Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.
«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra. La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini
Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
La vita dei campi è un ideale gaio e sereno, e, da che mondo è mondo, molti lo han sognato, e continuano a sognarlo. E pur bello avere un po' di terra al sole, lungi dalla città, sopra un colle ridente; e, in mezzo agli alberi, lieta di primavera e di fiori, una casetta bianca, d'onde non si ascoltano che canzoni d'uccelli e muggiti di buoi, sparsi nella campagna lontana. Ivi non t'inseguono la ciarla molesta e il pettegolezzo maligno, che si sprigionano dal lastrico delle vie cittadine:
il fattore sta a discorrerti del buon tempo e del ricolto, della festosa vendemmia e della pioggia che manda il buon Dio. E, da Teocrito a Gessner, quanti hanno cantato questo dolce ideale!
L'Arcadia, anch'essa, se ne impadronì e lo sfruttò a suo talento. Mise in mostra pastorelli e ninfe di porcellana, e li fé ciarlare come in un salotto elegante; fece scorrere fiumi di latte; piantò, incorniciati dai suoi orizzonti di cobalto, alberi ingrommati di miele, e carichi di frutta d'oro.
L'Arcadia non è la vita; e quindi è la negazione dell'arte. Le campagne del suo cosmorama sono oleografie francesi da cinque franchi la dozzina. Giacché la vita rustica, come la medaglia, ha il suo rovescio; ed è un rovescio ben triste, sapete! Sono razze affrante di fatiche e di abbrutimento, emaciate dalla terzana, avvilite dal servaggio, che vivono e soffrono alla luce del sole. E Verga, nei suoi bozzetti, ritrae questo triste lato della vita campagnola; egli penetra negli animi di quei poveri villici, e li presenta nella loro semplicità rozza e ignorante, nelle loro passioni stupide e forsennate.
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Conobbi Giovanni Verga, tre anni fa, a Milano. Me Io presentò una sera, in galleria, Felice Cameroni, il brillante appendicista del « Sole », buono come un angelo, ma meno bello del diavolo. Dopo quella sera, con Verga ci rivedemmo sovente, al Biffi, dove sino a tarda notte si stava a discorrere, fumando. E non eravamo soli; ma una piccola colonia di siciliani a dirittura. Si ciarlava, per lo più, di arte e di donne. Auteri raccontava storielle scollacciate. Navarro dava anche lui i suoi giudizi, ma da uomo di mondo, che ha corso la cavallina, e non si lascia sedurre se non da profumi nuovi e squisiti, che producano dolci vertigini. Scontrino ammiccava qua e là furbamente, e ricamava la sua burletta su tutto e su tutti. Capuana non lo si vedeva mai. Qualcuno, nella brigata, fece intendere che egli passava la sera rubando cuori di crestaie e di servotte, sui pianerottoli delle scale; ma, in nome dei suoi capelli bianchi, respingo l'atroce calunnia. Giovannino Avellone veniva qualche volta a romperci le scatole con la sua eloquenza concitata e chiassosa di avvocato penalista...
Verga, di giorno, rimaneva in casa, a lavorare. A quel tempo scriveva un romanzo, Padron Ntoni, di cui adesso ho visto annunziata la prossima pubblicazione sotto un altro titolo: I Malavoglia. È un bozzetto della vita peschereccia, che gli ha costato stenti e fatiche, e che farà un bel rumore, ne sono sicuro. Spesso andavo a trovarlo in quella sua graziosa stanzetta di piazza Scala; e il suo tavolo era sparso di pagine, piene di zampe di mosca, cancellate, corrette, rifatte. Giacché egli, innamorato dell'arte, prova tutti gli sconforti dell'artista, che, nella sua plastica nervosa, non è mai contento di sé. Oggi scriveva una pagina che lo riempiva d'esultanza; domani un'altra che finiva per lacerare rabbiosamente: erano queste ultime le sue giornate bianche, com'egli usava chiamarle.
La sera poi la passava al Biffi, insieme agli amici. Qualche volta recavasi alla Scala; e lo vedevo dalla platea, tutto eleganza e sorriso, che andava qua e là, da un palchetto a l'altro della haute.
E la vita dorata fu, una volta, l'argomento dei suoi romanzi: Eros ne è una prova. Adesso Verga volge il suo sguardo nero e profondo pel paesaggio dell'isola nativa, che tanto si presta ai colori della sua tavolozza. Esso non è il paesaggio napoletano, pieno di luce e di chiasso, dove le fanciulle, belle, discinte, intrecciano folli danze, in faccia al mare, al suono di tamburelli e di nacchere; ma è calmo, molle, sereno, e vi ascolti la mesta canzone, tremolante nella vasta solitudine incendiata dal sole. È come un torpore di Arabia che avviluppa quei selvaggi presepi. Ed è là che Giovanni Verga incontra i suoi pastori e le sue contadine, che soffrono tormenti d'inferno, e ardono alla fiamma di pazzi amori.
* « Capitan Fracassa », 14 settembre 1880. E. Onufrio
Ma che ! " Voi solo — gli scrive Arturo Grafdopo la lettura del " Giobbe „ — in mezzo a tanta sciatteria e vigliaccheria tornate pur sempre con la mente ai grandi dolori, alle grandi lotte, alle faticose fortune dell'umanità, e tessete il verso di lacrime e di grida di ribellione e di canti di trionfo. Lasciate i rospi diguazzare e gracidare nella pozzanghera: lasciate che sputino la bava ond' hanno pieno il corpo! Il poeta d'Italia siete voi. Anzi, non pure d'Italia, ma un poeta voi siete dell'umanità; e coi dolori e con le speranze della umanità a cui li avete sposati, rimarranno i vostri versi, quando di quelli degli altri sarà spenta perfino la memoria „
Esaminando tutta l'opera poetica, che nel corso di circa vent'anni è venuta fuori dalla mente del Rapisardi, rilevasi tutto il travaglio del pensiero moderno in questi ultimi tempi.
Sui canti della Palingenesi (primo lavoro poetico del catanese) aleggia un'alta idealità divina. Fra le malinconiche strofe delle Ricordanze si asside la triste ombra del dubbio. Prorompe, in seguito, il Lucifero, forte e audace poema del razionalismo, combattimento contro le parvenze e i fantasmi di cui era sgombro da poco l'umano pensiero. Ma ecco che, dopo tanta rovina di idoli, sparisce anch'esso l'ultimo idolo, che è Satana: la sua vita è brevissima; esso non rappresenta che un periodo passeggiero di facile rivolta, anzi non esprime che un altro grido di vittoria.
Sopraggiunge un nuovo e grande ideale: la scienza.
Il poeta vi si abbandona interamente, consacra il suo ingegno agli studi positivi e scientifici, rinsangua la sua mente già esausta di ogni ideale, e, illudendosi per avventura che la scienza possa essere elemento di fede, nella foga del suo nuovo amore, traduce il poema di Lucrezio Caro.
Adunque, fino a questo punto, il poeta ha percorso tutta la grande orbita del pensiero moderno. Egli è stato teista, scettico, razionalista, positivista. Il suo canto si è innalzato fra le azzurre idealità di Mazzini, di Quinet, di Victor Hugo; cadendo poscia da tant'alto, ha aleggiato sui campi della desolazione, tutto assorto come in una visione leopardiana.
Poscia, inebbriandosi della abbagliante luce di magnesio, che mandavan le torce de' razionalisti, il Rapisardi lanciò anch'egli il suo dardo contro il debellato Olimpo.
Seguì indi, come abbiam detto il periodo del sano e vital nutrimento: Spencer, Darwin, Stuart-Mill, Buchner, Feuerbach, gli forniscono il cibo agognato, ed egli, dopo sì lauto pasto, parve acquetarsi nel sereno soddisfacimento della scienza.
E adesso ecco venir fuori il Giobbe. Che cosa è dunque questo Giobbe?
Tre anni or sono, essendosi il Rapisardi accinto da poco a codesto poema, così brevemente piacevagli esprimermene il concetto: — Dopo l'epopea del diavolo, l'epopea dell'uomo.
Dunque il Giobbe è il poema dell'uomo. Ma non basta.
Il Giobbe è il poema dell'uomo, pensato e scritto da un poeta che dell'uomo e delle sue sorti è conscio, che dell'umana sapienza è consapevole, e la cui mente è libera da qualunque idealità.
Il Rapisardi è stato teista, scettico, razionalista, positivista; e positivista rimane tuttavia; ma la scienza per lui non è fede, è esclusivamente conoscenza : egli dunque guarda i destini degli uomini e delle cose con la malinconia serenità del chiaroveggente.
Hanno detto che il Giobbe sia il poema del dolore: il Rapisardi medesimo, illudendosi intorno all'opera sua, ha espresso tal pensiero in una breve prefazione. Ma questo dolore non è elemento estetico o sentimentale del poema; non scaturisce nemmeno da esso, o, se verso la fine in qualche modo vi alita, ha un tal carattere di subiettività e di fugacità che non lo si può chiamare parte inerente all'organismo del poema, che, essendo come un epilogo dell'opera umana, esprime le idealità fatali e meccaniche delle varie generazioni attraverso i secoli.
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Esaminando il Giobbe, ancor questo è da notare: delle tre parti in cui dividesi il poema, la prima è affatto disgiunta dalle altre. Dirò anzi: il concetto sostanziale del poema svolgesi nelle ultime due parti. La prima parte è storica, è drammatica, è esclusivamente lavoro d'arte. Il poeta toglie dalla Bibbia la grandiosa figura di Giobbe, e, seguendo il testo biblico, la tratteggia ampiamente e splendidamente.
Solo quando giunge al punto delle famose lamentazioni, egli nella figura del patriarca incarna tutta l'umanità, e dalla bocca del vegliardo par che prorompa l'alta voce de' secoli.
Impadronitosi di questa figura di Giobbe, il poeta se ne serve per accompagnarla attraverso il faticoso procedere del pensiero umano, e, volendo scegliere un periodo che a noi personalmente interessa e la cui storia è completamente nota, egli svolge tutta la grande orbita del pensiero e della civiltà cristiana nel suo splendore, nelle sue battaglie, nelle sue sconfitte e nel suo decadimento, venendo fino alla morte dell'ultimo idolo, cioè di Satana, ed entrando poscia nel trionfale splendore del rinnovamento scientifico.
E la terza parte è tutta consacrata a questo grande e nuovo ideale del positivismo. E il poema, che nella prima parte è drammatico, nella seconda è allegorico, con molto ma debole elemento drammatico e con abbastanza di lirico, nella terza parte è affatto didascalico, o, per dir meglio, scientifico.
Nella prima parte il poeta è dominato dall'opera d'arte; nella seconda e nella terza è il concetto sostanziale che lo conduce.
Verso la fine, Giobbe non è pago del grande sapere fornitogli dalla scienza; vuole andare più in là, si mostra scontento, vorrebbe rompere i limiti all'uomo assegnati dalle leggi di natura. In conclusione Giobbe rappresenta l'uomo ormai sciente, non più soggiogato da verun ideale, e che racquista la propria individualità. Questo è il Giobbe.
E l'opera d'arte?
Il Rapisardi, è noto, è grande artefice di versi, e, nel dar vita e forma ai suoi fantasmi d'arte, ha un'impronta di originalità incontestata. Nella seconda parte l'azione è varia e rapida; molte delle laudi e delle odi che vi son frammiste riescono interessantissime; il canto de' goliardi è come un allegro raggio di sole che balza fuori dalle mistiche tetraggini medievali, in cui si è dibattuto per lungo tratto il poema:
O fanciulla che languida giaci Fra le piume, e sognando sorridi, Il ciel suona di canti e di baci, Freme il bosco d'amplessi e di nidi: O fanciulla, son rapide l'ore Della gioia, a te mormora il rio; Sorgi, vieni, ti dice il cor mio; O l'amore, l'amore, l'amore !
Nella terza parte, sebben didascalica, tutta la gran vita della natura è così largamente ed epicamente tratteggiata, che obliasi affatto l'aridità dell'argomento, per tener dietro co' sensi innamorati a quella larga onda d'armonie.
Ma, sopra tutte, notevole è la parte prima. Ivi c'è il dramma, muovonsi figure umane, campeggiano sentimenti e passioni umane ; e per conseguenza c'è la vita, e la grande arte sfavilla. Con minuziosa maestria son descritti i vasti possedimenti di Giobbe:
.........Il vagabondo Arabo avventurier, che con la lercia Famiglia e col destrier fido e il camello L'orme inseguiva della sua fortuna, Consistere vedea sui verdi colli Come un'immensa candidezza, e tosto Riconoscea le innumerate gregge Di quel felice, onde suonava il grido Per ogni terra orientale...
Rabbrividente per verità di colori e di immagini è la descrizione della morte degli animali colpiti dalla lue. Dolce e soave è la figura di Sara; bella e fiera quella di Zilpa. Spirano una fraganza tutta orientale le canzoni di entrambe. L'una dice così :
Ho pregalo pregalo, e il ciel s'è aperto, E n'è disceso un giovine signor: D'erbe si copre l'arido deserto, Un limpido ruscel corre tra' fior. Neri ha i capelli come gran di pepe, Ha gli occhi di gazzella il mio fedel; Il mare e il monte hanno i suoi campi a siepe, I padiglioni suoi levansi al ciel.
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Bello è il mondo, ma bello anche è il mio core,
Come il sole il mio cor di fiamme è pien:
Resti il sole ed il mondo ara al Signore,
Regno ed ara d'amor solo il mio sen.
Un vero quadretto di genere è la scena domestica in casa di Sara, con quella caratteristica figura di Anna, la vecchia nutrice. Questa Anna sembra veramente una figura dipinta da Giacomo Favaretto: il poeta la tratteggia minutamente, con intelligente maestria di coloritore. Guardate ad esempio questi graziosissimi tocchi di pennello. La vecchia Anna corre, e, nella corsa, perde un zoccolo:
Sgusciato nella corsa erale un grave
Zoccolo, ond'essa a questo ed a quel fianco
Preso e tratto a ginocchio il grigio sajo,
Sul pie mal fermo balzellon venia,
Come gallina che correndo al cibo
In arruffato canapel s'impigli.
Veramente epico è quel brano delle lamentazioni di Giobbe, dove, per la bocca del patriarca, favella l'umanità. Vorrei riportarlo per intero se le esigenze dello spazio in un foglio politico non fossero veramente ti ranniche. Io rimando gl'intelligenti alla lettura di tutto il poema.
Intorno al quale dirò solamente questo: esso segna nel campo filosofico l'ultima meta a cui l'umano pensiero, dopo tanto travaglio, artisticamente o scientificamente possa pervenire. L'arte s'è rivestita dell'ultima e nova idealità moderna dandole forma e drappeggiamento epico. I posteri, nello studiare l'agonia di questo nostro secolo strano e tormentoso, guarderanno certo a quest'orma artistica lasciata dal Giobbe. E se tale orma sia stata lieve o profonda, essi li diranno.
* « Giornale di Sicilia », 8 febbraio 1884. E. Onufrio
Amore, amore non dammi riposo, Amore, amore il mio seno ha corroso; Alzar le ciglia, e guardarlo non oso Quel Dio pietoso, che me volse amare.
O santa piaga del lato di Cristo, Da che al tuo sangue il mio pianto s'è misto, Il paradiso dell' anima ho visto, Al cui conquisto mi voglio affrettare.
Con le mie mani tremanti t'attingo, Con labbra smorte ti bacio, ti stringo, Del tuo colore quest' anima tingo, E più la spingo e più vuol penetrare.
Il sapor dolce, la grata fragranza Più sempre accende la mia desianza; O mia dolcezza, mia sola speranza, Mia sola amanza, in te vommi mutare.
Amore, amore, amor solo, amor santo, Deh! com'è dolce morirti da canto, Com'è suave distruggersi in pianto, E in un mar santo di luce affogare!
Ebbi rimorsi di non essermi sentito Siciliano abbastanza; di avere esagerato anch’io i difetti del carattere isolano, e di avere apprezzato equamente pregi e particolari ogni volta che, interrogato, avevo dovuto ragionare; ebbi rimorso di non aver difeso clamorosamente, e senza sciocche gonfiezze di amor provinciale, la Sicilia, quando l’avevo sentita mal giudicata o calunniata... cosa non rara purtroppo! (Capuana da L'isola del sole - proemio, Giannotta ed., Catania, 1914)
La vastissima produzione di letterato e di critico di Luigi Capuana è conosciuta universalmente (e la diversificazione in generi letterari numerosi nell'ambito di essa dà la misura delle qualità dell'Autore); meno conosciuta per taluni risvolti la dimensione politica, che il Nostro esplicò con grinta e con passione, pur con le pause degli anni vissuti a Firenze a Milano e altrove — per un trentennio, congiuntamente anzi strettamente intrecciata con l'attività letteraria.
Fu una vocazione o predisposizione, lontana nel tempo, risalente agli albori dell'Unità, se troviamo il Capuana nel maggio 1860, appena ventunenne, vice presidente del «Comitato di operazione di Mineo», insediatosi dopo lo sbarco di Garibaldi per il dissolvimento degli organi municipali (cfr. Gino Raya, Bibliografia di L. Capuana, Roma, 1969, p. 12). Il 30 giugno successivo, il presidente del Municipio portava a conoscenza del Capuana che il Governatore del distretto l'aveva nominato «Segretario Cancelliere di questo Consiglio civico». L'incarico, provvisorio, fu espletato egregiamente per tutto il semestre. L'11 agosto 1861 fu scelto dal Governatore come consigliere del comune (il Consiglio civico in questa fase non era ancora elettivo) ed invitato alla sessione che iniziava il 20 successivo (cfr. C. Zimbone, La Biblioteca Capuana, Catania, 1962, p. 62). Ancora qualche anno trascorso nel natio loco e poi l'espatrio a Firenze, dove rimase per cinque anni, fino al 1868.
Nell'agosto del 1868 (era rientrato a Mineo alla fine di giugno), la morte improvvisa del padre e «gli affari di famiglia» gli imposero di rimanere a lungo. Riprendeva i contatti con i conterranei e, in particolare, con Lionardo Vigo e con Mario Rapisardi. Nel 1870, nel corso dell'anno scolastico, dalla Giunta comunale fu nominato «ispettore scolastico municipale». Di questo incarico, adempiuto con senso del dovere, rimane il testo del lungo discorso pronunziato il 24 novembre 1870, giorno della solenne premiazione (Il bucato in famiglia, Catania, 1870, pp. 23). È questo il tramite, o il ritorno di fiamma, che lo traeva dal privato al pubblico.
Nelle elezioni amministrative, svoltesi nel corso dell'anno, venne eletto consigliere comunale: iniziava così il nuovo ciclo di attività amministrativa, al servizio della cittadinanza. Nel 1872, con regio decreto del 29 febbraio, venne nominato Sindaco di Mineo. Dopo pochi mesi il consiglio comunale fu sciolto e la gestione affidata al R. Delegato straordinario cav. Antonino Fassari inviato dalla prefettura (rimane una Relazione sulla tenuta dell'amministrazione del Comune di Mineo, Catania, 1872). Del nuovo consiglio, che tenne la prima seduta il 24 agosto 1872, fece parte il rieletto Capuana, che dopo venne nominato sindaco, sempre con regio decreto.
Le sindacature del Capuana durarono, in questa fase, poco meno di quattro anni. In una lettera («Mineo lì 2 marzo 1875») all'amico Giovanni Gianformaggio, Capuana lo informava della stesura di una relazione riguardante il periodo della sua amministrazione «Sto scrivendo la mia relazione al pubblico delle cose fatte nei quattro anni di sindacatura» (L. Capuana, Carteggio inedito, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Catania, 1973, p. 11). Le elezioni, che si svolsero nel luglio 1875, segnarono la sconfitta dell'amministrazione guidata da Capuana.
La quasi totalità dei biografi e degli studiosi sono convinti che le sindacature del Capuana furono solamente queste, specificando erroneamente la durata continua di cinque o di sei anni. Tutti omettono la sindacatura triennale dal 1885 al 1888. La testimonianza in tal senso nel Carteggio Verga-Capuana, edito da Gino Raya (Roma, 1984, pp. 274-275), ed è Capuana che in una lettera, inviata da Mineo il 9 agosto 1887 dopo il lungo sfogo confidava all'amico Giovanni: «Come Sindaco non ne posso più! ». Rimarrà in carica ancora un anno. Un cronista del quotidiano catanese Il Telefono — Eco dell'Isola riferiva, nel novembre 1887, nella rubrica «Vediamo un po'», un incontro non comune. Lo stelloncino era titolato «Il Sindaco di Mineo»: « Luigi Capuana, il fortunato autore di Giacinta, è qui fra noi da parecchi giorni. L'ho incontrato al corso con Giovanni Verga» (a. I, n. 104, martedì 15 novembre 1887, p. 2).
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Nel decennio intercorso fra le sindacature del 1872-1875 e l'ultima del 1885-1888, vi fu la fase propriamente politica allorquando il Capuana si convinse che la conquista della medaglietta fosse agevole nel Collegio elettorale di Militello in Val di Catania, che comprendeva anche il comune di Mineo. Nel primo decennio dopo l'Unità d'Italia, il collegio era stato conquistato agevolmente dal barone Salvatore Majorana-Cucuzzella. Nel decennio successivo, con inizio il 20 novembre 1870 fu rappresentato, per le successive cinque legislature, dal professore Salvatore Majorana Calatabiano, che cessò automaticamente il 13 luglio 1879 per la nomina a senatore. Questa l'occasione buona per l'inserimento (pensava il cav. Luigi Capuana).
Nelle elezioni indette per il 3 agosto 1879, Capuana ebbe due forti avversari: il barone Benedetto Majorana Ramingo, che sperava di ereditare l'elettorato di famiglia del padre Salvatore, già deputato, e Ippolito De Cristofaro dei baroni dell'Ingegno, che aveva compatti i voti degli elettori di Scordia.
Vinse quest'ultimo largamente, e il povero Capuana, buon ultimo, si dovette accontentare di appena 66 voti (su un totale di 532 espressi validamente). Le elezioni generali per la nuova legislatura si svolsero il 16 maggio 1880 e l'uscente De Cristofaro ebbe per competitore unico il Capuana che fu ancora una volta soccombente (De Cristofaro voti 421, Capuana 114). Dell'insuccesso vi è traccia incisiva nella lettera inviata da Verga pochi giorni dopo («Milano, 28 maggio 1880») «Temevo che tu fossi in collera con me, come l'amico Campi, per il fiasco elettorale»; della candidatura ampia pubblicità nel quotidiano catanese Il Plebiscito (a. 1, n. 102, del 10 maggio 1880, p. 2), che l'appoggiò calorosamente.
Dobbiamo ora considerare, e con indagine mirata, la terza ed ultima fase dell'attività politico-amministrativa di Capuana, che va dall'anno 1885 al 1892, così frenetica e convulsa nello svolgimento da meritare lo slogan «politica ad oltranza» (o, come si direbbe in Francia, «politique d'abord, tout d'abord»). Il sindaco Capuana, in sella dall'agosto 1885 è indaffaratissimo; non solo «per patrocinare il bilancio del Comune presso la Depurazione provinciale» (lettera a G. Verga del 3 dicembre 1885), ma per i nuovi pesanti obblighi sopravvenuti dal luglio '85 con la elezione a consigliere provinciale per il mandamento di Mineo. Subentrava al barone Francesco Spadaro, che era stato eletto nel 1861 e rieletto dopo per un quarto di secolo. Il cav. Luigi Capuana raccolse 214 voti e fu probabilmente presente alla prima seduta della sessione ordinaria del 10 agosto; dopo l'insediamento, fu eletto componente della 3a commissione Istruzione e beneficenza.
Ma le assenze, fin dai primi mesi, furono molto più numerose delle presenze. Aveva promesso a Federico De Roberto, in una lettera del 20 novembre '85, di occuparsi di un affare editoriale a breve scadenza «Me ne occuperò costì, appena dovrò venirci pel Consiglio provinciale». Anche Giovanni Verga sembra deluso per l'assenteismo e così gli scrive il 16 dicembre '85 «Fui sino dal Giannotta a chiedere di te, quando sfumarono le speranze di vederti in occasione delle sedute del Consiglio provinciale. Bel consigliere che fai! ». Esplicò una certa attività; nella seduta del 15 dicembre 1886 fece aggiungere due proposte: la prima «per dichiararsi provinciale la strada Fondacaccio-Mineo» e l'altra «per un sussidio all'osservatorio sismico meteorologico di Mineo» (sollecitata dall'amico Corrado Guzzanti). Dopo, negli anni successivi, le sue assenze divennero sistematiche, e sappiamo che per lunghi periodi soggiornava a Roma e nella primavera del 1888 divenne redattore del Corriere di Napoli, diretto da Edoardo Scarfoglio.
Trascorse così il quadriennio del mandato di consigliere e nelle elezioni successive, indette per domenica 27 ottobre 1889, il quotidiano Corriere di Catania, appoggiava il candidato Capuana per i suoi meriti di letterato, ma si esprimeva con cautela per il resto e con monito per l'interessato; «Quantunque dimorante a Roma il nome illustre ci obbliga a sostenerlo, e confidiamo che gli egregi amici nostri, i quali colà si sono messi in candidatura in opposizione al Capuana vogliamo ritirarsi. Del resto nella nuova legge è sancito il principio della decadenza ed ove il Capuana non rappresentasse gli elettori al Consiglio provinciale si farebbe sempre in tempo per soddisfare alle legittime aspirazioni dei cittadini di Mineo» (a. XII, n. 292, giovedì 24 ottobre 1889, p. 2).
La spada di Damocle della decadenza non turbò il nostro consigliere, che svolgeva la sua attività di scrittore e di giornalista a Roma, cosicché nei primi mesi del 1890 fu avanzata dal prefetto «la proposta di decadenza per le assenze ingiustificate alle sedute della sessione ordinaria». Essa fu posta all'ordine del giorno della seduta dell'8 aprile 1890. Parlarono a suo favore numerosi consiglieri: gli avvocati Eduardo Cimbali e Giovanni Auteri Berretta e, ancora, l'autorevole comm. Francesco Tenerelli senatore del regno. Perorarono efficacemente, sostenendo che le assenze del Capuana erano giustificate, in quanto dovute a malattia. Il prefetto Vincenzo Colmayer « custode della legge», pur non perfettamente convinto, tuttavia ritirò la proposta di decadenza.
Due anni dopo Luigi Capuana presentava formali dimissioni che furono accettate. Si chiudeva così definitivamente un ciclo di attività extra letteraria durato circa trent'anni. Si apriva un altro capitolo della vita di Luigi Capuana: aveva ottenuto dal ministro della P.I., nel novembre 1892, la nomina di professore incaricato dell'insegnamento di letterature straniere comparate presso il R. Istituto Superiore di Magistero femminile di Roma.
(La Sicilia, 29 novembre 1985) Sebastiano Catalano
Tra i più importanti esponenti della scapigliatura milanese, fu particolarmente legato ad altri scrittori del genere come Emilio Praga e Luigi Conconi ed è ancora oggi apprezzato per la schiettezza dei suoi scritti, il linguaggio ricercato ma comprensibile a tutti, la spiccata ironia e la critica che mosse al suo tempo anche in ambito politico e sociale.
A poco a poco questo Carlo Dossi han finito per istrapparlo dall'oscurità. Qualche editore stampa i suoi libri, e qualche giornalista se ne occupa. Ciò non ostante chi ne sa qualche cosa di costui? Dove abita? con chi vive? è egli giovane o vecchio? Non è facil cosa rispondere a tutte queste dimande. A Milano dov'io feci, assai tempo addietro, lunga dimora, e dov'era amico degli amici del Dossi, quest'ultimo non lo vidi che una volta sola, per caso. La sua figura mi colpì. Stetti un pezzo a mirare fisamente quella strana testa d'uccello appiccicata ad un esile corpo. Egli non proferiva che poche parole, per forza, come colui che si annoia financo ad aprir la bocca.
Nel suo sguardo, nella sua voce c'era come una triste espressione di stanchezza. Pareva un uomo che avesse assai sofferto e assai pensato.
Carlo Dossi avea fatto parte di un cenacolo artistico, nel quale torreggiava la figura erculea di uno scrittore dalla coltura eclettica e dal vasto e poderoso ingegno, Giuseppe Rovani. Morto Rovani, quel cenacolo si sbandò. Grandi, lo scultore che sta lavorando nel monumento per le Cinque Giornate, cominciava a farsi un nome col suo Cesare Beccaria; Tranquillo Cremona aveva acquistato un'autorità pari al suo valore; Levi e Perelli s'erano buttati al giornalismo; Carlo Alberto Pisani Dossi, cioè Carlo Dossi, sebbene agiato, desiderava quel che si dice un'occupazione. Ognuno dunque cominciava a pensare al fatto suo. Non pertanto se il cenacolo più non esisteva come un'intima brigata di amici, continuava sempre ad esistere come un'affettuosa armonia d'intelligenze.
Ma il Dossi rimaneva ancora ignoto, o quasi. Del resto credo che egli rifugga del consorzio degli uomini. A me pare che questo forte originale e caratteristico scrittore debba nutrire un profondo disprezzo per la società. Ci aveva la mamma, una santa donna di alto e libero ingegno, e la mamma gli è morta. Ci aveva un cane, ma un rospo gliel'ha morsicato, e se n'è ito il cane. E adesso Carlo Dossi è rimasto solo.
Dico male: a Roma, dov'egli è impiegato al Ministero degli Esteri, ci ha due fidi amici, il Levi e il Perelli, direttore il primo, redattore l'altro della « Riforma», ma costoro passano il santo giorno strascinando
la catena del giornalismo; e il Dossi non li vede che qualche volta la sera, a ora tarda. Li vede per salutarli, perché essi non s'impensieriscano sul conto suo; e poco dopo se ne va, meditabondo, seccato.
Oh i bei giorni del cenacolo, a Milano! Oh come allora si sturacciavano allegramente le bottiglie, anfitrione, nume e protettore Giuseppe Rovani, là, in quella rumorosa Osteria del Gallo.
D'altronde a quei convegni io credo che il Dossi c'intervenisse di raro. Il suo intelletto è fatto per la solitudine. Tutto ciò che è folla lo annoia; tutto ciò che è rumore lo disturba. Che importa a lui della gente? Che importa a lui della società? Che gliene importa della rinomanza della gloria? Egli possiede una vasta coltura, ma la dottrina a lui non serve che come un nutrimento di cui ha bisogno. Egli conosce il latino, il greco antico, l'ebraico, il caldeo, ma tutta questa roba se la tiene in corpo, per sé. Pare che non avesse potuto resistere all'impulso di scrivere —- e scrisse; ma che ne fece, sino a poco tempo addietro, dei suoi romanzi? li stampò con gran lusso, in edizioni... di cento esemplari. Ognuno di questi esemplari era messo in vendita per cento lire; e così il Dossi raggiungeva il suo scopo, ch'era quello di non venderne nemmeno uno.
Un solo editore, il Sommaruga, ha potuto vincere una tale ripugnanza per la pubblicità che possiede in sommo grado il Dossi; e appunto il Sommaruga ha ristampato adesso due suoi vecchi lavori: la Colonia Felice ed i Ritratti Umani, che in questi giorni ho letto, anzi ho riletto, con interesse grandissimo.
E le impressioni che ne ho ricevuto sono state molte e varie; questa anzitutto: che il Dossi non sarà mai popolare. Questo scrittore, che pure nei suoi intenti artistici è così democratico, è poi estremamente aristocratico nella forma. In lui non il periodo lindo e leggiero che scivoli elegantemente come slitta sul ghiaccio; ma il tocco forte e conciso, ma la frase concettosa ed efficace, ma il periodo muscoloso e breviloquente. Codesto ameranno senza dubbio lettori intelligentissimi dal gusto raffinato, ma non amerà la plebe folta dei leggitori dal breve comprendonio, dalla non nutrita intelligenza, dalla poca voglia di studiare e di imparare leggendo. A questo si aggiunga la numerosa introduzione che fa il Dossi nella sua prosa di nuovi o poco usitati vocaboli, tratti in gran parte dal dialetto lombardo; si aggiunga anche la strana accentuazione, non del tutto illogica e inutile da lui adoperata e ne avrete abbastanza perché i lavori di questo originalissimo scrittore non possano mai essere completamente accettati dalla moltitudine.
La originalità del Dossi, leggendo appunto i suoi libri, sembra dapprima che consista solo nella rude e ferrea magia della forma, e invece codesta originalità risiede non meno nella parte sostanziale dell'opera. Gli è che l'armonia tra le due parti è grandissima; può dirsi anzi, senza tema d'errare, che l'una s'immed sima incosciamente nell'altra o che entrambe scaturiscono d'un sol getto insieme.
Che fa il Dossi nei suoi libri? Studia e svela l'uomo, o, per dir meglio gli uomini, nella loro individualità e nella loro comunità. Ed è strano! Questo solitario, questo refrattario dal sociale consorzio, quest'uomo che ha vissuto e che vive tutto immerso in una solitudine triste e contemplativa, conosce la società e la vita in un modo che mette spavento. È per effetto di osservazione, o solo per effetto d'intuito? Certo l'osservazione vi ha avuto la sua parte, né sarebbe possibile altrimenti; ma la forza dell'intuito deve essere in quest'uomo ferrea e profonda. Tutto ciò che è vizio, ipocrisia, malignità egli lo conosce, lo anatomizza e lo svela; non v'è angolo del cuore umano che gli sia ignoto, non v'è arcano del pensiero che egli non intuisca e non afferri. Le sue dipinture, brevi ed efficaci, talvolta mettono i brividi; in una frase, in un motto egli è buono a scolpire un'indole, a fermare con efficacia scenica una situazione. Né egli è artista obiettivo soltanto. Egli, quasi sempre, rivelando, giudica, giudicando, condanna. I tipi ch'egli rappresenta, sembrano suoi nemici ch'egli aggredisce, doma e costringe a soccombere. Ed è una lotta disperata, corpo a corpo, alla quale il suo stile, che sembra opera di un bulino di cesellatore, dà efficacia strana e fortissima di contorni, di linee di espressioni e di movenze.
Questo è il Dossi. Tale è soprattutto nell'opera sua più seria e più completa che è la Desinenza in A, grande e luminosa lanterna magica di viventi. E la Desinenza in A, fa desiderare che il Dossi si accinga ad un'opera di più vasta mole: che tenti il romanzo sociale, dalle grandi linee e dalle molteplici figure. Vi riuscirebbe? Io non so; certo un suo tentativo, anche rimanendo semplicemente un tentativo, potrebbe chiamarsi con precedenza un serio lavoro.
Ma dalla Desinenza in A son già trascorsi circa sei anni, e Carlo Dossi non ci ha dato più nulla di nuovo. Difatti la Colonia felice ed i Ritratti umani, che ci han fornito l'occasione di questo articolo, non sono che delle ristampe. Che fa egli dunque il Dossi, egli, l'artista dalla inesauribile tempra? La stanchezza l'opprime a tal segno, da fargli trascurare il suo unico svago, quello cioè di far conoscere gli uomini agli uomini?
Se ciò è, io ne sono dolente per lui che soffre; dolente per l'arte, la quale, con suo detrimento, dalle sofferenze dell'uomo vede anche derivare l'inerzia dell'artista.