Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

mercoledì 26 aprile 2017

"La Beatrice di Dante" di Mario Rapisardi


Il concetto che della scuola aveva Mario Rapisardi è molto diverso da quello che hanno i più, che scambiano l'insegnamento con un qualunque mestiere.

Egli pensava che la scuola è un istituto di massima importanza nella vita pubblica, che essa deve essere fucina di valori morali e palestra di educazione delle giovani generazioni, riteneva che la scuola non può essere estranea alla vita, se di essa non si vuol fare un esercizio di espiazione ovvero un museo di fossili.



studi critici e lezioni

La Beatrice di Dante -
Intendo mostrare in queste pagine, come Beatrice, donna vera e reale e realmente amata dall'Alighieri, si trasformasse a poco a poco nell'anima del Poeta, fino a diventare un simbolo e un'allegoria. Non attingerò ad altre fonti che alla Vita Nuova, al Convito e alla Divina Commedia, in cui sono diversamente significate le tre fasi principali di questa trasformazione e di tanto amore. Non confuterò nessuna delle tante spiegazioni e fantasie dei commentatori, che sarebbe opera lunga e infeconda: invocherò più tosto l'aiuto del sentimento e la guida del poeta medesimo.
I
Che Beatrice fosse una donna vera e reale, e non una creatura fantastica, risulta chiaramente dal XXX e XXXI libro del Purgatorio, e precisamente da questi versi:
Quando da carne a spirto era salita
E bellezza e virtù cresciuta m'era
Fu'io a lui men cara e men gradita; [...](1 Purg., XXX, 127-129)

e da questi altri:
Mai non t'appresentò natura ed arte
Piacer quanto le belle membra, in ch'io
Rinchiusa fui, e ch'or son terra sparte. (Purg., XXXI, 49-51)

Che questa Beatrice fosse figlia di Folco Portinari si deduce esattamente da molte circostanze notate nella Vita Nuova e nel Convito; e viene sicuramente affermato dagli antichi biografi del Poeta.
Folco Portinari, uomo assai orrevole fra' cittadini, come dice Boccaccio, ebbe a moglie donna Cilia di Gherardo dei Caponsacchi.
Le sue case alzavansi presso a santa Margherita, poco discosto da san Martino del Vescovo, dov'erano e son tuttora quelle degli Alighieri.
Ricco e cospicuo fra' cittadini, egli ben meritò della carità pubblica facendosi fondatore di quell'ospedale di Santa Maria Nuova, nella cui piccola corte, che separa la chiesa dall'ospedale, si vede tuttora il busto marmoreo di una fantesca del Portinari, alla quale si attribuisce il merito d'avere ispirato al suo signore quella istituzione filantropica.
Ma, più che per la carità di quell'opera, egli dovea ben meritare degli uomini per aver data la vita a quella donna, che ispirò con sua virtuosa bellezza il più grande di tutti i nostri Poeti.

Beatrice, o Bice, chè così la chiamavano molti i quali non sapevano che si chiamare, nacque in Firenze verso la metà del 1266, ed era perciò d'un anno minore di Dante.
A giudicare dalle testimonianze dell'amante poeta e dalle asserzioni del Boccaccio, ella era di quelle bellezze gracili e delicate, che rivelano, anche prima del tempo, le più dolci attrattive del sentimento: esili fiorellini che il più lieve sospiro fa mollemente ondeggiare sul gambo flessuoso, nati fatti per rallegrare un istante le aure della loro fragranza modesta, e destinati a morire precocemente.

Certo, nei fanciulleschi ritrovi, nelle feste disordinate e chiassose dei bambini della sua età, Beatrice non brillava per quella vivacità irrequieta, per quell 'argento vivo addosso, che rende tanto cari e in certi casi tanto insopportabili quasi tutti i fanciulli: essa, a dire del Certaldese, era leggiadretta e piacevole molto, con costumi e parole assai più gravi o modesti che il suo picciolo tempo non richiedeva; avea le fattezze del volto delicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi un'angioletta era reputata da molti.
Fu opinione di alcuni, che Beatrice, non escita ancora di puerizia, perdesse i genitori.
Che avesse, da bambina, perduta la madre, è probabile. Dante, che s'interessò con puerile e pur carissima religione a tutti coloro e a tutte quelle cose che aveano la fortuna di trovarsi vicino alla donna sua, non ci parla mai della madre di lei; anzi, quella circostanza segnata nella Vita Nuova, cioè, che la Bice andava spesso in compagnia di donne attempate, e di questa compagnia si compiaceva più che delle coetanee, può indicarci come la fanciulla, perduta la madre, fosse dal genitore affidata alla custodia amorosa di chi le ne potesse fare le veci.
E la mesta precocità nei costumi e nei modi della Beatrice è molto propria, chi ben osserva, alle fanciulle che hanno la sventura di rimanere orfanelle; giacchè le carezze della mamma protraggono dolcemente la puerizia nostra, e ci tengono in quella spensieratezza di noi e di tutto, nella quale risiede forse l'unica possibile felicità, e che certo costituisce la più bella età della nostra vita.

Quanto a Folco, egli è fuor di dubbio, che viveva ancora nel gennaio del 1287, quando cioè la Beatrice, non solo non era più bambina, avendo toccato i ventun anni; ma neppure ragazza, essendo maritata ad un messer Simone dei Bardi, cavaliere di antica ed illustre prosapia. Secondo il Pelli, che cita un testamento del Portinari, in data del 15 gennaio dell'87, e in cui si fa cenno della Beatrice maritata al Bardi, la morte di Folco sarebbe avvenuta l'ultimo giorno dell'89, anno memorabile per la battaglia di Campaldino, la presa di Caprona, la tragica fine del conte Ugolino e di Francesca da Rimini.
Comunque sia, il matrimonio, non fatto certamente per quelle creature delicate, trasparenti e quasi eteree, le quali, anzi che donne, sembrano anime e sentimenti visibili, la perdita del padre, e chi sa? forse anche la cura solitaria e secreta d'un amore che non ardiva confessare a sè stessa, consumarono la gentilissima complessione della Beatrice.
La quale si ridusse in breve a tal partito, che non la si potea guardare senza dolorosamente pensare alla morte.

Il veder lentamente, e dirò così a goccia a goccia, disfare la vita della donna amata, e il più gran supplizio che possa infligger la natura ad un'anima gentile.
Vedere assottigliare sempre più, come una piccola face che manchi dell'alimento, l'esistenza carissima di una donna a cui tutta è legata la trama dei nostri destini, e non esser buoni con tutta la potenza del nostro amore ad impedire il disfacimento e la morte di lei, e qualcosa di così terribile, che mentre ci dispera, ci umilia.

L'amore, che nei momenti delle nostre più belle illusioni abbiamo creduto onnipossente operator di miracoli, ci si cambia a un tratto in una larva impotente ed inutile: la grande e fredda fatalità delle leggi naturali, posta di fronte alla nostra debolezza e al nostro impotentissimo amore, uccide tutto il nostro orgoglio in un punto; ci porta a disprezzare noi stessi.
L'uomo che nel pieno vigore delle sue forze si confonde in un amplesso di tutta l'anima e di tutto il corpo con la donna che ama, è assai più che Dio: crede poter schiacciare l'universo e crearlo poi di nuovo più bello, più sereno, più luminoso, ad immagine dell'anima sua riboccante di speranze e d'amore.
L'uomo che vede struggere lentamente l'esistenza della donna diletta, e non può spirare nelle viscere amate insieme ai baci la salute e la vita; che non può dividere in due l'anima sua per darne a lei la miglior parte, e, dinanzi a se stesso, assai meno che uomo: la potenza del suo amore è un'amara ironia; egli ha le forme d'Ercole e la forza di un eunuco.
Il suo supplizio somiglia a quello di quei poveri martiri che la crudeltà raffinata dei nemici condannava a morire di dolore e di fame legandoli strettamente al cadavere d'un'amata persona.

La bellezza d'una donna giovane, consumata da un morbo fatale ed occulto che la divora, ha una potente e misteriosa attrattiva: fa sentire la vita e la morte ad un tempo, la voluttà del momento e la paura dell'eternità: ha la vertiginosa attrattiva degli abissi.
Dante non poteva non sentir tutto questo. Il presentimento della morte di Beatrice gli s'affaccia nell'anima, e lo atterrisce. Infermo e giacente nel letto dei suoi dolori egli non s'affligge di sè: pensa quanta sia deboletta la vita, quanta leggero lo suo durare, e comincia a piangere fra se stesso di tanta miseria e a sospirar forte e a dire disperatamente: « Di necessità conviene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia!».
E in questo pensiero chiude gli occhi, e si travaglia come farnetica persona, ed immagina di vedere il cielo e gli angeli e la sua donna assunta alla gloria del paradiso, che non avea altro difetto, che di aver lei.
La lugubre visione del Poeta si avverò di li a breve, pur troppo! La povera Beatrice morì nella prima ora del dì 9 giugno 1290.
Visse ventiquattro anni sulla terra, e vivrà immortale nell'arte.

II
Tale fu Beatrice Portinari, tali le sue qualità, tale la sua brevissima vita.
Storicamente essa è figura incompleta; ma ciò che le manca nella realtà storica essa lo acquista nella realtà dell'arte, nella quale si afferma in guisa nuova, originale, incancellabile.
La qualità della sua bellezza si prestava mirabilmente ai voli del sentimento, e al lavorio del pensiero, che vedeva in lei qualcosa di soprannaturale e d'arcano:

Venuto in terra a miracol mostrare. (Vita Nuova, XXVI)
Se ella poteva operar questo nell'animo di molti, immaginiamo quale e quanta dovea essere la sua potenza sull'animo del nostro Poeta.
Il quale, dotato com'era di uno di quei caratteri potenti ed armoniosi che risultano da un gagliardo equilibrio tra le facoltà dell'intelletto e del cuore, dovea necessariamente sentire per lei un amore di «[...] sì nobilissima virtù, che nulla volta sofferse di reggersi senza il fedele consiglio della ragione in quelle cose la ove tal consiglio fosse utile a udire ».

Codesto amore perciò vediamo essere sin da principio qualcosa di più di una semplice passione: un affetto che si avvalora del consiglio della ragione; che deriva ugualmente dal cervello e dal cuore; dalla quale duplicità risulta appunto il dramma intimo e continuo che si svolge nella Vita Nuova, nella giovinezza del poeta; e che egli ci descrive con una fedeltà e un'ingenuità senza pari.
Aggiungasi a questo quella tal retorica dell'amore tanto in voga a quei tempi, quell'atmosfera scolastica dentro alla quale doveano respirare gl'ingegni, e che s'insinuava ed influi va tanto anche negl'intelletti più forti ed indipendenti; quella corrente cavalleresca che modificava idealmente le condizioni e trasformava la natura della donna, di cui s'era fatto un tipo, un idolo, un'idea, che faceva mirabile contrasto con la vita brutale della forza, e si avrà tutta la ragione e la fisionomia dell'amore di Dante.

Non è però da meravigliare, che questo amore, che assume qua e la tutto il carattere di una forte passione, si spieghi talvolta e si riveli in forme affatto artificiali e scolastiche; assuma attitudini del tutto intellettuali. Un amore per quella tale Beatrice, in quei tali tempi e nella tale anima di Dante non poteva manifestarsi e svolgersi diversamente.
Io vedo in codesto amore come due ruscelli che corrono per lo stesso verso, infrenati ugualmente dagli argini, tranquilli per lo più, puri sempre e limpidi come cristalli che specchiano l'azzurro del cielo; che talora per un maggiore pendio, per un vario serpeggiamento, per un istinto secreto pare si vogliano con fondere, ingrossare insieme le acque, e prorompere, ma pur sempre tenuti in freno da una forza superiore e misteriosa.
Questa forza superiore è la volontà ferma, ferrea, invincibile dell'Alighieri, che può ciò che vuole, che sovrasta a tutto: ai suoi tem pi, ai suoi destini, a se stesso.
L'amore di lui perciò non è sola mente sentito, come avviene per i più; è un amore ragionato e voluto, un amore che sente, che vuole, che può: è tutta la personalità del poeta, che si afferma e si esplica in quel modo, per quel mezzo e per quella via.
Non intende però questo amore chi si adombra delle dissertazioni, delle analisi, delle chiose e delle note, che il poeta frammette alla narrazione de' suoi sentimenti, ai suoi versi più affettuosi, alle scene commoventi che ci descrive.

Beatrice, la figlia di Folco, non è che la trama sottile sulla quale l'anima tutta di Dante, riconcentrata in una sola grande potenza, dipinge tutta l'iliade dell'amore.
L'anima del poeta è un potente laboratorio, in cui la figura di Beatrice, se guitando l'assottigliamento delle sue membra mortali, si tra sforma a poco per volta, diventa più trasparente ed eterea, perde di mano in mano la forma sensibile, tutto ciò che l'incatena alla terra; assume le qualità di pura sostanza, per poi perdere anche queste, assorbirsi nell'intellegibile, e diventare un simbolo e un'allegoria.

Dante è poeta, filosofo, credente; l'amor suo perciò è di triplice natura: è sentimento, ragione, fede; abbraccia l'arte, la scienza, la religione.
Stupido per questo è il rimprovero che fa Leonardo Aretino al Boccaccio, d'avere, cioè, dato troppo peso all'amore nella vita dell'Alighieri.
Senza l'amore di Beatrice la vita di Dante non si spiegherebbe: l'anima, l'intelletto, il carattere di lui sarebbe una sigla indecifrabile.
Si noti però, che attraverso la lotta più o meno palese fra il sentimento, la ragione e la fede, in mezzo al dramma intimo o patente che si svolge di continuo nell'anima di Dante, non manca e non si nasconde mai quel non so che di armonico e d'equilibre tra le facoltà, che unisce e fonde dirò così, il carattere dell'uomo, del cittadino e del poeta; il quale ci si presenta sempre come un insieme stupendo, fermo, intero, deciso come una statua di bronzo.

Da questo equilibrio appunto e da questa armonia, da cui nasce la completa ed intensa unità fra le opinioni e gli affetti, sorge la potenza e la perfezione del gran poema, dove questa mirabile armonia è rappresentata nelle molteplici forme dell'arte.
Nelle altre opere possiamo osservare il predominio di questa o di quella facoltà: nella Vita Nuova predomina il sentimento, nel Convito la ragione; nella Monarchia il preconcetto politico; nella Divina Commedia, ch'è l'opera finale, tutto è contemperato ed armonico; l'uomo ha raggiunto la per fetta padronanza di sè; il poeta, il perfetto magistero dell'arte; tutto ciò che poteva essere discorde nel sentimento, nella ragione, nella fede del poeta si fonde insieme e forma la statua colossale.

III
L'errore principale di coloro che si son messi a studiare l'amore e il carattere di Dante è questo, secondo me: che han voluto distinguere e suddividere in due o tre specie e nature quella passione ch'è sostanzialmente una; che non fa altro che svolgersi e trasformarsi, seguendo fatalmente le leggi naturali, le circostanze della vita, l'indole dell'intelletto e del cuore del nostro poeta.
La prima fase di questa passione comune a tutti gli esseri viventi, e che nell'animo dell'Alighieri prende proporzioni, carattere, attitudini ed espressioni singolarissimi, noi la troviamo nella Vita Nuova, la seconda nel Convito, la terza ed ultima nella Commedia.
I critici, che distinguono nel poeta due generi d'amore, uno naturale, l'altro intellettuale, non sanno, in verità, che si dicano: anime di cartapecora che pretendono spiegare i fenomeni del cuore con le grette suddivisioni della scolastica, non intendono le naturali evoluzioni e le trasformazioni molteplici delle cose, e non osservano degli oggetti che la superficie.

L'amore di Dante non è di quelli che momentaneamente s'accendono, che ciecamente vivono, e rapidamente, al primo inciampo, si spengono. Esso nacque, possiamo dire, col poeta stesso, come nasce insieme ad ogni anima gentile, anzi è con l'anima gentile una sola cosa:
Amor e cor gentil sono una cosa (Ivi, XX);
si svolse con un processo lento; si accrebbe e si nutrì del consiglio della ragione, dominò non solamente il cuore ma l'intelligenza, non solo un'età, ma tutta la vita dell'Alighieri.
Parve talvolta, che il soffio potente di altre passioni avesse voluto smorzarne la fiamma; ma esso si piegò e divampò meglio.
Un amore semplicemente naturale noi non lo comprendiamo, come non intendiamo un amore esclusivamente intellettuale e filosofico.
L'amore ama per natura i contrarii e non esclude, anzi comprende le differenze, l'antagonismo, la lotta.
Un amore completo come quello di Dante attinge forza a due fonti: è vivificato dal pensiero che crea e dalla bellezza creata; si pasce di ciò che costituisce un momento razionale e necessario nell'universale sistema degli esseri, e di ciò che costituisce la bellezza circoscritta nelle membra d'una fragile creatura.

L'anima come divisa in due nature, l'animale e la razionale, è spinta perciò a generare doppiamente nel mondo corporeo e nel mondo spirituale; dal connubio fra l'anima e l'amore nasce l'arte, che, seguendo la natura dei suoi genitori è finita ed infinita, individuale ed universale: infinita ed universale come pensiero; individuale e finita come espressione.
Per questo appunto il poeta nostro dice con singolare personificazione, che l'arte è nipote a Dio; perchè, essendo Dio, secondo lui, il pensiero e lo spirito infinito, e la natura il sensibile corporeo individuale e finito, l'arte, che discende virtualmente nell'anima nostra e dall'anima nostra si esprime, ritiene di Dio infinito che crea la natura, e dalla natura che le presta la forma sensibile; e siccome la natura, secondo il pensiero di Dante, è cosa finita, così la materia è sorda a rispondere alle esigenze del concetto infinito dell'arte.

Comunque sia, le contrarietà e le battaglie che si riflettono in tutte le cose della natura e dell'anima, sono come l'essenza dell'amore; costituiscono il dramma di questa passione e di tutta la vita.
I pedanti, che non hanno anima capace di abbracciare l'insieme di questo dramma, suddividono, distinguono, sminuzzano; allontanano il pensiero dall'espressione, l'arte dalla vita.
Venendo poi a discorrere di Dante e ad esporre l'intendimento e la forma della Vita Nuova, non si possono capacitare come il divino poeta potesse amare una semplice creatura mortale, nè più nè meno che qualunque altr'uomo.
Tiran però l'oroscopo della loro retorica, e trampolando, almanaccando, delirando, vedon metafore e allegorie e gergo furbesco di settario e indovinelli e sciarade da rompiscatole là dove altro non è che il solco infuocato della passione e la nitida e superba schiettezza di chi va significando le cose a quel modo che amore gli detta dentro.
La vita di Dante è un continuo salire da carne a spirito, una battaglia senza fine, ricca di svariati episodi, ma tutta e costantemente rivolta a un sol fine; animata da una sola speranza, da un intendimento: la conquista d'un supremo ideale: in Firenze la composizione dei partiti; in Italia l'unità di reggimento, fosse anche tedesco; nel mondo la Monarchia universale; e questo nel campo politico; nel religioso: una religione sola cattolica, quella di Cristo; un pastore e un ovile; un Dio in cielo e un pontefice in terra; nel filosofico: una scienza rivolta esclusivamente alla conquista dell'assoluto bene, nel godimento del quale risiede la beatitudine.
A questa gran luce diffusa, desiderio infinito di ogni anima, bisogna ad ogni costo arrivare. Beatrice lo precede, lo guida, lo illumina; gli mostra la via che al ciel conduce.
Egli è smarrito nella foresta; bisogna che si liberi, che vinca le tre fiere che gli tolgono l'andata; che si travagli a tutt'uomo per giungere a quell'altezza da cui Beatrice lo chiama. Questo travaglio è tutta la vita dell'Alighieri; Beatrice è tutto il suo destino.

I gradini per cui l'anima del poeta s'innalza alla conquista del bene non si possono salire e discendere con la stessa facilità della scala sognata da Giacobbe. Beatrice, angioletta giovanissima, discesa in terra soltanto per mostrare la potenza del suo fattore, fa presto a salire al cielo, a trasformarsi in angelo. Dante però deve lottare contro i suoi nemici, contro i suoi tempi, contro la fortuna, contro sè stesso. Questa lotta eroica, che è come la titanomachia umana, costituisce il soggetto del divino poema.
Il poeta, non più individuo, ma centro di tutta la società dei suoi tempi, è l'eroe della triplice epopea, il Prometeo del medio evo: la Divina Commedia è però una vasta rappresentazione di cui gli attori son tutto un popolo, ed argomento una civiltà.
Se grande è la potenza che giunge a incarnare tanta varietà d'uomini e di cose, eminentemente drammatico ed interessante è l'interno lavorio del poeta, che, svolgendosi con ogni eroico sforzo dalle spire funeste delle terrene passioni, e valicando gli allegorici regni della morte, giunge finalmente all'altezza luminosa, in cui divinamente bella si asside la perfezione ideale di Beatrice.

Quando io considero questi sforzi più che umani dell'anima di Dante, io non posso non correre col pensiero al gruppo sublime di Laocoonte, e ai versi di Virgilio che lo scolpiscono.
Ma l'anima del poeta, più gagliarda e più fortunata dell'infelice sacerdote di Nettuno, giunge a svincolarsi dai mortiferi abbracciamenti, e s'inalza vittoriosa alla conquista della beatitudine.
L'amore che opera il miracolo di questo trionfo è in generale e sin da principio un che di sintetico e d'armonioso; ma il sentimento nella prima fase predomina: l'amore del giovane poeta è ancora una specie, un individuo, una donna; e Beatrice Portinari. Vero è che in essa è qualcosa di sovrumano e celestiale; che la sua bellezza accompagnata da sovrana modestia

e di tanta virtude Che nulla invidia all'altre ne precede [... (Ivi, XXVII)
qualità rarissima che c'indica come la beltà di Beatrice era così superiore a quella di tutte le altre donne, invidiose per debole natura, che non dava luogo a confronti di sorta; vero è che il poeta vedeala di sì nobili e laudabili portamenti che di lei si potea dire quella parola d'Omero: «Ella non parea fatta da uomo mortale, ma da Dio» ; ma essa è pur sempre una donna, anima d'angelo sì, ma venuta in terra e vivente in came umana.
Alla vista di lei che fa ogni cosa umile, all'avvicinare di questa gentilissima creatura che porta amore negli occhi, il pensiero del Poeta si smarrisce: egli trema e balbetta come un fanciullo, desidera irresistibilmente vederla, la cerca da per tutto, si pone al canto di una via per vederla passare, si appoggia al pilastro di una chiesa per goder lungamente della sua vista; ma appena le è vicino e sente il fruscio della sua veste, e il profumo della sua persona, il cuore gli batte fin nella gola, il coraggio gli manca; non osa alzar gli occhi; perde la voce e il respiro e la memoria e la coscienza di se stesso: siamo al momento descritto divinamente da Saffo:
Ciò che m'incontra nella mente muore
Quando vengo a veder voi, bella gioia,
E, quando vi son presso, sento amore
Che dice: fuggi, se il perir t'e noia. (Ivi, XV, 1-4.)

La fermezza e la ferrea volontà di Dante vacilla allo spettacolo di una fragile creatura; egli sente il bisogno di fuggire da quella donna che lo distrugge.
N'avrà poi la forza? Quando se n'allontana per poco, e l'impressione gli lavora nell'anima per via dell'immaginazione, allora, pur vagheggiando quella sovrumana bellezza, trova luogo alle riflessioni filosofiche e morali, all'esame, all'analisi, all'anatomia del suo sentimento, della belta virtuosa di Beatrice, del fenomeno naturale dell'amore.

Tutti li miei pensier parlan d'amore,
Ed hanno in lor si gran varietate,
Ch'altro mi fa voler sua potestate,
Altro folle ragiona il suo valore; (Ivi, XII, 1-4)

ecco un'analisi dei suoi pensieri.
Dagli occhi della mia donna si muove
Un lume si gentil, che dove appare
Si veggion cose ch'uom non può ritrare
Per loro altezza e per loro esser nuove; (Rime, XXVII)

e poco dopo:
Lo fin piacer di quello adorno viso
Compose il dardo, che gli occhi lanciaro
Dentro de lo mio cor quando giraro
Ver me, che sua beltà guardavo fiso; (Rime apocrife di Dante pp. 270-271)

ecco un esame delle impressioni avute. La famosa canzone:
Amor che nella mente mi ragiona (Conv., trattato III, canzone II, 1.)
è un panegirico spirituale della sua donna. Ma in mezzo a queste analisi più o meno fini del sentimento, in mezzo a tutti questi concetti più o meno peregrini e sottili tu vedi sempre un oggetto reale, terreno, sensibile: Beatrice è pur sempre una donna. Basta ch'ella si faccia vedere al Poeta, che gli neghi o gli consenta un saluto, perch'egli perda la padronanza di sè stesso, e confuso e sbalordito di tanta bellezza domandi:
«Cosa mortale
Com'esser puote sì adorna e pura?». (Vita Nuova, XIX, 11-12)

Il pensiero del poeta cristiano medioevale non si acqueta nella contemplazione e nel possedimento di una mortale bellezza; ha l'istinto dell'avvenire, la fede nel soprannaturale: l'oltre tomba è il fantasma che sta sempre dinanzi alla coscienza del medio-evo.
E la fede risponde al Poeta: l'aspetto della tua donna giova

A consentir cio che par meraviglia; (Conv., Loc. cit., 52)
e poco più giù:
Costei pensò chi mosse l'universo. (Ivi, 72)
Fin qui abbiamo Beatrice che si dibatte fra l'angelo e la donna.
L'anima del Poeta vede in lei queste due nature, ed ondeggia fra l'amore e l'adorazione: corre per abbracciare la donna e rimane sbigottito dinanzi all'angelo; si direbbe che Beatrice, senza ancor cessare di esser cosa mortale, lingueggiasse come una fiamma verso il cielo infinito, ch'è patria del Vero e di Lei, e dove è sicura di ritornare appena il desiderio degli angeli sarà soddisfatto da Dio.

Il Poeta sente tutto questo entro di sè; il suo amore perciò, pure essendo per una donna reale, è pieno d'immaginazioni, di visioni, di sogni: sente che dentro a quella piccola creatura che informa color diperla c'è l'infinito e l'eterno; ch'essa è come una gran catena misteriosa, il di cui primo anello si lega alla terra, mentre tutti gli altri si perdono nella luce dell'eterna beatitudine. Egli è sicuro che
Vede perfettamente ogni salute
Chi la sua donna fra le donne vede; (Ivi, XXVI, 1-2)

presènte
Che non può mal finir chi l'ha parlato; (Ivi, XIX, 42)
ma cio non toglie
Che non sospiri in dolcezza d'amore. (Ivi, XXVI, 14)
Questa fluttuazione incessante dell'anima costituisce il nodo drammatico della Vita Nuova.
Ma l'anima di Dante non è fatta per cullarsi placidamente siccome fiore sulla queta superficie di un lago.
Egli ha mestieri di contradizioni, di moto, di conflitti; è ambiziosissimo, nel senso più vasto e più nobile della parola: la sua attività si vuole esercitare egualmente nel campo morale, nel religioso, nel politico, nel letterario.

Lotta contro se stesso, per signoreggiare le buone e le cattive tendenze dell'animo; lotta contro gli altri per giungere al potere che per lui non è fine o mezzo di private soddisfazioni e di personali vendette, ma principio di giustizia, e mezzo di giovar alla patria; lotta con la materia sorda a rispondere, e la domina e la costringe ad incarnare i suoi titanici concepimenti in una forma nuova e caratteristica.
La sua volontà, si direbbe, che sieda in cima a tutte le altre facoltà, simile a una superba divinità di acciaro, ferma, dura inesorabile, che afferra per le chiome tutte le altre potenze soggette, e non s'illumina che della ragione.

Per questo la figura dell'Alighieri ci si disegna maschia, selvaggia, solitaria; essa non piace, ma domina; non parla, ma scolpisce.
Voi le passate dinanzi senza conoscerla, ed essa vi trattiene, non già con le seduttrici attrattive della forma e della parola, ma con le rigide imponenze dello sguardo, con la sdegnosa sprezzatura del portamento: ha qualcosa che vi fa pensare al Mosè di Michelangelo.

Qual differenza fra l'anima del Petrarca e questa del nostro Poeta!
Nell'anima del poeta aretino ci son tutte le mollezze, gli ondeggiamenti, i profumi, le bizze e i dispetti di un'anima muliebre.
Non si acqueta in nessuna cosa, ma non procede; non ha il coraggio o la modestia di affaticarsi, di lottare per giungere alla conquista di ciò che potrebbe essere il suo ideale: lascia che la corrente lo porti; si affida al caso, e si lamenta della fortuna quando dovrebbe affidarsi alla propria volontà e non lamentarsi che della propria impotenza.

L'amore del Petrarca, ciononostante, non è privo d'azione e di dramma; non è tutto della mente, come piace a molti asserire; non è solo artifizio scolastico cieco d'ogni lume di vero affetto, e perciò privo di interesse e di vita.
Petrarca non è un carattere intero, manca di qualcosa di energico che lo diriga, manca del timone della volontà; è carattere affatto moderno, tutto italiano.
In lui non c'è Prometeo, come in Dante; c'è l'uomo-femmina, c'è l'Apollo ermafrodita.
L'amor suo non è stagnante come acqua di palude, ma non è tempestoso come le onde dell'Oceano: somiglia piuttosto a un lago che s'increspa leggermente alla superficie, che raramente si turba e minaccia di flagellare la riva, come il Benaco descritto da Marone; ma che subito, come avesse senso e paura delle sue onde, si ravvede, si spiana, si racqueta, si compiace di riflettere l'azzurra faccia del cielo e le verdi colline circostanti, che vi si guardano dentro come Ninfe, curiose di loro bellezze.
E appunto in questi leggeri e istantanei turbamenti che noi sentiamo la vita e il carattere dell'uomo, indoviniamo quella parte viva e palpitante d'amore, ch'egli non ha il coraggio di rivelare, ma che pure si agita sotto alla trasparente vernice del Canzoniere.
Nella superficie Candida, lucida, levigata di quella poesia tu noti qua e la qualche screpolatura, e da queste screpolature, come da un campo di neve che principia a dimoiare e lascia veder qualche foglia di mammoletta ostinata, tu vedi guizzar fuori un non so che di umano e talvolta anche di sensuale, che ti annunzia la terra, la carne, il peccato.
Questi guizzi, questi fremiti inaspettati ed involontari dànno una gran luce e un profondo significato alla poesia petrarchesca, la quale, senza di essi, sarebbe da somigliare a una camelia, priva di quelle fragranze che sono le parole che la natura accorda a certe famiglie privilegiate di fiori.

Il carattere di Dante non ondeggia, non tituba, non ha altalene.
Beatrice, angelo o donna che sia, è pur sempre la sua mèta: a lei tende irresistibilmente, come per fatalità ragionata dell'animo; e l'intelletto, il sentimento, la volontà congiurati insieme lo spingono sempre innanzi, sempre verso quel fine ch'egli non raggiunge mai sulla terra; se le vicende fortunose della sua vita lo fanno talvolta oscillare, la sua oscillazione e simile a quella dell'ago magnetico.
E Beatrice non è soltanto il polo dell'animo innamorato di lui; è l'universo al quale si dirigono per intima legge tutte le facoltà del suo spirito.
Il suo amore non è però stazionario; ma precede sempre, e procedendo si modifica, si trasforma, in peggio o in meglio non so, ma certo procede in maniera che, nato nel profondo del cuore, s'inalza a poco a poco alle regioni dell'intelligenza, e da queste al mondo soprannaturale, in cui finalmente si acqueta.

Nella Vita Nuova noi troviamo la descrizione del primo periodo di questo amore originale; del periodo più umano e più comune di quella passione. E' il primum ver, il ver novum dell'anima.
La narrazione di tutto ciò che il Poeta sente dentro di sè, e non solo la narrazione, ma lo studio di molti più o meno insignificanti incidenti che dànno luogo a parecchi importanti fenomeni psicologici, costituiscono la materia del giovanile libretto.
Non succede nessun piccolo incontro, non parola d'affetto, non sussurro di gente maligna, non visione, che il Poeta non prenda sul serio, non esamini, non si studii di spiegare.
Le menome circostanze operano direttamente e contemporaneamente sul suo cuore e sulla sua intelligenza: egli sente e ragiona al tempo istesso: mirabile armonia ed equilibrio perfetto di facoltà.

Non è però da far le meraviglie o da gridare allo scandalo, se lo scrittore, dopo uno sfogo irresistibile dell'animo e qualche volta al momento istesso, si avvede di ciò che fa, nota ciò che dice, chiosa e comenta il suo pensiero e la sua parola; ammucchia la sua fanciullesca erudizione su quelle cose che fanno palpitare il suo cuore.
Coloro che credono trovare in questa circostanza un argomento per impugnare la realtà dell'amore di Dante, o non hanno meditato abbastanza sul carattere del Poeta e dei tempi, o non sono capaci di meditare e sentire la profonda verità ch'è in tutte queste contradizioni che costituiscono la parte più vera di questa comune e sempre istranissima passione d'amore.

Quelli poi che sorridono di compassione a sentirsi con tanta serietà descritti codesti piccoli aneddoti, a cui il poeta s'interessa con tanta ingenua cordialità, possono andare a sfogare la lor libidine di cose nuove nella eccitante lettura dei tanti romanzi che con tanto diabolico profluvio si vanno scrivacchiando oggidì per tutte le cinque parti del mondo, e che sono il pascolo prediletto di quel numerosissimo armento, che là solamente trova gusto dove, non essendo nulla da imparare, non ha occasione di arrossire della sua superba ed asinina ignoranza.
Con codesti romanzi, che si addimandano realisti, solo perchè della realtà non ritraggono che la parte piu sudicia, e pare altra missione ed ufficio non abbiano che di strappare la foglia di fico che il pudore naturale ha voluto mettere sulle vergogne, il libretto originale della Vita Nuova non ha nulla che vedere.
Le fila che compongono la sua trama sono tenuissime, e sfuggirono a coloro che hanno grosso l'ingegno e incallito il cuore: non isfuggono però a quegli uomini del Trecento assai più aspri e selvatici in apparenza, ma certo e intimamente assai piu gentili di noi non veramente gentili, che gentilezza si accoppia benissimo a robustezza di fibre e virilità di carattere, ma piuttosto morbidi effeminati, non aventi altra forza che di sogghigno, non altro coraggio che di mostrare ignuda e di celebrare la clorotica floscezza dell'animo nostro annoiato.
Notevole anche da questo lato e quell 'ingenuo racconto che par concepito nella solitudine e nel ritiro d'un chiostro, o in tempi di quiete e di oblio, quando invece fu scritto da un uomo operosissimo e guerriero e in tempi e in paese agitatissimi dal febbrile parossismo di tante feroci passioni.
Gli animi, fossero anche faziosi e crudeli, sentivano allora il bisogno di sollevarsi di quando in quando alla soave contemplazione delle gioie spirituali, di liberarsi anche per un momento dalla torbida gora, in cui s'inzaccheravano insanguinandosi, e spaziare solingamente nelle reminescenze e nell'affetto di una cosa gentile.
E la Vita Nuova rappresenta appunto codesto momento, codesta faccia dell'animo dei suoi contemporanei: è il primo romanzo scritto in volgare e la più limpida incarnazione del nuovo concetto d'amore.
Lo stile di esso non è sempre semplice e piano e conveniente al soggetto; e non poteva essere altrimenti in un tempo in cui risvegliandosi il culto del sapere, le nuove e le vecchie cognizioni si mescolavano stranamente, e quel tanto che studiosamente si apprendeva volevasi con intemperanza giovanile metter subito in mostra.
Ma semplice e schietta e la sostanza del libro e sempre viva ed ingenua e direi quasi verginale la lingua.

Io non posso rileggere la Vita Nuova senza che mi vegga sfilare dinanzi agli occhi quelle figurine snelle, leggere, candidissime che Frate Angelico dipingeva nelle cellette di S. Marco a Firenze.
Si direbbe che l'arte nostra non avesse ancor preso consistenza, fosse ancora vaporosa ed indefinita come un pianeta in formazione; non avesse ancor la forza di ritrarre completamente il corpo, ma valesse mirabilmente a ritrarre lo spirito, non già per completa padronanza e ricchezza di mezzi artistici, ma per intima forza di sentimento, a cui bastavano poche linee per rivelarsi.

Anime riboccanti di fede, di amore, di attività gli artisti e gli scrittori di quel tempo esprimevano le loro concezioni ed i loro sentimenti in una forma naturalmente semplice e schietta e perciò naturalmente forbita.
La forbitezza degli artisti e poeti del Cinquecento è tutta artificiale ed esteriore; vernice spesso, non altro: la forma rimane al di sopra e come staccata ed estranea al concetto: non è la cosa stessa con questo, non è figlia del medesimo concepimento; è invece una superfetazione. La forbitezza dei trecentisti, al contrario, è tutta intima, deriva dalla cosa stessa, anzi è la cosa stessa che si esprime per virtù propria, che vien fuori per naturale, invincibile impulso.

Gli scrittori del Trecento son pero restati i veri maestri del nostro idioma e i migliori modelli di stile; non sono accademici che chiacchierano di ciò che non fanno e non sono capaci di fare, ma uomini che dicono meno di ciò che hanno fatto: sono i più robusti, perchè i più operosi; i più forbiti, perchè i più schietti; la schiettezza è dei forti, l'artificio dei deboli.
E gli scrittori più gagliardi e più schietti del Trecento sono gli uomini più operosi e più onesti: Guido Cavalcanti, Dante Alighieri, i Villani.

E schietti e potenti sono anche gli scrittori di cose ascetiche, perchè allora la fede non era parola, ma opera; non mestiere, ma sentimento.
Fra Bartolomeo, Fra Cavalca, Caterina da Siena, Frajacopone, nei lucidi intervalli, qualunque abbiano a essere i loro sentimenti, hanno pure una fisionomia, un carattere: non sono vesti, come parecchi scrittori del secolo di Leone, ma sono anime.
E si osservi, che fra gli ascetici, questi che abbiamo nominati sono eccellenti perchè ciò che dicono proviene dalle viscere del loro sentimento; gli altri che narrano leggende, o espongono precetti per impaurire le mennti, per asservirle al potere ecclesiastico; che non iscrivono per intima forza dell'animo, ma per interesse e tornaconto della casta a cui appartengono, costoro riescono scrittori freddi, insipidi, uggiosi come il Passavanti.

L'arte del Trecento, a dir breve, ha questo di singolare, che si confonde con la vita; non è esercitazione, ma azione: ciò che esce però dalla cerchia di quella vita agitata, varia, potente, riesce languido e sfiaccolato.
La Vita Nuova, per quanto possa parere estranea alla febbrile attività di quel secolo, pure ne ritrae fedelmente un lato, il più spirituale, se vogliamo, ma non certo il più insignificante.
Il giovane Poeta vive ancora solitario co' suoi libri, col suo amore, con le sue vergini fantasie; rappresenta quel bisogno di pace e d'isolamento, che ognuno allora sentiva, immerso corn'era fino ai capelli nei sanguinosi flutti delle civili discordie.

IV
Quando Beatrice si allontanò per sempre dalla terra, o per dirla col Poeta, quando essa mutò vita, e sailì al cielo, che non avea altro difetto che di aver lei, la sua forma umana si dileguò leggermente come roseo vapore vespertino dall'anima dell'Alighieri.
Il quale, se alla nuova crudele della morte di lei s'abbandonò a disperato dolore, si rassegnò poco dopo nella certezza, che

Ita n'è Beatrice in l'alto cielo
Nei reame ove li angioli hanno pace; (Vita nuova, XXXI, 10-11)

si persuase ch'ella non era nata per istar lungamente sulla terra e che
Non la ci tolse qualità di gelo
Ne di dolor si come l'altre face,
Ma sola fu sua gran benignitate. (Ivi, 13-15)

Si, perchè essa non era che un miracolo vivente, la cui radice è la mirabile trinità.
E come per raffermarsi in questa persuasione che lo conforta, ei si spiega codesto miracolo nella maniera seguente: « Noi veggiamo molti uomini tanto vili e di bassa condizione, che quasi non pare essere altro che bestie; però è da porre e credere fermamente, che sia alcuno tanto nobile e di sì alta condizione, che quasi non sia altro che angelo. Altrimenti non si continuerebbe la umana spezie da ogni parte; che esser non può. Questi cotali Aristotile li chiama divini; e tale dico io che è questa donna, e la divina virtù, a guisa che discende nell'Angelo, discende in lei»(Conv., trattato III, VII).
Ecco come il sentimento e la ragione modificano e a poco a poco trasformano la figura di Beatrice; la quale, perdendo e sulla terra e nell'animo del Poeta la sua forma individuale e corporea, assume le qualità delle eterne sostanze, diventa l'angelo e la guida
Che lume fia tra'l vero e l'intelletto. (Conv., trattato III, VII)
La passione del Poeta non può non risentire gli effetti di questa trasformazione: Beatrice, che fu da prima una donna, ora ch'e diventata purissima sostanza diviene per lui un desiderio oltre sensibile, una memoria affettuosa, la quale si tramuterà alla sua volta in un concetto, in una dottrina, in un'allegoria. L'amore che prima oscillava tra il cuore e il cervello, ora si riduce e si chiude entro a questo; la ragione lo alimenta, lo purifica, gli dà tempra immortale.
Questo secondo aspetto dell'amore dantesco ci vien significato nel Convito.
Nell'ordine psicologico il Convito non può essere che il secondo libro uscito dalla mente dell'Alighieri: esso è un anello che concatena la Vita Nuova alle opere maggiori di lui; è uno studio preparatorio al gran poema, e si addentella benissimo alle finali parole del romanzo giovanile, nelle quali il Poeta promette di parlare più degnamente della donna sua.
Prima di lanciare l'ingegno nelle sfere meravigliose, da cui dovea più tardi

Descriver fondo a tutto 'universo (Inf., XXXII, 8),
egli senti il bisogno di addirsi profondamente alle discipline filosofiche, di conoscere quanto allora insegnavasi nelle scuole per fecondarlo più tardi con la sua immaginazione e tradurlo in originali armonie.
Per la qual cosa il Convito, in cui si distribuisce il cibo della sapienza, non è da considerare come un trattato di morale filosofia, ma come un documento delle cognizioni filosofiche del tempo; non come un libro ordinato e profondo, ispirato da un pensiero originale ed in maniera originale significato, ma come uno studio che serve di mezzo ad un fine più alto, e che giova assai a farci conoscere il progressivo sviluppo dell'ingegno, del carattere e dell'amore del nostro poeta.

Il quale molto diverso di Catullo, che per la morte del fratello e le discordie con la donna amata scriveva a Manlio e ad Ortalo non essere più in grado di volger l'animo agli studj prediletti; avvenuta la morte della Beatrice, invocò tutta la forza dell'animo per potersi sollevare dal letargo del suo dolore, rivolse gagliardamente il pensiero allo studio della filosofia, della quale innamorò in breve sì fortemente, come di donna viva e reale.
Nè già s'immerse nello studio per dimenticare la sua bellissima morta, come fanno i volgari; ma sì per vederla meglio e più da vicino, e per occuparsi degnamente e senza distrazioni di lei.

Imperocchè, non essendo altro la sapienza se non un mezzo di avvicinare alla somma verità, ed essendo Beatrice salita fermamente nel cielo, dove, secondo i credenti, ha regno infinito la verità, il Poeta non poteva altrimenti e per altra via arrivare alla donna sua, che per quella della filosofia, ch'è la chiave di ogni scienza e dischiude il cammino del vero.
Ogni cognizione ch'egli acquista, ogni virtù che opera, ogni trionfo dell'anima sul senso, egli monta un gradino, si appressa di più alla somma perfezione, nel lume infinito della quale si disegna puramente la santa immagine della sua donna.

Mirabile perciò è quest'amore dell'Alighieri, che si alimenta di quella sapienza, dalla quale gli amori volgari soglion distogliere le menti; e si fortifica della ragione, che si frequenti volte è chiamata a combattere e uccidere le nostre passioni.
Il poeta perciò non è soltanto mosso a scrivere il Convito da carità che potesse avere di porger tesoro di dottrina agl'indotti e di mostrare l'eccellenza del volgare italiano; ma principalmente da questa forte necessità che sente di purificarsi, di svolgersi da tutti gli involucri terreni, di diventare ignudo e semplice spirito eterno per potere innalzarsi fino alle sfere luminose, in cui vive la sua Beatrice.
Noi non piglieremo sul serio tutti gli sforzi del Poeta per dimostrare, che amando Beatrice egli intendeva amare la sapienza, che egli compose le sue più belle canzoni, non già per celebrare le bellezze d'una donna mortale, ma sì la sovrana virtù della filosofia, della quale soltanto egli prendeva diletto, e alla quale era unicamente legato.
A noi, in verità, sembrano assai meschini tutti i raggiri e le scuse ammannite dal Poeta e dirette a smentire una passione nobilmente umana e umanamente sentita ed espressa. Stiracchiando e sforzando la lettera dei suoi versi e volendoli far servire di simbolo e di veste a un concetto allegorico, egli ne distrugge le principali bellezze; si mette in repentaglio di esser preso per un sottile maestro di arzigogoli, anzichè per un sovrano trovatore di nuove e patetiche melodie.
Noi prendiamo le canzoni di Dante così come ci appaiono alla prima; non vogliamo farci merito di acuti indagatori di arcani concetti, nè amiamo sforzare la loro verginità con la chiave ingegnosa degli sciaradisti.
Esse son belle allora soltanto che scaturiscono da un sentimento vero e profondo; e allora solo ci commuovono che appaiono e sono realmente spirate dall'amore che dettava nell'animo del Poeta.
Quelle lavorate a freddo, e che servono di velo e di maschera ad astrazioni e a concetti filosofici e morali non ci commuovono, e non ci piacciono; son da tenere in conto di giochi di destrezza e d'artifizio, che nulla han di comune con l'arte.

Comunque sia, certo è, che il soggetto di questo secondo libro di Dante è Beatrice, non più donna, ma angelo; non più la donna amata, ma l'amore. La passione s'è mutata in un'idea.
Allora è possibile al Poeta il pensare a darsi ad altre donne; sposarne una, di cui non ci parla mai chiaramente, agitarsi con gli altri fra i vortici della vita comune.
Egli è diventato due: Gemma Donati è la moglie dell'uomo: non ha niente che vedere con Beatrice; non è neppure una parentesi aperta nel periodo del primo amore.
Ella non avea ragione di essere e forse non fu mai gelosa di Beatrice: si può esser gelosi di una morta; ma Beatrice non era neppure una morta; era qualcosa di meno, era la tesi del metafisico intitolata: l'Amore.

L'amore e l'immortalità dell'anima sono le due dottrine, sulle quali maggiormente si ferma il pensiero dello scrittore.
Gli argomenti da lui recati in favore dell'immortalità dell'anima si riducono principalmente a tre: l'autorità degli scrittori, la divinazione dei sogni, e la fede cristiana.
Quanto siano forti questi argomenti ognuno puo vedere da sè; ma la fede che ha il Poeta in questa infinità dello spirito non può non commuoverci intimamente, quando pensiamo che, assai più che da dottrina o da autorità, era in lui raffermata dal gentilissimo sentimento d'amore.

E davvero dolorosa la certezza che la vita delle persone da noi predilette si svolge e finisce tutta sovra la terra, e che, perdutele una volta, non c'è più speranza di rivederle.
La pietosa menzogna dell'oltretomba non ha perciò lusingato soltanto le anime debolette che hanno per colpa propria o della fortuna sofferto assai nella vita; non ispaventate le malvage che si sono pazzamente avviluppate nei vizj e nei delitti; ma ha pure illuso le forti e le buone che fortemente o costantemente hanno amato.
Per la qual cosa, più che filosofica convinzione e dottrina, l'immortalità dell'anima è per Dante una persuasione gentile, un sentimento, un istinto.
E se egli, malgrado l'ingegno peregrino ed arguto, ci fa pietosamente sorridere quando vuol convalidare questo sentimento con le prove che apprestavano allora le scuole, non può non toccar l'anima di chicchessia, quando, poste da banda le sottigliezze metafisiche e le dommatiche asserzioni della fede, ingenuamente conclude: « Ed io così credo, così affermo, e così certo sono; ad altra vita migliore dopo questa passare, la dove quella gloriosa donna vive, della quale fu l'anima mia innamorata» (Conv., II, VIII).
La vita avvenire non è altro per lui che amore.
Questo, che nella terra è desiderio, brama, passione, diventa nel cielo beatitudine, val quanto dire godimento di ogni bene, di ogni bellezza, di ogni verità.
L'anima umana, che dipende da Dio e per Dio si conserva, vuole naturalmente essere a lui unita. E, perciocchè nella bontà della natura umana si mostra la ragione della divina, segue per natura che l'anima umana si unisce con quella per via spirituale, e tanto più forte e più tosto quanto quelle appaiono più perfette.
Ora è appunto questa unione spirituale che costituisce l'amore, per cui si può conoscere qual è l'anima intimamente.
Questo amore appunto, cioè l'unione dell'anima del Poeta con quella della sua donna gloriosa, è quello che gli ragiona dentro, allor ch'ei canta

Amor che nella mente mi ragiona; (Ivi III, 1)
e, siccome egli e la donna sua sono già divenuti un cosa sola, così il sentimento e la ragione si sono in lui unificati. E appunto in questa unione spirituale, in questo connubio mistico che egli presènte la beatitudine.
La beatitudine, che implica perfezione dell'animo, esclude logicamente ogni attività, la quale altro non è che l'esercizio più o meno ordinato delle nostre forze per raggiungere un qualunque scopo.
Or, qual è il motore di ogni nostra azione, se non il bisogno?
E qual fine e destino hanno mai le nostre anime, se non di rivolgersi incessantemente a quel segno luminoso, che altri chiama in un modo o in un altro, ma che costituisce fermamente l'ideale della nostra esistenza?
E che cosa è mai la perfezione, se non il raggiungimento di questo ideale?
E perchè gli uomini si chiamano perfettibili, se non perchè essi tendono a traverso tutte le difficoltà a divenire perfetti?
le difficoltà sono appunto i motori delle nostre forze; quando esse cessano, cessa naturalmente ogni attività.
Coloro adunque che vivono in beatitudine non possono, secondo ragione, essere attivi ed operosi, ma soltanto contemplativi.

Or, siccome noi non possiamo concepire una vita qualunque sia, senza la condizione necessaria del moto e dell'attività, tutte quelle così dette sostanze o intelligenze perfette, che appunto perchè tali, devono vivere in perfetta calma, sono la negazione di ogni idea che noi abbiamo della vita.

Ciò non ostante, la vita contemplativa fu dichiarata la più perfetta e quasi beatitudine sulla terra, la 
quale non fu per i credenti del medio evo, e non è per i sonnambuli d'oggigiorno, che un luogo d'espiazione e d'esilio.

Da questo principio funesto, generato dal platonismo concubinato alla fede cristiana, e applicato largamente dalla Chiesa cattolica, nacque il monachesimo e la vita claustrale, cancrena della società; nacque l'ozio e l'ignoranza e l'ignavia delle plebi trafficate agevolmente da sacerdoti e da re; nacque, in una parola, quello strano spostamento di vita, per cui gli uomini si contentavano di essere automi nel mondo per esser beati nel paradiso.

Questa dottrina stagnante non entrò tutta e senza modificazioni nel cervello dell'Alighieri, nato fatto per operare e combattere.

Egli afferma che gli angeli, che altro non sono che intelligenze superiori, nature universali, o idee, come li chiama Platone, quantunque beati e perfetti, pure non cessano mai di operare, perocchè, essendo fra gli uomini la vita contemplativa e l'attiva, non puo non essere fra gli angeli, che son perfetti.

E fu vera fortuna che il Poeta nostro, pure esaltando la eccellenza del vivere contemplativo, non potè mai dividersi dalla vita operosa; anzi la contemplazione e le opere alternò e contemperò in guisa, che ben possiamo, secondo la sua dottrina, chiamarlo perfetto, anche più di quelle famose sostanze divise da materia, che non sono mai altrove esistite che nell'immaginazione scrofolosa dei creduli e nei sempiterni sofismi dei filosofanti.

Ben poteano le dottrine e i pregiudizj del tempo implicare l'ingegno sottilissimo di lui fra i labirinti e le ambagi della scuola; ben potea la religione, congiurata alla sorgente scienza, esigere dall'anima di lui un tributo di riverenza e di ossequio; ma nè la scolastica, nè la fede valsero mai a sviare talmente il suo pensiero da fargli smarrire o dimenticare la via che sola potea condurlo a grandezza.
Il filo misterioso d'Arianna, che salva il poeta dai tortuosi avvolgimenti della metafisica, è quell'istinto continuo, potente, irresistibile che lo spinge a vivere e ad operare nella realtà.
E tale istinto non solo e principalmente ci si rivela in tutte le azioni del vivere suo, non solo fra le assurde utopie della Monarchia e nelle epiche rappresentazioni del gran poema, ma è in questo libro del Convito, dove le più astratte speculazioni non sono mai scompagnate da un certo senso di pratica utilità, che dà loro talvolta quel valore che forse intimamente non hanno.

La filosofia infatti, non essendo, per lui, che amoroso culto di sapienza, è per natura nemica dei neghittosi e dei pusillani mi; sola amica dello studio e del lavoro; fonte di vera nobiltà, non già di quella che ci viene infusa o tramandata dagli avi, ma di quella che si acquista con le proprie azioni e con la propria virtù; e benchè parta dal cielo, secondo il suo pensiero, ami sia figlia della mente di Dio, pure essa non esercita meglio altrove la sua attività che fra gli uomini.
Essa infatti è necessaria così alle operazioni della vita individuale, come all'esercizio dei poteri sociali e dell'autorità dell'impero.

E da questa idea dell'autorità filosofica congiunta all'imperiale, passando subito al fatto, e gettando uno sguardo sull'Italia, il Poeta non si può trattenere dall'esclamare contro a coloro che tenevano allora le verghe dei nostri reggimenti, facendo loro osservare, « esser meglio come rondine volare basso, che come nibbio altissime ruote fare sopra cose vilissime» (Ivi, IV, 6)

E così, dopo che ha lungamente migrato di là dal reale e dal vero, egli torna in terra, si mette in contatto immediato con la realtà; racquista il vigore dei polsi, la fierezza della sua personalità, la sua ira superba, i suoi fulmini.
Sollevato oltre ai regni della natura, il suo pensiero è come campato in aria; si regge a pena sull'ala prepotente, è costretto a ridiscendere, a vivere con gli uomini, a turbinare nel seno della società: rassomiglia all'Anteo della favola, che allora solo riprendea lena e coraggio, che toccava la terra materna.

Come potea l'anima tempestosa di Dante crogiolarsi lungamente nel calduccio della metafisica? gingillarsi fra le astruse vanità della scolastica?

L'aria delle scuole popolate di tisiche e va-nitose chimere non si confaceva alla ferrea tempra dei suoi polmoni; quel mondo fatto di carta pesta e di calze disfatte non era per lui, anima di Titano.

E di fatti, quando per virtù di quell'istinto che ho più sopra notato, egli s'avvide, che la sua Beatrice, divenuta già troppo diafana nel laboratorio del suo pensiero tramontava quasi del tutto nella sfera glaciale delle astrazioni; che egli non era intero e non viveva completamente fra le pallide larve del suo Convito, abbandonò disdegnoso quelle regioni insalubri, si gettò a capo fitto nella vita reale, nella società procellosa che gli ondeggiava terribilmente d'intorno, e si accinse al gran poema come ad una battaglia.


V


Nel Convito il pensiero fa divorzio dalla natura; lo scrittore si divide dall'uomo: le sue passioni stagnano per così dire, nelle infette maremme della scolastica; l'amore di Beatrice si mummifica fra le fasce incerate dei sillogismi.

Nella Divina Commedia l'uomo, il filosofo, il cittadino, il poeta si unificano mirabilmente, e da questa onnipotente unità si diffonde intorno un lume , un'armonia, una vita non mai fino allora provata.
Tutto si colora, si muove, si avviva d'intorno a questo iracondo taumaturgo, che rianima i morti ed annienta i vivi con la possente magia della sua parola; e tutto questo popolo di resuscitati e di estinti, tutto questo universo che gli si agita nell'anima, egli lo trapianta in un mondo favoloso e fantastico; sì che tu hai dinanzi agli occhi intrecciato e compenetrato in originalissima guisa tutto ciò che vive nella tradizione e nella coscienza; ciò che vola nella fantasia e ciò che si petrifica nella storia: il mondo reale insomma e il fantastico armonizzati ed unificati in una sola vita, nella vita multiforme di un'arte nuova.

E Beatrice? Ella vivea in cielo con gli angeli e in terra con l'anima del suo poeta.
La sua azione, ora manifesta, ora latente, muove ed anima dall'un capo all'altro tutto l'elaborato congegno del triplice poema; è come lo spirito, la ragione e lo scopo d'esso.

Dante è smarrito nella selva selvaggia; si è lasciato adescare da quelle false immagini di bene

Che nulla promission rendono intera (Purg., XXX, 132) .

Travolto dall'ambizione, dalla superbia, dall'ira, egli gavazza, dimentico di sè stesso e di tutto; smarrisce l'immagine di quella

donna di virtu sola per cui
L'umana spezie eccede ogni contento [...](Inf., II, 76);

si abbandona alla ridda vertiginosa delle cose mondane; nè a levarlo suso da quel baratro di perdizione basta la punta dello primo strale delle cose fallaci.
Perchè egli ritorni in sè stesso, si rivolga alla via di salvazione, bisogna che lunghi e gelidi disinganni vengano a spandere le ali di ghiaccio sull'animo suo acceso da tutte le febbri delle passioni.

Beatrice gli balena allora nel pensiero; egli ha vergogna di sè: vuol fare ammenda di ogni sua colpa, a qualunque patto.
Sente la voce di lei che lo chiama al cielo, ma il canto delle Sirene lo incatena alla terra; nè egli ha la fermezza di Ulisse. Fa proposito di liberarsi dalla selva tanto amara che poco è più morte, ma il coraggio gli vacilla dinanzi alle tre belve che gli impediscono l'andare;

L'anima sua è da viltade offesa ( Inf., II,45 )

Beatrice non lo ha amato per nulla. Vede, che l'amico suo e non della ventura

Nella diserta piaggia e impedito
Sì nel cammin, che volto è per paura (Ivi. 62-63),

Che fa ella in tal caso? Si rivolge a Virgilio, perchè lo soccorra. Chi è Virgilio? Forse la scienza umana? No: è quella fonte

Che spande di PARLAR sì largo fiume (Inf. I, 38) ;

è colui ch'è onore e lume degli altri poeti; l'autore prediletto dall'Alighieri; colui da cui egli tolse lo BELLO STILE che gli ha fatto onore; colui che con la sua PAROLA ORNATA può fare ciò ch'è mestieri al suo campare: è la Poesia, è l'Arte.
Il miracolo, che non avrebbe potuto fare in quel punto la fede, o la scienza, lo fa l'arte.

L'anima del poeta, sedotta dalle false immagini di bene, non avea bisogno in quelle condizioni di una potenza che parlasse al suo intelletto, ma sì d'una forza che movesse il suo cuore; di una maga più piacevole e seducente delle altre, della voce redentrice dell'arte, maga salutare come ben la definisce il Gravina.

Beatrice, ch'è amore, cioè fede, scienza ed arte, è troppo accorta per lusingarsi, che la fede, sentimento cieco o la scienza, ragionamento freddo, potessero richiamare al diritto sentiero l'amico suo: gli manda l'arte, ch'è sentimento e ragione ad un tempo, e raggio più bello d'amore; e l'arte onnipotente lo salverà.
Ben e vero, che Beatrice dichiara a Virgilio:

Io son fatta da Dio, sua mercè, tale, Che la vostra miseria non mi tange (Inf.II, 91-92) ;

ma se ella è superiore alle miserie della terra, è pur sensibile alla pietà, è fedele alle memorie dell'amore. Vede la morte, che combatte il suo povero amico

Su la fiumana ove 'l mar non ha vanto (Ivi, 108) ,

e rapida, come

Al mondo non fur mai persone ratte A far lor pro ed a fuggir lor danno (Ivi, 109-110),

scende a trovar Virgilio, fidandosi delparlare onesto di lui, e lo prega di correre in soccorso del suo prediletto. Vedete, come dentro all'angelica essenza palpita ancora la donna.

Ne questo è tutto. Le parole caldissime ch'ella adopera per muovere il Mantovano, non le paiono sufficienti. Virgilio è mosso da un argomento assai più eloquente delle parole: dalle lagrime di Beatrice,

Poscia che m'ebbe ragionato questo, Gli occhi lucenti lagrimando volse Perch'io mi feci del venir più presto (Ivi, 115-117).

Una sostanza beata che piange: è la più ardita ed artistica contradizione.
Dopo questo efficace preludio, Beatrice si assenta per quasi due terzi del poema.

La sua immagine però è sempre viva nell'anima del Poeta, che per lei soltanto intraprende il paventoso viaggio; è sempre viva, chi ben vede, in fondo a tutto il poema; è come il fondo luminoso che da risalto alle tenebrose creazioni della prima cantica; come uno zeffiro mattutino che fa dolcemente tremolare le aure della seconda; come un raggio d'aurora, che va mano a mano crescendo e che arriva a un diffuso meriggio, a cui il Poeta, e dietro a lui il lettore, si dirige incessantemente con esemplare costanza d'innamorato.

Giunge però un'ora, ch'egli è stanco, scorato, avvilito.
L'idea, annunziata dell'angelo del Passato, cioe, che per salire ancora piu bisogna traversare le fiamme, lo rende tale

Quale e colui che nella fossa e messo (Purg., XXVII, 15) .

Virgilio usa indarno ogni argomento per persuaderlo d'andare avanti: egli rimane fermo e contro coscienza. Allora il buon Maestro, vedendolo così ostinato a non procedere

Turbato un poco disse: Or vedi, figlio, Tra Beatrice e te è questo muro (Ivi, 35-36).

Non ci vuol altro perchè il poeta si spoltre, ripigli lena e coraggio.

Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla
Allor che il gelso diventò vermiglio,
Così la mia durezza fatta solla,
Mi volsi al savio Duca udendo il nome
Che nella mente sempre mi rampolla (Ivi, 37-42).

Procede fino al Paradiso terrestre, finchè una dolce e non mai sentita melodia gli annunzia l'avvicinarsi della donna amata.
La quale è circondata di strani simboli e di misteriose allegorie.

Si direbbe, che appena s'allontana Virgilio, ch'è l'arte, la mente dell'Alighieri si perda abbacinata nella diffusa luce del mito cristiano, entro alla quale non è più dato ad acume mortale discernere e raffigurare le cose.

I sette candelabri, i ventiquattro seniori, le quattro bestie, il carro, il Grifone, le sette donne e tutta l'altra folla allegorica, se pure han qualche valore come idee, non ne hanno certamente alcuno come immagini; vi parlano, tutto al più, all'intelligenza, non al cuore; vi fanno pensare, non sentire.

Le forme di cui sono rivestiti o non vi dicono nulla, o vi sconcertano il sentimento. Non è al certo estetico il raffigurare gli Evangelisti in forma di animali, e molto più sconveniente e il presentarci Cristo in forma di Grifone, bestia fantastica e brutta, che tira il carro in cui e simboleggiata la Chiesa.

Ma tutte queste immagini, ognun sa, il Poeta non le attinge dalla propria fantasia, ma dalla fonte impurissima dell'Apocalisse, arzigogolo e indovinello Alessandrino di mente brilla, a cui non giunge a dar forma ispirata la strana fantasmagoria che lo riveste.
Nè potea fare altrimenti; già che, a voler rappresentare ciò che vive nella tradizione della Chiesa cattolica, in una forma diversa dalla convenzionale, avrebbe corso rischio di non esser inteso.

La religione cristiana, a parte il valore più o meno reale del contenuto, ha questo di particolare, che è antiestetica in quasi tutte le sue rappresentazioni.

E non può essere diversamente; giacchè, avendo essa annientata la terra, la carne, la materia e tutto ciò che vive ad esclusivo beneficio di ciò ch'essa chiama lo spirito; le immagini e le forme corporee si dileguano tutte al suo gelido soffio, ovvero si raggricciano e si contorcono mostruosamente per servire di mezzane fra l'idea astratta che non significa nulla, e l'intelletto degli uomini obbligato imperiosamente a comprenderla.

La pittura religiosa difatti, tanto più fu tenuta in pregio quanto meglio spiritualmente si espresse: la figura non ebbe valore per sè stessa, ma per il suo significato; e bellissime furono giudicate le pitture di Frate Angelico, che con poche e semplicissime linee e tutte lontane da realtà, seppe rappresentare all'anima dei fedeli la pura convenzionale idealità dei miti cristiani.

Era d'altronde naturale che lo spostamento operate dalla nuova religione nella vita si riflettesse anche nell'arte.

Al Giove di Fidia, giovane, bello, ignudo, sereno, succede Jèova, ispido, vecchio, iracondo, vendicativo; ravvolto in un manto turchino, con una specie di cocomero sotto il braccio che raffigura il mondo, con un cappello da carabiniere sul capo che rappre-senta l'enigma della Trinità; all'alito fecondo d'amore che anima ed abbellisce ogni cosa, vien sostituito il mistico piccione che scende apposta dal cielo per fare il nido in casa di un fale-gname di Nazareth; all'epos divino di Omero e agli aurei versi di Virgilio gli acrostici e i serpentini di Pentadio e d'Ottaziano; alla pura sensualità di Saffo l'ascetico onanismo dei SS. Padri.

Tornando al nostro Poeta, io voglio dire, che la lunga pro-cessione di bestie, di seniori e di candelabri che preparano il trionfo di Beatrice, come artistica incarnazione non ha valore.
La stessa Matilde, figura storica, trasformata e mistificata dal poeta e ridotta a numero simbolico, non ha estetico pregio per sè stessa, ma per le amene circostanze e per la viva descrizione della foresta del Purgatorio, in cui sono profusi i più bei colori e la luce più sfoggiata della fantasia.

La sola ed unica figura viva in mezzo a tanta sequela di larve allegoriche è Beatrice; e il punto culminante e più bello di tutta la sua vita e nei canti XXX e XXXI del Purgatorio; in cui essa come artistica rappresentazione, raggiunge il massimo della sensibilità e dell'effetto.

Alla prima, ci si presenta come un essere soprannaturale, cinta ed annunziata da circostanze straordinarie, miracolose.
Il poeta ci descrive l'apparire di lei in versi ricordevoli e solenni, pieni di armonia, di profumi, di luce:

Io vidi già nel cominciar del giorno
La parte oriental tutta rosata
E l'altro ciel di bel sereno adorno,
E la faccia del Sol nascere ombrata
Si che, per temperanza di vapori,
L'occhio la sostenea lunga fiata.
Così dentro una nuvola di fiori
Che dalle mani angeliche saliva,
E ricadeva giù dentro e di fuori,
Sovra candido vel cinta d'oliva
Donna m'apparve sotto verde manto
Vestita di color di fiamma viva (Purg., XXX, 22-33).

La visione celeste vien subito ravvivata dalla presenza della vita terrena, dalla passione indomabile del poeta:

E lo spirito mio, che già cotanto
Tempo era stato che alla sua presenza
Non era di stupor tremando affranto,
Senza dagli occhi aver più conoscenza
Per occulta virtù, che da lei mosse,
D'antico amor sentì la gran potenza
Tosto che nella vista mi percosse
L'alta virtù, che già m'avea trafitto
Prima ch'io fuor di puerizia fosse (Ivi, 34-42) .

Le debolezze della vita mortale si risentono in Dante; le reminiscenze dell'amore terreno gli si svegliano in un momento nel cuore.
Egli che ha tanto combattuto nel mondo, che ha avuto il coraggio di traversare i tenebrosi baratri dell'inferno, ridiventa il debole fanciullo della Vita Nuova; esce di sentimento come allora che la veduta di Beatrice disconfiggea la sua poca vita, facendogli partire l'anima dai polsi(Vita Nuova, passim). Si volge tremando per cercar Virgilio, come fantolino che corra alia mamma.

Quando ha paura, o quando egli è afflitto (Purg., XXX, 45).

Ma Virgilio s'è dileguato, ed egli piange.
Il pianto di una creatura umana la dinanzi a Beatrice, nel regno dell'eterna beatitudine, è una stonatura mirabile.
Beatrice punge amaramente il suo povero amico:

Dante, perchè Virgilio se ne vada,
Non pianger anco, non pianger ancora,
Che pianger ti convien per altra spada (Ivi, 55-57).

Il nome del poeta,

Che per necessità qui si registra (Ivi, 63), è d'un effetto solenne.
E' sempre dolce il sentire il nostro nome sulla bocca della donna amata; qui la dolcezza vien subito amareggiata dal rimprovero; ma il rimprovero, che in sè stesso è duro e duramente espresso, vien temperato dal piacere ch'ebbe a provare il poeta nel sentirsi chiamare a nome dalla sua donna transumanata.
Allora egli ha coraggio di sollevar gli occhi e di guardarla.

Ma Beatrice rincara la dose:

Guardami ben, ben son, ben son Beatrice;
Come degnasti d'accedere al monte?
Non sapei tu che qui l'uomo e Felice? (Ivi, 73-75)

Dante, che

Sente il sapor della pietade acerba
rimane

Si come neve tra le vive travi
Per lo dosso d'ltalia si congela
Soffiata e stretta dalli venti Schiavi,
Poi liquefatta in sè stessa trapela
Pur che la terra che perde ombra spiri,
Sì che par fuoco fonder la candela (Ivi, 85-90).

Il canto degli angeli lo spetra, lo muove alle lagrime, non tanto per la sua dolcezza melodiosa, quanto perchè l'anima nostra, allorchè è piena riboccante di dolore, prorompe facilmente in singhiozzi ed abbandonasi al pianto, al suono di una parola qualunque, o alla vista di una persona, che pare voglia ricercare pietosamente la cagione del nostro dolore.

Beatrice, non punto commossa da queste lagrime, riprende inesorabile la sua invettiva; non parla direttamente al poeta, ma si rivolge agli angioli, come per fargli più sentire il peso dei suoi rimproveri;

Questi fu tal nella sua vita nova
Virtualmente, ch'ogni abito destro
Fatto averebbe in lui mirabil prova;
Ma tanto più maligno e più silvestro
Si fa il terren col mal seme e non còlto,
Quant'egli ha più di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni col mio volto;
Mostrando gli occhi giovinetti a lui
Meco il menava in diritta parte vòlto(Ivi, 115-123).

Ecco gli occhi giovinetti ricordati con femminile compiacenza, gli occhi di cui tanto si compiacque il poeta, che li celebrò nei versi migliori della sua giovinezza.
A questo richiamo alla vita mortale, a questa debole compiacenza corrisponde un sentimento di sdegno, quasi un impeto di gelosia:

Sì tosto come in su la soglia fui
Di mia seconda etade, e mutai vita,
Questi si tolse a me, e diessi altrui(Ivi, 123-126).

Questo altrui, buttato lì con certa sprezzosa noncuranza, ha pure un doppio significato: non vuol dire soltanto ad altre passioni, ad altre cure, ma si ancora ad altre donne: a Gemma Donati, a Gentucca, alle altre anonime.
Nè questo è tutto. Nel libro seguente la donna parla ancora più chiaramente:

Pon giù il seme del piangere ed ascolta:
Si udirai, come in contraria parte
Muover doveati mia carne sepolta.
Mai non t'appresentò natura ed arte
Piacer quanto le belle membra, in ch'io
Rinchiusa fui, e ch'or son terra sparte (Inf., XXXI, 46-51).

Carne sepolta, belle membra, o di chi?
Forse della sacra Teologia?

Che questa sia carne sepolta da un pezzo ognun sa, e lo sanno anche i corvi che si cibano di carogne; ma che ella avesse mai fatto sfoggio di belle membra nessuno oserebbe asserire; giacchè la sacra Teologia, se mai si fosse incarnata, non avrebbe potuto prendere altra figura, se non quella della vecchietta d'Orazio:

Hietque turpis inter aridas nates
Podex, velut crudae bovis;
... et mammae putres
Equina quales ubera;
Venterque mollis, et femur tumentibus
Exile suris additum (Epod., 14, 5) .

A parte lo scherzo, chi si ostinasse a non vedere altro in questa Beatrice che un'idea astratta e una figura ideale, meriterebbe la pena d'Abelardo.

Duo ubera tua sicut duo hinnuli caprae gemelli, è scritto nel Cantico, e un dotto ebreo ci fa sapere qualmente le due mammelle della sposa sono le due tavole della legge che Dio diede a Mosè; ed altri non meno spettabili commentatori sostengono che il dotto ebreo s'inganna, e che le due mammelle non altro sono che li due atti della carità piantata nel cuore di lei, ciò sono l'amore di Dio e l'amore del prossimo!

Mai non t'appresentò natura ed arte Piacer quanto le belle membra, [...} Inf., XXXI, 49-50.

e le gregarine laureate e nate a posta per interpretare ed esporre il divino poema, escono subito a sciami, vengon su da'bassi fondi e dai pozzi neri della sapienza, per ronzarci all'orecchio in aria di rivelazione.

Questa donna di belle membra, se ve l'abbiamo a dire, non è, e non è mai stata una donna; è invece la Scienza, la Virtù, la Potestà imperiale! Sì, eh? Furbi davvero!

Che questa Beatrice abbia un significato simbolico, e chi lo nega, e chi non lo vede?

Ma io dico che il simbolo è talmente intrecciato in questi due canti alla vita di questa creatura, che pur sentendo nella sua parola come un'armonia di cielo, tu vi senti tremolare la fibra della donna mortale; l'allegoria spira da tutto l'insieme e dagli accessorii, ma in questo momento essa non vive per sè stessa, ma per la figura in cui l'ha saputa artisticamente incarnare il poeta.

Togliete a Beatrice, quale ci si rivela in questo punto, tutto ciò che ha di simbolico: il candido velo, la corona d'ulivo, il verde manto, la veste color di fiamma viva; ella resterà pur sempre una donna: toglietele invece quelle fini oscillazioni di sentimento muliebre, i richiami alla vita mortale e all'amore del suo diletto, e voi vi troverete dinanzi un cadavere rivestito di fronzoli, una larva ritinta e rappiccicata, a cui tutte le gale e i ricami simbolici non conferiscono un briciolo di vita.

Pur troppo, il momento solennemente vitale di questa poetica creatura non si protrae di là da questi due canti del Purgatorio.

La tirata, ch'ella fa nell'ultimo canto, intorno all'avvenimento di un vicino liberatore dell'Italia e della Chiesa non ha nulla che fare con la vita di essa: è piuttosto l'espressione dell'animo sdegnoso di Dante, sulla cui bocca suonerebbe meglio la frase volgare

Che vendetta di Dio non teme zuppe (Purg., XXXIII, 6) ,

o l'indovinello sul Veltro famoso, raffigurato ora diversamente in un cinquecento, dieci e cinque; e la mitologica spropositata erudizione sulle Najadi:

Che solveranno questo enigma forte Senza danno di pecore e di biade (Purg., XXXIII, 50-51) .

Entrata nel Paradiso, Beatrice si trasforma in una dottoressa.

Insegna al poeta, come ei possa levarsi al cielo vincendo la propria gravità, gli dimostra che le macchie lunari non possono provenire dalla densità o radità del corpo del satellite, ma sì dalla virtù che diffonde il primo mobile sui cieli sottoposti; ragiona sulla natura del voto, sulla giustizia della crocifissione di Gesù, sulla vendetta che ne fece Dio su'Giudei, sulla immortalità del-l'anima, e sopra altre cose; ma dentro a questa dottrina non sempre immaginosamente, anzi spesso aridamente significata, affoga e si perde ogni artistica vitalità di essa.

Il poeta si trova in un mare infinito di luce, di armonie, di fragranze; è come inebbriato.
E già che

forma non s'accorda Molte fiate alla intenzion dell'arte [...] (Par., I, 127-128) ,

egli non riesce a rendere sempre in modo definito e caratteristico le sue impressioni, malgrado la forza titanica del suo pensiero e della sua parola.
Il mito cristiano, l'abbiamo detto, uccide la realtà; il simbolo ammazza l'arte.
Chi ha saputo creare Francesca, Farinata, Vanni, Fucci, Ugolino, Sordello, Manfredi, non è più buono a darci che degli spiriti, che si compongono in croce, in ghirlanda, in aquila, in lettera; che fanno mille combi-nazioni e ghirigori per l'aria, che a forza di voler significare troppo non significano nulla: specie di giochi di artifizio, a cui si suole dar forma del Vaticano, del Campidoglio, della cattedra-le di Colonia e che so io, i quali ci abbagliano un momento con gli smaglianti colori, ma non ci lasciano nulla nel cuore e nella mente.

In mezzo a questi sfoggianti splendori la sensibilità di Beatrice si vien sempre più evaporando.
Arrivata in Saturno non sorride; gli spiriti che le fanno corona non cantano; più si va in su, e più la vita si eclissa.
Se questo sia crescer di bellezza non so; certo il poeta lo crede; e la sua donna infatti gli spiega il mancare del suo sorriso nei versi seguenti:

S'io ridessi,
Mi cominciò, tu ti faresti quale
Fu Semelè quando di cener fèssi.
Che la bellezza mia (che per le scale
Dell'eterno palazzo più s'accende,
Com'hai veduto, quanto più si sale)
Se non si temperasse, tanto splende,
Che il tuo mortal podere al suo fulgore
Sarebbe fronda che tuono scoscende (Par., XXI, 4-12) .

Così, quanto più cresce la bellezza del paradiso, e delle creature che sono in esso, tanto più manca la potenza di rappresentarla:

La bellezza ch'io vidi si trasmoda
Non pur di la da noi, ma certo io credo
Che solo il suo Fattor tutta la goda (Par., XXX, 17-21) .

Giunge a segno, che tutta la vita di Beatrice rimane assorta nella luce di un punto splendidissimo che è, nè più nè meno, che la divina essenza.
E il poeta, spettatore di questo luminoso connubio fra Dio e la sua donna, rimane accecato da tanto splendore.
Cerca la sua Beatrice, e si trova accanto san Bernardo:

Credea veder Beatrice, e vidi un sene
Vestito con le genti gloriose.
Diffuso era per gli occhi e per le gene
Di benigna letizia, in atto pio
Quale a tenero padre si conviene.
Ed Ella ov'è? — di subito diss'io;
Ond'egli: — A terminar lo tuo desiro
Mosse Beatrice me dal loco mio.
E se riguardi su nel terzo giro
Dal sommo grado tu la rivedrai
Nel trono che i suoi merti le sortiro (Par., XXXI, 59-69) .

Ecco la soluzione del poema; lo scopo attinto a traverso ogni, difficoltà; l'apoteosi di Beatrice.
Onde il poeta esclama:

O donna, in cui la mia speranza vige,
E che soffristi per la mia salute
In inferno lasciar le tue vestige,
Di tante cose quante io ho vedute
Dal tuo potere e dalla tua bontade
Riconosco la grazia e la virtude.
Tu m'hai di servo tratto a libertate [...](Ivi, 79-85) .

Si, ma questa libertà è la morte:

La tua magnificenza in me custodi,
Si che l'anima mia che fatta hai sana
Piacente a te dal corpo si disnodi (Ivi, 88-90) .

La verità ci fa liberi, scrive Agostino.

Ma la verità è nel cielo; per conquistarla adunque ed esser liberi bisogna prima morire; è uno dei soliti ragionamenti cristiani.
L'umanità, procedente sempre da carne a spirito, credeva allora soltanto raggiungere l'ideale, che poteva assorbirsi nella contemplazione perenne di Dio; il paradiso è l'annientamento delle facoltà e della vita.

L'individuo, il tempo, lo spazio, il modo, tutto ciò che è limi-tato e finito, val quanto dire tutto ciò che vive, perde ogni significato nel senso eterno di Dio; che, con istrana contradizione è principio e fine di ogni cosa vivente; creatore insieme e sepolcro; paternità mostruosa come quella del vecchio Saturno che mangiava i suoi proprj figli.

L'arte che segue questo processo metafisico ha contorni, movenze ed espressioni definite finchè si aggira nel campo dell'attività umana, che si svolge gradatamente sino alla conquista del vero eterno, dentro al cui seno tramonta e si perde.
Quando vuol penetrare nell'immensa luminosa palude dell'eternità, essa perde la sua sensibile esteriorità, si sforza a diventare incorporea e spirituale, e perciò si spoglia della sua natura, e finisce col distruggere sè stessa.

Per questa ragione la poesia Dantesca allora ha più rilievo, più colore, più vita, e allora più ci commuove, che ci descrive i tormenti e le pene dell'Inferno, le sofferenze e le speranze del Purgatorio, l'attività umana, a dir meglio, diversamente rivolta al bene o al male.

Giunta nel Paradiso, essa fa sforzi sovraumani per afferrare quelli spiriti vagolanti e costringerli ad una plastica sensibilità: essi le sfuggono quasi sempre, e invece di immagini e di corpi, ella non ci dà che simboli e allegorie. 

Perchè questo gran stagno del Paradiso si muova e si agiti un poco, non bastano le disquisizioni teologiche fra Dante e i Dottori, nè i canti degli angioli, nè l'aquila simbolica, il cui occhio è composto di sei anime, nè la dottrina di san Pier Damiano sulla predestinazione, nè gli esami sostenuti dal Poeta circa la fede, la speranza e la carità: disquisizioni codeste che tiran l'arte pei capelli fin dentro ai labirinti scolastici; ovvero allegoriche immagini che la ricacciano e inchiodano nella pesante simbolica degl'ipogei.

Perchè l'immensa palude si muova, bisogna che la gagliarda fantasia dell'Alighieri ricorra alla povera terra spregiata, ch'egli guarda con superba commiserazione dall'altezza del cielo stellato; bisogna ch'egli domandi a questo piccolo globo che lo fa sorridere delsuo sembiante la parola misteriosa della vita, l'anello incantato che anima i fantasmi del pensiero o li fa muovere e palpitare nel regno immortale dell'arte; bisogna che le passioni degli uomini facciano sentire il loro fremito, segnino il loro solco di fuoco in mezzo a queste eterne sostanze beate eternamente gingillantisi a intrecciar danze e cantarellare osanna ed alleluja intorno al luminoso trono di Dio.

Quando la fantasia del Poeta ritocca terra, allora i mirabili aspetti tramutati dalla beatitudine, e ch'egli a stento riconosce, riprendono forma, espressione e parola umana; la sua fiera personalità penetra di forza entro a quelle figure mummificate dal simbolo, e le fa passionatamente sentire ed esprimere.

Udiamo allora la voce di Giustiniano, che dopo avere accennata la storia dell'Impero, prorompe contro alle falsità dei Ghibellini, che si dipartono da giustizia per seguire lor pro.
Ai quali, ed alle loro colpe

Che son cagion di tutti i vostri mali [...](Par., VI, 99),

sta di riscontro la veneranda figura di Romeo di Villeneuve, amministratore onesto, racquistatore ed accrescitore delle ricchezze di Berengario.
Ci commoviamo allora alle affettuose parole di Carlo Martello e alle sdegnose di Cunizza, e alle accuse che lancia Folchetto a Firenze,

Che ha disviate le pecore e gli agni Perocche fatto ha lupo del Pastore [...] (Par., IX, 131-132);

ci esaltiamo alla fiera predizione che il

Vaticano e l'altre parti elette
Di Roma che son state cimitero
Alla milizia che Pietro seguette,
Tosto libere fien dall'adultero (Ivi, 139-142) .

E Cacciaguida? E san Pietro? Essi dimenticano volentieri la loro beatitudine e il loco dove sono; risentono tutto l'impeto delle umane passioni, e prorompono in parole di fiamme con-tro a

quell'ingrato popolo maligno
Che discese da Fiesole ab antico
E tiene ancor del monte e del macigno(Inf., XV, 61-62. Sono parole di Brunetto Latini);

contro Roma fatta cloaca

Del sangue e della puzza onde il perverso
Che cadde di quassù, laggiu si placa (Par., XXVII, 26-27) ;

contro ai lupi rapaci in vesta dipastori, contro ai nemici del Poeta e d'Italia e della cristianità.

I loro dardi infuocati si dirizzano tutti ad un segno; la dove si appuntano i desiderj, le speranze, gli sdegni implacabili del Poeta; il quale, imponendo a tutti dispoticamente la sua indomabile volonta, a tutto e a tutti sovrasta, anche all'eterne sostanze beate, che diventano suoi interpreti e portavoci.

Quando il torrente delle passioni gl'imperversa nell'anima, egli non è più l'umile pellegrino inalzato dall'amore e purificato dalla grazia divina; egli è piuttosto Lucifero che prorompe vittorioso dinanzi a Dio nelle favolose regioni del Paradiso, in cui trapianta animosamente la vita mortale, costringendo ad ascoltare la sua sdegnosa parola e a trascolorarsi ed impallidire quei poveri spiriti e la stessa Beatrice, la quale non può fare a meno di vergognarsi,

come donna onesta che permane

Di sè sicura, e per l'altrui fallanza
Pure ascoltando timida si fane (Ivi, 31-33).

Tanto è vero, che l'arte non attinge mai vera ispirazione se non dalla terra, e che il Poeta allora solo riesce a dar vita alle sue creazioni quando sa limitarle e circoscriverle nel reale, in cui tutto è relativo e finito.


VI


Nella Vita Nuova, adunque, abbiamo una Beatrice oscillante fra la donna e l'angelo.
Nel Convito una Beatrice intisichita dal simbolo e dall'allegoria; una creatura, senza sangue e senza carne, come la cicala di Anacreonte.

Nella Divina Commedia, in cui tutto si completa e si fonde, noi ci troviamo di fronte a una Beatrice intera; donna ed angelo allo stesso tempo; sentimento e ragione; simbolo e realtà.

Abbozzata dal sentimento nella Vita Nuova, lambiccata dal sillogismo nel Convito, essa è rappresentata completamente dal genio nella Commedia, in cui la fede, la scienza e l'arte si abbracciano bellamente come le Grazie di Canova.

Certo, non sono in essa tutti i caratteri d'una creatura mortale, trasportata viva e palpitante nel regno immortale dell'arte; e però non ci parla diretta e potentemente al cuore, come Francesca, Desdemona, Margherita.

Ma io dico, che data quella tal Beatrice, angeletta giovanissima, sparita così presto dal mondo, date tutte quelle circostanze di tempo e di luogo, in cui nacque e si svolse l'ingegno, l'amore, il carattere e la poesia di Dante, essa è tale e quale doveva essere: non è un'idea e un simbolo incarnato dall'arte in una creatura vivente, ma una creatura vivente che la fede, la scienza e l'arte sollevano sulle loro ali, e confondono nella luce del soprannaturale e dell'infinito.
Se voi me la strappate da quest'ambiente, essa perde la consistenza e la vita; vi si distrugge nelle mani come le ali delicate d'una farfalla.

Guardatela da lontano, lasciatela in quel mondo ov'essa è nata e cresciuta, e voi la vedrete disegnarsi puramente in una luce diffusa, come l'immagine della Madonna veduta in sogno e ritratta dal Beato di Fiesole.

Questa Beatrice però, così com'è, non è balzata miracolosamente dal cervello di Dante; essa è il resultato d'una lenta e lunghissima elaborazione, non pur nell'anima del nostro Poeta, ma nella tradizione e nella coscienza poetica popolare.
Le produzioni dell'arte seguono le leggi e i processi delle creazioni della natura: fenomeni isolati, derivanti da miracolose interruzioni di leggi, non si dànno: tutto è il prodotto di un ordinato e più o meno visibile lavorio, e soltanto in età di superstiziosa ignoranza si potè chiamare portentosa l'esistenza di un fatto, di cui non si conoscevano le concatenazioni e gli addentellati.

Perchè l'arte potesse giungere alla rappresentazione di Beatrice, bisognava che l'etèra d'Atene e la matrona di Roma si trasformassero gradatamente nella donna dell'Evangelo; che Semele e Psiche, vittime del soprannaturale, si tramutassero nella Vergine Madre, sposa dello Spirito, e genitrice di incarnata divinità.

La religione del Cristo fornì all'arte due tipi di donna: la madre vergine e l'adultera rigenerata: un enigma e uno scandalo.

La prima spinse i voli dell'arte nel soprannaturale, cioè nel mistero, e fu madre legittima di tutte quelle madonne cantate dai poeti medioevali, e segnatamente da' nostri che così pargoleggiarono sin quasi adesso.

La seconda, mettendo l'arte sullo sdrucciolo della sensualità perdonabile e perdonata, la fece, per sentiero fiorito, scivolare fin dentro al postribolo.
Manon Lescaut, Marion Delorme, La Dame aux Camélias son figlie naturali della frase famosa: Chi non ha peccato scagli la prima pietra.

Fra le madonne evanescenti del ciclo platonico italiano, la più ferma e decisa e contornata figura è certamente questa della Beatrice, non già donna completa, ma completa creatura dell'arte.

Mandetta, Selvaggia, Laura, che pur sono fra le più belle, rimangono inferiori alla creazione di Dante; han meno di simbolo e meno di realtà, non sono nè donne, nè idee: son cari nomi ripetuti in tutti i toni e con ogni dolcezza dai loro amanti.

La creatura completa, umana, vivente, la vera divinazione della donna nell'arte medioevale è Francesca; non angelo e non prostituta; ma umanamente e quasi fatalmente colpevole, non del tutto dannata da un'arte ascetica e bacchettona, e non del tutto rigenerata da un'arte meschinamente libera e spudoratamente volgare; donna intera, nel senso umano ed artistico della parola, alla cui colpevole debolezza è pietosa aureola il martirio infinito e l'amore.

Dopo di lei, dureremmo fatica a trovare in tutta la poesia italiana una perfetta figura di donna.

Sofronia è una statua; Erminia un idillio; Armida un simbolo animato dalle reminiscenze di Medea e d'Arianna; le donne dell'Ariosto, o son fuori del vero, o son fuori del bello: o guerriere rigide e indifferenti che poi s'evaporano in un'arcadica luna di miele, o figure leggendarie di maghe, o nudità procaci di avventuriere.

Olimpia, ch'è la migliore di tutte, è restaurazione di due quadri antichi: uno dipinto da Catullo su due vecchi disegni di Euripide e d'Apollonio; l'altro acquarellato sui medesimi disegni da Ovidio.

Per i poeti del secolo decimosesto, la donna era o un foglio di carta bianca, sul quale essi scrivevano, con bella mano di scrittura, i loro sonetti platonici cortigianeschi; o vero un foglio di carta sudicia, sul quale essi, cavalieri com'erano, non s'attentavano di scriver nulla, lasciando al Marino la gloria di rovesciarci su la splendida cornucopia delle sue porcherie.

Tra le donne della poesia moderna son notevoli soltanto quelle del Leopardi, ma Eloisa, Aspasia, Nerina non vivono veramente di vita propria; sono riflessi dell'anima del poeta.

Delle altre è meglio non far parola: che non merita conto trattenersi in figurine da decalcomania ritagliate con le male imperniate forbici del sentimentalismo romantico e malamente appiccicate in fondo a un vassoio di coccio, da cui non s'alza, tutto al più, che l'avaro profumo d'un intingoletto imbandito a uno stuolo smorfioso di convalescenti.

Le pochissime fra queste, che accusano, sbadigliando, alcun segno di vita, come quelle che son nate con la scrofola, anderebbero addirittura mandate agli Ospizj marini.

Bisogna che i nostri poeti si persuadano una santa volta a escire dalle loro arcadie e dalle loro stufe; che scendano dalle nuvole, in cui si sono finora campati; che vivano in terra con gli uomini, e respirino a pieni polmoni l'ossigeno salutare della realtà.

La donna allora non sarà già soltanto foemina come per i romani; non domina come per i cavalieri; non idea o simbolo come per i platonici.

Non istarà più in cielo o sull'altare; ma in terra, nella società, e anzitutto nella famiglia, ch'è il campo vero e forse il solo di sue virtù.

Fine


giovedì 20 aprile 2017

Una notte futurista con Marinetti e un filosofo pazzo


Una Myriam Manzella quindicenne scrive la sua serata romana del 1939 tra locali e protagonisti del tempo «a diventar matti dalle risate» sul «sacramentale cosmico»



Myriam


Su 4 foglietti, trovati fra le pagine de “Il poema dei Sansepolcristi”, scrive il 20 luglio 1939 una Myriam Manzella quindicenne: «Ieri sera ò passata una serata che non dimenticherò mai più. Bella, interessante, e strana. In casa di Marinetti il simpatico futurista, abbiamo conosciuto un giovane poeta sardo, direttore di un giornale “Mediterraneo futurista”, Pattarozzi, col quale assieme ai coniugi ci siamo intrattenuti in interessantissima conversazione. Si parlava di arte, di politica, del dolore, di gelosia, di popoli, di costumi; insomma un genere di conversazione che à fatto volare il tempo. Marinetti è un Sansepolcrista idolatra di Mussolini come mio padre e Pattarozzi quindi trovandosi perfettamente d’accordo anche in questo campo la conversazione non languiva. Io ò avuto regalato da Marinetti un suo libro con la dedica che mi à procurato un immenso piacere. Dimenticavo di dire che c’era con noi una simpaticissima ed intelligentissima signora amica nostra. Pattarozzi ci ha accompagnati fino al filobus e coi lui ci siamo puntati per le dieci in caffè. Lì abbiamo trovato un filosofo mezzo pazzo con la moglie, e un architetto amici di Pattarozzi. Mentre si parlava simpaticamente ecco che il filosofo, che oltre ad essere pazzo era anche divertentissimo, ci chiede se ci fossimo mai occupati del “sacramentale cosmico”; ricevendo risposta negativa incomincia a spiegare. Bisognava starlo a sentire. Discorsi senza capo né coda senza un nesso logico, senza una conclusione, c’era da diventar matti dalle risate. Si beveva della birra di cui l’amico non faceva economia; ad un certo punto ci lascia “per andare a bere un calice! ”. La moglie un tipo di gatta infatuata dai discorsi del marito à l’incarico di spiegarci il “sacramentale cosmico” che poi è diventato il mito della serata. Insomma non si viene a capo di niente. Ed ecco che il “pazzo filosofo” dopo un dieci minuti di assenza si fa risentire attraverso il telefono dicendo di trovarsi alla “Rupe Tarpea” invitandoci a raggiungerlo immediatamente. Divertiti da questi contrattempi accettiamo allegramente.
La “Rupe Tarpea” è un ritrovo interessantissimo, che ricorda i tempi degli antichi Romani nella sua costruzione, locale caratteristico Romano, ritrovo di strana gente. Poeti, cantanti, filosofi, donnette stralunate. Tutti bevono a gara e mangiano olive salate. Ci sediamo su delle botti che fanno da sedie accanto ad un rozzo ma bel tavolo di quercia, si sturano parecchie bottiglie di Chianti, Lambrusco, Moscatello, Frascati di cui ne beve in massima parte il filosofo che ad un certo punto invita il poeta a declamare qualche sua poesia, noi approviamo con entusiasmo: versi strani, che non ò mai sentito, forse perché finora non conoscevo poesie futuriste, ma dotate specialmente in certi punti di una grande forza, tratti decisi, sagome stagliate, contorni balzanti. Insomma sono piaciuti a tutti. Il filosofo era già brillo e voleva assolutamente che Pattarozzi recitasse “forte sempre più forte, tutti debbono sentirti! ”. E quello che gli dava ascolto e si riscaldava nella eccellente declamazione esaltandosi un po’ da futurista. Dietro il nostro tavolo attraverso una strana ringhiera di legno lavorato si vedevano seduti tre coppie uomini e donne che cantavano a sfiata polmoni; ancora più oltre, due uomini ad un tavolino, gli occhi negli occhi, tratti nei tratti discutere animatamente interrompendosi solo per bere. Proprio sotto un’anfora antica romana che stava sospesa in un angolo della sala, due uomini ed una donna che rideva e rideva, ubriachi fradici. Rendevano ancora più strano il locale gli impeccabili camerieri che silenziosamente scivolavano attraverso le botti e i tavoli come se fossero stati estranei a tutto ciò. Lucerne ciondolanti dal soffitto volevano forse con la loro luce malata cercare di soffocare quel chiasso. Non so da dove, trapelava a tratti della musica che sembrava quasi cercare d’infiltrarsi nelle brevi pause delle voci... e il poeta cantava i suoi “archi cilestrini” i suoi “coltellacci di sole”, “i porti ansimanti della Sardegna”.
Uscimmo da quel locale a mezzanotte passata. Il “Filosofo” a braccio della moglie completamente sbronzo che con i suoi strampalati discorsi ci faceva letteralmente crepare dalle risate, il poeta eccitato, l’architetto occhialuto che tentava di spiegarci il valore della finestra in una casa. Roma dormiva sotto un cielo incendiato di stelle, vegliavano solo le fontane, i cui bianchi spruzzi baluginavano come bianche braccia di donne sopra un tessuto di notte. E il poeta volle ancora cantare alla città addormentata, forte, che tutta Roma lo sentisse, dimenticammo noi stessi e dove ci trovavamo, ci riportò alla realtà il “filosofo” che voleva assolutamente tornare a casa in carrozza. Ridendo ci muovemmo alla caccia d’una carrozza che finalmente fu trovata. Ci volle un bel pezzetto per convincere il “filosofo” che nella carrozza non ci si stava tutti, e finalmente ci accomiatammo dopo avere ancora una volta pregato “l’ubriaco” di spiegarci il “sacramentale cosmico”. Mentre per via Nazionale si perdeva lo zoccolio del cavallo ci avviammo sotto braccio al nostro albergo. 20 Luglio».
Cara Marussja, quando la memoria tace rimane solo la parola scritta a ricordarti come eri, rimane l’abbraccio di chi ti accompagna e con te condivide la povertà che ci rende fragili: quella del tempo. Ma tu rispondi col titolo della tua ultima raccolta di poesie: “Che importa il tempo”. È vero: ora ci hai trascinato in quella lontana serata futurista e anni fa ci hai nutrito con la bellezza dei racconti pubblicati su “La Sicilia”. Auguri madre. - LUNEDÌ 22 SETTEMBRE 2014


mercoledì 5 aprile 2017

" CRITICA ed ARTE „ in Sicilia, le prime "voci" del Futurismo 1907



ANNO 1, n.1 20 febbraio 1907 Catania


Ad limina...

Ricordo, non senza compiacimento, il fervore gioioso con che iniziammo in una rivista siciliana
la nostra battaglia di idee e di arte, e le accanite scaramucce provocate e i giudizi severi e a volte
taglienti per articoli arditi, mossi più che da risentimento da giustizia.

Forse era nelle mie intenzioni di provocare la vitalità latente d'una frotta vigorosa di energie giovani, avidi d'una voce di richiamo, ma per una vernice di regionalismo ch'io diedi alle mie parole d'allora fui inteso  male.
Si credette ch'io volessi gridare per la smania vana di farmi notare, fingendo di volere imporre nomi e glorificare una regione dimenticata; gridare per raccogliere il buon pubblico ad annunziargli che era un grande ingenuo, che si trovava in errore, non avendo ancora aggiudicato a noi siciliani la corona dei forti, dei laboriosi dei più degni.
Ed anche l'amica Adelaide Bernardini, ora nostra cara compagna di lavoro, mi feriva con una frase ch'io non dimenticherò mai: « Voi siciliani avete la simpatica velleità di credervi superiori a tutti » ; e con altre parole: « Voi siete uguali agli altri forse, ma non avete fatto mai  niente per farvi  valere ».
Proprio così, ma non è stata tutta colpa nostra.
Per diverse condizioni, storiche ed economiche, abbiamo visto i nostri ingegni migliori esulare verso il settentrione d'Italia, disgregando le nostre forze e importandovi i frutti saporosi della loro arte ; cosi che la mancanza d' un centro di cultura, centro di radiazione e di convergimento, à rubato educazione artistica alla nostra regione, à lasciato nell'assonnata inattività l'industria dell'arte, ci à come divisi dal resto del mondo che progredisce, ed à acuito il nostro sguardo e le aspirazioni solitarie verso il settentrione.
Perduto da un canto il tempo aspettando il verbo dall'alto, dall'altro siamo rimasti a lamentarci che. questo non perveniva ai nostri inesercitati timpani auricolari.
E le cose stavano così.
Ad un tratto noi giovani, noi di oggi, spiriti nuovi e arditi per temperamento, spalancando gli occhi al Sole abbiamo con terrore considerato l'enorme e soffocante strato di polvere che pesava sulle case nostre, sui nostri abiti, sulle nostre anime.
Da prima sconfortati ci siam detti su per gli arcaici gazzettini quante tristezze avevamo per atavici vizi accumulate, ed infine, in una rivoluzione gloriosa di vita, più che cedere alla miseria e al magnete di un Sole lontano, emigrando divisi verso di Lui, abbiamo voluta rifare e ritessere, colmando con volontà e potenza di tutte le virtù, l'abisso.

***

L'Arte come manifestazione dello spirito è una libazione diretta del benessere del progresso e dell'attività così col rinascere della vita economica la Sicilia nostra ha risentito il culto ed il gusto dell'Arte.
Mancavano centri di supremazia intellettuale, oggi Palermo è divenuta una città discretamente elevata ; Catania si svecchia per volontà dei giovani, che tutto possono quanto vogliono, purché tutto ardiscano.
Critica ed Arte, fondando le sue salde radici sopra il fermento fecondo di queste anime giovani sarà l'eco della rinascita e del rinnovamento.
Siamo convinti, e ne diamo la prova, di non fare regionalismo, già che pensiamo ad una non lontana arte cosmopolita, in qualche modo annunziata, ma lo sviluppo di tutte le forme superiori dell'attività bisogna che in ogni parte raggiunga il grado opportuno: E noi nasciamo ora.
Vogliamo per questo il contributo di tutte le forze nuove d' Italia e fra queste divulghiamo la nostra parola perchè addimostri che anche da noi, quaggiù, si vuol lavorare, per la coscienza di poter fare.
Innumeri sono i tramonti di astri che dileguano,' sol diradando le tenebre che già squarciarono, ed in contro insanguinati brani di cielo violentano albe freschissime.
         Diane pugnaci !
Gesualdo Manzella Frontini


 “ Nel gennaio del 1907 io lanciavo un manifesto che preludeva la pubblicazione d'un giornale letterario, “Critica ed Arte” forse non ignoto a qualcuno di voi. Il manifesto fu accolto con ostilità molte: esso portava fra le righe frasi stilizzate la rivolta futurista, ma non ne conteneva il nome, né la prepotenza aggressiva. Ebbi pochi aderenti e tra questi un giovane di genio, Filippo Tommaso Marinetti, che fu collaboratore nel mio giornale e che mi divenne amico affettuoso.
Era trascorso un anno quando il Figaro, il giornale diffuso parigino, lanciava al mondo col nome di futurismo un grido di elevazione di rinnovamento di nuovo orientamento, e il Marinetti eroicamente affrontava con la stessa idealità e con mie identiche la lotta ch'io non avevo saputo sostenere ...” 

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Altro 

domenica 2 aprile 2017

PITRÈ, LA MUSICA POPOLARE E IL CARTEGGIO INEDITO COL MAESTRO F. P. FRONTINI





Nell'autunno del 1883 il giovanissimo Maestro catanese Francesco Paolo Frontini assolveva l'incarico, avuto un anno prima dalla Casa musicale Ricordi, di preparare una raccolta di melodie popolari siciliane.
La raccolta, formata di cinquanta canti corredati di « interpretazione » italiana, uscì col titolo Echi della Sicilia e recò dedica di « affetto e riconoscenza » « all'Illustre Professore Cav. Giuseppe Pitrè », cui, difatti, l'autore, dando inizio al lavoro, si era manifestato bisognoso di consiglio e di aiuto:  « Mi troverei in un mare di confusione — aveva scritto da Catania il 4 ottobre 1882 — s'Ella col suo più che valevole appoggio non volesse aiutarmi ».
Per spiegarci il coraggio, la confidenza sia pure rispettosa, onde il Frontini si rivolgeva a studioso celebre qual era già il Pitrè, dobbiamo ricordare ch'egli lo aveva avuto professore di lettere nel Collegio di musica — oggi diciamo Conservatorio — della capitale siciliana, presso il quale aveva compiuto i suoi studi. Di recente poi si erano incontrati a Catania dove il Pitrè era stato in visita con la moglie.  La preghiera di aiuto non era rimasta nel generico, anzi, in quella stessa prima lettera, si era concretata in richieste precise: al Frontini occorreva da una parte il seguito di alquante arie, di cui con le melodie aveva trovato il testo della sola prima strofe nella raccolta dei Canti siciliani, dall'altra l'intero testo di canti di cui aveva trascritto personalmente la musica. 
I problemi, però, come suole, si moltiplicarono, nascendo si può dire l'uno dall'altro, cosicché, non appena il Pitrè (sul momento impedito da motivi di salute) potè rispondergli, soddisfarlo in quanto possibile nelle richieste, assicurarlo della sua volontà di cooperare, il dialogo epistolare fra i due studiosi divenne così ricco e, in particolare da parte del Frontini, così frequente, da apparirci oggi fonte di vivo interesse per la storia retrospettiva degli studi di musica popolare in Sicilia, come pure per la ricostruzione del ruolo avuto in essi dai personaggi di cui ci occupiamo.

Diciamo intanto che il carteggio, nello stato in cui è giunto a noi posteri, è, purtroppo incompleto, come prova l'assenza di lettere esplicitamente ricordate in quelle possedute. Serba, tuttavia, il meglio e l'essenziale e questo può mitigare il rammarico di ciò che è andato perduto o disperso.
Le lettere del Frontini, in numero di 22, vanno dal 4 ottobre 1882 al 1° ottobre 1891 e sono custodite nella Biblioteca del Museo Etnografico « Pitrè » alla Favorita di Palermo; quelle del Pitrè, 9 soltanto (e tra esse alcune sono cartoline), vanno dal 6 novembre 1882
al 2 gennaio 1915 e fanno parte dei carteggi del Maestro Frontini posseduti dai figli a Catania.
Il Pitrè, felice di vedere che l'antico discepolo si fosse accinto a fare ciò che « tante volte (ve ne ricordate? ) » aveva raccomandato nelle conversazioni letterarie al Collegio palermitano, rispondeva ai vari quesiti. Pel caso prospettatogli, di una melodia di canzone ad ottava mancante del testo, suggeriva di supplire con quella di altra ottava: « la melodia è una per mille »; si dichiarava in grado di fornire qualche altra aria popolare, « ma — chiariva con semplicità — io non so scrivere le note » e le sole parole non avrebbero gran che interesse. 
Con calore consigliava di non occuparsi della romanza Supra 'na navicella, ch'era un'imperfetta importazione estera, ossia di voler dare « una raccolta di arie genuinamente siciliane, caratteristiche ». Questo il contenuto della prima lettera del 6 novembre 1882. A giro di posta, l'8 novembre, ringraziando vivamente, il giovane Maestro motivava la sua insistenza nel desiderare altre strofe dei canti di cui possedeva le melodie con le esigenze del « canto in sala », il quale, se di brevissima durata, delude; consentiva in pieno nella necessità di pubblicare « vere arie e canzoni popolari siciliane » e pertanto chiedeva ansiosamente se le canzoni da lui raccolte fossero « siciliane o sicilianizzate », infine sollecitava consigli.
Purtroppo noi non potremo commentare qui, una per una le lettere; diremo che il lavoro del Frontini, febbrile come fu, giunse piuttosto rapidamente alla fine. Al termine del gennaio 1883 egli inviò al Ricordi le prime venti canzoni raccolte, alla metà di febbraio ne mandò delle altre raggiungendo il numero di trenta ( tutte, sperava, genuine siciliane) e, pur desideroso di poterne raccogliere altre ancora, giudicò venuto il momento di procurarsi un autorevole presentatore. E chi più autorevole del Pitrè?
Senza esitare, misurando i « vantaggi immensi » che gli avrebbe arrecato la condiscendenza di colui al quale si rivolgeva, lo pregò « caldamente » di volere scrivere « due parole di prefazione ad essi canti » allo scopo di rendere interessante la « piccola raccolta », di farle « acquistare un merito » che — diceva con sincera modestia — pel momento non aveva. 
L'indugio della risposta non lo disarmò. Recatosi a Milano ai primi di maggio di quell'anno 1883 per seguire da vicino il lavoro di composizione tipografica e di correzione delle bozze, il giorno 6 replicava la preghiera accompagnandola con quella di volere accettare la dedica che si era permesso di fargli dell'opera.
Perchè, vien fatto di chiedersi, tanto ritardo da parte del Pitrè?



In verità il Frontini gli aveva chiesto due parole di prefazione, ma il Pitrè non era uomo da prendere la cosa alla lettera, stendendo qualche riga affrettatamente. Onde quando scrisse giustificando il ritardo e mostrandosi ben disposto ad accogliere l'istanza del suo giovane amico, la prima cosa che fece fu quella di chiedere dilucidazioni su ciò che la prefazione avrebbe dovuto contenere o forse sul modo della sua impostazione; ci esprimiamo dubitativamente perchè la cartolina che avrebbe dato il testo genuino, manca e della sua esistenza e contenuto desumiamo notizia dalla risposta del Frontini in data Milano 20 maggio.
Da questa risposta comincia una fase nuova, forse la più importante, del carteggio in esame per la quale ci troviamo anche più sensibilmente a contatto di due competenze distinte che collaborano sentendo indispensabile questa collaborazione, determinandone il raggio.
A volta di corriere il Frontini precisava non essere necessario entrare a parlare minutamente di ogni canzone, di ogni cantilena, di ogni melodia, lavoro lunghissimo; bastava « far rilevare che le nostre canzoni hanno « un carattere speciale che si allontana dal lombardo e « dal napolitano, mentre si avvicina moltissimo allo spagnuolo e all'arabo, e come infatti in Mineo si cantano « delle cantilene che in origine sono arabe, e che io — « diceva — ho poste nella raccolta ».
Proseguiva dissertando da tecnico sulla differenza di tonalità che passa fra le canzoni che nascono in città e quelle delle campagne. « Nelle prime predomina la « tonalità minore, (e non la maggiore per come taluno « ha voluto dire », forse per l'influenza del clima o delle « vicende politiche, e sono per lo più canzoni erotiche e « satiriche, mentre nelle seconde ha quasi base la tonalità maggiore, fatte poche eccezioni, e si cantano in « coro ». 
Faceva però notare che « la tonalità, nelle nostre canzoni [e qui non è chiaro se « nostre » equivalga a « siciliane » oppure si riferisca alle canzoni raccolte], non ha una regola fissa, cambia a secondo di « quello che debba esprimere, ma il minore campeggia « sul maggiore, almeno da quanto ho potuto vedere ».
Faceva successivamente notare che poesie e musiche di autore comprese nella raccolta erano bensì di autore, ma dal popolo erano state fatte proprie; suggeriva di avvertire il lettore che se nella raccolta avesse mai rilevato la presenza di qualche canto sicilianizzato ( ossia non proprio siciliano ), la colpa non era tutta di chi aveva raccolto: « i veneziani cantano la Ciccuzza di Napoli, « i lombardi il Mastru Raffaele, i romani la Rondinella amabile dei lombardi; intendo che la musica è l'istessa, « ma le parole sono cambiate ».
Infine accennava all'interpretazione, alla traduzione cioè in italiano delle cinquanta canzoni pubblicate, traduzione — spiegava — voluta dall'editore « per avere maggiore sviluppo nella vendita ». Mostrando bella sensibilità in materia, diceva a proposito di essa: « comprendo benissimo che perdono molto di quella poesia « caratteristica, di quei vocaboli che racchiudono centomila parole, ma lo scopo è di far conoscere la musica, « e poi, posso assicurarle che la traduzione non è maluccia ».  Tale sua assicurazione cadde nel vuoto. Allorché nei primi di luglio, essendo egli sempre a Milano, ebbe alfine dal tipografo le prime prove di stampa della raccolta e si affrettò, il 7 luglio, a spedirle al Pitrè pregandolo: di correggere quanto di erroneo avesse trovato nella grafia siciliana, di comunicargli le sue impressioni sulla musica e sulla traduzione italiana, di mandargli il testo della prefazione; una cartolina di risposta lo mise in grave inquietudine. L'impareggiabile intenditore di poesia popolare siciliana e sincerissimo amico, preannunziava sì, una prefazione sotto forma di lettera, prometteva un articolo che sarebbe comparso nell'« Archivio delle tradizioni popolari », ma nella maniera più esplicita si mostrava scontento della « interpretazione » per la quale usava addirittura l'epiteto di scellerata. Tutto ciò si deduce dalla risposta (28 luglio) del Frontini, datata da Catania: la cartolina del Pitrè (che oggi manca nel carteggio) gli fu rinviata colà, essendo giunta a Milano quando egli ne era già partito. In quella risposta il Frontini si affrettava a manifestare la sua costernazione, a richiamarsi di nuovo al fatto che la raccolta doveva essenzialmente servire a far conoscere la musica delle canzoni siciliane, soprattutto a scongiurare di non far parola dell'« interpretazione » nè nella lettera-prefazione nè nell'articolo ideato per l'« Archivio », senza di che grave sarebbe stato il danno suo e dell'editore.
Dalle lettere successive di agosto e settembre — ce ne sono rimaste tre del Frontini, una del Pitrè — ricaviamo che sull'argomento la discussione continuò incalzante. Il Frontini (lettera del 1° agosto) si indusse a confessare che le traduzioni appartenevano non a lui raccoglitore, bensì a « diversi giovani suoi amici » i quali godevano della stima del paese; che a lui in principio di carriera, premeva serbare la stima del Ricordi, acquistata con le fatiche del « povero suo giovane ingegno »; a ribadire che la raccolta non doveva essere considerata cosa letteraria, nata com'era per fare conoscere le melodie.
« Ripeto — diceva — che la interpretazione ai canti popolari è un pretesto, direi quasi una polvere gettata « negli occhi per fare invogliare le persone a comperare la raccolta. È mia idea che tutti coloro per i quali « il dialetto siciliano è lingua araba, poco si cureranno « se l'interpretazione è orribile, è scellerata — prova ne « sia la raccolta dei canti napoletani che hanno avuto « un'accoglienza festosa — come ancora i siciliani poco si cureranno delle parole italiane, cantandole in « dialetto ».
Occorrerà appena far notare che il maestro catanese era stato più felice quando aveva affermato l'impossibilità di tradurre bene quei vocaboli che racchiudono in sè « cento mila parole ». Ma ora il caso si era quasi fatto personale e quindi comprendiamo perchè il principio teorico, fondamentalmente giusto, subisse una attenuazione, venisse subordinato in certo modo allo aspetto pratico del caso stesso.
Il Pitrè mandò finalmente il 3 agosto la lettera-prefazione — sette e più pagine della sua minuta caratteristica scrittura — e la accompagnò con un proscritto rassicurante:
« Ricevo or ora la vs. del 1° corr.
« Resto inteso. Vedete se v'ho contentato. Scrivetemi subito, e ditemi che vi pare di queste paginette. « Fatemi poi rivedere le stampe di esse ». E il Frontini, nell'esprimere il giorno 14 la sua profonda gratitudine, prometteva l'invio delle bozze, senza lontanamente sospettare che l'editore non avrebbe acconsentito a pubblicare lo scritto perchè troppo lungo e avrebbe obbligato lui a scrivere su due piedi alcune parole di presentazione (lettera Frontini 22 settembre 1883).
La rapida presentazione premessa ai testi spiegò il proposito dell'autore: « intendo solamente dare un « saggio delle più caratteristiche fra le canzoni dell'isola » e prevenne con appropriate spiegazioni eventuali dubbi o critiche del lettore: « Epperò, è da notare, che « se qualche melodia del continente si riscontra fra quelle da me raccolte, non è da farmene una colpa.
« È risaputo, come molte delle più briose ed allegre canzoni del napoletano e dell'Italia meridionale, « vanno e fanno il giro dell'isola con delle false forme « dialettali; e così si dica anche di qualche patetica ed « amorosa cantilena siciliana, che va nel vicino continente — da ciò, il facile inganno di crederle del paese « ove si cantano ».
Il nome del Pitrè figurò non solo nella dedica riconoscente, posta, come dicemmo, in fronte all'opera, ma anche nelle ultime parole della presentazione che rinnovavano l'espressione della « più affettuosa riconoscenza » per l'illustre professore di Palermo « che tanta parte ha speso al completamento della mia raccolta ».
Alla sua volta il Pitrè gradì molto sia la dedica sia il dono del libro e, « sensibilissimo a tanta bontà ed affetto », il 23 settembre scriveva: « Certo, Voi non avreste potuto farmi cosa più gradita di questa, che porta « il Vostro nome ed offre documenti preziosi al Folk-lore « siciliano ». Soggiungeva, con fare conciliante e cortese: « Nessun male che la mia prefazioncina non sia andata. « Essa, in forma di articolo, andrà nell'Archivio per le « tradizioni popolari, rivista autorevole, per la quale il « Vs. libro verrà conosciuto in tutta Europa ». Pertanto chiedeva gliene restituisse il testo per poterlo inserire, con lievi modifiche, nel fascicolo del periodico che era in corso di stampa. Prometteva altresì un annunzio dell'opera nel « Giornale di Sicilia », il più autorevole dei giornali siciliani che « in questi giorni si tira ( incredibile, ma vero) a 14 mila esemplari! ».
Il fatto che però gli scottava era quello doloroso della interpretazione italiana: « non vi dissimulo — diceva — che Voi vi siete accollata una grande responsabilità tacendo che essa non vi appartiene. Leggete il « fasc. II, anno II, dell'Archivio, e vi troverete un mio « articolo severissimo pel De Meglio. Come potrò comportarmi nel fase. Ili a proposito della interpretazione, alla quale dovete far da Cireneo? Io metto la faccenda nelle vostre mani, specialmente per questo precedente creato da me senza volerlo. Qualunque cosa « però possa recarvi dispiacere, intendiamoci caro Frontini, io non la farò ». Al che il Frontini rispondeva in ansia il giorno dopo, 24 settembre: « che dirle? pensi « che comincio or óra, a fare i primi passi colla casa Ricordi, ed un articolo fulminante, mi manderebbe a « gambe per aria. Però, quanto Lei farà, sarà ben fatto ».
Invece dell'originale autografo, che volle trattenere per « pregiato ricordo », egli ne mandò al Pitrè una copia, sicché l'originale, rimasto fra le carte del Frontini, ci mette in grado di determinare l'entità delle modifiche apportate al testo rispetto a quello definitivo pubblicato nell'Archivio. Tralasciando piccoli ritocchi formali, diremo che esse consistettero da un lato nel taglio di qualche esempio e di un passo riguardante poesie e melodie di autore dal Frontini raccolte dalla bocca del popolo, dall'altro nell'aggiunta metodica del rinvio ai canti e melodie della raccolta cui veniva riferendosi nel corso della trattazione. Una nota apposta nella prima pagina chiari che lo scritto, destinato primieramente a precedere il lavoro del Frontini, non essendo giunto in tempo (ma ormai sappiamo che la causa fu un'altra ) veniva pubblicato quivi « come introduzione e complemento » del medesimo.


Non sembri superfluo che ora, benché a disposizione di tutti nella stampa, si riferisca l'inizio di questa « introduzione » che recò il titolo: Di una nuova raccolta di melodie popolari siciliane (« Archivio », II, fasc. III, lug.-sett. 1883, pp. 435-440). 
 « Son degli anni parecchi che io, intrattenendomi con voi di canti popolari, vi esprimevo il desiderio che voi stesso, così profondo negli studi musicali, come valente ne' letterari, « vi applicaste a trascrivere quelle tra le melodie siciliane che per la loro grazia meritassero di veder la luce ». L'esordio, interessante per questo richiamo ai colloqui palermitani, introduce acute considerazioni intorno alla musica popolare tradizionale, ai problemi connessi con la raccolta e lo studio della medesima. Onde fa meraviglia che lo scritto appaia quasi del tutto dimenticato anche in questo nostro tempo in cui l'esigenza di raccogliere le melodie della poesia popolare è stata autorevolmente caldeggiata da tanti studiosi, e apposite istituzioni sono sorte anche presso di noi, oltre che all'estero, per soddisfarla col ritmo più sollecito e nel modo migliore.
Tornando al tema, cioè al contenuto dell'importante scritto, vediamo che il Pitrè, mentre gode del fatto che una sua antica viva aspirazione cominci a divenire realtà, si compiace della fedeltà di trascrizione di quelle cinquanta melodie siciliane presentate dal Frontini e anche della felice scelta fattane rispetto alle aree di provenienza, in guisa cioè che l'elemento orientale dell'Isola non abbia sopraffatto quello meridionale e occidentale; che, col canto etneo e il messinese, siano anche rappresentati il trapanese e il palermitano.
Nel giudicare della bontà e genuinità delle melodie, dà molto peso all'origine, al tempo, alla tradizione:
« Capite bene, egregio maestro, — diceva — che io « parlo non di quella melodia che nacque ieri, ed è la « espressione più o meno felice d'un uomo che con la « grazia della sua ben trovata nota seppe scendere nell'animo del popolo; ma bensì del canto veramente tradizionale, della melodia qualche volta aritmica, e non « di rado indocile d'un ritmo esatto e ben figurato, con « la quale s'accompagna la ottava siciliana a rime alterne detta carmina, e quegli stornelli che volgarmente si « appellano ciuri ( fiori ) : tipi veri del nostro canto popolare ».
Via via, conversando con l'antico discepolo, problemi d'interesse più generale, gravi interrogativi sulla genesi, la provenienza, la cronologia, la diffusione di queste cantilene popolari sembrano risorgere nel suo pensiero e, cercando di risolvere quelli, di rispondere a questi, viene fissando, senza averne l'aria e, anzi, conservando il tono semplice di amichevole conversazione, i criteri fondamentali che, secondo il suo modo di vedere, debbono presiedere alla scelta e trascrizione della musica popolare.
Fin dalla sua prima edizione dello Studio critico sui Canti popolari siciliani (1868) il Pitrè, ben lo sappiamo, aveva affermato: « Il canto, o meglio la parola « non isposata alla melodia, non è l'espressione intiera « della poesia veramente popolare. La melodia ha un « grandissimo ufficio nel canzoniere del popolo: senza « la quale il canto è un puro ed ozioso esercizio. Ecco « perchè s'incontrano gravi difficoltà nel raccogliere e « copiare de' canti con la sola ripetizione orale di chi li « sa, e perchè volendoli avere nella loro interezza bisogna fare che il cantatore associi la melodia alla « poesia ».
Nuovi spunti di meditazione, pur fra concetti magari discutibili oggi, la lettera-prefazione può offrire, dunque, a chi ne legga per intero il testo.
Intanto è notevole che la melodia tradizionale, per quanto riguarda la Sicilia, egli la trovi, oltre che in quella onde si accompagnano la canzuna e lo stornello, in quella anche cui danno ispirazione i mestieri, i carrettieri, i campagnoli, i fornai, le tessitrici, sebbene la più originale, tipica, « indigena del nostro popolino » rimanga quella della canzone ad ottava; molto più notevole il suo osservare che le « arie » usate per un notturno o per una serenata, novanta su cento riconoscono un'origine moderna e meno oscura; che numerose sono le anacreontiche del Meli musicate da valenti maestri arrivate al popolo; che, anche senza molte conoscenze-d'armonia, è facile riconoscere le melodie genuine del popolo dalle altre in cui è palese il « fren de l'arte ».
Il cantore di popolo, lo aveva fatto osservare il Parisotti (studioso delle melodie popolari romane) con due o tre accordi di chitarra, o di sistro, o di scacciapensieri, o di piffero, secondo che si canti in città o in campagna, scioglie tutte le questioni d'arte e di scienza. L'elemento satirico giova più d'ogni altro a fare riconoscere il poeta e il musico di popolo da quelli d'arte, ma — notazione acutissima questa — la « satira non è la più felice tra le composizioni popolaresche siciliane, perchè è quasi sempre « occasionale e, cessate le ragioni per le quali fu fatta, « cessa la sua esistenza ».
Di qualche sfumatura napoletana in qualcuna delle melodie presentate dal Frontini, egli diceva non doversi fare meraviglia considerato che da Napoli appunto venivano da vario tempo molte delle canzoni nuove, le più vivaci, le più allegre; esse però non si diffondevano tra i contadini, né restavano a lungo nel repertorio del canzoniere siciliano.
Con le ultime righe egli toccava l'argomento tecnico delle tonalità maggiore e minore, dicendosi sicuro che il fatto, degno di rilievo, non sarà sfuggito a chi « con tanta intelligenza » si è occupato di musica popolare. Secondo lui, non sono estranee ad esso ragioni psichiche e forse anche etniche; ma quali fra esse, almeno pel momento, non sa. Nella stesura manoscritta vediamo espresso in proposito il voto che qualche valente ingegno, esperto così di arte musicale, come di studi demografici, si applichi con intelligenza ed amore a risolvere il problema; in quella a stampa non se ne trova cenno, forse per delicatezza, perchè non suonasse tacita accusa di incompiutezza al lavoro del Frontini; e nulla affatto si dice, tanto nell'una quanto nell'altra, della famosa « interpretazione » italiana, proprio come quest'ultimo aveva ardentemente desiderato. Nella sua consueta probità, il Pitrè mantenne, infatti, la promessa di non volere far nulla che potesse recargli dispiacere.
Nonostante l'interesse dimostrato pel lavoro del Maestro catanese, nonostante la serietà scientifica del contenuto delle sue lettere e, in particolare quello della lettera-prefazione, la suggestiva ipotesi di un Pitrè conoscitore di musica non può menomamente farsi strada. Fin dal primo incontro epistolare, egli aveva detto con franchezza al Frontini che le note musicali non sapeva scriverle; le melodie pubblicate a corredo dei suoi Canti popolari furono per lui trascritte da tal Carlo Graffeo; il Tiby, pubblicando nel 1957 il Corpus di musiche popolari siciliane del Favara ha parlato come di cosa notoria di un Pitrè profano di musica (p. 4, nota 1 ). Maria D'Alia Pitrè, del resto, a una mia domanda sull'argomento, rispondeva esplicitamente: « Mio padre non conosceva la musica, non si occupò in modo particolare e diretto di nessuno strumento. Ma amò molto la musica » (cartolina da Roma, 10 febbraio 1952).
Che per la lettera-prefazione il grande demologo si avvalesse e, in qualche caso ripetendo alla lettere le sue parole, di nozioni fornitegli dallo stesso Frontini (mi riferisco al passo sulle melodie, maggiore e minore), che qualche problema posto fosse lo sviluppo di uno spunto offertogli da lui ( accenno alle cause della prevalenza della tonalità minore sulla maggiore), non sono fatti che oscurino il suo merito o la sua dirittura. Con estrema semplicità egli seppe sempre apprendere da tutti, come con immensa modestia seppe sempre ricambiare elargendo i frutti della sua dottrina, del suo meraviglioso sapere.
Al Frontini continuò « a dare »; e come, uscita la raccolta, gli aveva fornito nomi di studiosi stranieri ai quali riteneva utile farla conoscere ( lettera 23 settembre 1883 ), così, poco appresso, apprendendo con piacere vivissimo che l'antico discepolo si proponeva di continuare lo studio delle « nostre » caratteristiche cantilene, forniva quante notizie poteva di bibliografia sull'argomento. Erano notizie non seccamente informative, ma criticamente orientative. In Italia non era stato fatto gran che, (in Francia invece era uscita un'opera in due volumi, della quale, momentaneamente, non riusciva a ricordare l'autore): la raccolta del Salafia, per altro di prezzo esagerato, non aveva alcun valore per gli studi demologici. Assai buono appariva un articolo di Alessandro Parisotti sulle melodie popolari romane; da rintracciare un vecchio opuscolo di Mariano Grassi da Acireale sulle melodie popolari siciliane. Prezioso eventuale consigliere avrebbe potuto essere per lui il Maestro Marchetti di Roma, a parere suo « il più intelligente raccoglitore di melodie popolari in Italia ».
L'interessante lettera del Pitrè cui ci riferiamo è del 25 gennaio 1884 e fu spedita a Sesto S. Giovanni, da dove il Frontini gli aveva scritto ( e inviato il proprio ritratto ) essendo tornato in Lombardia per le sue nozze con la signorina milanese Matilde Moroni.
Qualche anno dopo, ecco un episodio significativo della stima che il palermitano nutriva per il Maestro catanese. Questi gli aveva chiesto il 21 dicembre 1886 un articolo di usi e costumi di Natale e Capodanno per un Numero unico ideato da alcuni suoi amici. Di fronte a un margine di tempo così ristretto, altri si sarebbe schermito o addirittura rifiutato. Il Pitrè, invece, ad appena cinque giorni di distanza, spediva quanto chiestogli con l'accompagnamento delle seguenti poche parole: « Ho fatto per voi quello che non fo da un pezzo « per nessuno, sofferente come sono per gli occhi e sopraffatto da brighe d'ogni genere. Vi mando pochi appunti, informi, come vedete, perchè... perchè..., ve « l'ho a dire? siete stato molto crudele nel chiedermi « uno scrittarello sul Natale proprio alla vigilia di Natale ». Rimbrotto pienamente meritato; dal tono semicordiale, però, reso paterno e quasi amabile nella sua pur evidente fondatezza.
Seguirono anni di silenzio, ma di indefessa operosità pel Frontini che veniva preparando una raccolta musicale dei canti natalizi siciliani. L'11 settembre 1890, appunto per avere in proposito qualche consiglio pertinente, ne scriveva al Pitrè scusandosi di non essersi fatto vivo « per tanti anni » e accennando all'interesse che riteneva avrebbe avuto la pubblicazione, dato che fino allora nessuno aveva pensato di farne una del genere. Fu un lavoro lento, amoroso, attentissimo che, quando uscì, alla fine del 1893, in bella edizione per pianoforte e canto, a cura della Casa Giudici e Strada di Milano, suscitò la più sincera ammirazione nel grande palermitano il quale, ringraziandolo del dono, il 1° gennaio 1894 gli scriveva così:
« Tra gli artisti e compositori dell'Isola voi siete, se non il solo, uno dei pochissimi che comprendono la bellezza e la grazia delle melodie del popolo. Pur componendone di belle e di graziose, Voi sapete apprezzare queste vaghe e dolci reliquie d'un passato che non « ebbe storia, e serbate a durevole monumento, delle note piene di sentimento squisito e di candore verginale. Altri non penserà neppure a ringraziarvi dell'opera patriottica da voi compiuta; io Vi ammiro ». Parole, sentite e quasi solenni.
L'ultimo scritto del carteggio è una breve cartolina del 2 gennaio 1915 con la quale il Pitrè ringraziava con effusione l'amico di un gentile telegramma (riteniamo di rallegramenti per la nomina di Senatore ). Diceva fra l'altro: « Mi fa poi tanto piacere di sapermi ricordato da Lei! ».

Prima di concludere gioverà dire che altre missive di argomento vario non mancano nel carteggio, fra le quali due di condoglianze per la morte delle rispettive madri, datate quella del Frontini 1° ottobre 1891 e quella del Pitrè 29 novembre 1908, come pure non mancano nel corso delle lettere accenni ad amici comuni, per esempio, in quelle dei primi tempi, al Canonico Castorina di Catania, o anche riferimenti a fatti di vita ordinaria, e così via.
Ma ciò che qui interessa e dal carteggio scaturisce chiaramente, è l'influenza determinante che, negli anni della sua formazione al Conservatorio di Palermo, ebbe sul Frontini l'incontro col Pitrè, l'uomo dotto e generoso che, intrattenendosi a ragionare con lui di canti popolari, gli comunicò succhi vitali pei suoi orientamenti futuri. Prova di ciò sono le ben sei raccolte di melodie lasciate dal catanese, tutte riguardanti la Sicilia, e il loro alto valore scientifico, senza dire del libretto di Malìa, il capolavoro, musicato su testo di Luigi Capuana, in cui l'ambiente, caratterizzato da canti popolari, stornelli a risposta, danze, trovò, in un compositore spiccatamente congeniale alla poesia di popolo, un interprete di eccezionale merito e sensibilità.