Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

giovedì 11 ottobre 2018

I verseggiatori ribelli, delusi dall'Italia unita



Il sentimento di una «rivoluzione tradita» dopo l'esaltazione risorgimentale 




Chi sono Ferdinando Fontana, Pietro Gori, Giacinto Stiavelli, Edoardo Augusto Berta, Giovanni Antonelli, Luigi Grilli, Mario Rapisardi, Alfio Belluso, Domenico Milelli, Olindo Guerrini e decine d'altri i cui nomi oggi suonano poco familiari alle nostre orecchie? Sono i poeti ribelli, che affidarono alla penna la loro opposizione, e dal 1870 al 1900 fecero risuonare il loro grido patriottico in un'Italia scossa da cambiamenti non sempre condivisi. L'Unità d'Italia, di cui si è celebrato il 150° nei giorni scorsi, si era da poco conclusa, e dalla proclamazione del Regno fino all'inizio del nuovo secolo, gruppi di rivoltosi e di scontenti «che ambivano al ruolo di opinion makers dell'opposizione, furono segnati da un'aggressiva conflittualità intellettuale e da un diffuso sentimento di inquietudine». Lo spiega Giuseppe lannaccone, docente di Letteratura italiana all'Università di Roma Tre, curatore del volume «Petrolio e assenzio. La ribellione in versi (1870-1900)» (Salerno Editrice, 245 pp., 14 €). Molti i nomi quasi sconosciuti di questi poeti ribelli, ma non mancano i grandi come Carducci, Pascoli e Ada Negri.

Perché «Petrolio e assenzio»? 
In omaggio al petrolio, l'arma usata dai rivoluzionari sulle barricate della Comune parigina, e all'assenzio, il mitico liquore verde eletto già da Baudelaire come il simbolo della trasgressione.

La poesia, stigmatizzata anche da Mazzini, dopo l'Unità d'Italia divenne politica e contestataria. Come si arrivò a ciò? 
La polemica politica dei poeti nasce da una disillusione e da un risentimento davanti allo sbocco deludente che ai loro occhi avevano avuto gli eroici anni del Risorgimento. Le battaglie garibaldine avevano alimentato il sogno di un'Italia repubblicana, popolare, anticlericale e democratica. La soluzione postunitaria si rivelò invece compromissoria, strumento di un ceto politico conservatore e poco interessato alla giustizia sociale. Il risentimento nasceva da una percezione, che si protrasse fino agli albori del Novecento: che il Risorgimento fosse stato, a cos e fatte, una rivoluzione tradita e che gli ideali patriottici e libertari che l'avevano alimentata fossero stati sacrificati da una politica trasformista e corrotta.

Traditi: ma in che cosa e da chi? 
Le ragioni del disincanto post-risorgimentale sono diverse, ma possono trovare una sintesi nella rancorosa insoddisfazione garibaldina. L'Eroe dei due mondi, dimettendosi da deputato nel 1880, scriveva ai suoi elettori: «Altra Italia sognavo nella mia vita!». Aveva sognato una patria libera da consorterie e la trovava avvilita da trasformismi e corruzioni; aveva auspicato una politica finalizzata all'eliminazione dei privilegi e invece tanto la Destra quanto la Sinistra storica avevano accentuato la distanza tra ricchi e poveri e favorito lo sfruttamento capitalistico da parte della borghesia affarista che governava l'Italia umbertina.

La sinistra di fine Ottocento, riuscì a stabilire un contatto con le masse? 
La sinistra del secondo Ottocento era un calderone animato da istanze profondamente diverse, talvolta perfino antitetiche le une alle altre: mazziniani, garibaldini, repubblicani, socialisti, anarchici.

C'è qualche poeta che andrebbe rivalutato e riproposto ai lettori?
Sicuramente Olindo Guerrini, le cui raccolte poetiche, all'epoca veri best seller popolari, sono uno splendido esempio di anticonformismo e di abilità tecnica. Poi Pompeo Bettini, autore di testi sociali venati da una malinconia quasi crepuscolare; Giuseppe Aurelio Costanzo, il cui poema «Gli eroi della soffitta» è l'identikit di una generazione di intellettuali condannati all'emarginazione da una borghesia gretta e materialista; infine il calabrese Domenico Milelli, da cui ho tratto il titolo del volume.




La partecipazione di Carducci, Pascoli e Ada Negri a questo movimento, fu occasionale o effettiva?
Fu forte e sincera. Carducci, quando ancora usava il nome d'arte di Enotrio Romano, fu punto di riferimento degli irriducibili avversari della borghesia. Il suo «Inno a Satana» rappresentò per molti il manifesto del libero pensiero e del progresso minacciati dall'oscurantismo ecclesiastico. Pascoli trascorse tre mesi in galera per aver inneggiato nel 1879 all'anarchico Passannante, che aveva attentato alla vita del re Umberto I. Ada Negri si meritò l'appellativo di «poetessa del Quarto Stato». Salvo poi ritrovarsi tutti e tre dall'altra parte della barricata: Carducci si convertì alla causa della monarchia, Pascoli concluse i suoi giorni invocando l'intervento coloniale in Libia, la Negri fu nominata nel 1940 da Mussolini membro dell'Accademia d'Italia.
** di Francesco Marinoni

domenica 7 ottobre 2018

IL CORPO E L’ANIMA DI Frida in fuga dalla Russia, con amore



* di Vania Di Stefano





Di quella ciocca dei capelli materni Mirco, il minore dei figli di Titomanlio Manzella e di Elfride Neuscheler, protagonisti dell’atroce novella Tre bambini sotto una palma (1935), chiese spesso, in mia presenza, alla sorella Myriam, che rispondeva di non saperne nulla. Conoscendo la generosità di mia madre, sono certo che non mentiva. Casualmente l’ho scoperta io, combattendo quell’affascinante, invincibile disordine, chiamato vita, che dal 1960 fa da titolo ai primi volumi del mio zibaldone, abbracciando il panorama del tempo, del mondo riflesso dalla quotidianità e dall’archivio di famiglia.
Fra il 1917 e il 1920 (anno in cui iniziò un appassionato carteggio con Titomanlio) Frida, scampata col padre Edward (Uzwil 1861 - Catania 1926) e le sorelle Nadine e Vera alle fiamme della rivoluzione bolscevica (fuggirono separatamente per un freddo calcolo di


probabilità di sopravvivenza), cercava in Italia lavoro e un luogo dal clima giovevole alla salute del genitore. Lasciata la Svizzera scelsero Catania dove Titom e Frida si sposarono l’11 maggio 1922; in ottobre nacque Igor. 
Il vulcanico figlio di Giuseppa Frontini, dopo la grande guerra trascorsa in prigionia trovò una compagna straordinaria, ma l’alterna felicità durò sino al 16 luglio 1932. 
In quell’arco di tempo maturò un’intensa, frenetica attività letteraria dedicata ai giovani; basterà citare il romanzo Naticchia: storia di un ragazzo qualunque (1921), Farfalle: rivista mensile per ragazzi e giovinette (1923-1924), cui collaborarono anche "Frida Eduardowna" (racconti) e l’ingegnere "nonno Eduardo" (botanica, astronomia, tecnica), infine la commedia Pierrot sui tetti messa in scena a Roma il 18 febbraio 1929 da Anton Giulio Bragaglia per il Teatro degli Indipendenti.
Con impegno e talento Frida si divise tra la famiglia e l’insegnamento al Regio Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali, riuscendo a rifarsi una vita senza rimpiangere la bella casa di Mosca, già abitata dal commediografo Andreieff, e la dacia di Butovo. 
Molto della sua vita resta da scoprire nelle lettere e nei diari scritti in russo, tedesco, italiano, nei ricami.
La dolcezza del carattere, il profondo senso di umanità, la pazienza e la disponibilità generosa verso il prossimo le conquistarono l’affetto di cognati, amici, vicini. Dalle loro malinconiche parole, scaldate dal conforto di bei ricordi, udii bambino rievocare consuetudini della vita quotidiana come l’accoglienza russa dell’ospite con pane e sale, il rito del tè prelevato da una scatola speciale e preparato con l’acqua del samovar che Titomanlio usò finché visse.
Che l’anima sia immortale ce lo dice la ragione meglio della fede, a patto che sappia quantificare la propria inadeguatezza come unità di misura dell’universo e riconoscere che, dopo millenni di sforzi speculativi, il pensiero immaginario non può generare alcuna sensazione o visione capace di rappresentare l’infinito. All’immortalità della propria anima Elfride credette fermamente e poco prima di morire lo disse al marito: "sarò sempre con te”. Nacque allora un evocativo saluto consolatore che accreditava la reale onnipresenza del suo spirito accanto a Titom, Igor, Myriam, Mirco, oggi riuniti in un abbraccio. Questo saluto, "con te”, verbale e scritto, entrò nel lessico familiare ed anch’io lo udii e ne fui partecipe.

**Reality