Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

domenica 17 ottobre 2021

lunedì 11 ottobre 2021

Protagonisti in Sicilia fine ottocento primi novecento

 




al piano Roberto Frontini - musica di F. Paolo Frontini "pensando alla Catania dell'ultimo Ottocento, anche senza chiudere gli occhi,
gli sembrava di sognare"
S. Fiducia


mercoledì 2 giugno 2021

Gridi e cantilene del popolo siciliano

 

(Noterelle di un catanese, 1937)

Nella diffusissima e ormai celebre raccolta di canti popolari siciliani, I canti della terra del mare di Sicilia, trascritti da Alberto Favara, si nota che soltanto le due Provincie occidentali dell'Isola, Palermo e Trapani, sono largamente rappresentate.
Le Provincie di Messina e di Caltanissetta vi figurano con tre canti per una, quelle di Agrigento e di Siracusa con un solo canto per provincia.
Catania sembra completamente ignorata.
Non intendo, con ciò, muovere un appunto all'opera diligente e appassionata né alla buona volontà dell'illustre trascrittore, ma suppongo soltanto che le sue ricerche non si siano potute spingere fino alle Provincie della costiera Jonica, oppure ch'egli abbia pensato che le due raccolte del genere, apparse prima che pubblicasse la sua, avessero esaurito il suo compito. 

Infatti, Francesco Paolo Frontini aveva pubblicato sin dal 1883, per la Casa Ricordi, il suo volume di canti popolari siciliani Eco della Sicilia (la cui seconda edizione apparve nel 1890 edita dal Forlivesi) e nel 1894 un volumetto, Il Natale Siciliano, edito dal Demarchi.
In queste pubblicazioni, l'illustre musicista catanese, raccolse canti, canzoni e musiche della sua città e dei paesi Etnei.

La raccolta del Favara comparve molto tempo dopo e fu guidata da altri criteri.



Nella raccolta frontiniana Eco della Sicilia sono contenuti 50 canti popolari dei quali la parte più cospicua è costituita da canzoni catanesi, arie d'amore o canzonette burlesche, che, sebbene conservino intatti i caratteri etnofonici della melodia siciliana, lasciano trapelare; dalla forma e dalla sostanza melodica, un'origine prettamente cittadina e un'epoca ben determinata della loro genesi.

Le forme dell'arietta settecentesca o dell'aria teatrale del primo ottocento costituiscono la base della loro struttura e il carattere del canto ; possiamo anche aggiungere che un paio di esse è probabile non siano state del tutto sconosciute a Vincenzo Bellini.
Delle autentiche cantilene del popolo e della gente di campagna solo pochi preziosissimi esemplari, sei o sette in tutto, si riscontrano nel volume.

E se il Favara raccolse esclusivamente le cantilene melodiose dedicando tutta la sua passione e tutta la sua sapienza a restaurarle e ad ingemmarle di preziosismi armonistici, se egli, col suo paziente lavoro, mirò soltanto a conservare il canto limpido e puro del popolo, si accorse che il carattere della raccolta frontiniana era un poco diverso da quello che egli volle dare alla sua? Non sappiamo.
Ma una disamina, anche la più sommaria, stabilisce senz'altro la differenza che esiste fra le due raccolte.

Differenza che circoscriviamo soltanto al carattere delle musiche o alla forma di esse, e non alla maniera con la quale i canti sono stati rielaborati dai due raccoglitori.

In ogni canto siciliano non solo è riflessa l'anima del cantore, ma i caratteri della razza e l'afflato della terra a cui esso appartiene vi imprimono il loro segno indelebile.

Anche senza sapere da quali Provincie dell'Isola i canti provengano non è diffìcile stabilire la località, se non addirittura il tempo, in cui essi nascono.

Ogni canto è sempre legato ad una tradizione, ad un linguaggio melodico, ad accenti particolari, discorsivi, drammatici o espressivi, che rivelano i modi musicali delle antiche razze che si sono avvicendate in ogni luogo della Sicilia lasciando la loro impronta nei dialetti, negli usi, nei costumi, nelle musiche.
I canti popolari sono dunque, più che il patrimonio di un intero popolo, l'eredità esclusiva di ogni razza, e variano di località in località a seconda dei segni particolari o del carattere che essa vi ha impresso.
E se un canto nato in una terra, compisse pellegrinaggi attraverso altri paesi o altre Provincie, anche se altra gente lo adottasse trasformandolo o variandolo, i caratteri della sua terra d'origine vi rimarrebbero inalterati.

Questa è in sintesi la ragione della differenza tra i canti delle Provincie occidentali siciliane raccolti dal Favara e i canti della provincia di Catania raccolti dal Frontini, una differenza che va dallo spirito della melodia alla profondità della espressione, dal substrato modale alla ossatura ritmica.

Esistono poi altre differenze d'ordine scientifico e pratico: il metodo e lo scopo della ricerca.

Il Favara intuì il problema sul quale si basa lo studio della etnofonia; egli volle darci dei saggi sul carattere poetico-musicale del popolo siciliano, carattere che viene rivelato interamente dalla gente che vive nella campagna, ove si conservano costantemente gli usi più antichi e vi si osserva, col massimo rigore, la legge ereditaria delle tradizioni tramandate attraverso i secoli da generazione a generazione, senza che una qualsiasi infiltrazione di usi e di abitudini cittadine possa farle deviare.

Il Frontini, spirito più complesso e più aristocratico, volle affrontare il problema per intero e volle mostrare completamente tutta la natura musicale della gente etnea, attraverso le raffinate melodie cittadine e le spontanee cantilene campagnole.

Ma nessuno dei due raccoglitori ha voluto, con procedimento progressivo e razionale, mostrarci l'intera gamma del canto popolare siciliano che spazia ampiamente dai gridi dei venditori ambulanti alle cantilene melodiose dei contadini e dei carrettieri.
Ed in questa gamma c'è tutto un mondo, spirituale che vive e che si agita, un immenso mondo da esaminare e da studiare.
E tutta una successione di stati d'animo, determinati da ogni aspetto della vita quotidiana del popolano, che si estrinsecano in canto.
Il quale si manifesta nelle forme più varie che vanno da quella della salmodia infinita all'altra della melodia chiusa.
Sono canti che fondono mirabilmente la fantasia col sentimento, la poesia con la musica, che ci trasportano coi loro procedimenti tonali attraverso ogni epoca, dalla più lontana alla presente, che vengono realizzati nella maniera più primitiva o in quella più recente; sono canti che variano di luogo in luogo e hanno atteggiamenti espressivi che differiscono da uomo a uomo, da stagione a stagione.

Perchè sinora nessuno ha pensato di raccoglierli?
Trascuratezza? Non credo.
Indifferenza, forse, o, più probabilmente, mancanza di metodo nella ricerca.

Comunque i canti popolari siciliani trascritti e pubblicati dal Frontini e dal Favara hanno posto una solida base all'etnofonia della Sicilia e chiudono un primo ciclo di ricerche.

Ma è necessario, al giorno d'oggi, colmare tutte le lacune ed aumentare il materiale raccolto avvalendosi dei nuovi metodi e delle antiche esperienze.

Prima d'ogni altra esplorazione in altre provincie siciliane mi sono imposto il dovere di completare la raccolta dei canti popolari della provincia di Catania, raccolta iniziata e proseguita dal Frontini e continuata sin'oggi, dal venerato musicista catenese, con la sua recentissima pubblicazione apparsa nel luglio scorso (Antiche canzoni di Sicilia, Ed. Carisch, S. A.) il cui procedimento è conforme alle raccolte che la precedono.

Per grazia di Dio, le campagne Etnee sono tuttora dei codici immensi dai quali il ricercatore diligente può ricavare tutto quel materiale sinora sconosciuto ai più e può mostrare di quali preziose gemme è sempre ricco il cuore del popolo catanese.
Durante le mie molteplici e lunghe soste in campagna, ho avuto la fortuna di raccogliere di sulla bocca dei contadini un copiosissimo materiale etnofonico.
Materiale assolutamente inedito che, se ben distribuito e progressivamente studiato, può dare una visione esatta, se non completa, di quali secolari tradizioni musicali è ricca la mia Catania.
Non starò qui a ripetere da quali fonti provengano questi canti, né quale classica linfa li ha nutriti, né quali elementi etnici conferiscano ad essi quelle peculiari doti di originalità e di espressività che li fanno distinguere ed innalzare al di sopra di tutti gli altri canti popolari della Sicilia.
La brevità dello spazio concessami non consentirebbe esemplificare se non con molta parsimonia.
Uno studio di maggiore ampiezza e più accuratamente sviluppato potrebbe far scorgere, attraverso la impronta melodica e la struttura modale, le millenarie origini di questi canti.
Ho raccolto anche la maggior parte dei gridi dei venditori ambulami, che sono anch'essi degli autentici canti, e che, uniti alle cantilene tristi degli stanchi lavoratori delia terra e agli appassionati canti dei carrettieri, fanno scorgere tante maniere, dalla greca all'araba, fanno incontrare tanti generi modali, dal diatonico ai cromatico all'enarmonico.
I venditori ambulanti esprimono con la melodia dei loro gridi, il genere della merce che vendono; parole e musiche risentono direttamente dell'epoca e dell'ora in cui viene venduta la merce.
Un tipico esempio. Ecco un grido invernale, è quello del caliàru (venditore di calia, ceci abbrustoliti). Di giorno il suo grido è baldanzoso, mentre a sera tarda, nelle lunghe e gelide sere d'inverno, s'ode la sua voce squillante e lontana cantilenare con tristezza .
Gli stessi elementi modali si riscontrano in quasi tutti i canti della trebbiatura. Nella pianura assolata il contadino incita, col suo canto squillante e monotono, i cavalli che si inseguono in cerchio sull'aia, calpestando sotto le zampe ferrate i covoni di grano.
Il grido mozzo sottolinea il colpo della frusta.
Come si può osservare, la maniera di melodizzare è identica a quella dei canti precedenti, ma una maggiore ampiezza si sprigiona da questa cantilena, pare che un tormento la animi (sarà forse il duro lavoro sotto il sole implacabile?) e la renda più drammatica di quella del caliàru, che è satura di lirismo.
Tutti gli elementi modali e psicologici delle melodie sopra esposte si fondono e si sviluppano nella cantilena tipica del carrettiere.
La melodia reca l'impronta della primitività dei gridi, ma acquista ormai una sua robusta costruzione periodale, un maggiore senso discorsivo, e la definitiva liricizzazione d'uno stato d'animo che ha la sua fase iniziale e quella conclusiva.
E infine la stessa maniera melodica può raffinarsi, può anche arricchirsi di melismi capricciosi, fioriti dallo stesso nucleo emotivo del canto, non estranei ma partecipanti ad esso perchè generati dal pathos comune .
L'andamento più svelto del canto e le sue fioriture saranno certamente stati dati dalle parole.
Il cantore qui si rivolge alla donna amata e le dice : quanto mi sembri bella quando ridi! Il cuore mi fai tutto ricreare... E le fioriture sulle due cadenze stanno a realizzare la maliosa risata della bella e la gioia del cuore del suo innamorato.
In questo canto la malinconia nativa dell'isolano si veste di rosa.

Due parole ancora, non per concludere (poiché un simile argomento potrà esaurirsi solo con la fine del mondo), ma per dire che anche una modesta e brevissima rassegna di canti, come quella che ho fatto, lascia supporre che da una esposizione comparata e razionale di gridi, cantilene e canti popolari verrebbe fuori uno studio interessante e definitivo sul patrimonio spirituale d'uno dei popoli più musicali d'Italia qual'è il catanese.
Il vecchio motto Verdiano: « Torniamo all'antico... », applicato alla ricerca dei canti popolari, potrebbe anche significare un ritorno alle pure fonti della natura alle quali l'arte musicale d'oggi ha bisogno di attingere per essere definitivamente sé stessa.

 

Un aspetto alquanto interessante della storia musicale di Catania e certamente quello che ci presenta la copiosa fioritura dei canti popolari e di canzoni popolaresche, composizioni quasi sempre anonime, di cui appare ricca in ogni tempo la provincia etnea.

Si tratta, certamente, di un'attività artistica minore, ma per nulla trascurabile poichè essa reca una delle più importanti testimonianze della musicalità del popolo della città e delle campagne.

Quest'arte grezza, ingenua ma di immediata avvincente espressione, ha radici nelle cantilene secolari attraverso le quali il popolo — di solito ermeticamente chiuso in se stesso — sfoga le passioni della propria anima.
Amore, gelosia, abbandono e sdegno: questi sono i temi fondamentali dai quali trae sviluppo la poesia popolare siciliana, e ispirata a tali sentimenti e la musica che ne intona i versi.
I quali, stesi di solito in ottave di endecasillabi, vengono inquadrati in cantilene che li rivestono in forma di distici.
Il popolo siciliano in genere e quello della provincia etnea in particolare, intonando i suoi canti sembra ricalcare le forme e i caratteri del1'antica melica greca. E non è da escludere che i più antichi di essi ne siano una derivazione, soprattutto come impianto tonale.

Sono cantilene assolutamente monodiche; la parte corale, quando esiste, si limita a rinforzare le sole note finali d'ogni mezzo distico.
La voce solista può intonare il verso in forma strettamente sillabica, oppure può adornare la cantilena di melismi vocalizzati che un espressivo cromatismo arricchisce di intensa espressione.
Ogni esibizione nasce spontaneamente dal momentaneo stato d'animo del cantore, poichè le cantilene popolari sono degli sfoghi fatti più per chi li canta che per chi li ascolta.
Ogni aspetto della vita quotidiana, che determini un particolare stato d'animo, possiede i suoi canti.
Ce n'è a migliaia e sono sempre a disposizione di chi li conosce per averli appresi intonare da altri: non rimane che sceglierne uno che si adatti allo stato d'animo del momento.

La canzone popolaresca non nasce, come si crede, dalla più o meno felice rielaborazione di una cantilena popolare, ma dalla penetrazione e dalla interpretazione di essa.
La canzone muove da quello stesso nucleo emotivo che ha dettato la cantilena e — ricreandone la forma e dilatandone l'espressione —la sviluppa, la rinnova pur rimanendo assolutamente fedele all'impianto tonale e ai caratteri espressivi tramandatici dalla tradizione.

Francesco Paolo Frontini fu, per la Sicilia, il primo raccoglitore di canti popolari.

Egli limitò le sue ricerche alle province orientali della Sicilia riuscendo a conservare molto prezioso materiale che — dalla forma e dall'impianto tonale — possiamo senz'altro attribuire al Settecento e all'Ottocento.

Con Eco della Sicilia (1883), Canti della Sicilia (1890); Natale siciliano (1893); Antiche canzoni di Sicilia (1937) e Canti religiosi del popolo siciliano (1938) il maestro assicurò alla storia le documentazioni più importanti della appassionata vocalità del popolo etneo.

Un alunno del Frontini, Gaetano Emanuel Calì (1884-1936) completò l'opera iniziata dal suo maestro nella ricerca e nella valorizzazione dei canti popolari della provincia catanese.

Rifacendosi ai grandi modelli raccolti, egli seppe accostarsi ad essi con intuito geniale e derivarne le sue moltissime canzoni alle quali — più che al resto della sua produzione (pezzi per orchestra, musica da camera vocale e strumentale ecc.) — e legato il ricordo della sua personalità di musicista.
Ascoltando le più conosciute di esse:
E vui durmiti ancora; Sicilia bedda; Pastorale; La cugghiuta di li lumii; Simenza bedda; Liu-là; 'Ntintaro 'ntontari; La canzuna di la vinnigna, e tante, tante altre, non è difficile scorgere da quali accenti popolari scaturì l'ispirazione del compositore.

Son cantilene di carrettieri, gridi di venditori ambulanti, melodie campestri, nenie di cornamusa, ritmi vivaci di danze rusticane: tutte espressioni, insomma, nate dalla vita sentimentale del popolo che il musicista assimilava e sviluppava, ricreandole con geniale intuito di artista.
Ascoltandole sentiamo in esse pulsare l'anima del popolo, e anche il cuore nobilissimo dell'artista che lo compose.

Francesco Pastura - Secoli di musica catanese : dall'Odeon al Bellini Catania

martedì 1 giugno 2021

NINO MARTOGLIO IL GIORNALISTA E IL POLITICO ... duellante

 

Nino Martoglio è arcinoto e arcifamoso per l’ingegno che riversò a profusione in una gamma di attività creative (e... non creative): per la voluminosa raccolta di poesie siciliane Centona; per le commedie che man mano crearono, con i tipi bene incisi — a cui Musco prestò con voce e mimica la maschera di impareggiabile interprete assicurando ad essi vita imperitura (senza tuttavia, come — a proposito di Giovanni Grasso — Giovanni Verga scriveva nel 1908 a Edouard Rod, la «caricatura grottesca del carattere siciliano») — un teatro siciliano; per il suo discernimento nella ricerca di nuovi validi attori e il talento di organizzatore di compagnie teatrali che mieterono successi in Sicilia e in Italia; per la sua attività di regista cinematografico; per il suo inimitabile stile di giornalista polemico e versatile; per la sua fama di focoso amatore, nonché di elegante spadaccino con il ferro sempre in mano da incrociare con chiunque al minimo contrasto — provocato o meno non aveva importanza — (onde le sfide a volte multiple, cioè con più persone che si ritenevano contemporaneamente offese da un suo scritto in prosa o in versi, e che rendevano difficile il compito dei secondi di stabilire un «turno» e quindi la «precedenza»); ma molto meno è conosciuto per la sua attività politica che — iniziata con chiara presa di posizione all’epoca dei Fasci siciliani — e dopo due insuccessi nelle competizioni amministrative di fine secolo, come vedremo — coronava nel 1902 con l’elezione a consigliere comunale di Catania, nella lista dei «Partiti popolari» in quell’anno vittoriosa.


La sua fama di giornalista è legata al periodico d’Artagnan — fondato e diretto nel 1889 dal fratello Giovanni (ma in quell’anno uscirono solamente due numeri, nel mese di aprile) — che, alla ripresa del 1893, dopo una interruzione piuttosto lunga di ben tre anni e mezzo, il Martoglio diresse per un dodicennio fino all’aprile 1904 (il n. 1 dell’anno II, domenica, 3 settembre 1893, fu firmato da Nino Martoglio nella doppia qualità di «direttore proprietario responsabile»).

È opportuno riferire che prima del d’Artagnan erano stati pubblicati a Catania giornaletti umoristici (come Chicot, « Il solo giornale umoristico illustrato della Sicilia», uscito nel biennio 1886-1887; o come Don Pancrazio, « Rivista umoristica della settimana», in vita dal 1867 al 1890), che si spensero — dopo una vita più o meno lunga e un successo modesto o discreto — senza lasciare traccia duratura; mentre il battagliero strumento martogliano anima e contraddistingue una lunga stagione catanese e ci fa conoscere i risvolti della vita civile ed amministrativa, del costume e di talune manifestazioni artistiche, il tutto nella cornice d’impasto detonante: umorismo, satira impertinente e feroce con l’aggiunta di polemica (e all’insegna di: «occhio per occhio — dente per dente»).

Il settimanale presentava una assortita quantità e varietà di sottotitoli, apparentemente contrastanti, con l’intento di coprire altrettanti spazi e settori di interessi (e quindi di potenziali lettori): «serio — umoristico illustrato — arte — letteratura — polemica — teatri... politica». Non inganni l’ultimo posto assegnato alla «...politica»: è una marginalità apparente e fuorviarne, in quanto essa circola sottilmente o apertamente in tre pagine su quattro. Tanto vero e reale l’assunto, che trarremo gli elementi, più che sufficienti, per delimitare la «dimensione politica» del giovane direttore, che si sviluppa nel corso di otto anni circa, dal 1894 al 1902 (e, in tono minore, prosegue nel 1903-1904, quando subentrano nuovi interessi).
Tuttavia, nei quattro anni che vanno dal 1893 al 1897, la «linea politica» non è priva di contraddizioni e ripensamenti a breve termine: Francesco Crispi, Antonio Sapuppo Asmundo (sindaco di Catania dal 1893 al 1894 e poi dal 1895 al 1897), Giuseppe De Felice — pur esprimendo concezioni diverse, anzi antitetiche — vengono di volta in volta esaltati. E gli editoriali dal 1895 al 1897 firmati «Italo» — uno dei venticinque pseudonimi da riferire a Martoglio — scandiscono coi titoli a volte trionfalistici la presa di posizione del momento: «Noi» (a favore di De Felice, dopo la pesante condanna, a. IV, n. 7, 17 febbraio 1895); «Vittoriosi» (osanna a Crispi, eletto in ben nove collegi elettorali, a. IV, n. 22, 2 giugno 1895).
Le simpatie personali, man mano estrinsecate, vennero superate con l’acquisizione di una visione più larga e generale, con riferimento cioè agli interessi della città. Ed ecco, in vista delle elezioni amministrative del 28 luglio 1895, una proposta (che è consapevolezza della grande diffusione e quindi della capacità di penetrazione delle idee del giornale): «la lista del d’Artagnan» completa di 48 candidati, presentata in prima pagina al centro, con risalto tipografico, e riquadrata in rosso. Era sostenuta da un editoriale, a firma «d’Artagnan» cioè Martoglio, che giustificava la diversa estrazione — politica e sociale — delle persone, sotto la medesima insegna unificatrice dell’onestà indiscussa, della serietà e della capacità amministrativa e comprendente «nomi che politicamente abbiamo combattuto e combatteremo», e quanto precede è premessa per un’affermazione di taglio ideologico che colpisce «A questo ideale altissimo noi per i primi sacrifichiamo ogni idea politica». Veniva, altresì, chiarito il significato della candidatura di De Felice nella lista, ed aggiunta la perorazione per il medesimo, in carcere da un anno e mezzo in non floride condizioni di salute, ossia «la pietà per la sua attuale triste condizione muove anche noi» (a. IV, suppl. al n. 29, 25 luglio 1895).

Testimunianza dedica a De Roberto

Nel numero del 6 agosto successivo Martoglio commentava, con un certo distacco, la vittoria dei radicali («Lista democratica»), esprimendo vivo rammarico per la sconfitta del marchese di Casalotto, che «più che un partito, rappresentava, e valorosamente, una città».
Martoglio non ritenne di candidarsi e rimase volontariamente fuori, ma il suo impegno fu certamente crescente (e va segnalato che il d’Artagnan, dal n. 11 del 14 marzo 1897, modificò la disposizione dei sottotitoli in «Giornalepolitico letterario illustrato della domenica») se, due anni dopo, nelle elezioni amministrative anticipate (a seguito di nuovo scioglimento e gestione commissariale) del 1° agosto 1897, lo troviamo candidato nella «Lista unica delle Società Riunite»: «32. Martoglio Nino, direttore del d’Artagnan». I risultati furono disastrosi: la vittoria arrise all’altra lista «Circolo Umberto I» formata da monarchici e conservatori, che ottenne 44 consiglieri; fra i 16 della minoranza non è presente il «n. 32». Pazienza: sarà per la prossima volta!

Trascorsero tre anni, ancora elezioni amministrative, questa volta per il rinnovo di metà del Consiglio comunale. Il Nostro è candidato nella lista dei «Partiti Popolari Riuniti» («15. Martoglio Antonino, pubblicista»). Il linguaggio martogliano diventa ancor più virulento e spregiudicato, come nell’editoriale del 28-29 luglio 1900, che è un attacco a recenti sentenze della magistratura in materia di civica amministrazione (corruzione ed altri reati) «che sarebbero un monumento di asinità, se non fossero un premeditato misfatto giudiziario». Il numero, dedicato alle elezioni imminenti, contiene la lista dei 24 candidati e il resoconto del «grande comizio elettorale di mercoledì», oratore per circa un’ora e mezza «il compagno avvocato Macchi».
E ancora notiziario elettorale. Affollatissime le riunioni serali nella sede del Comitato elettorale di via San Michele (nei pressi del Teatro Massimo). Ed ora una notizia eclatante: in una delle ultime sere preelettorali parlava con successo un gruppo di candidati, fra i quali «il compagno Martoglio». Si deve ritenere che l’uso del termine tradizionale, premesso al cognome, indichi l’avvenuta iscrizione di Nino Martoglio al partito socialista già nel 1900.

Tutto l’attivismo non fu sufficiente, se dalle urne del 1° agosto non uscì vittorioso il candidato Martoglio. È la seconda trombatura. Il risultato deludente era stato quasi previsto alla vigilia, in un lungo e cordiale articolo «Una candidatura giornalistica» (con foto di Martoglio «che qui presentiamo senza molto naso e senza le famose scarpe alla Pollione nella Norma»), apparso sul foglietto La Staffetta (a. 1, n. 14, 26-27 luglio 1900): «il corpo elettorale potrà ben concludere, una seconda volta, con un non farsi luogo ». Piuttosto malinconiche le cicalate postelettorali «Considerazioni dei candidati. Parlano gli stessi. Gli eletti» e ancora più tristi quelle dedicate a «I caduti dei Partiti Popolari», con una nota icastica di autoironia «Nino Martoglio — E persi l’elmo di Mambrino!», svolte nel n. 33 del 5 agosto 1900. 
Nel biennio che seguì (dalla metà del 1900 al giugno 1902, data — come vedremo — di nuove elezioni amministrative) Martoglio, tutt’altro che scoraggiato, intensificò l’attività politica con lo scritto e la parola, e l’orientamento fu sempre più decisamente quello di un militante con chiara collocazione nella sinistra socialista; anzi possiamo affermare, e non sembri esagerazione, che ben prima del sorgere de II Riscatto «Organo del Circolo socialista» (Catania, a. I, n. 1,9 gennaio 1902) il d’Artagnan svolse una funzione, anche se non ufficiale, di propaganda: oltre le numerose prese di posizione e segnalazioni di manifestazioni popolari e socialiste, ciò si evince scegliendo — soltanto della seconda metà del 1900 — i titoli «I progressi del socialismo», «11 socialismo avanza». «Sulla via delle riforme», firmati «Franco» (pseudonimo riferibile a Martoglio).

Tutto questo non è che il prologo del cimento elettorale conclusivo del giugno 1902, ed è arrivato anche per noi il momento di affrontarlo, ossia di seguire un Martoglio militante attivista comiziante, di riferire particolari gustosi sul ruolo insolito, svolto con medesima intensità di impegno già dimostrato negli altri.
Da gennaio a giugno il d’Artagnan accentua il tono e la veste di periodico politico, annunzia le conferenze dei socialisti (avv. Mario Benenati, avv. Primiano Campanozzi, prof. Menza, ecc), rivolge saluti calorosi e auguri sinceri ai confratelli: Il Riscatto «organo del Circolo socialista» (n. 1,9 gennaio 1902) e al coevo Il Lavoratore « organo delle Società operaie catane-si» (che riappariva in migliore veste), esortando l’opinione pubblica a sostenerli, dà spazio con ampio resoconto alla festa del 1° maggio, fino alla pubblicazione nel n. 23, del 7 giugno, della «Lista dei Partiti Popolari», in prima pagina con grande risalto. Nino Martoglio è il candidato n. 30. La candidatura è, però, un punto di arrivo; per cogliere il significato e le varie sfaccettature occorre rifarsi alle designazioni e alle deliberazioni che precedono e, per l’aspetto politico, trarre spunti anche dal «confratello» Il Riscatto.
E, appunto, sfogliando questo periodico «in parallelo», si scoprono pezzi firmati da Martoglio come « ’Ntra Pura di lu riposu» (dialogo fra due lavoratori incentrato sullo scarso e magro vitto e sulla mercede ridotta da «vinti liri a diciassetti liri»), il Martoglio che sottoscrive più volte e con generosità per la vita del giornale, e il primo comizio al Borgo a sostegno di Gigi Macchi (candidato nel Mandamento omonimo per le provinciali). Nel comizio di domenica 13 maggio «parleranno De Felice, Boscarini e Martoglio nonché il nostro candidato» (11 maggio 1902, n. 18). Nel supplemento al n. 18 vi è un resoconto completo e dettagliato. Riportiamo qualche brano. «Quindi sorse a parlare accolto da una salve di applausi e di grida il direttore del battagliero d’Artagnan il compagno Nino Martoglio». Egli, rivolgendosi al pubblico numeroso, dichiarava che non essendo oratore «compiva un sacrificio ma obbediva per disciplina, al comando del circolo socialista». E continuava: «Oggi siamo pochi ma domani saremo cento, mille [...] e in nome di questa fede nuova che ci scalda il petto [...] io vi saluto elettori, e vi invito a gridare viva il socialismo». («La chiusa commosse l’uditorio che scoppiò in applausi lunghi incessanti che durarono per un bel pezzo»).


Si può affermare che la candidatura Martoglio non fu l’ambizione di una persona, ma fu il travaglio di un gruppo che in numerose ed agitate riunioni (con interventi vivaci del Nostro) dibatteva la partecipazione o meno alle elezioni amministrative, in una lista eterogenea, dei rappresentanti del Circolo socialista. E i sette, da immettere nella lista defeliciana, furono eletti in un’assemblea svoltasi nei primi di giugno: e fra essi Martoglio. E l’8 giugno (dopo ben novant’anni, cioè dalle prime elezioni per il Consiglio civico del 5 aprile 1813 vinte, contro l’aristocrazia, da una coalizione di borghesia attiva, professionisti e nobiltà minore), la lista dei «Partiti Popolari» fu vittoriosa. 1 quarantotto candidati divennero consiglieri comunali (alla minoranza della lista monarchica spettarono 12 seggi). Spazio ai commenti.

Da una parte II Riscatto (n. 23, domenica 15 giugno) titolava l’intera pagina «La grandiosa vittoria dei Partiti Popolari» e, con titolo minore, «I socialisti eletti», precisando i voti riportati dai componenti del Circolo socialista, da Lucio Boscarini (voti 3136) a Nino Martoglio (voti 2594), ultimo degli eletti; dall’altra il d’Artagnan (n. 24, domenica 15 giugno) dedicava, con titolo «Il gruppo socialista consiliare», rapidi flashes ai sette eletti, profili incisivi ed ironici, a firma «Planchet». Riportiamo, in parte, quello riguardante Martoglio: «È il nostro direttore [...] Contro di lui, umorista flagellatore, polemista sarcastico e spesso acre, anticlericale accanito, coadiutore ufficiale dell’inchiesta Ferrari, si appuntarono, in modo speciale, tutti gli strali degli avversarii, non solo, ma altresì di tutti i preti e di tutti coloro — e non son pochi — che ha colpiti con l’arma tremenda del ridicolo».
Fu presente alla prima seduta del Consiglio, convocato per giovedì 19 giugno, come riferisce II Riscatto-, «notiamo i consiglieri socialisti che entrano tutti insieme, salutati da un nutrito applauso». Martoglio svolse con serietà ed impegno il nuovo ruolo, partecipando per esempio alla discussione del bilancio (e precisamente alla «parte passiva»), con particolare riferimento al maggiore assegno stanziato per l’ospedale «Vittorio Emanuele» a detrimento dell’ospedale «Garibaldi» (Unione, a. XXV, n. 14, 5 aprile 1903).
Il 1903 fu un anno di riconoscimenti ed affermazioni; ecco una sintesi delle attività che il Martoglio riesce a contemperare, che vanno dall’artistica alla giornalistica, dalla politica alla sindacale (occorre aggiungere che, fin dalla ripresa del marzo 1899, faceva parte del consiglio d’amministrazione del Circolo artistico, e ancora, consigliere anziano dal 1897 dell’Associazione della stampa): nel mese di luglio, costituita a Catania la Camera del lavoro, firma il «Manifesto» quale componente del comitato provvisorio assieme a Giuseppe De Felice (e nell’ottobre successivo, dopo regolari elezioni, divenne membro della commissione esecutiva); nell’agosto un doppio ben tornato: «Per Nino Martoglio, poeta e drammaturgo, acclamato da un capo all’altro d’Italia, con tutta la ‘compagnia siciliana’, da lui costituita e diretta; e per il suo d’Artagnan che riprenderà regolarmente le pubblicazioni dentro il corrente mese» (Unione, a. XXV, n. 32, 16 agosto 1903).

Fu consigliere comunale certamente fino al 1904 e nominalmente fino al 1906 (non essendo, dopo il biennio, fra i venti sorteggiati e fra gli eletti delle elezioni parziali del 10 luglio 1904). Non accenniamo, per brevità, alle polemiche successive con i dirigenti del Circolo socialista, la conseguente rottura e l’accostamento alla linea flessibile di De Felice, fatto già avvenuto alla fine di novembre 1903.

L’improvvisa (e improrogabile) partenza per Roma nella primavera del 1904 troncò tutte le attività a Catania e segnò la fine prematura del d’Artagnan (ultimo numero, il 21 del 24 aprile 1904; nel n. 20 era stata pubblicata la lettera di dimissioni di quattro redattori su sette). Un testimone afferma: «Un increscioso incidente gli leva contro l’opinione pubblica. I nemici ne approfittano per liquidarlo anche nel campo della sua operosità giornalistica. Deve cedere il d’Artagnan ad altri e fare fagotto. Si trasferisce a Roma [...]» (Giuseppe Villaroel, Gente di ieri e di oggi, p. 54).

Dopo la politica i duelli (omettiamo totalmente le numerose vicende giudiziarie, a seguito di articoli particolarmente pungenti — e ritenuti diffamatori — sul d’Artagnan). Per Nino Martoglio occorrerebbe un ampio capitolo dedicato a questo vero e proprio ... esercizio. Non si esagera affermando che scese sul terreno ben oltre cento volte, ma rimangono tracce solo di alcune sfide e delle formalità connesse. E, anche per questo aspetto, fu figlio del padre Luigi (insegnante, giornalista polemico ed anticlericale, direttore per molti anni della Gazzetta di Catania, vivace ed interessante); il d’Artagnan lo segue da lontano e mette in evidenza « il duello che ha avuto luogo a Palermo tra il cav. E D’Ondes Cottù, direttore del Corriere d’Italia e il prof. L. Martoglio, redattore della Sicilia liberale (n. 25, domenica 23 giugno 1895). E in una puntata delle «Memorie d’un giornalista di provincia» di « Vega», ossia di Nino Martoglio, è riferito un episodio quanto meno sconcertante connesso a questa ... attività del genitore: «Ricordo sempre un fatto curioso e comico al tempo stesso. Un giorno mio padre torna a casa con la testa fasciata. S’era battuto ed una sciabolata gli aveva portato via una metà dell’orecchio destro». Esortato a riguardarsi e a rimanere in casa oppose un rifiuto perché « [...] doveva regolare ancora e presto altra partita colle armi» (suppl. al n. 49, giovedì 12 dicembre 1895).

La febbre del duello coinvolgeva anche i redattori del periodico, come « Chicot», al secolo Emilio Migneco, che nella «guerra delle acque» per l’approvvigionamento idrico di Catania sosteneva la «Manganelli», mentre «il signor di Pennino», ossia Francesco di S. Malato sosteneva la «Casalotto»; e quest’ultimo, direttore de La Giostra, concludeva la polemica: «ci aspetteremo certo una sua gentile visita, altrimenti andremo noi a trovarlo», ossia con un invito cortese a duello! (a. I, n. 30, 19 agosto 1894).
Con riferimento al Martoglio, il dianzi citato Villaroel rincara la dose: «Duelli a rotazione dovette affrontare il Martoglio in quegli anni. Ma egli li trattava e li considerava come piacevoli varianti delle sue giornate».

Il linguaggio è tagliente a corrusco più di una lama affilata, come nello stelloncino in carattere neretto rivolto a Federico Sigona di Villarmosa: «Ho appreso che avete lanciata una sfida e non comprendo come possiate fare ora il paladino, mentre non aveste il coraggio, dietro una sfida, di impegnarvi in una partita d’onore, precludendovi con uno studiato ripiego, la via cavalleresca ed obbligandomi a darvi querela» (n. 24, domenica 17 giugno 1894).
Una delle più lunghe e dure polemiche fu quella con Francesco Guglielmino, che alcuni anni prima era stato collaboratore del d’Artagnan (che pubblicava nel n 23 del 7 giugno 1893, la primizia «Ciuriddi di strata», poi inserita nella notissima raccolta). Nell’agosto 1902 inizia Martoglio con un articolo polemico anche nel titolo «Per il ‘professore’ Francesco Guglielmino», man mano trascende; le risposte riempiono la prima pagina, coinvolge il cav. Ignazio Corvaja, redattore del quotidiano La Sicilia, che ospita le puntate di risposta di Guglielmino. L’articolo di Martoglio, apparso il 31 agosto, è perentorio e costituisce una sfida totale: «Sono pronto a seguirlo, sul terreno che crederà migliore, per la questione personale, come son pronto a sostenere l’urto del suo poderoso ingegno e della profonda erudizione, nella polemica letteraria [...]». Ricaviamo quanto precede e quanto segue dal periodico martogliano. Iniziava a questo punto l’opera dei secondi per l’accordo preliminare, per stabilire quale duello doveva svolgersi per primo; dal verbale del 3 settembre apprendiamo; «Fatto il sorteggio su chi dovesse scendere primo sul terreno col signor Martoglio è venuto fuori il nome del prof. Guglielmino». Lo scontro avveniva il giorno seguente: su entrambi veniva riscontrata una ferita e quindi si chiudeva la vertenza. Rimaneva lo scontro con il Corvaja; i medici si recavano quotidianamente a visitare Martoglio (e lo ritengono «idoneo» il 5 settembre). Ma non è finita: Martoglio aveva lanciata altra sfida a Vincenzo Finocchiaro «per una lettera che questi pubblicò nel giornale La Sicilia mentre ferveva la polemica Guglielmino-Martoglio » (da altro verbale del 3 settembre). Sono in totale tre i duelli, ma i secondi il 5 settembre concordano «che le altre due vertenze [...] sono derivate dalla medesima causa [...] e quindi dichiarano chiuse le due vertenze». L’avv. Vincenzo Finocchiaro, docente e storico, svolse per anni sul d’Artagnan un’intensa attività di poeta dialettale (pseudonimo «Trampuleri»), Conoscendo il temperamento di Martoglio la sfida non può arrecare meraviglia: anche l’amico e compagno De Felice fu sfidato!

Dopo la politica e i duelli, arrivò la morte, prematura, in circostanze misteriose. Il 15 settembre 1921, il Martoglio — avendo ricoverato il figlioletto ammalato nell’ospedale «Vittorio Emanuele» — si trovava nel reparto pediatrico e al termine della giornata si dirigeva verso l’uscita e inoltrandosi in un corridoio buio avvenne la disgrazia. Dubbi sulla tragica fine furono allora espressi dalla stampa catanese.

A distanza di sessantanni, rimane un residuo di perplessità. Martoglio la sera del 15 settembre «era atteso dal nostro direttore e dal cav. Salemi direttore dell’ospedale » (Giornale del’Isola, sabato 17 settembre 1921, direttore era Carlo Carrozza). Un altro particolare interessante: «A breve distanza del luogo in cui la disgrazia avvenne è la palazzina abitata dal direttore dell’ospedale, che in quella sera assieme a qualche congiunto stava seduto nella villetta nell’attesa del Martoglio col quale doveva uscire» (La Sicilia, sabato-domenica 1-2 ottobre 1921). Meraviglia che nessuno si sia preoccupato, quella stessa sera, e in particolare Gaetano Salemi che l’attendeva, del mancato appuntamento. La versione, densa di «ombre» e di «sospetti», fu del corrispondente da Catania del quotidiano romano L’Epoca, riportata integralmente dal Giornale dell’Isola del 30 settembre, che titolava «Nino Martoglio assassinato per isbaglio?».

Anche la data della morte non appare univoca: nella lapide apposta sulla facciata del reparto pediatrico dell’ospedale «Vittorio Emanuele» è specificato il 15 settembre; nel manifesto a lutto del Sindaco «Catania, 17 settembre 1921» si affermava «cessò di vivere ieri», cioè il 16 settembre; infine nell’estratto dal registro degli atti di morte, n. 534, risulta, al di là di ogni ragionevole dubbio, che «il giorno diciassette settembre dell’anno 1921 alle ore 14 in ospedale Vittorio Emanuele è morto Martoglio Antonino di professione scrittore di anni 51».

I funerali si svolsero imponenti a Catania (e successivamente a Roma, con l’intervento del ministro Vincenzo Giuffrida e di altre personalità): seguiva la salma, fra le autorità, il venerando senatore Giovanni Verga, ottantunenne. Il cordoglio fu unanime. Fra i telegrammi pervenuti spiccano, per i sentimenti accorati espressi, quelli dell’on. Emanuele Modigliani, esponente socialista, di Luigi Pirandello — diretto a Giuseppe Villaroel — che incaricava di rappresentarlo ai funerali, e quello umanissimo di Angelo Musco a Pippo Marchese: «Oggi ore 16 San Giovanni decollato tragedia del compianto Martoglio. Mentre il pubblico ride io piango con voi. Musco».

(Sebastiano Catalano, 17 settembre 1981)


Nino Martoglio











CAPUANA, PENNA VULCANICA

 


Antichissima è la convinzione che una nuova vita appena sbocciata è contrassegnata, fino alla morte, dal segno di una costellazione (ricordiamo che il sedicenne Aniante da Sindonae — scomparso come Antonio Aniante il 13 novembre appena de­corso — esordì nel 1916 con l’opera poetica Costellazioni. Poe­mi universali e, in essa, metà delle composizioni furono raggrup­pate in una sezione intitolata «Le medaglie zodiacali»),



E se vogliamo dar credito all’influenza dei pianeti sul carattere dei viventi, scrutiamo i segni positivi e negativi del neonato Luigi Capuana, nato a Mineo il 28 maggio 1839 (secondo accu­rate ricerche in giorno di martedì), che fu molto sensibile alle coincidenze, ai sogni, ai numeri, allo spiritismo. I nati, come il Nostro, sotto il segno zodiacale dei Gemelli, prima decade, sono sotto l’influenza di Mercurio, e secondo la specialista di studi astrologici Ruth Anderson «avranno una personalità in­gegnosa, percettiva, studiosa. Ma, se questo pianeta è in aspet­to negativo porterà loro curiosità, pigrizia, dissipazione».

A proposito della dissipazione, è pienamente calzante una profezia vergata, nel 1887, dal medesimo Capuana quarantottenne, che inviava all’amico Federico De Roberto compiegata alla prefazione di Homo, una raccolta di novelle in corso di stam­pa presso gli editori Treves di Milano: «Troverai in mezzo al ms. una stampa. È una copia d’una mia profezia; così avrai in mano tutti i documenti per dimostrare alla mia morte, che io ho fatto tutti i mestieri cominciando dal poeta e finendo al Pro­feta. Sì, ho fatto tutto meno di quello che avrei dovuto fare, di non fare debiti» (Mineo, 29 agosto 1887).

In Luigi Capuana la personalità «ingegnosa, percettiva, stu­diosa» si rivelò con manifestazioni precoci e vistose, così come ebbe in eminente «curiosità, pigrizia, dissipazione». La versa­tilità e la flessibilità dell’ingegno lo spinsero a cimentarsi in quasi tutti i generi della letteratura (considerato critico incisivo già nel quadriennio 1865-1868 trascorso a Firenze, e autorevole alla fi­ne del decennio successivo a Milano); ed altresì in attività di or­dine pratico non disgiunte dalla tecnica dell’artista (fotografia, incisione, disegno e caricatura). Acquisite in un arco di tempo lungo, esercitate e dispiegate alcune di esse nelle poche ore di «otium» pur presenti nella giornata intensa, con professionali­tà e disinvoltura, ma anche con l’affanno e l’angoscia delle sca­denze cambiarie che vengono postergate con provvidenziali in­terventi (ma ritornano sempre più minacciose col trascorrere del tempo, perché ancor più onerose per gli interessi) che, tuttavia, lo spingevano a lavorare sempre di più, con la breve paura — come vedremo con dati dettagliati — per una missiva vergata di getto, diretta a un giovane catanese poco più che ventenne, che si avviava — siamo agli inizi degli anni Ottanta — al gior­nalismo di livello nazionale e al romanzo: Federico De Roberto.

La sonda che illumina l’inconscio e, insieme, la cartina di tornasole che reca impressa la realtà del sottosuolo psichico, è costituita appunto dalle lettere qui esaminate, vergate in due epo­che lontane un venticinquennio (numerose e inedite, l’esame sarà rivolto alla prima del 1857 ed a un numero minimo del secondo gruppo, della maturità capuaniana, che può assumere adegua­tamente il ruolo di campione rappresentativo).

Un episodio lontano è racchiuso in una interessante lettera del giovane al «nume tutelare» dei giovanissimi aspiranti poe­ti. Alla fine del 1857, il diciottenne Capuana era un diligente e assiduo alunno di Giurisprudenza nell’ateneo catanese e, già prima, dimostrava buoni propositi dichiarati nella lettera «Ca­tania, 27 aprile 1857» diretta a Lionardo Vigo (la prima in or­dine cronologico, ma l'esistenza di rapporti informali preesistenti si evince dal primo capoverso «Ricevo da Gioacchino nostro la lettera di Lao, e la noticina della spesa d’un foglio per la mia stampa»).

Essa fu scritta in previsione della propria partecipazione al concorso annuale indetto dall’Accademia dafnica di Acireale: «Non mi dispiace punto che il concorso si facesse a’ 17 del cor­rente, quantunque quella Minerva oscura del Dante sia per me di sinistro augurio; poiché mi sembra una dura pretensione quella dell’Accademia volendo che si scegliesse a sorte da tutte e tre le cantiche».

Sappiamo che il giovane aveva studiato fino a 16 anni nel reale collegio di Bronte, irregolarmente e con mediocre profit­to, e quindi nessuna sorpresa se ammetteva implicitamente di non conoscere il Paradiso. «E le difficoltà maggiori per me sa­ranno intorno quest’ultima cantica, che mi converrà studiare ora da capo a fondo». Per completezza aggiungiamo sul concorso alcuni particolari pochissimo noti. Capuana partecipò al con­corso (nella prima classe, fra i giovani di oltre quindici anni) svoltosi in Acireale il 18 maggio successivo, non ottenne la me­daglia d’oro, appannaggio del catanese Gioacchino Geremia Scigliani, ma l'accessit, ossia l’ammissione. Lionardo Vigo, presi­dente dell’Accademia dafnica, nel discorso dedicato alla premia­zione, avvenuta il 25 maggio successivo, adoperò espressioni ol­tremodo lusinghiere e comunicò all’uditorio un’ambita distin­zione conferita al Capuana: «ma sappi che solo per impreve­duti ostacoli Luigi Capuana e Tommaso Catalano furono im­pediti a compiere per intiero i loro scritti: e che tanto essi meri­tarono la nostra ammirazione da essere stati chiamati ad assi­dersi teco fra di noi col grado di Socii Corrispondenti».

Capuana chiudeva la lettera con espressioni di gratitudine e devozione «Con che ricambiarla degl’incomodi che le vò buscando? Niente più che col riverirla ed amarla come Maestro». Quel ricambiarla, interpretato freudianamente, assume un si­gnificato pregnante: l’invio, subito dopo (e anche prima di quella data), di ... antichi canti popolari mineoli di recentissima «in­venzione» di Luigi inseriti nella prima raccolta di Canti popo­lari siciliani, pubblicata dal Vigo nella seconda metà del 1857. In questa lettera — come nelle successive del quarantenne — si colgono due «costanti»: un’iniziativa attinente la carta stam­pata (editore Lao di Palermo), un programma enunciato da rea­lizzare in tempi brevi.

Il periodo, forse più intenso e interessante di Capuana e per l’attività creativa e per i progetti giornalistici (e per gli incarichi amministrativi gravosi di sindaco di Mineo e di consigliere pro­vinciale a Catania, svolti contemporaneamente), è quello che va dal 1884 al 1887, trascorsi a Mineo con brevi permanenze a Ca­tania. Il quadriennio è illuminato, come dicevamo, dalle lettere a Federico De Roberto, circa duecento, in gran parte pubblica­te da Sarah Zappulla Muscarà negli ultimi anni, nell’Osserva­torio politico letterario di Roma. Ed è grave che a fronte di que­sto numero imponente, le lettere di De Roberto a Capuana se­gnalate siano appena sei (Croce Zimbone, La Biblioteca Capua­na, Catania, 1982, pp. 10, e 112).

Esse costituiscono il resoconto degli «esperimenti» e dei «cambiamenti» (diversificazioni e ripensamenti) nell’attività del letterato (con la gestazione, lenta o veloce, di opere significati­ve), di giornalista, di fotografo, di audace progettista di impre­se da capogiro, sempre dilaniato dall’angoscia: insomma, uno spaccato della vita quotidiana con una ricchezza di notazioni e di confidenze — riservate in esclusiva al giovane Federico —, che ben rappresentano la proiezione del Capuana della maturità.

L’inizio dei rapporti epistolari con De Roberto, ventenne appena ma già direttore del Don Chisciotte, risale a quella datata «Mineo, 22 febbraio 1881», nella quale Capuana si rivolgeva al «Gentilissimo Signore», dichiarava di non avere «visto il 2° numero del Don Chisciotte» e si congedava con «La riverisco insieme a tutta la redazione». Era già partito da Catania l’invi­to a collaborare al settimanale perché in quella «Mineo, 20 marzo 1881», diretta «All’onorevole Direttore del Don Chisciotte», si scusava per non aver potuto spedire la novellina destinata al Don Chisciotte e ringraziava «il gentilissimo critico che si na­sconde sotto lo pseudonimo di Cardenio» (uno degli pseudoni­mi di De Roberto). Nella settimana successiva manterrà la pro­messa «Ecco la novellina. Avrei voluto mandarle qualche cosa di meglio, ma il tempo stringeva» (Mineo, 30 marzo 1881).

Evidentemente, è uno scambio di lettere con continuità, se in quella del 7 aprile 1881 Capuana esordisce: «Risposi subito alla sua gentilissima mandando un canto popolare inedito». Sono quelle del 1881 in totale sei (una senza data, ma scritta nel cor­so del 1881), ed è da segnalare — infine — quella dell’8 mag­gio, di ringraziamento delle cinque copie del volumetto Cata­nia - Casamicciola (edito a cura del De Roberto), a cui hanno collaborato, con il Capuana, anche Verga e Mario Rapisardi con Giselda, anche per la qualifica nobiliare nell’indirizzo «Al sig. Federico De Roberto — Asmundo dei Marchesi di Montepul­ciano».

La prima lettera di Federico — nella qualità di consulente editoriale di Niccolò Giannotta — del 3 luglio 1881, è segnalata dal benemerito studioso Gino Raya nella Bibliografia di L. Ca­puana, Roma 1969, p. 51. Dopo, da una parte e dall’altra, l’in­terruzione per oltre un biennio, ossia il 1882 e il 1883, anni che Capuana trascorse a Roma, chiamato alla direzione del Fanfulla della Domenica (settimanale prestigioso, fondato nel 1878, che aveva già raggiunto nei primi del 1880 l’alta tiratura di ventitre- mila copie). Alla fine del 1883 Capuana rientrava in Sicilia, e dal gennaio 1884 iniziava un quadriennio di fitta corrispondenza.

Possiamo, in questa sede, riferire solamente pochissimi brani di alcune lettere su temi ricorrenti: direttive per la stampa dei volumi, fotografie e progressi fotografici moderni, progetti gran­diosi, scadenze cambiarie e giudizi critici «autentici» da non pub­blicare su Giovanni Verga e Mario Rapisardi: «Gli articoli del Fanfulla della Domenica devono essere composti, come testo, in corpo 12» (Mineo, 3 gennaio 1884); invece in una successiva (28 gennaio) dedicava un’intera pagina alle «Norme per la riproduzione autografica», ma la lettera è interessante per la stron­catura del Giobbe rapisardiano e per la definizione del poeta, e, meglio negazione del poeta senza attenuanti «[...] mi confer­mo nella mia opinione che il Rapisardi è un buon verseggiato re, ma un poeta, no, di certo: gli manca la facoltà creatrice, or­ganica; la natura gliel’ha negata».

Un anno dopo (Mineo, 26 maggio 1885) insiste ancora sul corpo 12, ma corsivo: «A proposito di Ribrezzo m’è nata un’i­dea; stampare tutto il volume in corsivo corpo 12! Che gliene sembra? Ecco un ritorno all’antico che mi piacerebbe tanto! È possibile? Ne parli al Giannotta. Io ne sarei contentissimo. È una novità tipografica da tentare da noi. In Inghilterra si è fatta».

Il tema riguardante la fotografia è svolto da un’artista e da un competente con risultati degni di un Cartier Bresson. Foto­grafo sempre, si potrebbe dire del Capuana, anche durante le ultime ore di vita della madre: «Un’agonia tranquilla, simile a un sonno: una morte che fece tornare la sua fisionomia allo stato naturale. Io ho avuto il coraggio di fotografare la Mamma in quello stato, e queste fotografie sono un tesoro per me; le guar­do ad ogni momento e spesso la chiamo, a voce alta, quasi po­tesse ascoltarmi! ».

In quella brevissima del 18 agosto 1886 erano compiegate alcune foto per Federico «Arricchisco di nuovi capolavori fo­tografici il tuo già ricco, piccolo sì, ma museo». L’ultima, del 22 aprile 1887, ci illumina veramente su un Capuana perfezio­nista «Il ritratto lo avrai appena sarò provvisto di carta. Ho scritto a Parigi per una nuova carta (papier Hetmann). Se ne dice meraviglia. Vedi? lo mi tengo all’altezza dei progressi fo­tografici moderni».

Poco spazio, ormai, possiamo dedicare al progetto di fon­dazione di una rivista, formulato nel 1885, e successivamente di un giornale quotidiano a Catania. Per la rivista leggiamo uno schema completo e particolareggiato (il tipo di carta speciale « fa­cendolo fabbricare a posta pel formato in 18°»), la campagna promozionale «nei giornali politici e letterari», i compensi per ciascun tipo di collaborazione (articolo originale, novella, re­censione). Editore Niccolò Giannotta, direttore Capuana e re­dattore capo De Roberto: «Tanti saluti al Giannotta et bien des compliments, a Monsieur le redacteur en chef» (Mineo, 7 giu­gno 1885).

Qualche anno dopo, nel 1887, il progetto è veramente gran­dioso, ma ad alto rischio, anzi azzardato: un nuovo quotidiano a Catania. Sappiamo che in quell’anno si pubblicavano ben quat­tro quotidiani: Gazzetta di Catania, Il Corriere di Catania, Il Telefono. Eco dell’isola, Il Nuovo Gazzettino della sera-, que­st’ultimo cessava di esistere dopo una vita effimera, nel mese di maggio.

La direzione del quinto è stata offerta a Capuana che si ri­serva di accettare se sarà favorevole «l’affare della Banca», os­sia «io potrò prendere formalmente l’impegno della direzione del giornale. Trovarmi con te, Verga, Ferlito (Francesco) e Ca­latola, legati in un’impresa che lusinga il nostro amor proprio ed è anche finanziariamente piena di belle promesse, sarebbe per me un piacere straordinario, il desideratum del mio cuore». I calcoli sulla tiratura tutt’altro che fondati, anzi fantastici; an­che se Capuana concorda e rilancia: «I vostri calcoli mi sem­brano ben fondati. Tre mila copie [...]» all’inizio, e poi «[...] noi avremmo, come avete giustamente calcolato, la conquista di tre provincie e la non ipotetica prospettiva di una tiratura di 12.000 copie». Dopo un turbinio di considerazioni e di cifre un’enunciazione paradossale «Vi è passato pel capo l’idea di am­mazzare, anche per accordi, qualcuno dei giornali catanesi vi­venti? Il Corriere per esempio?» (Mineo, 31 ottobre 1887).

La prodigiosa e diversificata attività e capacità di lavoro di Capuana, degna di un forzato della penna, è notoria (possiamo paragonarlo a Honoré de Balzac, come lui «toujours harcelé par le besoin d’argent »), ma faceva ugualmente ritardare all’au­tore la consegna del manoscritto l’affastellamento di opere di­verse già in cantiere. Lo stato dei numerosi «lavori in corso» è esposto in una lettera del 14 dicembre 1884: «Appena man­dato Ribrezzo mi metterò a copiare il resto della Giacinta. Ho quasi conchiuso col Treves pel Marchese di Roccaverdina. Ho visto la edizione illustrata del C’era una volta?». Ma nei primi dell’anno, aveva già annunziato: «Oggi spero terminare Ribrezzo che mi ha dato molto da fare. Lo ricopierò subito e lo manderò per posta» (Mineo, 28 gennaio 1884).

D’altra parte solamente un Capuana vulcanico poteva con­cepire una novella «sismica»: «Ora sto scrivendo una novella sismica (un genere di cui io mi faccio il creatore, impiccati!) e la manderò al Fanfulla della Domenica» (Mineo, 6 settembre 1887). Nonostante il sovraccarico delle fatiche letterarie residua­vano tempo ed energie per altre attività e responsabilità proprie della vita civile ed amministrativa: il 25 luglio 1885 (rieletto con­sigliere comunale e ancora sindaco per un triennio, e neoconsi­gliere provinciale) scriveva al caro Federico: «Ringrazio la prov­videnziale mano del presidente della corte di assise di Nicosia che mi tirò in sorte perché io vada ad esercitare la nobilissima arte del giurato».

Vivere su un letto di angoscia è tremendo, e altrettanto an­goscioso è l’incubo della scadenza e il mancato rinnovo da par­te della banca, che chiede il pagamento di una montagna di danaro: «Sono in grandissima ansietà. Il giorno sei novembre pros­simo scadrà la cambiale rinnovata delle lire cinquemila avute per mezzo del mio radioso Aprile [...]» (Mineo, 18 ottobre 1887). Il 3 novembre successivo il miracolo non si è ripetuto «Caro Federico, è finita? Ricevo in questo momento il tuo dispaccio e rimango come fulminato».

No, non è finita! il rinnovo dell’effetto è ottenuto ancora una volta all’ultimo momento (forse con l’intervento del baro­ne Pietro Aprile di Cimia, proprietario del Corriere di Catania). E nella lettera del 29 dicembre 1887 poteva annunziare a De Ro­berto che non si interrompeva la consuetudine della lettura di un’opera appena finita agli intimi, fra cui Verga «[...] io verrò costì lunedì: che la lettura della Giacinta sarà lunedì sera, per­ché martedì c’è consiglio provinciale [...]». Visse ancora quasi trent’anni, inseguito e braccato da strozzini implacabili, da cre­ditori pressanti e da avvocati esigenti, fino alla morte avvenuta a Catania il 29 novembre 1915, pensionato dal maggio prece­dente e in attesa della pensione.

(Di Sebastiano Catalano 29 novembre 1983)