disegno di Gandolfo
Spadaccino, dongiovanni e moschettiere, Nino Martoglio, nel periodo della mia giovinezza, ebbe fama torbida e movimentata a Catania, quando sopravvivevano ancora usanze e pregiudizi borbonici, e le signore uscivano in cabriolet, con gli ombrellini a merletti, e i cavalieri mostacciuti fulminavano logge e terrazze con gli occhi, e gli amanti si nutrivano di baci soffiati al vento sul palmo della mano.
Allora, guardare dentro un cortile, fermarsi sotto un balcone, premere col braccio il braccio di una rosata fanciulla poteva costare la vita.
Era il tempo in cui padri, fratelli, mariti assumevano il compito protettivo dell'integrità, non solo fisica, sibbene morale e mentale della donna; era il tempo delle mutande a fil di caviglia e dei costumi da bagno con le calze e le scarpette.
Nino Martoglio cantava gli occhi delle more venditrici di arance e di gazose, le sartine del popolo, le belle alle finestre dietro i vasi di basilico; e aveva motivi delicati e nostalgici, non senza un remoto lievito di arguzia; ma non era soltanto il lirico degli idilli umbertini; era altresì il vivido colorista degli ambienti e dei costumi locali, giocondo ironizzatore dell'ingenuità e della fantasia popolare In questo risentiva un po' del genere, allora in voga, dopo la « Scoperta dell'America » del Pascarella e i quadretti napolitani del Di Giacomo.
Le sue scenette parodistiche degli « 'mbriachi scienti », dei « Civitoti in pretura », dei « Nimici salariati »,' della « Triplici allianza » rieccheggiavano i poeti vernacoli già celebri in terraferma; e, un po' di qua un po' di là, si avvertivano in aria movenze trilussiane o barbaranesche.
Ciò nondimeno il mondo martogliano è schiettamente insulare.
Nuovo era egli, e di piglio e di tono, nel singolar modo di esprimersi o di trattare il gergo o di dar mordente e vita al color del luogo.
Il suo impasto espressivo è tutto umoroso di siculo fondiglio: e più si avvantaggia, nell'icastica dei tipi e dei personaggi, quanto più si avvale, nel rendere la drammatica comicità del temperamento e del carattere siciliano, di una sua inimitabile e irripetibile contaminazione del dialetto vòlto in lingua e della lingua trasferita in dialetto.
Qui fu veramente maestro e Musco apprese da lui il giuoco.
I paladini di Nino Martoglio parlano per metafore grottesche (la durlidana di Orlando col solo vento « arrifriscava l'aria »), la sua « criata sparrittera » è fervida di sintesi caricaturali deliziose (« ogni tantu tei -porta a so mugghieri — tutta '.mpupata ccu 'idi cornocchiali — ca pari ca a scupriri l'amisferi ti), i suoi ubbriachi scienti sono vividi di sdottorante ignoranza:
« la luna nesci quannu è scuru fittu
e iu sparagna, supra l'ogghiu a grassi;
u suli nesci a 'gghiornu; cchi nni fazzu? ».
Citiamo a memoria. Non stia, dunque, il lettore con le pinze pronte.
A Catania il Martoglio iniziò la sua attività giornalistica fondando e dirigendo un settimanale satirico: il D'Artagnan.
In una cittadina che, allora, si giaceva in pace, sobria e pudica, entro la cerchia delle antiche mura, come la Firenze di Cacciaguida, questo coraggioso ed esplodente ebdomadario suscitò allarmi e scalpore.
Martoglio non era l'uomo degli eufemismi e delle perifrasi.
Attacchi, polemiche, indiscrezioni, mottetti, allusioni, satire pullularono in quel diabolico foglio, dove le parole erano sempre sostenute con la punta del fioretto o con la lama della sciabola.
Duelli a rotazione dovette affrontare il Martoglio in quegli anni.
Ma egli li trattava e li considerava come piacevoli varianti delle sue giornate.
Una ferita al polso, un taglio sulla mano, una piccola incisione sulla spalla o sul viso erano logici e normali infortuni del mestiere.
Alla fine di uno scontro, o illeso, o fasciato leggiadramente, il fiero Nino usciva a passeggio per la via Etnea, alto, dritto, con tanto di barbetta petulante, focosi gli occhi, adunco il naso, ampia la fronte, forte il labbro.
La gente si torceva di rabbia e di paura; e le donne andavano in estasi per il poeta dolce di pensieri e ardimentoso di braccio. Infine, altro non era che un romantico spaeasato, un po' moschettiere, un po' ciranesco:
« Nica, Nicuzza mia, Nica d'amuri
e Nica ti chiamai... ».
Come nei drammi rostandiani cerca un nome alla sua donna. Come nei drammi rostandiani canta sotto i veroni con una mano sul petto e l'altra su l'elsa.
Questo stato di cose non può durare. Un increscioso incidente gli leva contro l'opinione pubblica
I nemici ne approfittano per liquidarlo anche nel campo della sua operosità giornalistica. Deve cedere il D'Artagnan ad altri e far fagotto.
Si trasferisce a Roma, cambia vita, mette casa, prende moglie, abbandona la musa.
Musco più volte l'aveva sospinto a scrivere per il suo repertorio. E venuto il momento propizio. Ormai bisogna smetterla con i lirismi e con le avventure pericolose. Il poeta sente già il peso degli anni, dei figli, della famiglia. Si dà al teatro ed è la sua fortuna. Ma Catania gli resta sempre nel cuore. Vi ritorna più volte e più volte riappare lungo le vie della città con quella sua barba a spatola, impettito e altero, in bombetta grigia.
In uno di questi approdi insulari un suo figliuolo si ammala di tifo. Ricoveratolo in ospedale, i genitori lo assistono assiduamente. Martoglio, tuttavia, è costretto a viaggiare. Va e viene da Roma.
Nell'ala del fabbricato, ove ha stanza il degente, c'è un ascensore in costruzione. Quando si dice il destino ! Una notte Martoglio si leva, innanzi l'alba, per avviarsi alla stazione e si avventura, al buio, per le corsie, fidando nel suo istinto di orientamento. Imbocca il corridoio, apre una porta. È quella dell'ascensore. Il baratro lo inghiotte. Nessuno se ne accorge. Il salto dalla vita alla morte è spaventoso e fulmineo.
*di Giuseppe Villaroel ed.1954
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