mercoledì 2 giugno 2021
Gridi e cantilene del popolo siciliano
martedì 1 giugno 2021
NINO MARTOGLIO IL GIORNALISTA E IL POLITICO ... duellante
Nino Martoglio è arcinoto e arcifamoso per l’ingegno che riversò a profusione in una gamma di attività creative (e... non creative): per la voluminosa raccolta di poesie siciliane Centona; per le commedie che man mano crearono, con i tipi bene incisi — a cui Musco prestò con voce e mimica la maschera di impareggiabile interprete assicurando ad essi vita imperitura (senza tuttavia, come — a proposito di Giovanni Grasso — Giovanni Verga scriveva nel 1908 a Edouard Rod, la «caricatura grottesca del carattere siciliano») — un teatro siciliano; per il suo discernimento nella ricerca di nuovi validi attori e il talento di organizzatore di compagnie teatrali che mieterono successi in Sicilia e in Italia; per la sua attività di regista cinematografico; per il suo inimitabile stile di giornalista polemico e versatile; per la sua fama di focoso amatore, nonché di elegante spadaccino con il ferro sempre in mano da incrociare con chiunque al minimo contrasto — provocato o meno non aveva importanza — (onde le sfide a volte multiple, cioè con più persone che si ritenevano contemporaneamente offese da un suo scritto in prosa o in versi, e che rendevano difficile il compito dei secondi di stabilire un «turno» e quindi la «precedenza»); ma molto meno è conosciuto per la sua attività politica che — iniziata con chiara presa di posizione all’epoca dei Fasci siciliani — e dopo due insuccessi nelle competizioni amministrative di fine secolo, come vedremo — coronava nel 1902 con l’elezione a consigliere comunale di Catania, nella lista dei «Partiti popolari» in quell’anno vittoriosa.
Nino Martoglio
CAPUANA, PENNA VULCANICA
Antichissima è la convinzione che una nuova vita appena sbocciata è contrassegnata, fino alla morte, dal segno di una costellazione (ricordiamo che il sedicenne Aniante da Sindonae — scomparso come Antonio Aniante il 13 novembre appena decorso — esordì nel 1916 con l’opera poetica Costellazioni. Poemi universali e, in essa, metà delle composizioni furono raggruppate in una sezione intitolata «Le medaglie zodiacali»),
E se vogliamo dar credito all’influenza dei pianeti sul carattere dei viventi, scrutiamo i segni positivi e negativi del neonato Luigi Capuana, nato a Mineo il 28 maggio 1839 (secondo accurate ricerche in giorno di martedì), che fu molto sensibile alle coincidenze, ai sogni, ai numeri, allo spiritismo. I nati, come il Nostro, sotto il segno zodiacale dei Gemelli, prima decade, sono sotto l’influenza di Mercurio, e secondo la specialista di studi astrologici Ruth Anderson «avranno una personalità ingegnosa, percettiva, studiosa. Ma, se questo pianeta è in aspetto negativo porterà loro curiosità, pigrizia, dissipazione».
A proposito della dissipazione, è pienamente calzante una profezia vergata, nel 1887, dal medesimo Capuana quarantottenne, che inviava all’amico Federico De Roberto compiegata alla prefazione di Homo, una raccolta di novelle in corso di stampa presso gli editori Treves di Milano: «Troverai in mezzo al ms. una stampa. È una copia d’una mia profezia; così avrai in mano tutti i documenti per dimostrare alla mia morte, che io ho fatto tutti i mestieri cominciando dal poeta e finendo al Profeta. Sì, ho fatto tutto meno di quello che avrei dovuto fare, di non fare debiti» (Mineo, 29 agosto 1887).
In Luigi Capuana la personalità «ingegnosa, percettiva, studiosa» si rivelò con manifestazioni precoci e vistose, così come ebbe in eminente «curiosità, pigrizia, dissipazione». La versatilità e la flessibilità dell’ingegno lo spinsero a cimentarsi in quasi tutti i generi della letteratura (considerato critico incisivo già nel quadriennio 1865-1868 trascorso a Firenze, e autorevole alla fine del decennio successivo a Milano); ed altresì in attività di ordine pratico non disgiunte dalla tecnica dell’artista (fotografia, incisione, disegno e caricatura). Acquisite in un arco di tempo lungo, esercitate e dispiegate alcune di esse nelle poche ore di «otium» pur presenti nella giornata intensa, con professionalità e disinvoltura, ma anche con l’affanno e l’angoscia delle scadenze cambiarie che vengono postergate con provvidenziali interventi (ma ritornano sempre più minacciose col trascorrere del tempo, perché ancor più onerose per gli interessi) che, tuttavia, lo spingevano a lavorare sempre di più, con la breve paura — come vedremo con dati dettagliati — per una missiva vergata di getto, diretta a un giovane catanese poco più che ventenne, che si avviava — siamo agli inizi degli anni Ottanta — al giornalismo di livello nazionale e al romanzo: Federico De Roberto.
La sonda che illumina l’inconscio e, insieme, la cartina di tornasole che reca impressa la realtà del sottosuolo psichico, è costituita appunto dalle lettere qui esaminate, vergate in due epoche lontane un venticinquennio (numerose e inedite, l’esame sarà rivolto alla prima del 1857 ed a un numero minimo del secondo gruppo, della maturità capuaniana, che può assumere adeguatamente il ruolo di campione rappresentativo).
Un episodio lontano è racchiuso in una interessante lettera del giovane al «nume tutelare» dei giovanissimi aspiranti poeti. Alla fine del 1857, il diciottenne Capuana era un diligente e assiduo alunno di Giurisprudenza nell’ateneo catanese e, già prima, dimostrava buoni propositi dichiarati nella lettera «Catania, 27 aprile 1857» diretta a Lionardo Vigo (la prima in ordine cronologico, ma l'esistenza di rapporti informali preesistenti si evince dal primo capoverso «Ricevo da Gioacchino nostro la lettera di Lao, e la noticina della spesa d’un foglio per la mia stampa»).
Essa fu scritta in previsione della propria partecipazione al concorso annuale indetto dall’Accademia dafnica di Acireale: «Non mi dispiace punto che il concorso si facesse a’ 17 del corrente, quantunque quella Minerva oscura del Dante sia per me di sinistro augurio; poiché mi sembra una dura pretensione quella dell’Accademia volendo che si scegliesse a sorte da tutte e tre le cantiche».
Sappiamo che il giovane aveva studiato fino a 16 anni nel reale collegio di Bronte, irregolarmente e con mediocre profitto, e quindi nessuna sorpresa se ammetteva implicitamente di non conoscere il Paradiso. «E le difficoltà maggiori per me saranno intorno quest’ultima cantica, che mi converrà studiare ora da capo a fondo». Per completezza aggiungiamo sul concorso alcuni particolari pochissimo noti. Capuana partecipò al concorso (nella prima classe, fra i giovani di oltre quindici anni) svoltosi in Acireale il 18 maggio successivo, non ottenne la medaglia d’oro, appannaggio del catanese Gioacchino Geremia Scigliani, ma l'accessit, ossia l’ammissione. Lionardo Vigo, presidente dell’Accademia dafnica, nel discorso dedicato alla premiazione, avvenuta il 25 maggio successivo, adoperò espressioni oltremodo lusinghiere e comunicò all’uditorio un’ambita distinzione conferita al Capuana: «ma sappi che solo per impreveduti ostacoli Luigi Capuana e Tommaso Catalano furono impediti a compiere per intiero i loro scritti: e che tanto essi meritarono la nostra ammirazione da essere stati chiamati ad assidersi teco fra di noi col grado di Socii Corrispondenti».
Capuana chiudeva la lettera con espressioni di gratitudine e devozione «Con che ricambiarla degl’incomodi che le vò buscando? Niente più che col riverirla ed amarla come Maestro». Quel ricambiarla, interpretato freudianamente, assume un significato pregnante: l’invio, subito dopo (e anche prima di quella data), di ... antichi canti popolari mineoli di recentissima «invenzione» di Luigi inseriti nella prima raccolta di Canti popolari siciliani, pubblicata dal Vigo nella seconda metà del 1857. In questa lettera — come nelle successive del quarantenne — si colgono due «costanti»: un’iniziativa attinente la carta stampata (editore Lao di Palermo), un programma enunciato da realizzare in tempi brevi.
Il periodo, forse più intenso e interessante di Capuana e per l’attività creativa e per i progetti giornalistici (e per gli incarichi amministrativi gravosi di sindaco di Mineo e di consigliere provinciale a Catania, svolti contemporaneamente), è quello che va dal 1884 al 1887, trascorsi a Mineo con brevi permanenze a Catania. Il quadriennio è illuminato, come dicevamo, dalle lettere a Federico De Roberto, circa duecento, in gran parte pubblicate da Sarah Zappulla Muscarà negli ultimi anni, nell’Osservatorio politico letterario di Roma. Ed è grave che a fronte di questo numero imponente, le lettere di De Roberto a Capuana segnalate siano appena sei (Croce Zimbone, La Biblioteca Capuana, Catania, 1982, pp. 10, e 112).
Esse costituiscono il resoconto degli «esperimenti» e dei «cambiamenti» (diversificazioni e ripensamenti) nell’attività del letterato (con la gestazione, lenta o veloce, di opere significative), di giornalista, di fotografo, di audace progettista di imprese da capogiro, sempre dilaniato dall’angoscia: insomma, uno spaccato della vita quotidiana con una ricchezza di notazioni e di confidenze — riservate in esclusiva al giovane Federico —, che ben rappresentano la proiezione del Capuana della maturità.
L’inizio dei rapporti epistolari con De Roberto, ventenne appena ma già direttore del Don Chisciotte, risale a quella datata «Mineo, 22 febbraio 1881», nella quale Capuana si rivolgeva al «Gentilissimo Signore», dichiarava di non avere «visto il 2° numero del Don Chisciotte» e si congedava con «La riverisco insieme a tutta la redazione». Era già partito da Catania l’invito a collaborare al settimanale perché in quella «Mineo, 20 marzo 1881», diretta «All’onorevole Direttore del Don Chisciotte», si scusava per non aver potuto spedire la novellina destinata al Don Chisciotte e ringraziava «il gentilissimo critico che si nasconde sotto lo pseudonimo di Cardenio» (uno degli pseudonimi di De Roberto). Nella settimana successiva manterrà la promessa «Ecco la novellina. Avrei voluto mandarle qualche cosa di meglio, ma il tempo stringeva» (Mineo, 30 marzo 1881).
Evidentemente, è uno scambio di lettere con continuità, se in quella del 7 aprile 1881 Capuana esordisce: «Risposi subito alla sua gentilissima mandando un canto popolare inedito». Sono quelle del 1881 in totale sei (una senza data, ma scritta nel corso del 1881), ed è da segnalare — infine — quella dell’8 maggio, di ringraziamento delle cinque copie del volumetto Catania - Casamicciola (edito a cura del De Roberto), a cui hanno collaborato, con il Capuana, anche Verga e Mario Rapisardi con Giselda, anche per la qualifica nobiliare nell’indirizzo «Al sig. Federico De Roberto — Asmundo dei Marchesi di Montepulciano».
La prima lettera di Federico — nella qualità di consulente editoriale di Niccolò Giannotta — del 3 luglio 1881, è segnalata dal benemerito studioso Gino Raya nella Bibliografia di L. Capuana, Roma 1969, p. 51. Dopo, da una parte e dall’altra, l’interruzione per oltre un biennio, ossia il 1882 e il 1883, anni che Capuana trascorse a Roma, chiamato alla direzione del Fanfulla della Domenica (settimanale prestigioso, fondato nel 1878, che aveva già raggiunto nei primi del 1880 l’alta tiratura di ventitre- mila copie). Alla fine del 1883 Capuana rientrava in Sicilia, e dal gennaio 1884 iniziava un quadriennio di fitta corrispondenza.
Possiamo, in questa sede, riferire solamente pochissimi brani di alcune lettere su temi ricorrenti: direttive per la stampa dei volumi, fotografie e progressi fotografici moderni, progetti grandiosi, scadenze cambiarie e giudizi critici «autentici» da non pubblicare su Giovanni Verga e Mario Rapisardi: «Gli articoli del Fanfulla della Domenica devono essere composti, come testo, in corpo 12» (Mineo, 3 gennaio 1884); invece in una successiva (28 gennaio) dedicava un’intera pagina alle «Norme per la riproduzione autografica», ma la lettera è interessante per la stroncatura del Giobbe rapisardiano e per la definizione del poeta, e, meglio negazione del poeta senza attenuanti «[...] mi confermo nella mia opinione che il Rapisardi è un buon verseggiato re, ma un poeta, no, di certo: gli manca la facoltà creatrice, organica; la natura gliel’ha negata».
Un anno dopo (Mineo, 26 maggio 1885) insiste ancora sul corpo 12, ma corsivo: «A proposito di Ribrezzo m’è nata un’idea; stampare tutto il volume in corsivo corpo 12! Che gliene sembra? Ecco un ritorno all’antico che mi piacerebbe tanto! È possibile? Ne parli al Giannotta. Io ne sarei contentissimo. È una novità tipografica da tentare da noi. In Inghilterra si è fatta».
Il tema riguardante la fotografia è svolto da un’artista e da un competente con risultati degni di un Cartier Bresson. Fotografo sempre, si potrebbe dire del Capuana, anche durante le ultime ore di vita della madre: «Un’agonia tranquilla, simile a un sonno: una morte che fece tornare la sua fisionomia allo stato naturale. Io ho avuto il coraggio di fotografare la Mamma in quello stato, e queste fotografie sono un tesoro per me; le guardo ad ogni momento e spesso la chiamo, a voce alta, quasi potesse ascoltarmi! ».
In quella brevissima del 18 agosto 1886 erano compiegate alcune foto per Federico «Arricchisco di nuovi capolavori fotografici il tuo già ricco, piccolo sì, ma museo». L’ultima, del 22 aprile 1887, ci illumina veramente su un Capuana perfezionista «Il ritratto lo avrai appena sarò provvisto di carta. Ho scritto a Parigi per una nuova carta (papier Hetmann). Se ne dice meraviglia. Vedi? lo mi tengo all’altezza dei progressi fotografici moderni».
Poco spazio, ormai, possiamo dedicare al progetto di fondazione di una rivista, formulato nel 1885, e successivamente di un giornale quotidiano a Catania. Per la rivista leggiamo uno schema completo e particolareggiato (il tipo di carta speciale « facendolo fabbricare a posta pel formato in 18°»), la campagna promozionale «nei giornali politici e letterari», i compensi per ciascun tipo di collaborazione (articolo originale, novella, recensione). Editore Niccolò Giannotta, direttore Capuana e redattore capo De Roberto: «Tanti saluti al Giannotta et bien des compliments, a Monsieur le redacteur en chef» (Mineo, 7 giugno 1885).
Qualche anno dopo, nel 1887, il progetto è veramente grandioso, ma ad alto rischio, anzi azzardato: un nuovo quotidiano a Catania. Sappiamo che in quell’anno si pubblicavano ben quattro quotidiani: Gazzetta di Catania, Il Corriere di Catania, Il Telefono. Eco dell’isola, Il Nuovo Gazzettino della sera-, quest’ultimo cessava di esistere dopo una vita effimera, nel mese di maggio.
La direzione del quinto è stata offerta a Capuana che si riserva di accettare se sarà favorevole «l’affare della Banca», ossia «io potrò prendere formalmente l’impegno della direzione del giornale. Trovarmi con te, Verga, Ferlito (Francesco) e Calatola, legati in un’impresa che lusinga il nostro amor proprio ed è anche finanziariamente piena di belle promesse, sarebbe per me un piacere straordinario, il desideratum del mio cuore». I calcoli sulla tiratura tutt’altro che fondati, anzi fantastici; anche se Capuana concorda e rilancia: «I vostri calcoli mi sembrano ben fondati. Tre mila copie [...]» all’inizio, e poi «[...] noi avremmo, come avete giustamente calcolato, la conquista di tre provincie e la non ipotetica prospettiva di una tiratura di 12.000 copie». Dopo un turbinio di considerazioni e di cifre un’enunciazione paradossale «Vi è passato pel capo l’idea di ammazzare, anche per accordi, qualcuno dei giornali catanesi viventi? Il Corriere per esempio?» (Mineo, 31 ottobre 1887).
La prodigiosa e diversificata attività e capacità di lavoro di Capuana, degna di un forzato della penna, è notoria (possiamo paragonarlo a Honoré de Balzac, come lui «toujours harcelé par le besoin d’argent »), ma faceva ugualmente ritardare all’autore la consegna del manoscritto l’affastellamento di opere diverse già in cantiere. Lo stato dei numerosi «lavori in corso» è esposto in una lettera del 14 dicembre 1884: «Appena mandato Ribrezzo mi metterò a copiare il resto della Giacinta. Ho quasi conchiuso col Treves pel Marchese di Roccaverdina. Ho visto la edizione illustrata del C’era una volta?». Ma nei primi dell’anno, aveva già annunziato: «Oggi spero terminare Ribrezzo che mi ha dato molto da fare. Lo ricopierò subito e lo manderò per posta» (Mineo, 28 gennaio 1884).
D’altra parte solamente un Capuana vulcanico poteva concepire una novella «sismica»: «Ora sto scrivendo una novella sismica (un genere di cui io mi faccio il creatore, impiccati!) e la manderò al Fanfulla della Domenica» (Mineo, 6 settembre 1887). Nonostante il sovraccarico delle fatiche letterarie residuavano tempo ed energie per altre attività e responsabilità proprie della vita civile ed amministrativa: il 25 luglio 1885 (rieletto consigliere comunale e ancora sindaco per un triennio, e neoconsigliere provinciale) scriveva al caro Federico: «Ringrazio la provvidenziale mano del presidente della corte di assise di Nicosia che mi tirò in sorte perché io vada ad esercitare la nobilissima arte del giurato».
Vivere su un letto di angoscia è tremendo, e altrettanto angoscioso è l’incubo della scadenza e il mancato rinnovo da parte della banca, che chiede il pagamento di una montagna di danaro: «Sono in grandissima ansietà. Il giorno sei novembre prossimo scadrà la cambiale rinnovata delle lire cinquemila avute per mezzo del mio radioso Aprile [...]» (Mineo, 18 ottobre 1887). Il 3 novembre successivo il miracolo non si è ripetuto «Caro Federico, è finita? Ricevo in questo momento il tuo dispaccio e rimango come fulminato».
No, non è finita! il rinnovo dell’effetto è ottenuto ancora una volta all’ultimo momento (forse con l’intervento del barone Pietro Aprile di Cimia, proprietario del Corriere di Catania). E nella lettera del 29 dicembre 1887 poteva annunziare a De Roberto che non si interrompeva la consuetudine della lettura di un’opera appena finita agli intimi, fra cui Verga «[...] io verrò costì lunedì: che la lettura della Giacinta sarà lunedì sera, perché martedì c’è consiglio provinciale [...]». Visse ancora quasi trent’anni, inseguito e braccato da strozzini implacabili, da creditori pressanti e da avvocati esigenti, fino alla morte avvenuta a Catania il 29 novembre 1915, pensionato dal maggio precedente e in attesa della pensione.
(Di Sebastiano Catalano 29 novembre 1983)
lunedì 5 aprile 2021
Un rullo per autopiano "Sogno di marinaio" 1911 di F. P. Frontini
" Proprio oggi ho esaminato un rullo per autopiano della nostra collezione, un rullo della ditta Cigna di Biella con il "Sogno di marinaro" di Frontini.
Si tratta di uno dei quasi 6000 rulli della nostra collezione che lentamente stiamo formando, catalogando e scansionando per preservarne la memoria. [cfr. http://mbc.unipv.it/pagina-iniziale-first]. Purtroppo, per il momento, questo è l'unico rullo in nostro possesso con musica di Frontini."
3851 | Morceaux pour piano. IV. Serie n.
37 Valse charmant. N 34 Solitudine. Notturno |
3853 | Morceaux pour piano. IV. Serie n. 35. Scherzo . -N. 38 Polonaise |
3857 | Esquisses musicales. N: 8 Cantabile; n. 10 Souvenir. Morceaux pour piano V. serie n. 47 Serenata patetica |
3866 | Morceaux pour piano. II Serie n. 10. Berceuse. - N. 20 Désir d'amour |
sabato 27 marzo 2021
ROBERTO RIMINI IL PITTORE CHE VISSE NEI LUOGHI VERGHIANI
E' impossibile contarli tutti, i dipinti, i disegni, gli affreschi e i graffiti di Roberto Rimini: molti sono ormai introvabili, ed egli non tenne mai un inventario della propria produzione. Molte centinaia di opere, certamente; forse migliaia. I soggetti, raggruppabili a cicli (la Calabria, Milo, Taormina, Vizzini, la Piana, Acitrezza), offrono innumerevoli divagazioni e scorci. Ma in tanta ricchezza di immagini c'è un tema che — è possibile accorgersene oggi, dopo tanti anni — risulta assente del tutto, ed è la tempesta: né tempesta sulla terra né sul mare, né tempesta d'anime né tempesta rissaiola. Il cielo è sempre limpido, tutt'al più appena coperto: il mare sempre quieto, semmai appena mosso: e nel volto degli uomini (contadini, maniscalchi, pescatori) mai si coglie turbamento, al massimo un intenso meditare o un velo di mestizia. Il turbamento, quando c'è (e c'è spesso), resta confinato nell'animo, non trabocca mai nel comportamento esteriore né nei lineamenti. Alle sue opere Rimini restituiva l'atmosfera pacata delle sue giornate e la serenità del suo cuore ridente (ridente per autocontrollo, anche quando, come a tutti accade, qualche preoccupazione s'insinuava in esso).
Del resto, così avviene più o meno scopertamente a ogni artista: di riprodurre — sulla tela, sul foglio bianco,, sul pentagramma — i propri stati d'animo più intimi, le vicende della vita. Guardate il Beato Angelico, il Caravaggio, Salvator Rosa, Toulouse-Lautrec; Francois Villon, Poe, la Lagerlòf, Kafka; Chopin, Bellini, Wagner. C'è sempre, più o meno evidente, una consonanza, per adesione o per reazione, tra la biografia e l'opera. In Rimini era assolutamente esplicita e coerente. E' più agevole constatarla oggi, che si sono compiuti, il 16 febbraio, dieci anni dalla morte.
Ci incontrammo per la prima volta nel 1953, quando egli presentò una « personale » al Circolo artistico di Catania e io andai a visitarla; e a bearmene, dovrò aggiungere. Come artista famoso, però, lo conoscevo da tempo. Rimini era per me un personaggio quasi mitico. Di lui mio padre, Vito Mar Nicolosi, possedeva alcuni oli e un grande disegno a sanguigna. Erano amicissimi. Nel 1928, quando mio padre pubblicò in una rivista teatrale, » Le maschere », che dirigeva, la commedia allora inedita di Verga, Rose caduche, Rimini vi collaborò con un ritratto a litografia di Verga; un altro del grande scrittore, a carboncino, ne avrebbe eseguito più tardi.
Così, quello del Circolo artistico fu quasi un incontro fra vecchi amici: per l'interposta persona di Vito Mar Nicolosi, io sapevo di lui, lui sapeva di me. Quel giorno stesso scorsi, del — per me — leggendario artista, la qualità essenziale: quella d'essere un fanciullo puro e sorridente, persino ingenuo, alieno dalle camarille, lontano dai sotto boschi mercantili, costituzionalmente incapace di ogni calcolo e politicantismo. Poteva essermi padre, ma mi sembrò, quello stesso giorno, un ragazzo indifeso, assai più giovane di me.
Così rimase sempre finché visse, fino al mattino del 16 febbraio 1971.
Un ritratto così semplice di lui — l'uomo-fanciullo, l'uomo lineare e probo con gli amici, l'allievo di maestri che conoscevano il mestiere come lo scultore Stanislao Lista
e il pittore Ettore Tito, l'artista dallo stile inconfondibile e unico (nonostante i molti tentativi di imitazione), maestro egli stesso — risulterebbe tuttavia monco e perciò, nel complesso, falso.
I suoi quadri, che sembrano tanto facili e istintivi, erano invece, sempre, il risultato di lunghe osservazioni e meditazioni. Prendeva « appunti » dovunque gli capitasse: su fogli di carta da disegno o da involgere, su fogli di giornale. Non restano più, di questi promemoria visivi (una ragazzetta, un contadino, un calafato, una barca capovolta, un cavallo alla sarchiatura), che pochi esempi: gli altri, appena utilizzati, e cioè trasferiti in un quadro, erano poi da lui stesso distrutti.
Restava a lungo assorto, ma non assente: costruiva mentalmente, della sua nuova tela, la struttura, la prospettiva, i piani, la tecnica (olio, pastello, tempera), i colori. Nulla infatti doveva risultare arbitrario nella produzione di un realista (come lo definì Raffaele De Grada) o di un verista (come la sua affinità narrativa e sentimentale con Verga indurrebbe a definirlo). Poi s'avvicinava alla tela candida, sempre pronta sul cavalletto, e cominciava a tracciare i primi segni, a carboncino. In sottofondo un giradischi mandava le note della Pastorale o della Bohème: Beethoven e Puccini erano i suoi grandi amori musicali, ma anche Wagner e Bach, anche Bellini e Giordano (non Verdi, o pochissimo). E lui. a bassa voce, intonatissimo, canticchiava a sua volta: indifferentemente Rodolfo o Colline, Oroveso o Pollione.
Qualche volta faceva delle levatacce, all'alba, e partiva in auto con l'amico Enzo Maganuco (che stava al volante, poiché lui, odiando tutto ciò che è meccanico, non aveva mai imparato a guidare): oppure, in barca, rematore un marinaio fedele, entrambi approdavano all'isola Lachea. Portavano con sé colori, pennelli, tele e cavalletti, andavano a dipingere in solitudine, in qualche angolo remoto di montagna o di mare. Erano i quadri dal vero, plausibili quanto quelli emersi dalla sua fantasia (e dalla fantasia di Maganuco, buon pittore anche lui).
Era « un uomo tranquillo », il Sean Thornton del film di Ford (esclusa però la reazione finale, impensabile nel pittore). Ma diventava inquieto in due occasioni ricorrenti: quando stava preparando una mostra personale e quando doveva consegnare un dipinto commissionatogli. Per il resto, poco o punto frastornato da vicende estranee alla sua arte, dipingeva e meditava i suoi quadri in un impegno, diremmo oggi, full time. Perciò produceva molto; e le sue opere, frutto di invenzione e meditazione, non erano mai « buttate giù » (oh, che pena gli artisti e scrittori che, senza rispetto per il loro pubblico, buttano giù un'estemporanea mercanzia, quasi che bastassero ad accreditarla il soffio di genio che presuntuosamente essi stessi si attribuiscono e la loro firma ipoteticamente illustre). Vendeva subito tutto ciò che produceva; nel suo studio, quando morì, non c'era nulla di vendibile, eccetto la tela incompleta cui stava lavorando. Ciò non toglie che alcune opere fossero allora, e siano tuttoggi, attaccate ai muri di casa, non alienabili: erano quadri di famiglia, la moglie, le figlie, le nipotine. Gesualdo Manzella Frontini. narratore e critico che gli fu molto amico e che negli ultimi anni visse come lui ad Acitrezza, scrisse nel 1956: « Rimini è forse il pittore che più vende in Italia, pochi crediamo raggiungano la cifra sua •.
Per lui posavano ragazzini e vecchi (i pescatori di Acitrezza lo chiamavano con rispetto - il professore »), uomini e donne, estranei e parenti: sempre con pazienza, ma quando la posa si prolungava troppo, qualcuno, specialmente le sorelle o una cognata, scappavano, lasciandolo indispettito e nervoso. Una volta, insolita esplosione, arrabbiato per una di queste fughe, egli con un colpo di pennello bucò la tela, distruggendola.
Solitario quando dipingeva nelle assolate campagne di Vizzini, Libertinia o Palagonia. perché avvicinarsi in quei deserti era disagevole,
diventava invece centro d'attrazione ad Acitrezza, dove trascorse i suoi ultimi vent'anni. Nugoli di ragazzini lo seguivano e lo precedevano, gareggiando nel portargli la tela bianca, il cavalletto, la tavolozza coi colori: sapevano che li avrebbe compensati, o gli erano grati perché egli aveva ritratto qualcuno dei loro familiari. Durante il lavoro lo attorniavano, estatica e silenziosa guardia del corpo. Al ritorno egli consegnava alla smaltellante compagnia cavalletto e colori, non la tela ancora fresca di pittura.
Era meticoloso. Vestiva abiti lindi e portava sempre la cravatta, anzi il cravattino. Soltanto nei periodi di massima intensiva produttiva, anziché la giacca indossava il pullover o. più spesso, un cardigan grigio; e allora macchie di colore occhieggiavano su quegli indumenti. Se qualcuno, arrivando inaspettato a casa sua, lo sorprendeva in questa sciatta tenuta da lavoro, egli se ne doleva. Ma quando la visita era attesa, Rimini si preparava ad essa con rispetto e civiltà.
Fu incapace di cattiveria; incapace, anche, di ritorcere il male che taluno, volontariamente o inavvertitamente, poteva arrecargli. Mai disprezzò, lui che conosceva così a fondo il mestiere, chi non avendolo seriamente appreso lo esercitava con la presunzione che è propria dei dilettanti. Più che essere un indifeso, giocava a sembrarlo; più che perdonare agli incapaci, ne sorrideva. Mai, nel nostro caro quasi ventennale sodalizio, Io sentii dir male d'un « collega ». anche il più mediocre. E tuttavia una piega all'angolo della bocca, un rapido lampeggiare degli occhi, una sola parola — non più d'una — equivalevano a una bonaria ma inappellabile sentenza di condanna: con l'increspatura, il bagliore, la parola egli esercitava la sua ironia. Quest'arma docile e demolitrice era per lui arma di difesa, offesa e contrattacco.
Tollerante in tutto, era inflessibile — silenziosamente, ironicamente inflessibile — soltanto con gli artisti mistificatori e sbruffoni: un vero pittore tiene le distanze dai frodatori. Ma con civiltà, con rispetto formale.
Vero pittore era anche nel senso che la sua cultura non si fermava alla prospettiva. al colore, al panneggio, alla composizione e alla vivezza del tutto, cioè soltanto all'arte sua; ma dilagava, completandosi, nella letteratura, nella storia, nella musica, nell'attualità. Soprattutto la letteratura era il suo pascolo ineffabile; e fra i tanti autori dei quali parlava con competenza (Tolstoj. Manzoni, Foscolo, gli « scapigliati ») emergeva Verga, il suo Verga.
Singolare concordanza, egli visse una gran parte della sua vita in molti dei luoghi verghiani: Vizzini, la Piana di Catania, la città di Catania. Acitrezza, la montagna dell'Etna (lui a Milo, qualche personaggio a Fieri, a monte Ilice, a Nicolosi). I personaggi che Verga descrisse furono il coro e i solisti che Rimini dipinse. Anche il sole ardente, le solitudini sterminate, le masserie, l'aratro, la barca, l'uliveto affascinarono entrambi. E se c'è — se voi udite — una musica in Verga, quella stessa musica sentirete in Rimini.
Così, inevitabilmente, ai riscontri sentimentali s'affiancano esperienze di v.ta, di suoni e di immagini. Rimini fu un verghiano che non imitò Verga, pur ammirandolo sconfinatamente: lo fu, piuttosto, per nativa affinità artistica; non per calcolo meditato. Perciò si respira nei suoi quadri la stessa atmosfera, autentica e intatta, dei Malavoglia, di Mastro - don Gesualdo, della Roba, della Coda del diavolo, di Libertà, della Storia di una capinera, dell'Agonia d'un villaggio, delle Storie del castello di Trezza.
Anche il tratto del suo pastello e la pennellata sono verghianamente rapidi, essenziali e veri (o dovremo dire veristi?); e cosi il rifiuto del superfluo; così la drammaticità intima e riservata.
Qualcuno ha scritto che Rimini era un « poeta pittore della sicilianità » (Manzella Frontini). Federico De Roberto ne esaltò, fra l'altro, « la solidità della costruzione, la precisione delle linee del disegno ». Per Ugo Fereroni (in occasione della sua prima mostra catanese, 1927), « Roberto Rimini dava già la misura della sua statura d'artista e nel medesimo tempo la sua capacità di rimanere se stesso pur partecipando attivamente ai vari movimenti culturali » della sua giovinezza (liberty, espressionismo, astrattismo, futurismo. surrealismo). Vitaliano Brancati, parlando di lui che esponeva a una mostra collettiva, non esitò a proclamare: « Sembra che Rimini abbia avuto l'incarico di illuminare i quadri degli altri », tanto la luce dei suoi paesaggi era splendida e siciliana. Enzo Maganuco definì quella di Rimini « arte matura, doviziosa padrona di tecniche e di mezzi espressivi familiari solo ai maestri che all'esercizio dell'arte stessa hanno votato appieno la loro vita ». E Raffaele De Grada: « Ma anche quando il paesaggio si spopola di figure e si avverte che il pittore cerca l'angolo della pura fantasia... Rimini riesce a darci sensazioni nuove, sognate, eppure veramente realistiche del paesaggio siciliano ». Secondo Vito Librando, l'artista, pur cosi sereno e sorridente, « tratteneva in sé dubbi e ripensamenti molto di più di quanto sospettavano molti suoi ammiratori, più di quanto affiorava dalle terse e luminose marine, dai questi intensi dei suoi contadini e dei suoi marinai assorti nel lavoro quotidiano ». Ritratti fedeli: Roberto Rimini era davvero tutto ciò.
Morì ad Acitrezza dieci anni addietro, a ottantatré anni d'età, la mattina di martedì 16 febbraio 1971. Il giorno dopo, durante i funerali, faceva freddo e piovigginava. Centinaia di persone accorsero a salutarlo. I pescatori di Acitrezza, che per lui erano stati ispiratori e modelli, mandarono in mare i più giovani e si radunarono in chiesa, con gli altri amici del « professore ».
SALVATORE NICOLOSI (16 febbraio 1971)