Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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mercoledì 6 febbraio 2013

Federico De Roberto da ragazzo. (doc.1876/1878 inedito)

Ben pochi sanno e ben pochi hanno avuto l'opportunità di vedere, ciò che di seguito pubblicherò.
Per fortuna o per "magnetismo" ho avuto il privilegio di poter visionare gli "ultimi" documenti di collezione privata, riguardanti De Roberto. . Lascio ai più titolati, l'eventuale giudizio di questi scritti giovanili. 1876-1878.


per ingrandire, cliccare sulla immagine.




segue, tra i tanti visionati, lo scritto "l'abitabilità della luna" di De Roberto.
Inserito solo per il titolo, simpatico e bizzarro.









collezione privata.

Altro:

La Morte di Giovanni Verga - di Federico De Roberto









lunedì 9 aprile 2012

"La Morte di Giovanni Verga" - di Federico De Roberto 1922

La Lettura - Rivista mensile del Corriere della Sera 1922
  

Il Maestro non si era sentito così bene come negli ultimi tempi, come nell'ultimo giorno.
I disturbi, le sofferenze, le oscure minacce che gli avevano fatto dire più volte: «— La vita mi è di peso», parevano cessati. Si lagnava soltanto del freddo di questo crudo inverno. Il caminetto dove bruciavano i tronchi morti e i rami potati dei suoi cedri e dei suoi olivi di Nuova luce non riusciva a riscaldare la troppo vasta camera. Voleva provvedersi, di stufe elettriche, e ad un amico venuto a trovarlo l'ultima volta aveva fatto provare quelle mandate da un fornitore. Troppo piccole, neanche in due bastavano ad addolcire la temperatura.
— Balocchi —, aveva detto; — buone tutt'al più sulla scrivania, per lavorare.
— Per lavorare? — ripeté l'amico, con la luce d'una speranza, negli occhi.
Egli sorrise, enimmaticamente. '
Prima di uscir di casa parlò d'affari. La crisi degli agrumi, gravissima all'inizio della campagna, si mitigava alquanto : i compratori avevano offerto un prezzo non rovinoso; già si procedeva al primo raccolto dei frutti d'oro. Un'incresciosa questione di proprietà letteraria s'avviava al componimento. Di uno scrittore francese che poco prima gli aveva preannunziato un articolo sul Temps per proporre che gli fosse conferito il premio Nobel, era senza notizie; del resto, non credeva al premio, e come tutte le volte che si parlava delle cose sue lasciò morire il discorso. Poi parlò della crisi politica, disse con parole roventi il suo sdegno contro tutti i responsabili dell'avvilimento della nazione dopo la prova terribile gloriosamente superata,. Manifestò il proponimento di recarsi a Roma per assistere ancora una volta ai lavori del Senato, e ricusò il consiglio di aspettare la stagione più mite.
Parlò anche d'arte e, raro caso, di poesia.
Il  poeta dei Vinti, non aveva mai scritto versi, né gustava molto quelli degli altri. Come sen-timento, la disperazione di Leopardi riusciva cordialmente antipatica al credente nella vita, al creatore di vite.
—  Foscolo, sì... — E ad un tratto, dalle latebre della memoria non più sicura, già involta nelle nebbie della sclerosi, dalle labbra che non avevano più recitato versi dopo i remotissimi anni della scuola, sgorgarono limpidi, come letti, come dettati nell'estro, con voce forte, con larghi gesti, questi dei Sepolcri:
— Il navigante 
Che veleggiò quel mar sotto l'Eubea, 
Vedea per l'ampia oscurità scintille 
Balenar d'elmi e di cozzanti brandi, 
Fumar le pire ìgneo vapor, corrusche 
D'armi ferree vedea larve guerriere 
Cercar la pugna; e all'orror de' notturni 
Silenzii si spandea lungo ne' campi 
Di falangi un tumulto, e un suon di tube,   
E un incalzar di cavalli accorrenti 
Scalpitanti sugli elmi a'.moribondi,  
E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

Le Parche cantavano in quel momento il canto suo ultimo:  Clold cessava di filare e Atropo già brandiva le affilate cesoie..,.
Ma, presso a spegnersi, la lampada mandava, un più vivo guizzo. Per le scale, nelle vie, il passo era fermo; anzi il saldo braccio del gran Vecchio si offriva al braccio del meno vecchio ma anche meno valido amico.
—  Il morto regge il vivo!.. — e la voce rideva, nel ripetere la celia paesana.
Spirito e fibra erano investiti da una nuova onda di vita. D'ordinario, giunto dinanzi al suo Circolo, egli vi si fermava, già stanco, per tirare il fiato : quella sera volle proseguire fino al negozio degli apparecchi elettrici; poi, disassuefatto dai caffè, ebbe voglia di prendere qualche cosa — « Non importa che cosa! » — pur di ricordare altri tempi, i tempi di Milano, i convegni con Boito, con Giacosa, con Capuana, con Luigi Gualdo, con Giovanni Pozza, con tutti gli amici perduti.
L'ultimo giorno, tra i suoi, al Circolo, fu presente a se stesso come non mai; rincasando, passando a salutare la figlia d'adozione, nel quartierino del primo piano, scherzò e rise, giovanilmente. Cenò solo, come d'ordinario, nel suo grande quartiere del piano superiore; dopo cena domandò al cameriere se avesse posto in ordine ogni cosa; alla risposta, affermativa, soggiunse :
— Puoi andare a riposare — Furono le sue ultime parole.
Si preparava a riposare egli stesso. Diede alla sua persona le cure consuete e si chiuse in camera, secondo l'antica, consuetudine. Prese dalla scrivania e portò sul comodino l'ultimo libro ricevuto in dono: il Natio borgo selvaggio di Ferdinando Paolieri, scrittore a cui portava moltissima stima; e sul volume dispose le lenti divenutegli necessarie, da anni a, cagione del  presbitismo.   Caricata la sveglia,  e l'orologio da tasca, cominciò a svestirsi, liberò il braccio destro dalla manica della giacchetta. La folgore lo percosse in quel punto,  sulla fronte.
Il colpo mortale non riuscì ad abbatterlo, nel primo momento. Il primo sintomo, la, nausea, lo sbocco di vomito, lo colse in piedi, contro lo stipite dell'uscio. Poi cadde, ma non di peso, perché nessun rumore fu udito, nessuna lesione fu riscontrata sul corpo. Si piegò, si distese lentamente, compostamente.
E le ore della lunga notte invernale cominciarono a scorrere, nella casa silenziosa, sul corpo immobile al nudo suolo, sotto la gelida luce della lampada, elettrica. Ne scorsero dieci, di quelle interminabili ore: dalle dieci della sera alle otto del mattino. I dottori affermano che la coscienza fu perduta fin dal primo momento. Giova crederlo; perché, se la coscienza restò desta e vigile, per tutte quelle ore, o per qualcuna, o per qualche attimo; se le labbra vollero chiamarle, e non poterono, se il braccio, volle tendersi e non poté, lo strazio dovette essere ineffabile — come quello che egli aveva provato un'altra volta, la prima volta che era caduto ai piedi del letto, anni addietro, e aveva voluto e non aveva potuto gridare aiuto.
« Teneva gli occhi fissi sulla figliuola, e accennava col capo... Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando... Gli occhi, tristi, s'eran fatti più dolci, e qualcosa gli, tremava sulle labbra...»."
Il Maestro non parlava, più, ma gli occhi, erano aperti, e la sua voce usciva, esce ancora, uscirà nei secoli dalle pagine del suo libro imperituro,
—Ti ho voluto bene anch'io... quanto ho potuto... come ho potuto... Quando uno fa quello che può... »,
Egli aveva fatto quanto era umanamente possibile, per queste creature del suo nome e del suo sangue. Trent'anmi addietro, nella piena maturità dell'ingeno, nel massimo fervore della produzione, il domani di Mastro don Gesualdo, mentre scriveva le prime pagine della Duchessa di Leyra, aveva chiuso il quaderno, riposta la cartella, lasciata arrugginire la penna, abbandonate Milano e Roma, per venire a far da padre ai nipotini due volte orfani, per badare alla loro educazione, per garantire i loro interessi. Fino all'ultimo giorno, a ottantadue anni, si era imposta la più rigida economia, si era privato di tante cose, anche necessarie, per amore di queste creature.
La figlia d'adozione gliel'ha, reso. È stata la prima, ad accorrere, la sola a soccorrerlo, durante la mattinata. È stata lei a sollevare da terra, accogliendo tutte le sue forze, il corpo rigido e greve; è stata lei a rendergli i più umili servigi, fino all'ultimo istante.
« Allora l'attirò a sé, lentamente, quasi esitando, guardandola fissa, e l'abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini... ».
La scienza dice che questi movimenti sono, semplici riflessi, dipendenti da fatti d'irritabilità corticale, quindi del tutto meccanici e inconsapevoli; che gli occhi non vedono, che l'anima non sente. L'amore si rifiuta di crederlo, ha fede che l'amore lo intenda e gli risponda.
La diagnosi è di emorragia cerebrale con paralisi totale dell'arto superiore destro e di entrambi gl'inferiori, con forte contrattura del braccio sinistro, abolizione dei riflessi pupillari, rilassamento dei muscoli facciali, impedimento della deglutizione e dei movimenti della lingua. La prognosi è nefasta: concede sol-tanto che questo stato si possa prolungare durante qualche giorno. Ma se egli non è rimasto ucciso sul colpo, se è sopravvissuto alle dieci ore di assideramento, non potrà ancora riaversi?... Non è una speranza, se resterà paralizzato nel corpo, privato delle facoltà più nobili, del pensiero e della parola. Se egli ode, se pensa, ripete certamente a se stesso ciò che ha sempre detto: che è meglio esser portato via di schianto, piuttosto che ricominciare a morire a poco a poco.
Le sanguisughe sono applicate sotto gli orecchi, la cuffia col ghiaccio è adattata, sul capo; si praticano le iniezioni di ergotina. Nessuna alterazione nei lineamenti, ancora: è sempre lui, il suo profilo da cammeo, il suo vivo sguardo. Impossibile credere che quegli occhi non vedano; impossibile osservare la prescrizione di non chiamarlo: tanto pare che distingua ed interroghi.
Preesisteva l'arterio-sclerosi di tutto il sistema, vascolare; ma se il cuore è vecchio, è ancora saldo. Il respiro è libero. Appena, un lieve arrossamento della fronte e delle guance rivela la congestione. Quando, occorre scoprire il suo corpo;, la mano ancora valida ricerca il lembo delle lenzuola, e stira quello della camicia, con un gesto di pudore. È anch'esso automatico?... Occorre tener ferma quella mano, che oppone una gran resistenza; anche la gamba paralizzata ha spesse contrazioni.
Ma verso sera questi movimenti si rallentano, le condizioni generali si aggravano. Il polso comincia ad essere aritmico, con ondulazioni sempre più larghe. Poi si riprende, va d'accordo col respiro. Nulla si può ancora prevedere, se non che passerà la notte.
All'alba del domani il parroco di Santa . Chiara gli dà l'Estrema unzione. Santa Chiara è la badia dove sua Madre adolescente visse tanti anni educanda; dove furono portati, morti, tutti i suoi cari. Con i ricordi della vita delle Clarisse narrati da sua Madre egli compose la Storia d'una Capinera. Dai balconi della sua casa, dal suo letto, egli ha visto durante più che mezzo secolo la facciata della chiesa, sull'altro lato della via, quasi dirimpetto. È stato sempre credente, sebbene non rigoroso osservante. Ogni mese, nel giorno della morte della Madre, ha fatto dire una messa. A Milano, quarant'anni addietro, un Venerdì Santo, un confratello lo vide entrare in chiesa e ne fu un poco stupito e gliene domandò il perché. Egli rispose:
—  Perché so dì far piacere a mia Madre. L'amico osservò :
— Ma tua Madre è a Catania, non lo sa, non ti vede:..
—  Non importa: la vedo io.
Di fianco al letto, sopra una losanga di velluto rosso, sono raggruppati i ritratti della Madre, del Padre, della sorella, dei fratelli, dei nipotini morti. Del Padre vi sono anche, nella stessa camera, due ritratti su tela, grandi al vero, una mezza figura, alquanto fredda, disegnata e colorita dopo la morte, e, d'un'al tra mano, più esperta, la sola testa appena abbozzata, ma piena di vita.
Il parroco, spettatore di tante agonie, assicura che si rimetterà. Ma con l'avanzarsi del nuovo giorno il viso si accende sempre più, il rilassamento dei muscoli faciali del lato destro aumenta. I movimenti sono quasi del tutto cessati, gli occhi non si aprono più; solo la mano sinistra si spinge, di tanto in tanto, chiusa e lenta come quella d'un bambino, verso la guancia. Poi anch'essa si ferma.
E tutti, intorno a lui, hanno le mani legate. Nulla resta da tentare. Non si può far altro che guardarlo, aspettando. A vespro l'aggravamento è più evidente; i dottori dicono che la crisi avverrà prima del nuovo giorno, che l'alba di domani rischiarerà la fredda salma.
Comincia l'ultima veglia, nella notte assiderata. Il respiro non è più libero, ha, le prime soste, seguite da rapide riprese. La temperatura sale al grado della febbre. Sotto la borsa   col ghiaccio la fronte s'imperla di sudore. La boc dischiusa s'inaridisce; per rinfrescarla, a quando a quando un pannolino inumidito è passato sulle labbra e sulla lingua. Il solo gesto è ora quello della mascella inferiore che s'abbassa un poco per poi rientrare nell'altra : e in questo movimento, più che nel candore delle chiome, più che nei solchi delle rughe, si rivela, la grande vecchiezza.
Mezzanotte. Ad uno ad uno tutti i rumori della via si vengono spegnendo, e nel silenzio crescente si comincia a udire il respiro affannoso. L'ansito aumenta d'ora in ora, è già il. rantolo tracheale previsto dai medici : profondo, cavernoso, come un sordo e chiuso bollore. L'inspirazione è più lunga, ma superficiale, in modo da sollevare il solo torace superiore. Il sudore è profuso. La lingua ingrossata e accortaciata, s'insinua fra le labbra vibranti, sembra che debba ostruirle e strozzarlo. La, saliva gorgoglia nella gola, colma la bocca, si riversa sulle guance. Non è tempo di raccoglierla con i batuffoli di cotone idrofilo, che altra ne sale e si spande.
Le veglianti s'inginocchiano e pregano.   
Le tre. Le quattro. La Morte non è puntuale al convegno. Il cuore palpita ancora, il sangue circola. Il polso, fattosi più piccolo, ridiventa frequente.
Soffocata dalla distanza, qualche rumore dì passo, qualche suono di voce vengono dal l'anticamera: sono i cronisti dei giornali e i messi delle pubbliche' autorità, che aspettano anch'essi. 
Ma non è l'ora. L'ora assegnata è trascorsa da un pezzo. Già sale qualche segno del 
risveglio,  dalla via, il cielo impallidisce; Santa Chiara suona a mattutino.                    
Il viso, è sempre più acceso, arso dalla febbre; più copioso il sudore e la bava, più serrati gli occhi. E il rantolo s'incupisce, empie la camera, s'ode dalle stanze attigue, opprime il petto e mozza il fiato ai circostanti.
È giorno; il primo raggio di sole indora il cornicione di Santa Chiara. La vita ferve nella via; ma le voci dei venditori ambulanti, il rotolare dei carri, il rombo dei tram, sono dominati dal rantolo atroce.
Le otto. Le nove. Da quando dura, questo rantolo? L'orologio non dice più nulla. Sembra, che il tempo si sia fermato. È oggi, o è ancora ieri?
 Una pausa: un'ansia, un tacito chiamare, un accorrere silenzioso. Ma il petto si gonfia ancora. Questo gran, cuore non vuol cessare di battere. Il cervello è invaso dal sangue, i polmoni sono imbevuti di siero, tutti i muscoli sono inerti, ma il cuore resiste, da solo: non si lascia sopraffare.
Resisterà ancora un altro giorno?
Le dieci. Un'altra pausa nel rantolo, meno breve della prima. Poi il travaglio dei fianchi e della fauci ricomincia. Un'altra pausa, più lunga, e un'altra ripresa. È già il respiro dei Cheynes-Stokes.
Ora tutti sono intorno al letto. Nessuno ha detto nulla, ma si è udito il passo lieve della Ineviabile. Liberato dall'inutile borsa, la testa si disegna in tutta la sua purezza, la fronte si modella in tutta la sua nobiltà.
Ancora una pausa. E ancora una ripresa. Il gorgoglio tracheale si affievolisce,  è come . un lento rompersi di grosse e rare bolle.
Le pause non si contano più. Dopo una delle più lunghe, tanto lunga, che sembra l'eterna, uno dei dottori, con le mani raccolte, fa un gesto, accenna, col capo di sì. Ma il respiro ricomincia, tenacemente.
A un tratto il torace è percorso da un moto di contrazione, i muscoli del dorso e dei lombi s'inarcano, l'occipite fa leva sul guanciale, come in un supremo tentativo di sollevamento, come per un'estrema resistenza da opporre ad un più violento assalto a corpo a corpo. Ma è un guizzo che si spegne. Il respiro si arresta: il sanitario trae l'orologio. Non è ancora l'ora precisa. C'è ancora una ripresa.
Le dieci e venti. Comincia l'immortalità.
                                                                 F. De Roberto.  

L'ultima istantanea di Giovanni Verga, dinnanzi al Circolo dell'Unione, 


articolo originale







domenica 25 marzo 2012

Federico De Roberto - Dura tu eterna, o Notte! - poesia

Dura tu eterna, o Notte!

Non alitar di vento, non voci: divino silenzio;
già l' Ombra nunziale tutte le cose cinge.

Le vegetali forme, immote nell'aria clemente,
posano anch'esse in braccio al sonno prestigioso.

Il salice argentino che sogna? Che sogna il nebbioso
ulivo, il rovo ardente, la folleggiante vite?

L'anima della pia Desdemona bianca tremante
erra d'intorno al salce, prega, sospira, geme.

Sere lunghe d'inverno, il Ceppo, le fiamme guizzanti,
gli urli dell'aquilone, i baci della neve

sogna l'ulivo; e il rovo un cuor lacerato che gronda
sangue, due rosse labbra, rosse di sangue umano.

Dazar felici amanti al rezzo di folti aranceti,
al carezzoso suono di flauti e di viole,

correr Fauni e Baccanti, disciolte le chiome, roventi
le fronti inghirlandate, vedono l'ebre viti.

E i monti secolari, e l'acque perenni, voraci
sepolcri di viventi, sognano anch'essi l'ere

chiuse senza ritorno, i tempi che l'uomo non visse,
l'albe del mondo, i primi lampi dell'esistenza.

E l'Anima turbata, oppressa, smarrita, perduta,
l'Anima vulnerata, l'Anima senza speme,

l'Anima senza pace or ecco s'acqueta, si placa:
la spasimata veglia tregua ha di sogni alfine.

Sogno! Visione! Ebbrezza! Finiti, dispersi i tormenti;
vinto è l'orrore, vinti i malefizii sono.

Giorni delle speranze ingenue, dei buoni pensieri,
giorni di pura fede, o tramontati giorni,

ecco: sorgete ancora; risorge il Passato, la santa
gioia dell'innocenza, ecco, fiorisce ancora.

Anima tenebrosa, la luce t'inonda; il sorriso
d'una miracolosa Anima sfolgorante

schiara la notte tua, ti trae dagli oscuri perigli,
nitidamente addita le vie della salute.

Tempo, t'arresta! Vita, trattieni il tuo corso fatale!
Sogno, non t'involare! Dura tu eterna, o Notte!

Non altitar di vento, non voci, non suoni, non moti:
alta, soave, sacra, mai più sperata Pace!

Ah! Già si sbianca il cielo; distrutto è l'incanto supremo:
fuggono le visioni, riede il dolor col sole.



domenica 4 marzo 2012

L'Eva eterna - di Federico De Roberto, Corriere della Sera - 19.6.1904 (femminismo)

 Il principe Karageorgevitch presenta al gran pubblico cosmopolita, traducendolo elegantemente in francese, il romanzo tedesco di Ernesto von Wolzogen intitolato Il terzo sesso (ed. Calmann Lévy). Una scrittrice italiana, Flavia Steno, pubblica un altro romanzo con un titolo diverso, ma di eguale significato: La nuova Eva (ed. Sandron). L'incontro è sintomatico. Il conflitto sessuale occupa talmente gli spiriti, che non bastano gli studi severi e le indagini positive: anche l'arte se ne mescola e vi cerca l'ispirazione. Fu già dato conto ultimamente in queste colonne di un buon numero di pubblicazioni scientifiche ; non sarà fuor di luogo dire qualche cosa di queste composizioni fantastiche, degne entrambe di non passare inosservate.
Il romanzo tedesco è particolarmente notevole per lo spirito satirico che vi è infuso. Nelle tre prime righe il prof. Giuseppe Reithmeyer dice a Clara di Fries: « Chiudi quel libro, Clara. Non è possibile andare avanti così. Ho una seria preghiera da rivolgerti : sposami! » E' il mondo alla rovescia. I due personaggi hanno contratto da tempo una libera unione, e non già là donna ne chiede ora all'uomo la sanzione legale, sociale, divina : l'uomo, anzi, supplica e scongiura la donna, la quale gli dà del « fossile » e lungamente gli oppone un ostinato rifiuto. Si piega da ultimo; ma il giorno delle nozze gl'invitati e lo sposo l'aspettano invano, nè sanno più dove trovarla, quando ella finalmente appare: studiando medicina, alla, vigilia di laurearsi, è andata all'ospedale e vi è rimasta mezza giornata per assistere ad un'importante operazione. « Si può sposarsi un giorno qualunque », dice tranquillamente, per giustificarsi ; « ma un'ovariotomia resa necessaria da un myxoìdcistoma multiloculare dell'ovaia destra non è cosa da trascurarsi... »

Il terzo sesso non è rappresentato solamente da lei : ne fanno parte anche le due sorelle Haider, che alla morte del padre hanno assunto la direzione della sua casa bancaria sotto la ditta: « Figlie di Maurizio Haider. » La maggiore, Ildegarda, ha giurato di non maritarsi, dandosi tutta al suo grave ufficio che disimpegna con una virile accortezza, la quale non le impedisce però di farsi portar via una discreta sammetta da un bel paio di baffi appartenenti ad un finto barone di Kerkove ; la, piccola Marta, è ancora un po' « vecchio stile », ma non riesce, a trovar marito, perchè gli uomini che, consentirebbe a sposare cercano la donna nuova, mentre viceversa ella ricusa, quelli che si contenterebbero di una signorina tutta all'antica. Un buon numero di altre superdonne, di esseri neutri, fondano un « Comitato di agitazione per la evoluzione della psicologia femminile ». La piccola Lilly di Robiceck, pittrice divorziata, non è ammessa a farne parte, perchè le femministe si struggono di gelosia vedendola, scatenare desideri e passioni nel sesso forte; ed ella stessa è desolatissima di possedere un musetto tale, che tutti i maschi le vanno dietro per le vie come altrettanti cagnolini inuzzoliti. Dalla tanta contrarietà, ella vorrebbe sfigurarsi col vetriolo; se avesse la fede, preferirebbe anche farsi monaca piuttosto che vedersi  attorno tanti spasimanti;   ma, un poco perché si sente perseguitata dall'invidia delle altre donne, un poco per altre più persuasive ragioni, modifica, alquanto le sue opinioni : accetta le offerte non disinteressate di alcuni buoni amici, i quali le spianano la via all'emancipazione per mezzo del lavoro, mettendole su un negozio di mode, col quale ella si vendica delle antiche compagne speculando sulla loro vanità. Le leggiadra modista fa veramente fortuna, nonostante un piccolo inconveniente che scandalizza alcune clienti retrograde: la nascita d'un figliuola, che non si sa precisamente a quale dei molti protettori di lei debba i suoi giorni;  ma le donne nuove, appunto al lora, restituiscono tutta la loro stima alla rivale di un tempo divenuta ora loro sarta preziosa, e fanno del piccolino un  simbolo:   il  «  Figlio nuovo...   » 

Non bisogna chiedere verosimiglianza di avvenimenti, nè logica di caratteri all'opera del Wolzogen. E' come si è detto, e come si può vedere da questi accenni, una satira, in alcuni luoghi molto felice e veramente gustosa;   talvolta un poco prolissa. E, principalmente, un pretesto per discutere la quistione del femminismo, intorno alla quale i vari attori enunziano opinioni tra il serio ed il faceto; questa, fra l'altre: che l'esempio di una insigne professo ressa di matematiche può essere addotto tanto opportunamente  contro la poca levatura  femminile, quanto quello di un vitello con cinque gambe o due teste contro   l'universalità dei vitelli   con   quattro gambe ed una testa sola. Alla quale affermazione di un anti-femminista, una femminista risponde che con un analogo ragionamento si potrebbe dimostrare esser l'uomo, e non la donna, il prodotto inferiore della natura: perché, mentre si sono date, per l'appunto, e si danno ancora donne eminenti, sia pure per effetto di una specie di mostruosità, nel campo intellettuale riservato all'uomo, non si è ancora vi sto, reciprocamente, nessun uomo partorire figliuoli. E tra queste ed altrettali burle, l'autore ha cura di far significare quella che reputa verità vere, principalissima quella messa in  bocca al bell'Arnolfo Rau,  letterato incompreso da tutti,  fuorché dalla modista che lo idoleggia nonostante i continui tra dimenti che egli le infligge e addirittura le confida. La verità esposta da cotesto superuomo è che le leggi fisiche regolatrici dei rapporti dei sessi non sono cambiate da che mondo è mondo, nè potranno cambiar mai, mentre invece i rapporti morali si so no venuti modificando e si modificano sempre più : da questa contraddizione nascono gl'inconvenienti, i disagi e i danni che tuttodì si lamentano. E il con cetto dell'autore è quindi che la donna nuova, l'uomo nuovo, il figlio nuovo, le mode nuove, i nuovi costumi e in una parola tutte le novità sono ridicole e pericolose.

Alla dimostrazione di una tesi attende anche Flavia Steno, ma non già tra le bizzarre invenzioni della satira.  Il suo romanzo vuol essere ed è opera di osservazione; ad esso si può adattare la definizione che i Goncourt  diedero di questa forma  d'arte: « una storia che avrebbe potuto essere ». La prima parte, segnatamente, è la fedele, vivace, evidente rappresentazione, della vita che gli studenti, cosmo politi conducono in  Isvizzera, nelle pensioni dove amicizie, fratellanze ed amori s'annodano con faci lità e rapidità ignote altrove. Fra le molte figure che popolano la scena emerge quella di Violetta Adriani, disgraziata fanciulla senza madre, quasi abban donata dal padre, avversata da una zia, datasi, quin di, per assicurarsi l'avvenire, agli studi severi. Men tre costei aspetta di conseguire la laurea in lettere, a Zurigo, conosce nella pensione Staubli, fra tanti singolari tipi di giovanette emancipate e di giovanotti professanti le più libere idee, il ginevrino Mau-rizio Boissy, il quale frequenta i corsi d'ingegneria e tanto s'innamora di lei quanto ella stessa è da lui innamorata.   Accade ciò  che troppo  facilmente e quasi necessariamente suole accadere quando mancano i freni morali:  la donna amante non resiste alle  sollecitazioni   dell'uomo  ardente:   una libera unione è contratta, che presto però entrambi si propongono di mutare in legittime nozze.  Se non che, l'impazienza di guadagnare danaro spinge il giovane a tralasciare gli studi per ingolfarsi, con un losco affarista, in una serie di sciagurate operazioni commerciali, nelle quali va rapidamente perduto il capitaluccio di Violetta. Costretto a cercare un impiego, l'infingardo Maurizio ricusa tutti quelli che gli si offrono, e invece di sopportare virilmente la miseria, come la sua dolce e forte compagna, va dietro alle chimere e s'incaponisce a seguire in America, contro le preghiere e gli scongiuri di Violetta, il tentatore che è stato causa della loro rovina. La poveretta  resta  sola,   abbandonata, avvilita, senza mezzi, senza speranze. Un miracolo compito dalla nativa sua energia e dalla mutata fortuna, la trae improvvisamente dal baratro:   ella comincia a cogliere i frutti dell'alto ingegno e dei lunghi studi nel giornalismo.
Anche questa seconda parte ha scene efficaci, pagine trascritte dal vero. Si sente un poco l'artifizio nella terza, dove vediamo ad un tratto Violetta celebre, invidiata, trionfante, grazie all'amicizia di una ricchissima straniera che le ha dato i mezzi di fondare in Italia un gran giornale, la Nuova Eva, col quale ella diffonde, aiutata da sole redattrici, reporteresses ed impiegate del suo sesso, il verbo femminista. Ma qui la favola non c'importa più tanto, quanto ci preme la sua moralità.
E senza dubbio Violetta, per la forza dell'animo e dell'intelletto, per l'esperienza della vita e del dolore, è sincera come poche altre quando reclama che la legge e la morale siano, assolutamente eguali per l'uomo e per la donna; che alla donna siano dischiuse tutte le vie e consentite tutte le attività; che le sia, anche accordato di partecipate al governo dello Stato e del Comune; che siano proclamati la rispettabilità del libero amore, il divorzio per volontà di un solo coniuge, la protezione della maternità naturale, la, ricerca della paternità. Tanto più ella merita d'essere ascoltata, quanto che non è, come quasi tutte le sue compagne, una viragine, una creatura dissessuata, una profanatrice della femminilità; è anzi una donna vera, un essere vibrante di sentimento, che non si drappeggia, che non mente, che non professa l'inumano odio dell'uomo, che ha amato — e che ama, ancora una volta. Nel suo trionfo, infatti, qualche cosa le è mancato; ma l'amore concepito per Corrado Valle colma finalmente il vuoto del suo cuore. Anch'egli l'ama, e se non fosse il passato di lei, che ella naturalmente non gli nasconde, non esiterebbe a sposarla. Ma poichè è libera di sè, e fautrice della libera unione, egli non meno naturalmente le propone d'unirsi liberamente,.. Che fare ora ella? Che dovrebbe fare?... Ella riconosce che Corrado Valle obbedisce ai criteri imperanti nel mondo, alla logica della loro situazione; ma l'emancipata, la femminista, si ribella ad un tratto. Ella non vuole più il libero amore del quale ha predicato la dignità: vuol essere sposata secondo le leggi un tempo sprezzate. E nondimeno sa e sente che Corrado non ha torto di rifiutarsi. Non sola-mente ella conviene d'essersi posta fuor delle leggi; ma avverte ora, improvvisamente, che esse non sono tutte false, che qualche cosa di lei fu irreparabilmente perduta quando si diede a Maurizio Boissy, che nella sua carne e nella sua anima il primo amante a cui appartenne impresse qualche cosa d'incancellabile, che tutte le gioie possibili do-po quel primo errore sono frutti di cenere... Ella si è ribellata contro quella che ha giudicata ingiustizia ed iniquità dell'opinione, fabbricata e diffusa dagli uomini; ne ha bollato con parole di fuoco l'odioso egoismo; ed ora s'avvede che la morale del mondo non è creata dall'egoismo maschile, che si impone invece agli uomini ed alle donne, che dipende da fatalità naturali, ineluttabili. Gli uomini potrebbero bensì essere generosi, e perdonare. Non potrà perdonarla Corrado? L'amore non potrà compiere il miracolo dì fargli dimenticare la colpa di lei? Un miracola simile non si è talvolta compito? Ma, intanto che ella lo aspetta, ecco compiersene un altro. Ella stessa dimentica e repudia improvvisamente le sue dottrine, pubblicamente, dinanzi alle compagne scandalizzate. Tutte queste collaboratrici già da lei stimate ed amate, le sembrano ora, alla luce della passione divampante nel suo cuore, creature di gelo, involucri senz'anima, non donne, non amanti, non madri; e in un impetuoso bisogno dì sagrifizio e d'immolazione nel quale tutta la sua femminilità trabocca, ella dà a Corrado la gloria faticosamente acquistata, l'ambizione nobilmente nutrita, l'avvenire ardentemente sognato, tutta se stessa, anima e corpo, senza patti, come egli vuole...

L'altro giorno la provetta Neera conveniva con molti pensatori nell'opporsi alla teoria dell'emancipazione; oggi un'altra scrittrice, esordiente, ma già padrona di molti segreti dell'arte, ci conduce con singolare abilità, dopo averci fatto intravvedere una conclusione prettamente femminista, alla stessa moralità significata dall'umorista tedesco, autore del Terzo sesso. Quella che pareva e si diceva ed aveva ragione di essere la donna moderna, l'Eva novissima, si rivela ad un tratto, per l'immortale virtù dell'amore, l'Eva antica ed eterna.
                             F. de Roberto.

domenica 12 febbraio 2012

L'osservatorio Etneo, di Federico De Roberto - 1880

Rivista scientifico industriale 30.4.1880 con autografo di F. D.

* Copia della rivista appartenuta a Federico De Roberto

lunedì 30 gennaio 2012

POESIA BARBARA a Sant' Agata - Don Chisciotte 1881


La Campana non gridi allo scandalo. Di barbaro in questa poesia non c'è che il metro; del resto le intenzioni sono delle più ortodosse.
Essa si trova inserita nel libro che porta per titolo: La poesia barbara nei secoli XV e XVI di Giosuè Cardacci. È dovuta alla penna, come si dice in istile giornalistico, di Leonardo Orlandini, accademico degli Accesi di Palermo. Ricorrendo la festa della Patrona catanese, abbiamo creduto di far cosa grata ai nostri lettori, mettendo loro sottocchi questa curiosità letteraria.
Ecco la poesia:

ALLA BEATA AGATA

De la fervente de' divini amori, 
Cui nè minacce, cui nè crudo scempio 
Torse dal camin vero de le stelle, 
Il coro canti.

D' Agata canti valorosa e saggia 
Il coro nostro. S' odano le voci 
Or da que' puri luminosi et almi 
Cori celesti.
         
Vint' ha sè stessa e di  lusinghe fitte 
Mondo fallace, ed animosa ha vinto 
Drago superbo, insidioso e fiero 
Al seme umano

Svelse la mamma duro ferro d' ella, 
Tal che poi lieta merito in prigione 
Dal divo vecchio e venerando aver la 
Mamma celeste.

Spense le fiamme lieta e tutt'umile; 
E furo morti i più diletti e fidi 
Del tiranno empio; ove stupì tremando 
Catania tutta.

Diva celeste, che la patria nostra 
Rend' onorata, o glorioso spirto, 
Prega tu 'l sommo re, la tua Triquetra 
Scorga benigno.

Agata, or mira da le stelle, e vieni, 
Agata, or lieta da i superni regni, 
E teco il coro de gli eletti spirti 
A la tua festa.


giovedì 24 novembre 2011

LE FESTE BELLINIANE [15 ottobre 1876] di Federico De Roberto




(Nostra Corrispondenza).
Catania, 26 settembre. Da un mese Catania è in uno stato anormale, ognuno si sente in dovere di adoperarsi per ricevere degnamente il grande concittadino, e tutti si sono adoperati tanto che per la ristrettezza del tempo si sono fatti, miracoli. Il 21 tutto era pronto. I treni e i piroscafi provenienti da tutte le direzioni versavano a migliaia i forestieri, e la folla curiosa circolava per le vie della città adorna di un infinito numero di bandiere nazionali e di quelle di tutte le nazioni del mondo. Il 22 l'accorrenza dei forestieri aumentò ancora. Tutti i balconi erano parati a festa, sui muri, delle vie si vedevano le immagini di Vincenzo Bellini circondate da ghirlande e festoni di fiori, e su tutte le bocche risuonava il suo nome; era un vero entusiasmo.
L'arrivo delle ceneri era fissato per le sei; le vetture versavano i curiosi al suolo, alla Piazza dei Martiri e alla Stazione.
Tutti i bastimenti erano pavesati a festa. Gli occhi erano rivolti a quell' angolo di terra ove doveva apparire la squadra; imperocché il ministro di agricoltura industria e commercio aveva promesso al Municipio che insieme al Guiscardo che doveva portare le ossa di Bel lini, sarebbe venuta la squadra che era a Taranto.
Alle 4 pom. Lasta di prua d'una nave spuntava dalla terra,  tutti i cuori palpitarono; era il Guiscardo. L'annunzio corse in un baleno per la città. I due colpi di cannone che si tirarono da terra, ebbero un' eco sulla spiaggia opposta e in tutti cuori. Ma la delusa aspettativa della squadra produsse una cattiva impressione.
Ancora mancava molto tempo all' ora stabilita, ed il Guiscardo si avanzava lentissimamente. Elle 5 ore meno pochi minuti la corvetta era all'altezza della lanterna. Allora incominciarono le salve. Era il grido di gioia che Catania emetteva ricevendo il figlio suo; era il saluto che gli inviava. - La corvetta rispose alle salve, avvolgendosi nel denso fumo dei suoi cannoni. A regolari intervalli brillava un fuoco, e dopo un 12 secondi si sentiva il lontano tonar del bronzo. Era ancora distante più di 4 chilometri. La rotta era al sud, poi fu portata a sud-ovest. Si seguitò così fino a che arrivò nella direzione del molo vecchio. Allora si avanzò nella direzione del porto ; il quale cominciava a coprirsi di barchette che andavano all'incontro della corvetta e poi le tenevano dietro. Intanto seguitava il cannoneggiamento da terra. Allorquando la nave imboccò il porto si udì un batter di mani fragoroso, i cappelli si abbassarono ed i fazzoletti sventolarono. I membri della Commissione erano raccolti sul casseretto insieme cogli uffiziali di bordo e salutarono la folla stipata alla lanterna, al molo, sui palchi ,  alle   finestre e dentro le barche.
Alle 5 1/2 il Guiscardo gettò l'ancora. Finirono le salve, ma il batter delle palme continuò più fragoroso. Appena il Guiscardo si fermò, la banda intuonò l'inno reale e le altre bande seguitarono i loro concerti.
Intanto annottava. Si cominciò ad accendere i lumi. In 5 minuti il mare fu coperto di punti rossi vagolanti. Alle 6 ore e 10 si accesero i fuochi di bengala alla lanterna. Grandi fuochi di legna brillarono sulla costa e dall' alto del Salvatore, i razzi multicolori solcavano l'aere, le granate scoppiarono e i mortaletti aggiunsero il loro fragore all'incantevole scena. Il Messaggiere, avviso della R. Marina, fu illuminato a fuochi di bengala, e lo stesso Guiscardo. Poi a poco a poco i fuochi si spensero, le barche rimisero a terra i curiosi e la folla sgombrò il porto per gettarsi nelle vie.
L'illuminazione di queste era magnifica, tutte la case splendevano I giardini Pacini e Bellini ridondavano di luce, le bandiere vi sventolavano e le bande vi intrattenevano la gente con la musica di Bellini. In Piazza degli Studi era eretto un palco, sul quale fu scoperto un trasparente del prof. Rapisardi, rappresentante l'apoteosi di Bellini: gruppo di angeli che portano Bellini in cielo, e la melodia piangente che fugge. Su quel palco si tennero concerti vocali e strumentali, l'ultimo dei quali fu l'apoteosi di Bellini, scena drammatica posta in musica dal maestro Pacini.
Per finir la serata si illuminò a fuochi di bengala la via Vittorio Emanuele, alle cui estremità si videro apparire una grande lira ed un arco di trionfo.
Ma se la festa era finita, la gente voleva assistere allo sbarco delle ceneri, e muta si portò al porto. La barca funeraria fu staccata da terra e il feretro fu posto nella carrozza dell'ex S. P. Q. C, che si mosse seguita dalla folla che gridava : Evviva Bellini ! — Alla Porta Uzeda si intesero le grida di: Abbasso i cavalli! a noi Bellini! Dalla Porta Uzeda alla Porta Aci le grida raddoppiarono: Staccate! Via i cavalli! Ai catanesi Bellini! Evviva Bellini! La carrozza non potè andare più innanzi ; si staccarono i cavalli, s'intese un immenso grido , la gente si precipitò al timone. Fino alla piazza del Borgo non s'intesero altre grida che: Evviva Bellini! e fra esse: Viva la Francia! Viva Parigi e Catania! Mani frenetiche agitavano i cappelli ed i fazzoletti, la gente veniva ai balconi, le finestre si illuminavano. Fu una vera marcia trionfale. Alle 2 la carrozza arrivava al Borgo, ed il feretro fu esposto nella cappella ardente.
Il domani, alle ore 10 e 1/2, le reliquie di Bellini furono  solennemente   consegnate  al. 
Sindaco e alla Giunta municipale.                              
- Tutte le deputazioni delle associazioni citta- dine, nazionali ed estere; le rappresentanze dei corpi scientifici ed artistici ; il rappresentante della R. Casa, generale de Sonnaz, ecc., ecc., si adunarono alle 11 e 1/2 al Palazzo di Città. Il professore Ardizzoni lesse un discorso che fu applauditissìmo.
Alle 3 tutte le deputazioni e rappresentanze, la  milizia,  l'ufficialità  dell'esercito, lo  stato maggiore delle navi il « Guiscardo » ed il Messaggiere arrivarono alla piazza del Borgo, a cui fu dato il nome di Piazza Bellini. Alle 3 e 3/4 un sarcofago di ebano con lavori in argento fu    posto sopra un carro a tre ordini. Il primo era    una specie di grande biga, sostenuta da quattro    
ruote eguali. Sul basamento davanti era posta la statua della Melodia,  di dietro un trofeo di     bandiere delle nazioni e città ove Bellini colse    gli allori.  Dal primo basamento si  elevava il secondo ordine coperto da una coltre di velluto nero con il nome di Bellini ricamato in argento.     La  coltre era sostenuta da festoni appesi ai    colli di quattro cigni, posti agli angoli superiori del secondo, basamento. Il terzo ordine era composto di dieci cariatidi rappresentanti gli spartiti di  Bellini e sostenenti  una barella su  cui era il sarcofago. Dopo alcuni tentennamenti di quest'ultimo  si dovette  rafforzare la barella; un' altra fermata si fece sotto l'arco di trionfo, eretto sulla piazza per tirarne la fotografia. Infine il corteo sì pose in moto. Lo aprivano un pelottone  di carabinieri a cavallo, seguivano i chierici e le rappresentanze dell'Istituto nautico, dell'Università, della Società dei figli dell'Etna, figli  del  lavoro, del Circolo dei cittadini, del Circolo degli operai, dell'Accademia  gioenia, della  Società  artistico-musicale, ecc.;  in  fine un  battaglione di   linea   con   musica e bandiera. Ai lati del carro tirato da tre quadriglie di cavalli, guidate a   mano  da   valletti    in  costume  del secolo XIV, due  gonfalonieri  portavano i gonfaloni della città. Dietro il carro veniva la famiglia di Bellini, cioè il fratello, la sorella ed un nipote; il sindaco, il prefetto, il rappresentante della R. Casa, l'uffizialità dell'esercito, il corpo universitario, giudiziario e consolare, i rappresentanti del Senato e del Parlamento, i senatori e i deputati, i comandanti delle navi, gli uffiziali della R. Marina, i decorati degli ordini di Savoia, SS. Maurizio e Lazzaro, Corona d'Italia, i sindaci invitati ecc., ecc.
Veniva dopo un secondo battaglione con musica, un'altra banda ed una compagnia di fanteria di marina.
Durante il trasporto le bande suonavano marcie funebri. Dai balconi piovevano i fiorì, i mazzi, le corone, i sonetti. Alle 6 il carro giunse alla Cattedrale, sul cui frontone in una coltre nera era scritto;
Questa basilica — ove dormono dimenticate — le ossa di tanti re — diventerà questo giorno famosa — per la tomba — di — Vincenzo Bellini.(di M. R.)
Il feretro fu portato nella chiesa che era tappezzata, di velluto nero, dalle arcate pendevano cortine di velo nero, l'abside era occupato da un palco ove 200 ragazzi cantarono uno stupendo coro del maestro Coppola. Il feretro fu posto sopra un catafalco a due ordini. Il primo poggiava sopra una scala di tre gradini, era tappezzato di mortella e cipresso che disegnavano delle arcate gotiche occupate da genii in argento. Il secondo ordine era tappezzato di velluto nero con trofei musicali, in argento. Su di esso fu posto il feretro coperto da una coltre di raso bianco con ricami in oro. Nei tripodi di bronzo ardeva l'incenso, mentre tutta la chiesa era illuminata.
Quella sera, al giardino Bellini, ove era accorsa una folla immensa, si suonarono pezzi di Bellini accolti da fragorosi e ripetuti applausi.
La domenica, 24, la chiesa era trasformata in cappella ardente. Con assistenza dell'arcivescovo e del rappresentante la R. Casa si cantò la gran messa da Requiem del maestro Coppola, diretta da lui medesimo. La messa è veramente grande. I canti funebri e celestiali vi abbondano, i cori sono stupendi; e tutto ciò, unito ai motivi grandiosi dell' Agnus Dei' e del Miserere, fa un insieme degno di chi la scrisse e di quello a cui è diretta.
Fu poi discoperto il monumento sepolcrale, opera dello scultore Tassara, composto d'un basamento in cui sarà incastrato un bassorilievo rappresentante una scena della Norma. Sul basamento è un'urna, su cui il Genio della Melodia depone una corona. Il tutto è sormontato da un'arcata che finisce con una croce a braccia uguali, e sul cui fondo un bassorilievo rappresenta l'Apoteosi di Bellini. L'Apoteosi ed il Genio sono in gesso, non essendo arrivati quelli in marmo. Ai piedi del monumento è la tomba su cui sta scritto: 
Bellini.
La sera la banda di Messina intuonò l'aria del Pirata : Nel furor delle tempeste , che fu fatta ripetere ben otto volte.
Infine si illuminò a fuochi di bengala tutta la via Stesicore Etnea, e dissipato il fumo si lesse siili' arco di trionfo il nome di Bellini, che ornai riposa nella terra che lo vide nascere.
                                                                                                                                   
F. De Roberto.


[Anno III. - N. 51, 15 ottobre 1876]