Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

domenica 18 maggio 2014

Medio Evo - poemetto del 1898

 Medio Evo
di
Lucio Costanzo
Musiche di Francesco Paolo Frontini
Prima rappresentazione: Napoli, Teatro dei Fiorentini, 28/01/1899
cantato dall'artista Bice Carelli (figlia di Beniamino Carelli, uno dei grandi maestri di canto ultimo di scuola napoletana) - Concerto Picone



MEDIO EVO è una leggenda del giovane poeta Lucio Costanzo, musicata da un artista di nome caro ed illustre, il maestro Francesco Paolo Frontini.


Il fatto si svolge rapidamente in un prologo e cinque parti: Un principe , alla vigilia delle nozze, galoppa felicemente verso il castello della sua fanciulla. che lo aspetta ansiosamente dall'alto di una torre. Per l'amore, che sta per essere suggellato dal matrimonio, il cavaliere offre alla castellana una croce d'oro, che ebbe in ricordo dalla madre moribonda. Sin qui l'amore è fiorito serenamente nei due giovani cuori; ora la croce svela un orrendo mistero, i due amanti appassionati sono fratello e sorella, l'avvenire di gioia è sparito, la felicità distrutta; la giovane desolata piange disperatamente la morte del fratello e dell' amore. 

Il modo sintetico con cui il fatto è presentato, se da un canto impressiona di più per la evidenza e il rilievo dei punti più drammatici e importanti, dall'altro lascia in chi legge od ascolta, un desiderio giusto d'una rivelazione maggiore delle cause che, così com'è la poesia, nel sentimento e nell'armonia del verso, bisogna argomentare interamente dagli effetti. Una ragione potrebbe giustificare abbastanza questo passaggio rapido da un momento psichico all'altro, lasciando che il pubblico indovini tutto il resto: La ristrettezza imposta dalla forma in cui si è voluto presentar la leggenda, per dare all'arte una produzione nuova per la scuola musicale italiana.

Però il maestro, trovando un'eco appassionata e profonda nell'anima sua al sentimento della lirica, ha saputo svolgere con la musica le idee che il poeta è stato costretto ad accennare semplicemente. Così il prologo, in gran parte di genere descrittivo, dice dell'ansia del cavaliere e della foga dei cavalli, del pulpito della castellana e del frastuono dei ponti che si abbassano per fare entrar la cavalcata; e all'incontro dei due cuori, la melodia, con cambiamento di ritmo e di tempo rivela la dolce commozione di quelle anime che ambiscono l'amplesso supremo. Così, di parte in parte dai sogni gentili in cui lo spirito si slancia per delirio sublime di voluttà, alla gioia reale di amare e di sentirsi amati, la musica eccita e spiega l'incanto che soltanto le note sanno dare nel loro mistero soave. 

Venuto però il momento triste, la melodia è tutt'altra, è l'espressione del dolore che si svela ad un tratto nel la crudele semplicità del vero. Allora sorge spontaneo il rimpianto, e con felice trovata da artista, il Frontini fa ripetere la frase dei sogni dell'amore, quando al dolore presente si contrappongono, per antitesi naturale, i ricordi carissimi della felicità passata che non può rivivere più.

Il lavoro per la sua originalità, per l'eleganza del verso e l'elevatezza dei concetti melodici, è tale d'attirarsi, come ha fatto, la simpatia del pubblico. 

Celestino Mohor - Sancio Panza 1899 Catania




** Lettera di Jules Massenet 
"ho letto le vostre composizioni e vi dico con gran piacere la bellezza che v' ho ritrovato. Quella musica m'ha fatto desiderare di confidarvi le mie impressioni. Invidio le vostre opere e voi scrivete in una lingua musicale che io amo!"

PROLOGO - (la Cavalcata).

Galoppa nel bosco per l'aspro sentiero 
un principe ricco di gioie e beltà, 
ha cento scudieri ed un solo pensiero; 
la donna che sposa domani farà.

Ed ella da l'agile torre merlata
lo scopre e ne gli occhi le splende l'amor, 
e sprona col core la sua cavalcata 
che vola ed arriva con lieto furor.

Già calano i ponti, la sposa gentile 
riceve l'amore, felice così, 
l'amore che in vita le schiude l'aprile, 
l'amor che due cori in un palpito unì.


I - (Sogno d'amore).

IL cavalier che il cielo mi destina 
m' ha dedicato il cor, 
ha giurato ch' io son la sua regina 
ed egli è il mio signor.

T'amo, fulgente sol de la mia vita, 
piena per te d'incanti, 
t'amo ne la delizia indefinita 
dei baci inebrianti.

E allor che l'elsa invitta ti saprò 
fiera de la vittoria, 
qual genio de l'amor ti seguirò, 
gloria de la tua gloria !


II - (Addio al castello).

Addio, vecchio castello, in cui si svolse 
il fior del viver mio, 
un altro amore a l'amor tuo mi tolse, 
vecchio castello, addio!

Io ti lascio e ti piango ! le tue mura

sono tutto un passato; 
cangia per me la vita e la ventura 
ma non ti avrò scordato.

La tua memoria in me sempre fiorisce 
nel trionfo de l'amore, 
se ad ogni idea che se ne va finisce 

una parte di core !

III - (la Croce).

L'amore mio m' ha dato un'aurea croce 
in pegno de l'affetto, 
sussurrando dolcissimo la voce: -
« Portala sempre al petto.

« Sacro ricordo è de la madre mia 
« che morendo mi diè ; 
« porta inciso il mio nome e sempre sia 
« ricordo caro a te !  »  -

Io l'adoro ! chè a l'anima rivela 
di lui la gioventù, 
e l'amor suo che la mia vita anela 
per non lasciarlo più !


IV - (Mistero).

Croce fatal!... svelando il tuo passato 
il cor m' hai crocifisso, 
l'amore mio sublime e sventurato 
lanciando ne l'abisso!

La speranza tramonta.... ed il desìo 
cordoglio è divenuto.... 
Idol diletto, tu del padre mio 
tu sei figlio perduto!

Addio, sguardi d'amore, addio sorrisi, 
sorrisi che adorai!... 
Nel cor vi sento eternamente incisi 
ma non vi avrò più mai!


V - (Schianto !)

Morto !... morto !... per sempre irrigidito 
il braccio suo diventa.... 

il dolce suon de la voce è finito.... 
la sua pupilla è spenta!

Perchè ?... perchè cangiar sogno divino 
in desolato pianto ?
Perchè ?... perchè conquidere il destino 
il nostro amore santo ?

Ma tu non senti più la mia parola.... 
finì la nostra sorte!... 
Fratello mio!...or derelitta e sola 

resto a invocar la morte !

***

Come si vede, in sei gruppi di strofe, di dodici versi ciascuno è svolta una leggenda del contenuto eminentemente drammatico, e la cui tela avrebbe potuto servire ad un voluminoso romanzo o ad un lungo dramma.
Questo è secondo me il merito principale del componimento poetico del Sig. Costanzo, il quale ha saputo condensare in quei sei brevissimi canti uno straziante episodio d'amore condannato dal destino. E tanto più ammirevole ne riesce l' arte, quando si pensi che la forma non è narrativa impersonale, ma rappresenta lo sfogo di un'anima dapprima in giubilo, e poi in pena, la quale in piena dei suoi affetti canta e rivela lo strazio dei varii episodii del suo amore. Il componimento ha dunque la forma del monologo prescelta appunto per le esigenze della musica da sola. Solo ha forma narrativa impersonale il prologo il quale può a parer mio esser detto anche dalla stessa voce che da principio narra impersonalmente la corsa del cavaliere baldo di fede e di cuore, che corre ad impalmare la bella castellana, e quindi la stessa voce immedesimandosi nell'episodio, e fare suoi gli sfoghi dell'amorosa fidanzata sacrificata cosi crudelmente dalla fatale rivelazione d'una crocetta regalatale dal cavaliere.
Il compito adunque tanto difficile di condensare in poche strofe tutta la tela dell'episodio, e, sotto forma di monologo, è stato superato dal Costanzo tanto felicemente, da rendere propizia la via al maestro compositore.
I versi poi sono così scorrevoli, e la forma così sobria, la dizione cosi schietta, e scevra di ricercatezza che danno vita e colorito efficace ai vari episodi   ed   ai vari affetti   che vi si concatenano.
Su questi versi e su questa tela il nostro maestro F. P. Frontini ha intessuto le sue melodie, che pregustate in qualche salotto, hanno già fatto parlare tanto benevolmente la Stampa prima della loro pubblicazione. 
Corriere di Catania, Delta


 Medio Evo - La musica


Proseguendo la recensione del nuovo lavoro del M. Frontini, mi studierò di fornire ai lettori un sommario della parte musicale.


Il prologo si apre con un movimento caratteristico in re bemol edel solo pianoforte, in tempo 3|8 con qualche intermezzo di battute in sei; in modo che l'insieme ritmico riesce mimetico dello scalpitio di cavalli, questo movimento prosegue nei bassi ancora quando la  voce con un canto declamato svolge le prime due strofe.

L'intento artistico è raggiunto con tale perfezione che non solo si resta ammirati nella parte descrittiva del pianoforte, per la felice imitazione, ma nel successivo insieme col canto, si hanno contemporaneamente presenti le rappresentazioni della corsa del cavaliero, e quella  dei pensieri che lo dominano in quel momento, svolti dal canto.
Questa frase declamata esce quindi in una frase larga in tempo 6|agli ultimi due versi: L'amore che in vita le schiude l'aprile....  che ferma opportunamente l'attenzione sul concetto espresso dalle parole.
E il prologo viene chiuso con parecchie battute del solo pianoforte che torna al primo tempo e ritmo.

I - Sogno d'amore. 
Segue questa melodia nella quale la bella castellana in attesa del cavaliero dà sfogo alla piena dei suoi affetti e delle sue gioie con un canto appassionato, andante in la bemolle, mentre il basso riproduce, come eco lontana, la melodia che i cantini accompagnano con ritmo di crome sulle note acute.
E in questo canto il Frontini trasfonde tutta la passione che l'animo suo di artista ispirato gli suole suscitare, specialmente alla frase «t'amo fulgente sol... » che prorompe dopo una battuta di pausa,  con un  fa minima.
La melodia si chiude con un pianissimo alla parola «t'amo» ripetuta per due battute interrotte da una battuta di pausa, su due note decrescenti, e con sapiente monotonia d'accordo da tradurre insieme la dolcezza ineffabile di quella espressione.

II - Addio al castello.

La bella castellana sul punto di correre fra le braccia del suo amore, e di abbandonare il natio castello, gli rivolge l'ultimo addio con una melodia in sol minore che comincia sulla quarta del tono e precede con accompagnamento pesante di semiminime, come a denotare la tristezza di quel saluto; alla quale viene ancora accresciuto il colorito e l'espressione dalla frase: «Se ad ogni idea che se ne va, finisce - una parte di core... » tessuta su note basse del canto.

E qui la melodia, il cui stile comincia ad elevarsi, riproduce cosi fedelmente la dolce malinconia dell'abbandono, tanto nella tessitura della frase musicale come nel colorito del tono minore, che compenetra della situazione e commuove addirittura.

III - La croce. 
Qui l' amorosa. castellana ricorda il dono di una crocetta fattale dal suo fidanzato quale prezioso talismano.
E la melodia in do maggiore, con andamento largo, in tempo 2|4, con accompagnamento sincopato sul violino segue il concetto del misterioso regalo a cui un presentimento indeterminato, sovrasta quasi, da principio, per diminuire il godimento, finchè il canto erompe in una frase appassionata alle parole «Io l' adoro... (la croce)» in cui cangia il movimento dei bassi e cangia la tessitura, come per l' erompere di un affetto prepotente che vince ogni preoccupazione incosciente.

IV - Mistero. 
I sogni d'ebbrezza sono  distratti. La castellana ardente d' amore ha riconosciuto ,  con quella crocetta, che l' amante è suo fratello.
La rivelazione è preceduta da poche battute del pianoforte, con una frase ad andamento largo, la quale si ripete fra la prima e la seconda strofa; e la melodia s' apre in mi minore , con una tale tessitura di note che lo stile cessa di avere la caratteristica da sala, e raggiunge l' altezza di stile d' opera; quindi la melodia passa nel tono maggiore alla frase :  Addio Sguardi d' Amore che dà più segnatamente l' impronta di romanza d' Opera, a questa bella melodia della quale l' arte e l' ispirazione hanno fatto un piccolo capolavoro, il cui pregio è accresciuto da certe alterazioni di tono, e movimenti di biscrome nei bassi, di effetto originale.

V - Schianto ! 
L' amore è morto, violentemente ucciso dal Destino. Non resta che il pianto e la disperazione.
Il pianoforte preludia a solo, sotto cinque battute di pausa nel canto , lo schianto di quell'anima in pena, con accenni gravi fraseggiati e accompagna in la minore con note pesanti, tenute, un declamato su note basse. 
Succede un tempo di marcia funebre per pianoforte, mentre la voce piange un canto che sfiora l' altro alle parole « perchè ? perchè ?» e la frase del pianoforte con un crescendo molto sensibile va a risolvere in una frase straziante interrotta dalla voce che, come un singhiozzo grida: Morto ! . Indi ripetendosi la frase del« Sogno d' amore » in contrasto coll'attuale momento psicologico di suprema disperazione, con un tremulo nel violino, la voce a frasi spezzate canta:  Ma tu non senti più la mia parola » finchè finisce ancora, come eco di dolore, col grido ripetuto « Morto ! .

Celestino Mohor - Sancio Panza 1899  - Catania


Anche per orchestra
La partitura di Frontini prevede l'utilizzo di:
flauti, oboi, clarinetti in sib, fagotti
corni in Mi b, timpani, arpa, archi.




* Il poema "Medio Evo" musicato da Francesco Paolo Frontini è stato scritto da Lucio Costanzo, nato a Mineo nel 1872 da Giuseppe e da Marianna Cirrone. Autore di altri componimenti poetici, tra cui "Il Veltro" pubblicato da Giannotta editore di Catania. Il padre era uno dei più cari amici di Luigi Capuana che lui stesso conobbe e frequentò. Egli stesso era un bravo musicista e compose sopratutto dei valzer. Insegnò al Liceo Cutelli di Catania, ove morì negli anni 30, non avendo avuto figli dal matrimonio. Questa breve biografia è tratta da memorie di famiglia. Vincenzo G. Costanzo.

giovedì 8 maggio 2014

Saverlo Fiducia - Cantore di uomini e cose

Scrisse una volta Saverio Fiducia che pensando alla Catania dell'ultimo Ottocento, anche senza chiudere gli occhi, gli pareva di sognare. Chi lo conobbe, può credergli. Perché Catania l'amava veramente e più di tutti. E guai a chi osava disprezzarla o contraddirlo.

Saverio Fiducia, Catania 1878/1970 

Ricordava con precisione e minuzia ineguagliabili tutta la infinità di cose, di uomini, di avvenimenti visti e vissuti e per cui, fin da ragazzo, aveva sempre avuto sguardi non solo attenti, ma da vero innamorato. La sera del 31 maggio 1890 suo padre lo portò all'inaugurazione del Teatro Bellini. Non aveva ancora dodici anni e, dopo ottant'anni, Saverio Fiducia non aveva dimenticato nulla di quel sogno incantevole. Suo padre era impiegato al Comune. Naturale, quindi, che il piccolo Saverio vi si recasse spesso.                                 
Che cosa facesse di preciso non saprei dirlo. « Giovinetto lavoravo all'Archivio », ha lasciato scritto in certi suoi appunti di diario. Certo, l'amore per l'arte, per la storia, per i monumenti dovette germogliare in lui fra le montagne di carte, in mezzo agli austeri saloni e scaloni, ai monumentali archi e alle possenti colonne del sontuoso palazzo Vaccariniano. Perciò, quando nel 1944 lo incendiarono, Saverio Fiducia ne soffrì più di tutti. Aveva frequentato solo le tecniche, compagno e coetaneo del poeta Giovanni Formisano. Avrebbe poi voluto recarsi a studiare pittura a Napoli, o a Roma, o a Firenze. Non fu possibile. Si accontentò di frequentare la scuola serale di disegno « Figli del lavoro ». Vi insegnava, fra gli altri insegnanti, Francesco Toscano, disegnatore e acquarellista dell'architetto Carlo Sada. E Fiducia, alla fine dei quattro anni di corso, vinse il primo premio. In gioventù non solo disegnava, ma dipingeva bene. E chi, come il sottoscritto, ha potuto ammirare suoi disegni e dipinti, sa quello che dice. Frequentò anche una scuola di scherma e divenne amico di Agesilao Greco.
Mentre come giornalista Saverio Fiducia esordì nel 1923 con gli articoli apparsi in « Siciliana », la rivista fondata e diretta da Natale Scalia e poi, morto Scalia, dallo stesso Fiducia; la sua passione per il teatro, che s'era rivelata in lui quando ancora quinquenne il padre lo portava agli spettacoli di lirica e di prosa, aveva dato i primi frutti nel 1912 con due atti unici in lingua: « La nube » e « Il singhiozzo nell'alcova », che però non furono mai rappresentati. La prima affermazione l'ebbe con la commedia in dialetto « Notti senz'alba », la quale, presentata nel 1914 da Giovanni Grasso jr. al Politeama Garibaldi di Palermo, riscosse un gran successo. Il 2 luglio 1921 Grasso senior la fece trionfare anche al Lirico di Milano. E ciò nonostante, come ebbe a scrivere lo stesso Fiducia, fosse stata « stroncata da Renato Si-moni, plagiata da Ugo Betti e poi lodata da Saverio Procida ». Nel 1929 lo stesso Grasso senior ne farà una delle sue migliori interpretazioni in una sua serata d'onore al Rojal Theatre di New York.
Altri notevoli successi sono all'attivo di Saverio Fiducia: nel 1928 « Li du' surgivi » (Siracusa, interprete Turi Pandolfini); nel 1929 « Dòmini » (Palermo, interpreti Giovanni Grasso jr. e Virginia Balistrieri); nel 1930 « Vicolo delle Belle » in lingua e col commento musicale del maestro F. P. Frontini (Catania, interprete Turi Pandolfini).
A proposito de « Li du' surgivi », quando nel giugno del 1968 furono riprese nel nostro Teatro Rosina Anselmi con la regìa di Carmelo Molino, che suggerì a Fiducia, e Fiducia accettò, alcuni tagli e variazioni, il successo si rinnovò. Specialmente alla fine del secondo atto, quando escono di scena, muti e sotto lo scampanio festoso della vicina chiesa, i due vecchietti (massaru 'Nniria e 'a matri scanusciuta), il pubblico andò in delirio. E Saverio Fiducia, commosso e felice come un giovane autore alle prime armi, disse che mai quel suo lavoro era stato recitato così stupendamente.
Ma per il teatro non scrisse soltanto codesti lavori. Ne scrisse molti altri che per brevità non elenchiamo e che non tutti furono rappresentati. Ricordiamo soltanto « Solitudini », tre atti scritti nel 1936, che piacquero a Maria Melato e che li avrebbe rappresentati se intanto, per ragioni politiche, non fosse stata sciolta la sua Compagnia.
Per la RAI, oltre il bozzetto in un atto « Caffè notturno » e a svariate conversazioni e riduzioni, tra cui « La lupa » e « La caccia al lupo » di Verga, « San Giovanni decollato » di Martoglio, « U spirdu » di A. Russo Giusti, tradusse « Bellavista » di Pirandello e, dal napoletano, « Addio mia bella Napoli » di Ernesto Murolo, che, giudicata « felice », fu data nel nostro Teatro Coppola la sera del 12 febbraio 1920 con un discorso introduttivo di Francesco De Felice. 



A eccezione delle cento e una « Passeggiate sentimentali » raccolte nel volume edito dal Giannotta, la produzione di Saverio Fiducia è rimasta disseminata e dispersa in giornali e riviste, e, per la parte teatrale, nei copioni i quali, insieme con i racconti in gran parte inediti, sono custoditi, con non pochi altri ricordi e manoscritti del padre, da una delle sue due figlie, la signora Santuzza Cambellotti.
Dopo il suo esordio in « Siciliana » Saverio Fiducia collaborò al « Giornale dell'Isola », allora diretto da Gioacchino Di Stefano; fu dal 1929 al 1935 con Luigi Gandolfo segretario di redazione della rivista del Comune « Catania », diretta da Guido Libertini, e, chiamatovi da Piero Saporiti e Vito Mar Nicolosi, fu critico cinematografico del « Popolo di Sicilia », incarico poi passato, con grande amarezza del Fiducia, a Ottavio Profeta. Nel 1952, riprese le pubblicazioni la rivista del Comune, vi fu richiamato e vi rimase, spiegando grande impegno e amore, fino alla cessazione, avvenuta nel dicembre del 1962. Sorta, anzi risorta, nel 1947, « La Sicilia », vi iniziò la collaborazione. Qui, in queste colonne, apparvero tutte le sue « Passeggiate sentimentali » (l'ultima rimase incompleta nella macchina da scrivere), diecine e diecine di articoli vari d'interese storico, civico, artistico, nonché racconti e novelle e, inoltre, delle rubriche come « Echi », « Cartoline illustrate ». Rubriche simili aveva tenuto anche in altri quotidiani. Ricordiamo: « Periscopio cittadino », « Itinerario sentimentale », « Le luci della città » e altre.
In merito ai racconti e alle novelle, ecco un particolare che nessuno o solo pochi ìntimi conoscono. Ne aveva preparato un volume, per lo più inediti, ma non ebbe il tempo di vederlo stampato. E fu questa, certo, un'amarezza che si portò nella tomba. Lo aveva consegnato circa un anno prima di spirare a un libraio, che voleva iniziare la sua attività editoriale proprio con un volume di Fiducia. Ma poi, per varie ragioni, le cose andarono alle lunghe, Tutte le volte che Fiducia andava a sollecitarne la stampa voleva che lo accompagnassi io, non per altro che per l'amicizia che ci legava. Ma quando il male si rivelò inesorabile, volle (rammento con angoscia ancora la telefonata di casa sua) che andassi io a ritirare il manoscritto. E quando lo riebbe, provò tanta gioia che sembrava guarito.
Un'altra cosa conosciuta da pochi, è questa. Le « Passeggiate » non dovevano essere raccolte in volume dall'editore Niccolò Giannotta, bensì dal prof. Venero Girgenti, direttore de « La Tecnica della scuola ». L'accordo tra Fiducia e Girgenti era stato raggiunto. La spesa sarebbe stata divisa a metà. Ma, a un certo punto, entra in scena Giannotta, e riesce, consenziente però Girgenti, a guadagnare Fiducia alla sua casa editrice. E così, il primo volume delle « Passeggiate sentimentali », anziché Girgenti, lo stampò Giannotta. Girgenti ne ebbe una copia con la seguente dedica: « A Venero Girgenti, artefice principale della pubblicazione di questo libro, memore e grato Saverio Fiducia ». Chi volesse saperne di più, vada a leggersi, nel fase. n. 8 di giovedì 25 gennaio 1973 de « La Tecnica della scuola », l'articolo di Venero Girgenti.

"Vicolo delle belle" commedia di Saverio Fiducia con commenti musicali di F.P. Frontini (1930)



La mia amicizia con Saverio Fiducia nacque subito dopo la guerra '15-'18, quando io, giarrese, venni a stabilirmi a Catania. E se anch'io, non catanese, mi sono innamorato di Catania, lo devo principalmente a Saverio Fiducia. Fu il suo amore che infiammò il mio. Del resto, non si poteva essere suo amico se non si amava Catania.

* La Sicilia, 13.05.1975 Francesco Granata 

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ll dramma di una vita - Francesco Paolo Frontini 1860/1939



venerdì 25 aprile 2014

CAMENE di Gesualdo Manzella Frontini e Mario Scarlatta

"Camene" la rinomata rivista catanese che si stampava ad Acireale - n.1 - 1947
Estratto da « Memorie e Rendiconti » dell'Accademia di Scienze Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale - Serie III - Volume V - di Vito Finocchiaro - 1985


Il ricordo di Gesualdo Manzella Frontini è ritornato piacevole e grato alla mia mente con lo «speciale» di Gaetano Zappalà, «Don Gesualdo di Trezza», pubblicato su «La Sicilia» del 28 ottobre 1985, nella ricorrenza del centenario della nascita del letterato catanese. Definire letterato il Manzella Frontini è, forse, un poco riduttivo, anche se l'essere cultore della letteratura, e cultore come lo fu lui, è pregio non da poco. Riduttivo, nel suo caso, perché egli non fu soltanto un eccezionale, coltissimo conoscitore e profondo studioso dell'«insieme delle opere, pertinenti ad una cultura o civiltà, affidate alla scrittura», non un semplice fruitore delle opere altrui, ma un soggetto attivo, un protagonista del fatto letterario. Fu, infatti, scrittore, poeta e giornalista raffinatissimo, impegnato, espressivo e fecondo (dei suoi ottant'anni di vita ne dedicò più d'una sessantina allo scrivere!), un nome autentico a livello nazionale ed europeo, se è vero, com'è vero, che lo troviamo con Filippo Tommaso Marinetti tra i fondatori del futurismo, nel 1910 tra i firmatari del «Manifesto dei drammaturghi futuristi» dello stesso Marinetti (è con i poeti Gian Pietro Lucini, Paolo Buzzi, Federico De Maria, Enrico Cavacchioli, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni, Libero Altomare, Luciano Folgore, Giuseppe Carrieri, Mario Bètuda, Enrico Cardile, Armando Mazza, assieme ai pittori Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini ed al musicista Balilla Pratella) e tra le personalità che figurano nel «Manifesto delle avanguardie letterarie ed artistiche europee» firmato da Guillaume Apollinaire nel 1913 a Parigi (nell'elenco vi sono Marinetti, Picasso, Carrà, Matisse, Palazzeschi, Strawinsky, Papini, Soffici, tanto per fare dei nomi che dicono molto a tutti).

Laureato in lettere e diplomato in filologia, insegnante nei licei classici di Prato, Luino, Cassino e Catania («Cutelli» e «Spedalieri») nonché nel liceo dell'Istituto San Michele di Acireale, Gesualdo Manzella Frontini diresse i giornali romani «L'idea liberale» (1914), «Le fonti» (1918), «Corriere africano» (1930) e collaborò a numerosi giornali e riviste, tra cui «Delta», «Vita nova», «Popolo di Roma», «Anthologie», «Lavoro fascista», «Corriere emiliano», «Ausonia», «Misura», «La rassegna», «Il resto del Carlino», «Novella», «Corriere della sera», «Corriere di Sicilia», «Popolo di Sicilia», «La Sicilia», «L'ora», «Giornale di poesia», «La fiera letteraria» e «Poesia», la rivista di F. T. Marinetti. 
Fu autore prolifico e versatile, come si conviene a chi nutre molteplici interessi ed ha il desiderio intenso (direi meglio, figurativamente, la smania) di soddisfarli tutti. Scrisse, infatti, ben ventisei opere (e va da sè che mi riferisco a quelle pubblicate in volumi), spaziando dalla poesia al teatro, dai racconti alla letteratura ed alla retorica, dagli studi critici e dai saggi ai romanzi. Val proprio la pena di elencare i suoi libri (e lo farò in appendice, anche per ricordarne alcuni che oggi sono poco noti), divisi per sezioni, non senza notare che ognuna di queste l'Autore curò non episodicamente ma per lunghi periodi della sua intensa vita, con ampio respiro di continuità, dando corpo a coerenti sequenze temporali, che si avvertono particolarmente nei campi della poesia, della saggistica e della narrativa.

Non è, comunque, questa la sede, per chi, come me, non è un critico letterario né sa portare avanti con autorevolezza disquisizioni in chiave di puro estetismo, per approfondire il discorso su Gesualdo Manzella Frontini, scrittore ed operatore di cultura nel senso più largo dell'accezione. A me preme, invece, parlare della fugace conoscenza personale che ebbi con «don  Gesualdo  di Trezza»  e  dare  testimonianza  diretta  d'una delle sue attività più significative, che senza dubbio resta legata alla condirezione con Mario Scarlata della nuova serie di «Camene», la rivista di lettere, arte e scienza che, forse, resta la migliore del genere che sia stata pubblicata a Catania e tra le notevoli in campo nazionale.
Non è una esagerazione e lo dimostrerò in appendice, ripescando il sommario dei primi undici numeri della rivista. 
Dall'elenco delle firme dei collaboratori ognuno potrà farsi una ben precisa idea dell'altissima qualità di questo mensile di lettura e cultura, dedicato alle antichissime divinità italiche delle fonti e trapiantato a Catania per resurrezione, dopo una esperienza romana di cui peraltro non sono in grado di dire, negli anni immediatamente susseguenti alla seconda guerra mondiale, quando Manzella Frontini ritorna al Sud, nella sua città, avendo pensato che «al grecale che spira dall'Jonio, le nostre Camene avrebbero potuto ristorarsi e riprendere con più lena la via, e con più disinvoltura e speditezza» ....e perciò promettendo che «manterremo pulita ed accogliente la casa, e pure le intenzioni: una casetta chiara, netta, aerata, con giardino e terrazzina aperta a tutti i venti» (al di fuori della metafora, par quasi una profetica visione del reale, quando «Camene» non ci sarà più tra il rimpianto di molti: l'immagine precisa e matura della casetta, che lo avrebbe accolto ad Aci Trezza più tardi, negli anni del tramonto della vita!). 

Di «Camene» ha scritto recentemente, sia pure inserendo l'argomento nel panorama (molto ben descritto) della Catania degli Anni '40, Venero Girgenti, sempre in uno «speciale» de «La Sicilia», pubblicato pochi giorni dopo il ricordo di Gaetano Zappalà dedicato a «Don Gesualdo di Trezza». «"Camene" che scappa dal chiuso delle botteghe — scrive Girgenti — penetra nei salotti catanesi che aprono i battenti alla nuova cultura che ancora sa di macerie e di polvere da sparo, parla ora delle nuove attività letterarie, pubblica racconti e saggi critici, atti unici e notiziari di vita culturale con segnalazione di curiosità amene. Questa è "Camene", la nuova rivista letteraria alla quale non disdegna di inviare manoscritti il fior fiore della cultura nazionale». L'articolo, ricco di particolari interessanti e non conosciuti da molti, ha certamente richiamato memorie e nostalgie di quanti sono, chi più chi meno, avanti negli anni; soprattutto, vi è molto ben ricreato il clima fervido di iniziative del tempo descritto. Per quanto mi riguarda, confesserò che mi sono commosso, non tanto per il salto indietro negli anni, che pure è cospicuo (trentotto anni: una voragine per chi, allora, di anni ne aveva poco più di venti!), quanto per la rievocazione indiretta d'un fatto che pochissimi conoscono e che altri hanno dimenticato. 

Quanti sanno, quanti ricordano che «Camene», la prestigiosissima rivista della Catania di metà secolo, si stampava ad Acireale? Eppure, è la verità. I primi undici numeri della sua nuova serie videro la luce ad Acireale, nello Stabilimento tipografico «900» di Giuseppe Finocchìaro, mio Padre.
Di Papà ho parlato diffusamente in altra occasione offertami da «Memorie e rendiconti», quando ho scritto del settimanale acese «Libera parola» di cui Egli era editore (1), e non starò, quindi, a riproporre il personaggio se non per ricordare l'attrazione che su di Lui esercitava il mondo della cultura e dell'arte e come fosse sensibile al bello ed alla perfezione, grazie ad un gusto squisito che, in ogni occasione d'incontro, Ciccio Contrafatto, pittore affermato ed amico, non manca mai di sottolinearmi, con velato, sincero rimpianto. Non so effettivamente come, nell'estate del 1947, mio Padre si trovò a contatto con Manzella Frontini o se addirittura furono i due a stipulare gli accordi di rito. Ritengo, invece, che molto più probabilmente il Suo interlocutore per la parte venale del sodalizio dovette essere Mario Scarlata, l'altro direttore della rivista da rilanciare a Catania, il quale, senza dubbio, doveva essere l'amministratore, se non il finanziatore-editore, in quanto che lo ricordo nell'ufficio della tipografia (dove mi trattenevo, inesausto, per giorni intieri, dinanzi alla vecchia «Olivetti» per sfornare corrispondenze per il «Corriere di Sicilia» e per «La Sicilia» ed articoli e rubriche fisse per «Libera parola») alle prese con banconote ed assegni di conto corrente o accalorato, contro la propria natura, nella discussione sulle scorte di carta 
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(1) Il settimanale «Libera parola» nella riconquistata libertà acese (1945 -1948), Memorie e rendiconti dell'Accademia di scienze, lettere e belle arti degli Zelanti e dei Dafnici, Serie II - voi. V, Acireale, 1975, p.p. 57-69.
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(allora preziosissima e piuttosto scadente) disponibili in magazzino (ma, in proposito, non c'erano problemi: Papà aveva carta da stampare a non finire dato che, manager in chiave d'esagerazione com'era, aveva sempre provveduto, senza badare a spese, a reintegrarne le giacenze in deposito, cospicue fin dalla metà degli Anni '30, quando aveva intuito che per il prodotto sarebbero venuti tempi grami).
Mario Scarlata, legato a Manzella Frontini, oltre che da affinità culturali, da amicizia, era fisicamente e nel modo di fare l'opposto dell'altro. Corpulento e vestito con semplicità, attento fino alla pignoleria nel seguire il proto, nel rivedere le bozze e nell'assistere alla stampa, di pochissimi gesti, riserva-tissimo nel contegno e pacato nell'eloquio, faceva contrasto formale quanto stridente con il collega, piccolo, asciutto ed elegante (fu tra i primi che io ricordi con giacche aderenti e pantaloni garbati), piuttosto svagato in tipografia (tranne che nella impaginazione e nella scelta dei caratteri da utilizzare nei titoli), nervoso e scattante, estroverso. 
Se doveva incoraggiare gli straordinari, indispensabili in quanto che graficamente «Camene» si realizzava in un paio di giorni (mio Padre, in quel tempo, a parte il lusso di «Libera parola» che si concedeva, era impegnatissimo con le forniture alla S.G.E.S., la società elettrica di cui stampava le bollette, con le esattorie gestite dal Banco di Sicilia, che gli commissionavano le cartelle dei pagamenti e gli avvisi di mora ai contribuenti morosi, con le ricercatissime carte a rilievo «sistema Mazzei» affidatogli in esclusiva per la Sicilia e con le decine di clienti che avevano scoperto il piacere di reclamizzare le loro ditte commerciali con i primi tentativi delle stampe in quadricromia), se doveva incoraggiare un lavoro ancora poco retribuito come gli straordinari, Scarlata offriva alle maestranze il caffè della vicina e rinomata dolceria dei fratelli Bonanno in via Cavour, mentre Manzella Frontini se la cavava con battute e barzellette e ricordi di vita vissuta e fantasie, che piacevano quanto la bevanda aromatica. Gli operai della tipografia, tutto sommato, erano affezionati alla coppia dei «professori». Quando parlavano dei due, li chiamavano, irrispettosamente, «Cric e Croc» ed era simpatico l'accostamento che, sia pure con le debite proporzioni dal punto di vista delle fattezze fisiche, richiamava alla percezione immediata i personaggi di Stan,Laurei ed Oliver Hardy, Stanlio ed Ollio, i popolarissimi eroi cinematografici dei ragazzi della mia generazione, riscoperti dai giovani di oggi con estrema letizia.

Lo Stabilimento tipografico «900» viveva negli ambienti che, allora, erano quelli tipici delle imprese con spiccate caratteristiche artigianali. 
Era allogato a pianterreno del Palazzo Figuera dal bellissimo portale in pietra lavica, in via San Carlo, una delle strade più significative del centro storico di Acireale, nei pressi immediati della piazza San Domenico, dove troneggia Palazzo Musmeci, considerato (e credo a ragione) il più bel monumento barocco tra i numerosi che arricchiscono la città. Era sistemato in tre stanzoni, di dimensioni che ancor oggi ritengo enormi dopo averli rivisitati per appagare un vecchio struggimento, accolto con simpatia dal fabbro ferraio e dal carrozziere che ora si dividono i locali (ed uno di essi, l'artigiano Rosario Grillo, per dimostrarmi d'aver lasciato le cose com'erano, ha voluto farmi vedere, appiccicato ad un vecchio infisso, un ingiallito facsimile di scheda elettorale con la mia fotografia, stampato nel... 1952 in occasione della mia presentazione alle elezioni  comunali!).
All'ingresso c'era la polverosa legatoria, abbellita (si far per dire!) in un angolo da una gabbia in legno compensato e vetri, una sorta di guardiola pomposamente definita ufficio, legatoria di cui «re ed imperatore» era il signor Marcellino, un despota per i lavoranti e gli apprendisti, che resta, con il povero Ferdinando Somma di via Marchese di Sangiuliano, il miglior rilegatore di libri che ci sia mai stato ad Acireale. 
Poi, la sala macchine: l'ambiente più spazioso, dove erano sistemate, assieme ad antichi e pur efficienti residuati della ottocentesca tipografia dell'«Orario delle ferrovie» (una pedalina, una macchina piana di formato medio ed un'altra più grande, denominata iperbolicamente «la rotativa»), una «Neby» automatica, avveniristica creatura della Nebiolo di Torino (il meglio che c'era in Italia in fatto di industrie costruttrici di macchine per la stampa) ed una semiautomatica a mano, una specie di pedalina moderna, invero stressante per chi doveva lavorarci sopra otto ore al giorno. Infine, la sala della composizione, ricchissima di caratteri (naturalmente stile «900»!), di marmi per l'impaginazione, di compositoi a mano (venne, parecchio tempo dopo, la linotype, e fu un avvenimento perché di queste macchine compositrici in Sicilia ce n'erano pochissime) e di tirabozze, sala che era affidata a Mario Trovato, il proto, un tecnico da Italia del Nord più che un operaio del Sud, il primo di classe sociale (allora c'erano) diversa dalla mia con il quale io abbia discusso come se fosse un professore d'università. Il tutto presentava un ambiente che oggi sarebbe infrequentabile, pesante com'era di nerume, d'odore di piombo ed inchiostri, di pulviscolo di carta e persino di ragnatele, che mio Padre, il quale era superstizioso quel che basta, non fece rimuovere mai per una non dichiarata ma effettiva scaramanzia (e sarà magari un caso, ma vero si è che la Sua fortuna imprenditoriale decadde quando trasferì la tipografia in locali... asettici, avendo scoperto la litografia, che a metà degli Anni '50 per il Sud era ancora... erba fresca!). 
Nella stessa via San Carlo lo Stabilimento tipografico «900» aveva i magazzini: due, molto ampi, pieni di scaffalature sempre ricolme di risme di carta, ed uno più piccolo dove, assieme ai pezzi di ricambio delle macchine e delle latte di inchiostro e di solvente, Papà ricoverava la Sua «509» (Anni '30), che diventò una «Balilla» a quattro marce (Anni '40) ed infine una «1100» (Anni '50). E nella stessa strada, sopra la tipografia, abitava il padrone di casa, il signor Barbagallo, che ricorderò per la paziente tolleranza che con i suoi familiari aveva, sopportando fino alle 4 del mattino il rumore delle macchine, quando queste erano oppresse, come capitava di frequente, dal lavoro, smaltito dagli infaticabili fratelli Lanzarotti (oggi il cavaliere Peppino è un affermato imprenditore tipografico e carissimo mi resta il ricordo di Alfio e Sebastiano, prematuramente morti).

A questo punto, penso che, per l'amore d'essere obiettivo a tutti i costi, farei torto alla verità se limitassi la rievocazione dell'opificio (era appunto tale: una piccola industria) di mio Padre con il circoscriverla alle sole note di colore. La verità è che lo «stab. tip. 900» del ventennio, che corse a cavallo della guerra mondiale del '40, resta per Acireale, per la provincia di Catania e per la stessa Sicilia un punto di riferimento rappresentativo per la qualità dei lavori prodotti. 
Anche oggi, se ci ritroviamo tra le mani una rivista, un libro, un dépliant, una etichetta pubblicitaria qualsiasi stampati nella tipografia in questione, ebbene, teniamo un materiale d'assoluta dignità, il quale non sfigura affatto nel confronto con le cose che ora si stampano. Insomma, voglio dire che Papà creò una grafica per quei tempi impensabile in una buona parte dell'Italia non industrializzata e tuttora in grado di reggere il paragone. E se io nei confronti del concittadino Gaetano Maugeri, titolare dello affermatissimo Stabilimento tipolitografico Galatea di Acireale, nutro molteplici motivi di amicizia, di considerazione, di affetto e di stima, è perché in lui non vedo soltanto il continuatore in termini di perfezione d'una apprezzata tradizione familiare, ma l'autentico depositario dell'eredità artistica (che non ho saputo o non ho potuto o non ho voluto raccogliere) di mio Padre, dei Suoi desideri di realizzazione, delle Sue visioni anticipatrici dei tempi, del Suo amore per la carta stampata,
A dimostrazione dell'alto grado di efficienza della tipografia «900» concorre la scelta di Gesualdo Manzella Frontini e di Mario Scarlata, che non per caso vollero che «Camene» si stampasse ad Acireale. A Catania non mancava certo chi potesse farlo (potrei dire Conti, Costantino, gli stessi Strano non ancora esclusivamente dedicati alla stampa dei biglietti delle tranvie e delle autolinee, altri assai quotati di cui non ricordo il nome e me ne spiace perché me ne sfugge qualcuno di rilievo), ma qui, ad Acireale, da Giuseppe Finocchiaro c'era un «quid» esaustivo da prendere in considerazione, a prescindere da opportunità economiche, che poi non esistevano, dato che Papà il lavoro se lo faceva pagare bene nel tempo non sospetto del successo e dell'agiatezza.

Ma torniamo a «Camene» e vediamo com'era, a cominciare dal modo con cui si presentava. Di formato classico (cm. 17x24), il mensile aveva una copertina in cartoncino leggero (destinato via via ad ispessirsi), stampato a due colori, di cui il predominante era di volta in volta diverso, tranne il primo numero che fu ad un solo colore (il seppia) ed il nono a tre colori. La carta era di tipo «triplacolla», che, in quei tempi che correvano, era non di molto migliore di   quella usata oggi dai quotidiani, mentre le tavole in testo e fuori testo delle riproduzioni pittoriche (quando c'erano) venivano realizzate in carta patinata. Le pagine si mantenevano in media attorno alle trenta, trentadue (ma vi furono anche eccezioni di cinquanta-ses-santa facciate), realizzate in maniera molto fitta (con caratteri tipografici in cui predominava il «corpo 8», sia che fossero in tondo o in corsivo) e tuttavia opportunamente arieggiate da una titolazione generosa e da un'agile impaginazione.
Il prezzo della rivista nel giro di poco più d'un anno variò dalle settanta lire iniziali alle cento del decimo numero, con un lungo intermezzo fissato sulle novanta lire, e ci fu un numero speciale, l'undicesimo dedicato alla XXIV Biennale di Venezia, che ebbe un costo di trecento lire, appunto per la particolare ricchezza del fascicolo, impreziosito da testi critici d'assoluto valore e da 14 tavole riproducenti dipinti di De Pisis, Martini, Max Ernst, Van Gogh, Miluzzo, Carrà, Turner, Chagall, Lazzaro, Kokoschka, Rossi, Schiele, Guttuso, Ensor, Picasso, Moore, Peif-fer Watenphul, Bellini e Scipione. 
Altri numeri straordinari furono quelli dedicati alle rappresentazioni classiche di Siracusa del 1948 ed alla pubblicazione delle sei novelle ritenute meritevoli in esito al concorso intestato a Giovanni Verga (il premio di ben centomila lire non fu assegnato perché la commissione giudicatrice non aveva potuto trovare lavori che «garantivano o una vera e propria rivelazione o un narratore che, pur esperto, avesse dato il meglio di questa sua esperienza». Per la cronaca relativa al «Premio Giovanni Verga» c'è da dire che degli autori dei lavori segnalati solo quattro consentirono di svelare al pubblico i loro nomi: Alba Novella Volpi di Castel di Guido, Salvatore Fiume di Canzo, Francesco Manzella di Roma ed Aldo Carratore di Siracusa. 
Il che fa intuire che, molto probabilmente, qualche nome d'un certo peso, celato sotto gli pseudonimi degli altri due «segnalati», non dovette gradire il verdetto e preferì rimanere nell'anonimato per intuibili motivi (Dignità offesa? Faccia da salvare? Pura e semplice vanità delusa? Decida il lettore!).

Qualche curiosità spicciola si può anche trarre dal riquadro della gerenza, dal quale si apprende che la rivista aveva un responsabile nella persona di Carmelo Danese  (un signore che non mi pare d'avere mai visto in tipografia, evidentemente perché si fidava dei due direttori), ampia diffusione in campo nazionale (la distribuivano a Roma la D.I.E.S. e fuori Roma la STE di Milano) e sede di direzione, redazione ed amministrazione a Catania, al numero 1 di via Sisto, l'antica strada che unisce la via Etnea con la via Grotte Bianche.
Per quanto riguarda il contenuto di «Camene», come ho già detto prima, rimando il lettore al sommario generale che riporto in appendice, un sommario più illustrativo di qualsiasi recensione alla mia portata. Mi limito ad aggiungere che una bella specialità della rivista erano i puntualissimi, effervescenti pezzi d'apertura esplicativi della linea del periodico e sempre dovuti alla penna di Gesualdo Manzella Frontini (che, alle volte, non si firmava), e le rubriche fisse «Incontri e scontri», «Notiziario», «Indicazioni», «I libri del giorno». Notevoli i fuori testo, sia che fossero dedicati alla riproduzione di disegni (uno di Roberto Fasola nel numero 2) ed olii (uno di Salvatore Camilleri Mazzaglia nel numero 4), sia a lavori teatrali (nel numero 2 il terzo tempo di «Prigionieri di guerra» di Orazio Motta Tornabene, nei numeri 5, 6, 7-8 e 10 i tre atti de «L'apocalisse secondo San Giacomo»  di Mario Apollonio).

Questa era «Camene», la rivista di Gesualdo Manzella Frontini e di Mario Scarlata che, per dirla con Venero Girgenti, consentì a Catania di gettare le basi per una ripresa letteraria d'una certa importanza, che di lì a poco avrebbe meritato alla città l'attribuzione del ruolo di «capitale» della letteratura del tempo (verranno, poi, gli Anni '50, '60 e '70 e Catania cambierà, con la pelle, anche la faccia e diverrà «capitale» di chissà quali altre cose!).

APPENDICE
I
OPERE DI GESUALDO MANZELLA FRONTINI
POESIA; «Novissima Semiritmi»  (1904), «Le rosse vergini. Rime pagane»
(1905),  «Il  prisma  dell'anima»   (1911?),  «Sul  gigli  gocce  sanguigne»
(1920), «Il mio libro dai campi P.W.»  (1949). RACCONTI: «Le lupe» (1906), «Quando la preda è stretta» (1921). STUDI CRITICI E SAGGI: «La Lozana Andaluza» (1910), «Contemporanei e futuristi»   (1910),  «Mario  Puccini»   (1927),  «Il  Santo  mediterraneo»
(1931). TEATRO: «L'altro sangue»  (1922?), «Verso le ombre»  (1923), «La madre immortale» (1935). LIBRI DI LETTERATURA E DI RETORICA: «Note di letteratura» (1921), «Lingua e stile» (1931). ROMANZI: «Pupetta»   (1924),   «Il testamento di Giuda» (1925), «Circo Barum, naja e sciacalli» (1933), «Scale» (1935), «Crocifissi alla terra» (1953), «Sorte» (1961), quest'ultimo con presentazione di Bonaventura Tecchi.
VARIE: «Volare» (1927), «L'eroico imperiale» (1928), «Italia una e diversa,
tutte le regioni» (1923).
II
SOMMARIO DEI FASCICOLI DI «CAMENE»
SETTEMBRE 1947
Commento alla nuova serie — Camene.
Grandezza e pudore di Federico — Giovanni Centorbi.
Pentagramma della lirica di oggi — Giuseppe Villaroel.
Liriche di Heros Cuzari - Fernanda Regalia Fassy - Giacomo Falco.
Problemi e necessità della Scuola Nazionale di danze — Jia Ruskaja.
Notte di Natale (novella) — Marcello Gallian.
The Hollow Men (poesia) — T. S. Eliot (Trad. M. L. Faragò).
L'opera lirica in Gran Bretagna — Stephen Williams.
Dai  «Frammenti  di Saffo»   (trad.  di  Francesca  Acerbo).
Incontri e scontri. — Ore 21: musica - Gius. Grillo — Il teatro di ieri -
Giorgio Prosperi - La medicina ha scoperto l'anima - G. K. Apostolos. -
Vedetta - Notiziario - Indicazioni.

OTTOBRE 1947
Queste nostre «Camene» — g. m. f.
La figlia di Eleonora (novella) — Rosso di San Secondo.
Due Uriche di Saffo (trad. Mario Scartata).
I  segni di Roma nella musica sarda — Nicola Valle. Roma segreta — Adriano Grande.
Il  pittore Marcello Bonacci — Giusta Nicco Fasola.
Liriche di Federico De Maria - Maria Lilith - Lionello Fiumi.
Un ricordo di scuola (racconto) — Alba de Cespedes.
Questo cinema Yankee — Grigius.
Parliamo della rivista radiofonica — Mario Ortensi.
Il bozzetto «Nedda» nello svolgimento dell'arte verghiana — Ermanno Scuderi.
Incontri e scontri.
I libri del giorno (Tempo di uccidere di Ennio Flaiano — G. Manzella Frontini; Età della vendemmia di Fernanda Regalia Fassy — Pier Luigi Mariani; Foscolo, Manzoni e Leopardi di Gianni Gervasoni — Aurelio Corona; Storia e civiltà musulmana di Francesco Gabrieli — Emilio Beer; L'approdo intravisto di Paolo Rio — g. m. f. Indicazioni.

NOVEMBRE 1947
H. Miller & Ci al Confino di polizia — g. m. f.
Italia e Provincie — g. m. f.
Invenzione del personaggio — Lorenzo Giusso.
Un soldato di coscienza —  (novella) — Giuseppe Berto.
Isole di Grecia (poesia) di Kapetanakis (trad. Mario Scartata).
Vergine altera (poesia) di Antonino Machado (trad. di L. Fiorentino).
Profezia (poesia) di Phlippe Dumaine (trad. di L. Fiorentino).
Vedo le foglie agitarsi (poesia) di Armand Bernier (trad. L. Fiorentino).
Il cielo sulle labbra (poesia) di Armand Bernier (trad. L. Fiorentino).
Pagina di una diario — Valentino Bompiani.
L'innesto — Bonaventura Tecchi.
Liriche di Fulvio Longobardi - Nunù Zappala - Renzo Lo Cascio - Giovanni
Strano - Marussya. Destino della narrativa nord-americana — Gius. Grillo. 400mila passi — Virgilio  Lilli. Federico De Roberto — Rodolfo de Mattei. Il bambino (novella) — Milena Milani. Indicazioni. Il libro di un siculo-americano — Libero Bigiaretti.
I  libri del giorno (I pazzi a Taormina, di Massimo Simili — G. Manzella
Frontini; Giorno dopo giorno di Salvatore Quasimodo — Fulvio Longobardi). Notiziario.

DICEMBRE 1947
Orientamenti e no — g. m. f.
Andrè Gide «Premio Nobel» — Lionello Fiumi.
Federico Garcia Lorca — Giancarlo Vigorelli.
Liriche di Padre David M. Turoldo - Mario Stefanile - Giuseppe Villaroel -
Igor Man. Verga e la pace universale — Rodolfo De Mattei. Turno di riposo (novella) — Cesare Meano. La città con l'aureola — Fernando Palazzi. Incontri e  scontri.
La religiosità del «Prometeo legato» — Mario Scarlata. L'America era Los Angeles — Enzo Masso. Un libro di Theodor Storni — Pierre Jouvet.
II  libri del giorno (La romana di Alberto Moravia — Libero Bigiaretti). Indicazioni. Notiziario.

GENNAIO  1948
Uno scontro che è un incontro — g. m. f.
Funzione dello scrittore — Lorenzo Giusso.
Gli uomini non si odiano (racconto) — Dario Ortolani.
Nota di letteratura francese — Antonio Aniante.
Ermetismo poetico e critico — Arnaldo Bocelli.
Dopo (Giovanni Verga) — Aurelio Navarria.
Un grande lutto della poesia: Léon Paul Fargue — Lionello Fiumi.
Albe (poesia) di Léon - Paul Fargue (trad. L. Fiumi).
L'Italia e i poeti d'Europa — Laszlò Cs. Szabò.
Liriche di Alessandro Weores - Vittorio Csorba - Giulio Illyès - Miklòs
Radnoti - (tr. di Francesco Nicosia e Làszlò Tòth - Folco Tempesti). Un pomeriggio, Adamo (novella) — Italo Calvino. Motivi crepuscolari nella poesia di Saba — P. L. Mariani. I libri del giorno (Sole bianco di Dario Ortolani — G. Manzella Frontini;
Cavalli 8... uomini... di Luigi Fiorentino — Giuseppe Villaroel).
Notiziario.
Apocalisse secondo Gian Giacomo — Mario Apollonio.

FEBBRAIO   1948
Esito del Concorso per una novella, Premio «Giovanni Verga» 1947. Vi sono pubblicate le 6 novelle ritenute degne di segnalazione. Precede la relazione, segue il Bando di Concorso per il Premio «Giovanni Verga» 1948.

MARZO - APRILE 1948
L'ultima trincea — g. m. f.
Poesia di Ungaretti — Arnaldo Boccili.
Rievocazioni davanti un reticolato — Giani Stuparich.
Quartiere latino — Adolfo Sarti.
Richard Huch — Bonaventura Tecchi.
I tre momenti esistenzialistici — Leonardo Grassi.
La casa (novella) — Diotima.
D'Annunzio controluce — Giuseppe Villaroel.
Scirocco (racconto) — Arnaldo Fratelli.
Baudelaire e Solitude di Gaston Criel (tr. Nicola Grassi).
Siamo o non siamo cristiani? — Silvio D'Amico.
I   morti di Spoon River — Giuseppe Pistorio.
Il  disgelo — Gualtieri di San Lazzaro.
I libri del giorno  (Il sole è cieco di Curzio Malaparte) — G. Manzella
Frontini). Incontri e scontri. Notiziario.

MAGGIO 1948 
(Fascicolo dedicato alle rappresentazioni classiche di Siracusa). L'Oresteia di Eschilo a Siracusa — Raffaele Cantarella.
La scena di Cassandra nell'Agamennone di Eschilo — G. Manara Valgimigli. Le scene iniziali nelle tragedie di Eschilo — Francesco Guglielmino. Articoli   di:   Annibale  Ninchi;   Giovanna   Scotto;   Mario   Scartata;   Duilio
Cambellotti, G. Francesco Malipiero. Teatro alla luce del sole — Antonino Gandolfo.

GIUGNO   1948
Ogni uomo un fatto — G. Manzella Frontini.
Prosa o Poesia? — Mario Scartata.
Regia premeditata e regia improvvisa — Anton Giulio Bragaglia.
Pensieri dopo la commedia (racconto) — Cesare Meano.
L'ultimo libro di Marcel Arland — Aldo Capasso.
Lorenzo Giusso: L'anima e il cosmo — Renato Lazzarini.
Città felice (racconto) — Ottavio Profeta.
Parlare di sè — Guido Pannain.
Poesìe di Vincenzo Guarnaccia; Sandro Rossi; Eugenio Santaquilani.
Luca Feluca (racconto) — Aurelio Corona.
Il  mare — Gius. Grillo.
La prima stesura dell'«Amante di Gramigna» — Aurelio Navarria.
Rispettare troppo — Massimo Bontempelli.
Note su Sherwood Anderson — Enea Ferrante.
I libri del giorno (Per non morire di Aldo Capasso — Liliana Scalero;
I libri migliori — Dino Provenzal). Notiziario.

LUGLIO   1948
(fascicolo dedicato alla XXIV Biennale di Venezia)
Premessa — G. Manzella Frontini.
Rodolfo Pallucchini, Presidente della Biennale.
«Il novecento e la nuova secessione» — Luigi Ferrante.
Scipione — Giuseppe Marchiori
La sala di Gino Rossi — Leone Minassian.
De Pisis e Campigli — Guido Perocco.
Contemporanei italiani — Vittorio Bellini.
Pensieri per Arturo Martini — Gastone Breddo.
La pittura surrealista — Alvise Zorzi.
La pittura metafisica — Silvio Branzi.
Gli impressionisti — Umbro Apollonio.
Padiglione Guggenheim — Peggy Guggenheim.
Picasso — Italo Faldi.
Il padiglione del Belgio — Bruno Alfieri.
La fattoria di Chagall — Bruno Alfieri.
Egon Schìele — Helma Gironcoli.
L'arte tedesca «degenerata» — Max Peiffer Watenphul.
Violenza e luce di Turner — Geoffrey Grigson.
Oschkar Kokoschka — Jacopo Panozzo.
James Ensor — Leone Minassian.
La scultura di Henri Moore — Geoffrey Grigson.
Georges Braque — Raymond Cogniat.
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BIBLIOGRAFIA
Gaetano Zappalà, Don Gesualdo di Trezza, «La Sicilia», Catania, 29 ottobre
1985. Società italiana degli Autori ed Editori, Cronache cent'anni, Arti grafiche
Libra, Roma, 1983.
Lions club Catania Host, Catalogo della mostra della letteratura catanese tra le due guerre, Editrice Giannotta, Catania, 1977.
Venero Girgenti, Verga, gigante senza eredi, «La Sicilia», Catania, 2 novembre 1985.
Camene, nuova serie, Stabilimento tipografico «900», Acireale, settembre 1947 - luglio 1948.




martedì 22 aprile 2014

Lo scapigliato Felice Cavallotti


Nasce a Milano il 6 ottobre 1842. Figlio di un impiegato, vive la giovinezza in condizioni di ristrettezza economica, distratto dai frequenti soggiorni a Ghevio, sopra Meina, presso gli zii e, più tardi, a Dagnente, sempre sul Lago Maggiore, dove acquisterà una modesta casetta. Frequenta il liceo con profitto, segnalandosi per le sue prese di posizione politiche: prima cavouriane e poi garibaldine. Volontario nella seconda spedizione garibaldina in Sicilia (quella guidata da Medici a rinforzo dei Mille), combatte a Milazzo e al Volturno. Nel '66, di nuovo volontario garibaldino, combatte a Vezza.
Precoce la sua attività giornalistica. Nel '63 è redattore alla «Gazzetta di Milano», l'organo della sinistra moderata ispirato da Emilio Treves e Raffaele Sonzogno. Nel '65 fonda e dirige il giornale «Lo Scacciapensieri». Aderisce alla Scapigliatura politica, attestandosi su posizioni radicali. Verso la fine del '67 Achille Bizzoni gli lascia per qualche tempo la direzione del «Gazzettino rosa». Intanto aveva cominciato a scrivere poesie, spesso di contenuto politico e di tono satirico. Tra le sue raccolte di versi, che quasi sempre comprendevano testi anche di diversi anni prima, ricordiamo Anticaglie (1879), Sogni e scherzi - Il cantico dei cantici (senza data, ma uscito come secondo volume delle Opere, pubblicate in dieci volumi tra il 1895 e il 1896) e // libro dei versi (senza data, ma del 1898).
A partire dagli anni Settanta comincia a scrivere per il teatro, conquistandosi anche in questo campo una certa fama. Tra i numerosi titoli di drammi e commedie ricordiamo, negli anni Settanta, I pezzenti, Alcibiade, La sposa di Menacle, e, negli anni Ottanta, 77 cantico dei cantici, Il povero Piero, La cura radicale.
Nel 1873 viene eletto deputato: la sua attività politica durerà sino alla morte, ponendolo a poco a poco come il leader dei radicali (l'estrema sinistra di allora) e come uno dei politici più in vista del Paese, noto per i suoi attacchi a Depretis per il suo trasformismo e a Crispi. Muore a Roma in duello il 6 marzo 1898 (lo sfidante era il deputato Ferruccio Macola, sostenitore di Crispi e direttore della «Gazzetta di Venezia»).

La poesia di Cavallotti non è di grande qualità letteraria: spesso improvvisata, lo stesso autore era consapevole dei limiti artistici della propria produzione, che tuttavia gli era cara, più per i contenuti protestatari che non per un lavorio stilistico che egli per primo riconosceva essere assente. «Questo», commenta Croce (1960:183-184), «ci mostra il suo atteggiamento verso l'arte. Un artista che si accorge di aver fatto opera brutta, che cosa non darebbe per cancellarla dalla faccia della terra e dalla memoria degli uomini? Ma pel Cavallotti, che guardava dal lato pratico, l'arte era nell'arte solo uno degli ingredienti dell'arte, e poteva anche mancare!» Quanto alla lingua, aggiunge Baldacci (1958:766): «Il suo linguaggio è forse il più generico e impreciso di tutta la poesia dell'Ottocento».
In realtà ciò accade perché, come scrive Alessandro Galante Garrone (1979:798), Cavallotti «fu, anche artisticamente, assai più felice come oratore o prosatore - ad esempio nella introduzione alle Anticaglie [...] o nei commenti alle proprie opere e perfino in alcune sue lettere - che non come poeta o drammaturgo».
Versi, tuttavia, quelli di Cavallotti, che documentano, con il resto dei suoi lavori letterari, «il critico passaggio di una cultura classica, sorretta in Cavallotti da seri studi e da ampie conoscenze, ai nuovi valori della ragione e della rivoluzione» (Masini 1977:89).

DA IL LIBRO DEI VERSI 
IL MISTERO DEL FIORE

Un fior sovra un tumulo spiega 
la pompa dei vivi color: 
simile all'amor che ne lega, 
ei vive, lo splendido fior!

Un triste mister dello stelo 
gli dona la ricca beltà: 
ei mesce l'umore del cielo 
con quel che la fossa gli dà.

S'intesson le tenui radici 
con treccie lunghissime d'or...
L'amor che ne rende felici 
le stesse radici ha del fior.

Ma a mezzo la notte, allorquando 
pia scorge la stella brillar, 
il fior, la sua stella adorando, 
da sotto si sente chiamar.

«L'olezzo io t'ho dato e i colori, 
o ingrato, che guardi su in ciel!». 
Ahi, questa fra i nostri due cuori 
rampogna sussurra un avel!

*La poesia scapigliata - Roberto Carnero


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Giulio Pinchetti - Giulio Uberti - Giuseppe Cavallotti