltre. E cantarono questa loro terra: una terra da non dimenticare! E quando gli eventi storici li costrinsero ad abbandonarla, piansero le loro lacrime più cocenti e amare. Per l'Editore Mondadori, tra i Poeti dello Specchio, è apparso un bel volume dal titolo seducente: 



impressioni di Vittorio Morello 
POETI ARABI DI SICILIA. Vi sono i versi più belli mai concepiti dagli Arabi, nella versione di poeti di grande rilievo come Mario Luzi, Valerio Magrelli, Edoardo Sanguineti, Patrizia Valduga, Antonio Porta, Maurizio Cucchi, Giovanni Raboni, Toti Scialoja, Giovanni Giudici, Jolanda Insana, Cesare Viviani, Elio Pagliarani, Giorgio Manganelli, Emilio Isgrò, Biancamaria Frabotta, Alfredo Giuliani, Franco For­tini, Ignazio Buttitta, Andrea Zanzotto. Gli Arabi si trovarono ad ispirarsi in un ambiente saturo di cultura greca e vi crearono le loro liriche più altisonanti: era la fiamma della loro anima mediterranea, ebbra di sole e di mare, di terre rigogliose, che cantava per l'eternità. È bene tenere presente che l'influsso di chiaro vibrante sapore arabo si innesta su una forte tradizione greco-latina, creando una particolare sonorità di linguaggio, che si è poi riflessa nel mondo cortese dei musici, cantori e giullari dell'epoca normanna e di quelle successive. Penso che i poeti italiani, incaricati di curare le versioni dai testi arabi, abbiano rispettato il più possibile la particolare sonorità so­praccennata, cercando con cura e amore le parole più adatte ad esprimere il pensiero dei poeti arabi di Sicilia. Ora i poeti arabi del volume, con a fianco i curatori delle versioni, in brevi selezioni. Emerge da testi e versioni la fiamma mediterranea. 

MUHAMMAD IBN AL-QUTTÀ (Maurizio Cucchi) "Aiuta il liquore e ti dà gioia, / cessa dunque di cavalcare / i giovani e forti cammelli. / Non versare più lacrime / su un luogo di bivacco / già ormai distrutto..(Valerio Magrelli) "Se è tempo di delizie, ne approfitto, / poichè lo stesso uomo che si sveglia al mattino / forse non giungerà fino alla sera." "E se non la raggiungo in questa vita / sarò presso di lei nel buio della tomba." 

IBN AT-TUBI (Valerio Magrelli) "La tua bellezza iscrive due parentesi / sulle tue guance, e sulle sopracciglia / due ondulate 'enne' ." "Così questa scrittura / reca un senso sottile / e dona agli occhi più concentrazione." (Toti Scialoja) "Nella sua bocca spiccano perle / chiuse nel cerchio della corniola." "Acuminate lame di ciglia / sono una spada fine a due tagli." "Un solo bacio su quella bocca / apre il sentiero della paura." 

IBN AL-KHYYAT (Maurizio Cucchi) "Benchè sia io ormai giunto a età matura / non puoi desiderare che dimentichi. / Sono chi hai conosciuto / come tuo primo amore." "Per il mio scopo viaggio nella notte / come di notte viaggiano le stelle / e tra la gente c'è chi si addormenta / e chi viaggia nel mantello." 

AT-TAMINI (Giovanni Raboni) "Non è una casa per me il deserto / ma è nel deserto che l'amato giace." "Dolce mi è in te l'amara notte / quanto amara mi è in te la dolce luce." 

MUHAMMAD B. QASIM B. ZAYD (Franco Fortini) "E tu che hai nella bocca le dolcezze / uno dei tuoi malati ti domanda, / che dalla bocca tua ne beva un sorso." "Quanta guerra per te, notte su notte, / e quanti assalti disperati! Quanti / i desideri di te, gli sgomenti..." 

MAGBAR B. MAGBAR (Mario Luzi) "La separazione è dura a sopportare / lascialo andare con il ricor­do del commiato / e promettigli ciò che lo farebbe vivere / un delicato vincolo un incontro / o sembianza perfetta fra le lune / e splendore / di quel che sotto il velo si nasconde..." 

ABÙ ALÌ AL-HUSAYN (Valerio Magrelli) "Forse un calice conico ricolmo di bevanda / brilla come la luce del mattino." "Non credere, la lacrima dell'occhio / ha la stessa sostanza del mio sangue, / è solo il mio sospiro che la fa uscire fuori."

ABÙ L-QASIM'ABD AR-RAHMAN (Valerio Magrelli) "Oh, quanto è bello un lampo che balena / sopra la terra! Quanto è dolce una visione / che visita la notte per l'unione / tra noi due."

ABÙ ABD ALLAH B. SADUS (Toti Scialoja) "Interminabile notte fino a parere eterna / senza speranza dell'alba nè di luce per sempre..." 

ABD AL-AZIZ AL-BALLANUBI (Valerio Magrelli) "Ti avevo custodito dentro la mia pupilla, / ma quando l'occhio pianse volli metterti / vicino a Dio, nel cuore del mio cuore." 

ALÌ AL-BALLANUBI (Giovanni Giudici) "Al tramonto bevemmo il sole d'un bel vino / che portò la sua luce al sole dell'aurora..."
 (Jolanda Insana) "La spada del suo sguardo trapassò il mio cuore / e il sangue cola e rosseggia sul suo viso."
 (Valerio Magrelli) "Gioisci delle arance che raccogli: / dalla loro presenza viene gioia." 
 (Patrizia Valduga) "Del mio turbante coronandola / senza velo la guardai." "E le intessei drappi preziosi / e tutta la drappeggiai." "Ricamai segni ma il presagio / temetti e li cancellai." "E fummo preda delle coppe, / svanì il liuto più che mai." 
 (Cesare Viviani) "L'amore non è che un sentiero rischioso, / un laccio in cui vi si scivola." "e in quest'ombra la giovane minuta gazzella / cattura il leone della foresta."
 
I poeti arabi della Sicilia amano l'amore, amano la vita, amano la terra, il mare, il cielo, amano la Sicilia. Amano la loro magica terra. Chiudiamo con due versioni in vernacolo siciliano:
IBN HAMDIS (Ignazio Buttitta) "l'aurora porta lustru nno scuru / comu un mureddu sudatu da cursa..." "suspiru versu la me terra..." 
(Emilio Isgrò) "Ah, mari, mari tintu, / è tuttu a li to spaddi 'u paradisu." 
Sicilia, Sicilia, la perla del Mediterraneo! 
 

martedì 28 aprile 2015

Scapigliati e Futuristi uniti dal "filo d'Arianna"

«Io sono partigiano del buon senso,
Nè al becero nè al Re fo di cappello;
Non soffro dittatori, e quando penso
Mi piace di pensar col mio cervello.
Rido del volgo ignobile e melenso
Che grida: viva a questi e morte a quello!
Scenda dal trono o sorga dalla via
Sono nemico d'ogni tirannia.» Antonio Ghislanzoni





Quando finalmente qualcuno si deciderà a scrivere un libro di storia della  letteratura capace di non uccidere di noia l’anima degli studenti, mostrando il volto inquieto di una scrittura nata nelle trincee, nelle fabbriche in agitazione, nei bassifondi, sulle barricate, fra i fumi maleodoranti della suburra e le esalazioni allucinate dell’assenzio? Anche perché, parliamoci chiaro, non solo per gli studenti ma anche per tanti professori e sedicenti esperti i nomi di Ferdinando Fontana, Ada Negri, Mario Rapisardi sono quelli di illustri sconosciuti. Eppure basterebbe dare una letta alle biografie di questi poeti maledetti dell’Italia post-risorgimentale (dei famosi come degli sconosciuti) per comprendere come si abbia a che fare con uomini e artisti letteralmente immersi nelle problematiche, nelle battaglie e nei sentimenti diffusi del loro tempo. Troviamo così uno Stanislao Alberici-Giannini, un Eliodoro Lombardi, un Domenico Milelli, un Luigi Morandi, un Vittor Luigi Paladini che vengono dritti dritti dalla militanza garibaldina. E se Ulisse Barbieri conobbe il carcere a 16 anni per aver affisso manifesti patriottici, Pompeo Bettini, Pietro Gori, Carlo Monticelli e lo stesso Turati saranno in prima fila nelle agitazioni socialiste, sindacali e anarchiche. Giovanni Antonelli, dal canto suo, farà per tutta la vita la spola tra manicomi e carceri, mentre la “poetessa del quarto stato” Ada Negri, dopo una vita a cantare gli umili, diventerà la prima donna membro dell’Accademia d’Italia per volere dell’amico Benito Mussolini.


Vite border line di contestatori e libertari, fratelli maggiori dei piromani che pochi anni dopo daranno fuoco all’italietta borghese. È da questi fermenti, infatti, che si dipanerà il filo rosso dell’altro  Novecento italiano, quello che vedrà come protagonisti i bohemien dimenticati della scapigliatura, gli intelletti eretici de La Voce e di Lacerba, gli alfieri del sacro teppismo anarcosindacalista, gli eroi dell’arditismo, i poeti incendiari del futurismo e su su fino a contaminare almeno in parte un certo “socialismo tricolore" riemerso qua e là nel dopoguerra. Punk di un secolo fa, sessantottini ante litteram (ma più belli e più autentici), questi poeti maledetti anticipano l’atmosfera elettrica di Fiume e non sono altro che i padri di quegli Arditi così rievocati da Italo Balbo: «Io – disse un giorno il grande aviatore – non ero in sostanza, nel 1919-1920, che uno dei tanti: uno dei quattro milioni di reduci delle trincee… Un figlio del secolo che ci aveva fatto tutti democratici anticlericali e repubblicaneggianti: antiaustriaci e irredentisti esasperati in odio all’Asburgo tiranno, bigotto e forcaiolo».

Avventurieri, guasconi e scapestrati, figli di un’Italia ribollente di vita che non sempre ha trovato adeguato spazio sui libri di storia. Un’Italia che, mutatis mutandis, forse esiste ancora e che scalpita nelle pieghe della cosiddetta “società civile” che tira avanti nonostante una politica troppo spesso parruccona e ingessata. 

E i balbettii imbarazzati che accompagnano gli scialbi 150° dell’unità, che invece poteva essere l’occasione per una svolta simbolica, lo confermano. Lo stesso centenario del futurismo è apparso ai più come l’ennesima occasione sprecata per ridare all’Italia un’avanguardia attuale, uno spirito nuovo e creativo di cui
pure avremmo disperato bisogno. Ma fuori dalle celebrazioni ufficiali c’è chi va oltre e ripesca – stavolta però con l’occhio realmente rivolto all’oggi e al domani – anche i fratelli maggiori di Marinetti & c. e sodali. Sono i poeti dimenticati di Iannaccone. Sono gli scapigliati, di cui si è potuto dire: «Nell’arte come nella vita, questi anomali personaggi fanno loro il mito di un’esistenza irregolare e dissipata come rifiuto radicale delle convenzioni correnti e delle norme morali. Sono gli scapigliati. Alcolisti incalliti, musicisti, poeti, pittori, combattenti, giornalisti e politici: questo il volto rivoluzionario del nuovo genio artista. Cantano il bene e il male, il bello e l’orrendo, declamano virtù e vizi, raccontano sogni e realtà». E ancora, parlando di Emilio Praga: «Questo è il trillo della delusione di un uomo in miseria distrutto dall’alcool suo compagno di viaggio; un antico Keruac un anarchico integrale, insofferente alla morale, alla religione e alla retorica; sarà lui il primo a cantare la “morte di Dio” ossia di tutte quelle costruzioni razionali e formali che così come nella poesia anche nella storia del mondo hanno messo le catene all’uomo ormai incapace di travalicare i limiti dell’esistenza per assurgere alla vera conoscenza».


La scapigliatura come modello esistenziale trasgressivo per la gioventù del terzo millennio?

In Francia il collettivo artistico-politico dedito a provocazioni mediatiche e politicamente scorrette che ha per nome Zentropa non si è forse dato come slogan «Amour, absinthe, revolution», dove “absinthe” sta appunto per “assenzio”? Torna in mente il Carme comunardo di Domenico Milelli: «Ancor non seppero gli irti filosofi / noi pazzi, o Assenzio, sotto il tuo labaro / schierati in giovani falangi indomite / darem battaglia». Entusiasmo ingenuo e ribellismo adolescenziale? Forse. Ma ne avremmo anche oggi un gran bisogno.
Anche se poi non ci ha messo tanto a mettere i puntini sulle “i” quando il nuovo Stato non ha mantenute quelle promesse di rinnovamento che, insieme all’aspirazione unitaria, aveva mosso anime e corpi al seguito del “generale” Garibaldi… (tratto da un art. di A. Sciacca)
***
Lettera indirizzata a Giuseppe Lipparini il 7 luglio 1911, che riporto: “ Credetemi, caro Lipparini, noi abbiamo inventato il “futurismo” per la gravezza paludosa dell'aria che ci sta attorno e ci corrompe e ci pervade entro le vene il sangue e le carni ed il cervello; abbiamo inventato il “futurismo” per bisogno ineffabile ed impellente di nuovo, ci siamo ribellati a tutto e a tutti perché volevamo scorgere, dopo l'empietà dell'incomposta distruzione, qualcosa la quale non fosse il putrido presente incolore, astioso, convinti magari di non aver niente da dire, se non parole di ira, accenti rotti di sdegno, sconvenienze; ma era fede profonda la nostra, ed ora si è capito anche dalle persone serie, era speranza d'invenire fra i rottami il segno vivo di ciò che volevamo.
E se non esistesse bisognerebbe crearlo un movimento simile.. e chiamatelo se più vi piace anarchismo”. Gesualdo Manzella Frontini