( Il Popolo di Sicilia, agosto 1939 - di Francesco Pastura )
Maestro venerato ed amatissimo, vorrei parlarvi per l'ultima volta.
La notizia della vostra morte mi raggiunse lontano. Partii a precipizio, arrivai di notte a Catania, passai davanti alla vostra casa.
Salii le scale - quelle scale da me tante volte fatte, sulla sommità delle quali trovavo voi sempre sorridente pronto ad accogliermi con un paterno abbraccio - vidi l'uscio spalancato. Da dentro giungevano echi di pianto, suono di parole dette sottovoce, un opprimente profumo di fiori, l'odore dei ceri accesi. Non volli entrare. Ridiscesi le scale con le gambe che parevano di piombo.
Un nodo terribile mi serrava la gola. Non sapevo, non potevo piangere. La tremenda realtà impediva ogni sfogo al mio dolore. Ora penso che è difficile parlare di voi. Da mezz'ora scrivo e cancello. Non so come cominciare.
Preferisco rivolgervi la parola come quando eravamo insieme chiusi dentro il vostro studio.
Questo, o maestro, e l'ultimo colloquio che ho con voi.
Ma vorrei che fosse ascoltato dai catanesi perchè essi possano conoscere la vostra cara, paterna bontà, apprezzare le vostre virtù. E son certo che la conoscenza della vostra mirabile umanità renderà degna la vostra memoria d'essere venerata e circondata da quel geloso e religioso amore che i catanesi hanno per quei grandi spiriti di cui Catania, è stata sempre madre feconda.
* * *
Solo conoscendo le vostre virtù umane si possono comprendere e penetrare quelle artistiche. In voi l'artista e l'uomo sono stati sempre strettamente legati, indissolubilmente fusi: l'uno illumina e determina l'altro.
Questo io compresi la sera in cui vi venni presentato da un amico comune.
Conoscevo moltissima musica vostra, ne ammiravo la squisita eleganza melodica, la raffinatezza armonica, la quadrata forbitezza formale. Ma solo conoscendovi di presenza compresi che dal vostro spirito non poteva emanare che un'arte che fosse lo specchio della vostra sensibilità, della vostra sincerità, della vostra personalità. Vedendovi mi parve che vi conoscessi chissà da quanto tempo, certamente da quando - ancor fanciullo - cominciavo a decifrare, al pianoforte, i vostri squisiti pezzi. E ve lo dissi. Voi sorrideste; per gentilezza forse (solo più tardi appresi che le lodi vi infastidivano). Dopo, guardandomi coi vostri occhi chiari, lo sguardo diritto e indagatore avrà certamente letto la mia sincerità. Tornaste a sorridermi ancora, ma più dolcemente, paternamente quasi.
* * *
Fui ammesso alla vostra presenza. Si stava lunghe ore dentro il vostro studio. Ordinatissimo, elegantissimo anch'esso rispecchiava l'equilibrio e la raffinatezza del vostro gusto.
E quando vi dicevo che quello era il vostro mondo, un mondo in cui la vostra sensibilità aveva tracciato i confini invalicabili, voi sorridevate con tristezza.
- Anche questo è un modo per dirmi che son molto vecchio. -
Ma non lo siete stato mai, vecchio. Me ne accorgevo dalle vostre conversazioni in cui l'acutezza delle vostre osservazioni tradiva non solo una grande saggezza ma anche una cultura che era costantemente aggiornata e pronta a risolvere qualsiasi problema d'estetica o di tecnica musicale. Il tempo non aveva scosso la vostra fibra ne la vostra aristocratica sensibilità. Lavoravate sempre con baldanza giovanile, forse più di quanto non lavori un giovane.
In voi l'esperienza aveva piegato la tecnica al dominio della fantasia e dell'invenzione.
Eravate padrone della materia e dotato d'una inesauribile vena creativa.
La musica era diventata un bisogno, un mezzo per espandere la vostra feconda sensibilità.
Starvi vicino era una gioia dello spirito.
Cominciaste a volermi bene, un pò più degli altri e me lo dicevate nascondendo con un sorriso scherzoso questa vostra affettuosa affermazione. Ero il più giovane dei vostri amici, ne credevo di possedere delle eccezionali qualità meritevoli di tanta attenzione.
Ci trovavamo spesso, nel vostro studio, insieme col povero Emanuel Calì. E le ore scorrevano lietamente. I vostri occhi, posandosi su ognuno di noi, sembravano accarezzarci paternamente.
-~ Siete i miei più cari amici - ci dicevate spesso.
Poi Emanuel Calì morì, Fu uno schianto pel vostro cuore paterno.
Quando ci si rivide, dopo la disgrazia, non trovammo parole. Soltanto dopo un poco che ci guardammo stringendoci fortemente le mani, mi buttaste le braccia al collo e mi diceste stringendomi sul vostro cuore:
- Ora non mi resti che tu solo.- E piangemmo entrambi.
* * *
E solo vi rimasi. Devoto e fedele fino all'ultimo cercai di amarvi per me e per il caro indimenticabile scomparso. Cercai di prendere nel vostro cuore il suo posto e nelle vostre abitudini mi adoperai di rendermi utile in quelle piccole cose nelle quali egli soleva aiutarvi.
Vi correggevo le bozze di stampa, ero io il primo a cui facevate leggere le vostre composizioni, insieme rimaneggiammo molte piccolo cose da voi lasciate in sospeso, portammo a compimento le vostre due ultime importanti trascrizioni dei canti popolari siciliani.
Non più le allegre risate di prima, ma sorrisi calmi e pacati.
Si lavorava serenamente e in mezzo a noi due la cara ombra di Emanuel Calì sorrideva anch'essa.
Il vostro paterno affetto per me aumentava. Se mancavo di visitarvi erano serie di biglietti che piovevano a casa mia, semplici biglietti sui quali segnavate un solo punto interrogativo.
Quale gioia poter restare in vostra compagnia. Eravate una inesauribile miniera di ricordi.
Si sfogliavano insieme i vecchi spartiti. Ad ogni pagina, ad ogni pezzo saliente fioriva l'aneddoto dalle vostre labbra. Era sempre un vostro ricordo personale o un'osservazione saggia.
Mai parole che potessero offendere o intaccare l'operato altrui. Mai discorsi che potessero aver l'aria di un qualsiasi pettegolezzo. In voi tutto era eleganza, raffinatezza di gusto, aristocraticità spirituale, bontà, comprensione umana, misericordia paterna
Avevate l'arte di fare un disappunto con un sorriso buono.
* * *
Indimenticabile la bontà vostra maestro.
Ora penso, con un brivido tormentoso, che passando dalla vostra casa non potrò mai più scorgere da dietro i vetri, la vostra cara figura. Salendo troverò il vostro studio intatto come l'avete lasciato: ordinatissimi i libri rilegati dentro le librerie, ordinatissimi i quadri disposti da voi, forse ci saranno sul pianoforte e sullo scrittoio i fiori che a voi tanto piacevano.
Ma nessuno più verrà a chiamarvi per dirvi che vi sto attendendo, nessuno potrà mai più farvi tornare, o maestro venerato, nemmeno questo disperato amore che mi riempie gli occhi di pianto.
- Chi è morto non torna più, questa e la cosa terribile -
mi dicevate parlando del nostro povero Emanuel Calì.
E il pensiero della morte non vi sgomentava. Pensavate solo che era triste per voi non poter rivedere il vostro sole, il vostro cielo, i vostri fiori, i visi dei vostri cari.
Ma laggiù, ove ora riposate per sempre, i fiori sbocceranno, o maestro, il vostro cielo sarà sempre sopra di voi il sole tornerà a riscaldarvi, e l'affetto di coloro che tanto amaste in vita vi sarà sempre vicino e custodirà questo vostro sonno eterno in mezzo alla vostra gente, nella terra che vi fu madre adorata.
( Francesco Paolo Frontini - Catania, 1860 / 1939 )
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