Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

martedì 2 dicembre 2014

Giselda Fojanesi e Mario Rapisardi contro le "balle" che girano intorno alla sposa del nord e il poeta.


1. Giselda Fojanesi a Catania (1869). Gelosia di Mario espressa in prosa. Il fidanzamento (1870).

Giselda Fojanesi, diciottenne (nata a Fojano, dal 1862 Fojano della Chiana, il 28 agosto 1851), fiorentina d'elezione, nei primi di settembre del 1869 viaggiava con la madre Teresa e con Giovanni Verga da Firenze a Catania, per prestare servizio come maestra nell'Educandato e Convitto provinciale «Margherita», di cui era presidente il professore Salvatore Marchese (1). Il Convitto femminile, annesso alla scuola normale per allieve maestre, fu istituito dal Consiglio provinciale di Catania nel 1866 (2).
La Giselda era stata raccomandata da Maria Dall'Ongaro, sorella del letterato Francesco, a Mario Rapisardi perché trovasse il modo più opportuno per il parere favorevole alla nomina di maestra
(1)  Salvatore Marchese (Misterbianco 1811 - Catania 1880), docente universitario e Rettore, deputato eletto nel 1861 nel collegio di Catania I (si dimise nel novembre 1862), era dal 1861 consigliere provinciale eletto per il mandamento di Misterbianco. Nominato senatore del Regno il 16 luglio 1876, non si recò a Roma per prestare il giuramento.
(2) Così nel disposto dell'art. 1 dei Regolamenti organico-amministrativo e disciplinare del Convitto di educazione femminile instituito dal Consiglio provinciale di Catania, Catania, Stabil. tip. di C. Galàtola, 1868, p. 3.

da parte del presidente dello stabilimento provinciale. Il Poeta scriveva nel maggio del 1869 all'amico fiorentino «Dirà alla sua signora sorella che io l'ho immediatamente servita. La signorina Fojanesi è stata impegnata per questo Convitto provinciale e dovrà venire nel prossimo settembre» (3). La Fojanesi, dopo avere frequentato i tre anni del corso della scuola normale e due anni di tirocinio, aveva ottenuto nel '69 il diploma di maestra elementare superiore, sempre a Firenze (4).
Mario Rapisardi conobbe la Giselda non a Firenze, dove nell'estate del '68 conobbe la madre signora Teresa, ma al termine di questo viaggio a Catania (a Messina, penultima tappa dopo Napoli, attendeva Mario il fratello di Giovanni). La prima impressione di Giselda fu senz'altro sgradevole «Il Rapisardi era magrissimo, macilento, con l'aria sofferente e non piacque molto a Giselda che lo trovò piuttosto ridicolo, nonostante le molte parole spese dal Verga in suo favore» (5).
Il confronto fra i due, diversi fisicamente e nel carattere, si poneva subito agli occhi della fiorentina, che anche se giovane - ma già 'piccola strega' civettuola e vivace - sapeva destreggiarsi con abilità e grazia di farfalla tra Giovanni e Mario, tendeva a scoprire chi dei due fosse più vulnerabile all'attrazione fatale e quindi favorevole a duraturo vincolo matrimoniale.
Mario, fin dai primi mesi (anzi giorni) escogitava i modi più vari per rivedere la Giselda, con visite reiterate per lo più domenicali e passeggiate romantiche lungo il marciapiede di fronte la sede del Convitto, o per comunicare con biglietti spediti o introdotti clandestinamente, e dimostrava di aver preso una cotta per quella ragazza bruna dagli occhi neri e mobili, cosicché ancor prima del mese era al giusto punto di 'cottura'. Manifestazione primaria di sentimenti d'amore e di gelosia è la lettera del novembre (1869) «A Giselda» (6):
(3) M. Rapisardi a F. Dall'Ongaro, Catania 29 maggio 1869, in Epistolario, cit., p. 36.
(4) MARIA BORGESE, Anime scompagnate: Rapisardi e Giselda, in «Nuova Antologia», Roma, anno 72° - Fase. 1576, 16 novembre 1937, p. 169.
(5)  Cfr. G. CATTANEO, Verga, op. cit., p. 100.
(6) A. TOMASELLI, Epistolario, cit., «A Giselda. Lunedì al tocco», pp. 41-42. Il 'feeling' sbocciava subito. Testimoniano in tal senso quattro lettere brevi (la prima vergata da Giselda il 22 settembre, non più di due settimane dall'inizio della sua permanenza a Catania) e biglietti, riprodotti in A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., pp. 121-123.

«A me non è concesso di scriverti né di vederti, o Giselda, mentre ad altri è dato di averti in casa e di parlare un'intera giornata al tuo fianco. A me la solitudine e le ambasce e il dolore, ad altri la pace, l'indifferenza e la felicità; a me le spine amarissime del sospetto e i triboli avvelenati della gelosia, ad altri la tua compagnia la tua parola i tuoi sorrisi! O Giselda, Giselda! Tu hai passato una giornata in casa Verga, ed hai fatto il più grande oltraggio all'amor mio, la più grande offesa alla mia dignità. Tu non me n'hai fatto neppure un cenno nella tua lettera, ed hai fatto un torto alla tua consueta sincerità. O non mi conosci, o non mi ami. Quel giorno, che io mi convincerò di essere ingannato, sarà l'ultimo giorno del nostro amore. Addio.»

Il punto centrale della rimostranza, che metteva a nudo il sentimento di invidia/gelosia, è condensato e spinto fino al parossismo nel periodo «Tu hai passato una giornata in casa Verga, ed hai fatto il più grande oltraggio all'amor mio, la più grande offesa alla mia dignità». Giselda era stata invitata dalla madre e dalle sorelle di Giovanni Verga a trascorrere una giornata nella villetta dei Verga in San Giovanni La Punta; effettivamente, a Catania, fin dal primo momento, si stabilì una corrente di simpatia e di amicizia, specialmente con Teresa (7), e ciò nel clima «solare» della famiglia Verga.
Nella fase successiva intervenne la madre di Giselda (messa sull'avviso dalla direttrice del Convitto Livia Marghieri), che scrisse a Mario il 20 gennaio del '70 in termini propiziatori e realistici «Ella [la direttrice] è convinta passarsi qualche cosa di più d'una semplice amicizia, che la vostra corrispondenza, per mezzo della posta, è troppo frequente, e che in una piccola città potrebbe destare sospetti,...» e lo incalzava aggiungendo «che peraltro Ella [la Giselda] non vorrebbe mai opporsi ad una cosa legittima», e, ancora, completando con il tocco di grande risonanza affettiva «...se v'è uomo al mondo al quale vorrei vedere unita per sempre la sorte della mia 
(7) Di Giselda Fojanesi rimane di quest'epoca una foto, col capo velato, e con dedica «Alla mia cara amica e sorella Teresa, Giselda, lì 8 settembre 1869». Cfr. GIOVANNI GARRA AGOSTA, La biblioteca di Giovanni Verga, Catania, Edizioni Greco, 1977, p. 142.

Giselda diletta, quello siete Voi!...» (8).
Mario, a stretto giro di posta, rispondeva alla signora Teresa con lealtà e mettendo a nudo i sentimenti che lo agitavano nel profondo, equivalenti ad una dichiarazione d'amore, per così dire, 'ufficiale'. La signora Teresa replicava il 2 febbraio '71 e oltre la sua commossa materna approvazione («Ho versato delle lagrime leggendo la vostra lettera»), forniva la testimonianza dell'amore di Giselda per Mario, riportando un brano della lettera di risposta della figlia, interpellata dalla madre, sui sentimenti verso il Poeta «La sventura non potrà più d'ora innanzi colpirmi, poiché il solo pensiero d'essere amata da quest'uomo angelico, superiore di tanto a tutti gli altri uomini, basta a rendermi pienamente felice, e a darmi forza per sfidare l'avversità della sorte». E aggiungeva ancora «Pensa a me, Mamma mia, che soffro tanto, che mi annoio dal desiderio di vederlo, di parlargli, di ricevere un suo scritto, e non lo posso! Ah! sono proprio sventurata, io lo adoro, so d'essere corrisposta, e non posso vederlo, non posso scrivergli!.» (9). Vi sono certamente nei sentimenti ora dichiarati da Giselda amplificazione e sopravalutazione dell'amicizia ancora recente ed anche autoesaltazione narcisistica per i segnali di attenzione e di predilezione nei suoi confronti, espressi dalla Giselda con l'esplosione improvvisa di fiammate senza un fuoco preesistente.
Nella lettera successiva, del 7 luglio '70, la signora Teresa esprimeva lo sconforto per le notizie provenienti da Catania, contenute in una lettera della figlia e nell'altra della direttrice che descriveva «l'umore cattivo» e «i modi aspri con le bambine», che i componenti il Consiglio dell'istituto erano decisi a sostituire le educatrici con le «teste calde» (10). Espressioni chiare, che preludevano al licenziamento di Giselda. E ancora il 28 luglio, oltre le angustie per la figlia («sono priva di lettere della Giselda da più corsi di posta»), quasi
al termine una notizia ottima per Mario «Ho veduto Dall'Ongaro, mi
(8)  A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., pp. 109-110.
(9) A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., pp. 110-111. «Le parole in corsivo si trovano sottolineate nell'originale» (nota di p. 111).
(10) A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., pp. 111-112.

ha detto che avrete la cattedra positivamente...» (11).
Due giorni dopo, nell'altra premurosa del 30 luglio, dedicata esclusivamente a Mario, riferiva i sentimenti di Giselda e confortandolo con toni intimistici da sorella maggiore, concludeva con un capoverso di ulteriore rassicurante certezza: «Vi dirò anche, se può esservi di conforto ciò, che ieri parlai novamente di Voi a lungo con Dall'Ongaro, il quale mi disse che avrete positivamente la desiderata cattedra, e che non possono esservi difficoltà in contrario» (12).
Giselda ritornò nell'agosto 1870 a Firenze, dove rimase in attesa di nuova occupazione e dove la raggiunse verso la metà di giugno del '71 il Rapisardi, che trascorse l'estate nella casa dei Fojanesi, rientrando a Catania il 24 settembre 1871 (13).
(11) A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., p. 112. Alludeva alla cattedra universitaria, che il Rapisardi ottenne con Decreto ministeriale del 15 dicembre del 70.
(12)  A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., pp. 112-113.
(13)  A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., p. 115.

2. Giselda lontana da Mario. I sentimenti in versi A Giselda (luglio '70), poi nella parte seconda delle Ricordanze.
Nel periodo precedente la separazione, durata quasi dieci mesi, Rapisardi nel luglio del '70 compose una lirica. «A Giselda», pubblicata due anni dopo nella raccolta Ricordanze (14).
(14)  M. RAPISARDI, Ricordanze, versi, Pisa, Tip. Fratelli Nistri, 1872, pp. 161-170; ID., Ricordanze, «Seconda edizione corretta dall'A. ed accresciuta di altre epistole e di molti inediti componimenti», Milano, Libreria Editrice G. Brìgola, 1878, pp. 121-127; ID., Ricordanze, «Terza edizione accresciuta e corretta dall'A.», Torino, E. LoescherEd., 1881, pp. 122-128. Inserita dopo in ID., Elegie («tutti i versi d'affetto»), Livorno, Vigo, 1889, pp. 79-86; ancora in ID., Opere, I, Catania, N. Giannotta Editore, 1894, pp. 388-394; infine, in ID., Poemi liriche e traduzioni, R. Sandron Editore, Milano-Palermo-Napoli, s.a. (1911), PP- 67-68.
Conosciamo anche una traduzione in lingua tedesca: M. RAPISARDI, An Giselda, Wien, M. Salzer, 1880, in-4°, p. 8 in carta rosa (quattro copie nella Bibl. Civ. e U.R. alle segnature: Civ. mise. D. 2. 7-11; Rap. M. 23. 29.; Rap. M. 20. 18.; Rap. M. 21. 20.).
Per la data della composizione v. M. RAPISARDI, Prose, poesie e lettere postume, raccolte e ordinate da L. Vigo-Fazio, op. cit., p. 161: M. Rapisardi a Giovanni Alfredo Cesareo, Catania 19 di giugno '80.

L'onda lunga dei sentimenti di amore e di tenerezza si riversa nei versi (ma anche l'angoscia e la solitudine, figlie della depressione), dal momento magico dell'innamoramento («Pur benedetto il dì che dentro al core, / Palpitommi il tuo sguardo, e benedetta / La furtiva parola e il bacio primo, / Che di perpetuo amor l'alme ne avvinse,...») agli affanni susseguenti («E benedetti ad uno ad un gli affanni, / Ch'io per te soffro e soffrirò! Tal cosa, / Cara, tal cosa è l'amor mio, che nullo / O sgomento o pietà dammi di questa / Misera vita,...») (15); e ancora la descrizione del dramma esistenziale di chi vive con accanto le ambasce, lo sconforto, l'irrequietezza incessante: 
«Morta è la fede / Morta è la gioia in me: sorride e spera /Altri ove io piango; un'incessante, inqueta / Smania mi caccia;...», e la solitudine suprema da affrontare, nudo e disarmato «Solo sull'orlo a questo vuoto immenso / Che universo si noma, a cui, se danno / Luce tant'astri è per mirar nostr'ombra, / Muto, tremante e derelitto io pendo,...» (16); ma riemergono dal più profondo per questo amore i sentimenti della devozione e del sacrificio in termini assoluti «Tutto io darei per te! Se cosa vile / Capir l'alma potesse, io fino all'onta / Fino al delitto scenderei, pur eh 'alto / Sopra gli affanni altrui segga il tuo core/E il tuo cor presso al mio! Crudel talvolta / L'amor mi fa!... » (17).
Ma la condizione umana del dolente e derelitto può essere accettabile solamente se vi è il sostegno e il conforto dell'amata «Deh! ascolta anima cara; e se tant'alto / Amor ti parla, che dolente e solo / L'alma tua rara non sostien ch'io viva, / Vieni, ah! vieni al mio cor, tergi il mio pianto, I Dolcezza unica mia! Le braccia io tendo /A te, come il nocchier le tende al porto» e ancora reiterando la preghiera «Vieni, ah! vieni al mio cor, tergi il mio pianto / Speranza unica mia!...» (18).
Nei 162 versi di questa lirica circola un'atmosfera di tardo romanticismo, appesantita da accenti 'deliranti', ma essa costituisce un pezzo 'forte', che il Rapisardì conserverà e limerà fino all'ultimo (1911).
Per Giselda, nei primissimi tempi della permanenza a Catania, il Rapisardi aveva composto, nell'ottobre del '69, un'altra lirica
(15)  M. RAPISARDI, Ricordanze, versi, 1a ediz., op. cit., pp. 161-162.
(16)  M. RAPISARDI, Ricordanze, op. cit., pp. 163-164.
(17)  M. RAPISARDI, Ricordanze, op. cit., p. 166.
(18)  M. RAPISARDI, Ricordanze, op. cit., p. 169.

«Un astro», dieci quartine, impregnate di romanticismo e piuttosto dolciastre le ultime, intarsiate da dichiarazioni d'amore: «Lascerei questa luce e questa sfera / Sol per venirti accanto; // E, il mio fato obliando e i raggi miei, / Del tuo mondo sfidar gli affanni e l'ire; / Solo un giorno per te viver vorrei, /Dir: t'amo, e poi morire» (19).
L'anno 1871 trascorse lentamente per Giselda, a Firenze, in attesa di lettere da Catania; e per Mario fu di intenso lavoro intellettuale e creativo: dal gennaio preparava le lezioni universitarie di Letteratura italiana, lavorava al «Satana» (poi Lucifero) e pensava e scriveva all'amata Giselda.
(19) Per la data di composizione cfr. M. RAPISARDI, Prose, poesie e lettere postume, op. cit., loc. ult. cit.; per la dedica cfr. A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., p. 115, nota (2): «[i versi] figurano nell'autografo dedicati «alla signorina G. Fojanesi».
«Un astro» è inserito nelle diverse edizioni delle Ricordanze, nonché in ID., Opere, I, cit., pp. 376-78, ed anche nell'ultimo volume rapisardiano Poemi liriche e traduzioni, op. cit., p. 66.

***


1. Il matrimonio celebrato a Messina - Le delusioni di Giselda in casa Rapisardi - L'insoddisfazione crescente.
Dopo un fidanzamento durato due anni e qualche mese (certamente prolungato a causa della morte di Don Salvatore Rapisardi, avvenuta nel gennaio 1871, e il lutto stretto doveva mantenersi per un periodo non inferiore ad un anno), ecco finalmente Giselda e Mario sposi. Il matrimonio fu celebrato a Messina lunedì 12 febbraio 1872. Sulla scelta di questa città nessuna ipotesi è stata avanzata; sulla cerimonia solamente un inciso di Tomaselli (1) e poco più di un cenno nel saggio della Borgese (2), che si sofferma sull'accoglienza della suocera a Catania, nella descrizione delle stanze dell'abitazione e sul pranzo di nozze («...fu triste, mal servito sulla tavola apparecchiata senza cura, nella stanza di passaggio,...») e sui convitati (gli uomini seduti attorno alla tavola con il copricapo: due con il cappello, uno con il fez e Mario con il berrettone di lana).
Le delusioni aumentarono per la Giselda subito dopo, per l'angustia dei locali e i disagi ripartiti e sopportati un po' da tutti, com-
(1) A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., p. 115.
(2) M. BORGESE, Anime scompagnate: Rapisardi e la Giselda, op. cit., p. 175.

presi gli sposini («Anche il passare quella prima notte di matrimonio tra le due madri... fu cosa che mise di pessimo umore la Giselda...»); anche certe abitudini premurose della madre per Mario non potevano continuare, ovviamente (3); ma la sorpresa, poco dopo, visiva e ravvicinata, superava ogni precedente delusione, anzi la sposina «provò un senso di sgomento indicibile vedendo il marito nell'intimità, magro, sparuto, con le spalle strettissime (i vestiti erano imbottiti dallo zio Giaretta) con tutti i caratteri dell'uomo molto malato e debole» (4).
Superata questa prima fase, l'intesa fra i coniugi vi fu, ma durò un anno o poco più. La Borgese, che ebbe notizie, confidenze e documentazione dalla Giselda (oltre mezzo secolo fa) così descrisse quel tempo «Il primo anno, la sera, egli rimaneva in casa e allora lessero insieme del teatro greco, molte odi di Pindaro e altri classici»: Giselda si accontentava, allora, di poco, ma anche ciò suscitava la gelosia della suocera (5).
Inoltre la Giselda, abituata a vivere a Firenze «a uscire ogni giorno o sola o con la mamma o con la sorella», soffriva per questo nuovo modulo di vita che era condizionato pesantemente da altri, specialmente dalla suocera; fra l'altro non potè ben presto andare a messa la domenica mattina con la cognata Vincenza, per un tassativo divieto del marito (6). Gli anni che seguirono, grigi, monotoni, appiattiti, ravvivati raramente da fatti insoliti, spensero gli entusiasmi giovanili e solamente al termine del decennio (secondo Gino Raya; come vedremo, a metà del decennio) furono illuminati da una luce nuova.
(3) M. BORGESE, op. cit.,  p. 177.
(4) M. BORGESE, op. cit., p. 178.
(5) M. BORGESE, op. cit.,  p. 179.
(6) M. BORGESE, op. cit.,  p. 179.

2. L'amicizia del Rapisardi con gli Ardizzonì: don Carlo e il figlio Gaetano.
Rimaneva, solamente entro certi limiti, la valvola di sicurezza dei rapporti di amicizia con persone di tutto rispetto, anzi al di sopra di ogni sospetto. Fra le amicizie già salde, che si rinsaldarono sempre oltre gli eventi, va privilegiata quella con gli Ardizzoni: don Carlo, notissimo patriota e mecenate, e il figlio avvocato Gaetano, coetaneo ed amico di Mario. Era un'amicizia antica, risalente ad un tempo immemorabile, nata dalla contiguità di abitazione: i Rapisardi abitavano un appartamento con ingresso da via del Penninello, dove nacque Mario; nell'angolo omologo con prospetto su via degli Schioppettieri (poi via Manzoni) l'imponente palazzo degli Ardizzoni.
Una famiglia che esprimeva dalla fine del Settecento patrioti, giuristi ed uomini politici: come Giovanni (7), avvocato, eletto nel 1813 consigliere civico e dopo rappresentante di Catania nella Camera dei Comuni del Parlamento di Sicilia dopo la riforma, poi magistrato; come il figlio don Carlo (8), liberale: nel 1837, nella sua casa avvenne un'importante riunione politica per rendere possibile una sollevazione popolare contro la tirannide borbonica; nel 1848, dopo la rivoluzione del gennaio, fece parte del comitato cittadino, cui era demandato il mantenimento dell'ordine pubblico; letterato, promotore di iniziative civili e culturali come il Gabinetto di lettura (meglio noto come Gabinetto Fanoj). Fece parte dall'agosto del 1859 (dopo la venuta di Francesco Crispi a Catania) del «Comitato d'Azione», presieduto da Gioacchino Paterno Castello di Biscari e da allora fu strettamente sorvegliato dalla polizia borbonica (9).
Gaetano (10), figlio di Carlo, laureato in Giurisprudenza nel 1858, partecipava come i suoi ascendenti alla vita civile ed amministrativa della città. Nelle prime elezioni amministrative dopo l'Unità, nel gennaio 1862, fu eletto consigliere comunale e rieletto nelle successive svoltesi il 20 settembre 1867. L'anno precedente aveva dato alle stampe un corposo volume di liriche: Canti (11). 
(7)  Nato a Catania nel 1767 - morto ivi nel 1838; laureato in utroque jure il 7 giugno 1791.
(8)  Nato a Catania il 19 settembre 1808 - morto ivi il 2 gennaio 1886.
(9) VINCENZO FINOCCHIARO, Un decennio di cospirazione in Catania (1850-1860). Con carteggi e documenti inediti, Catania, Tip. N. Giannotta, 1907, P- 65, nota 2 «Comune di Catania - Stato dei sorvegliati in seguito d'imputazioni o condanne già espiate per reati politici in fatto di perturbazioni d'ordine pubblico - Bimestre di novembre e dicembre 1859».
(10) Gaetano Ardizzoni, nato a Catania il 20 aprile 1836, qui morì il 27 dicembre 1924.
(11) G. ARDIZZONI, Canti, Catania, C. Galàtola, 1866, 8°, pp. 221 ; sei anni dopo un'altra opera poetica: Ore perdute, Catania, C. Galàtola, 1872, 8°, pp. 243. Ricordiamo ancora che rArdizzoni fu uno dei pochi a Catania a sostenere il Rapisardi dopo la pubblicazione del poema Lucifero, anzi pubblicò un opuscolo Dopo la lettura del Lucifero di M. Rapisardi (Catania, Tip. C. Galàtola, 1877,16°, pp. 22); e tale opera, se suscitava nei mediocri «mascherata impotenza o invidia o paura», egli era convinto che fosse «...splendida creazione d'arte» (ivi, p. 22).

L'Ardizzoni, con Mario Rapisardi, nel 1876 fu chiamato a far parte del Comitato per le feste belliniane (parte centrale di esse il solenne trasporto delle ceneri del Cigno da Parigi alla città natale) ed ebbe un ruolo di primo piano (12).
L'amicizia era intessuta di consuetudini, come le visite ravvicinate dei due Ardizzoni in casa Rapisardi. Il Poeta stimava ed ammirava don Carlo e alla sua morte (1886), che partecipava all'amico Calcidonio lontano da Catania («Riapro la lettera, per dirti che è morto il nostro don Carlo. L'ho veduto morire. L'anima mia è triste») (13), componeva le iscrizioni o 'elogi funebri' stilizzati che scolpivano le virtù, le qualità e i caratteri dell'Estinto (14).
Dopo il matrimonio con Mario, i rapporti di cordialità e di amicizia coinvolsero ben presto anche la giovane signora Rapisardi. I rapporti tra le famiglie si consolidarono ulteriormente, allorquando Gaetano contrasse matrimonio con la gentile Giuseppina Fìnocchiaro Crupi e ciò avvenne nell'aprile del 1879. Rapisardi compose per quella lieta cerimonia un epitalamio in onore degli sposti (15). 
(12) G. ARDIZZONI, Parole su Vincenzo Bellini dette da G.A. nel Palazzo Municipale il dì 13 settembre 1876, Catania, Tip. C. Galàtola, 1876, pp. 28.
Dell'attività del Rapisardi nella medesima circostanza rimangono tre lettere: Al Sindaco di Catania (marzo 1876), in Epistolario, cit., p. 69 e a Francesco Rapisardi, Firenze 15 luglio 1876 (ibidem, p. 70) e al medesimo, Firenze 18 luglio 1876 {ibidem, pp. 70-71).
(13) Lettere di M. Rapisardi a C. Reina, op. cit., p. 97, Cat. 2 dell'86.
(14)  M. RAPISARDI, Carlo Ardizzoni, Tip. Galàtola, "Catania, 3 gennaio 1886" (foglio ripiegato, con ai margini fregi di lutto). Le iscrizioni sono numerate da 1 a 6. Riportiamo la (1) "CARLO ARDIZZONI / uomo di vario sapere, / di tenace proposito, di sincera virtù, / visse con l'anima fra i migliori antichi, / e di loro fu degno"; la (2) "Lo studio amoroso / della lingua d'Italia / gli alimentò il culto della patria; / la piena scienza / delle umane istorie / gli crebbe la religion dell'Ideale"; e la (3) "Quand'era delitto il pensiero / liberamente pensò, / e da libero operò in tempi difficili, / serbando incorrotto il cuore, / incontaminate le mani".
(15) M. RAPISARDI, A Gaetano Ardizzoni e Giuseppina Fìnocchiaro Crupi nel giorno delle loro nozze, Catania, Tip. Galàtola. s.a. (1879), pp.nn.5 (i versi in totale 88). La composizione fu inserita, con lievi variazioni, in M. RAPISARDI, Poemi liriche e traduzioni, op. cit. «Epitalamio» (p. 75).

Giselda e Giuseppina divennero amiche e il sentimento di amicizia rimase inalterato anche dopo l'avvenimento traumatico del dicembre 1883. D'altra parte Mario stimava Gaetano (a prescindere dalla produzione poetica pubblicata nel 1866 e nel 1872) e nel febbraio del 1877 aveva composto un'«epistola» a lui dedicata (16).
(16) M. RAPISARDI, Ricordanze, Il ediz., Milano, Libreria Editrice Brigola, 1878, pp. 218-223 «A Gaetano Ardizzoni / Perché non rispondo a taluni critici»; i primi due versi «Tu vuoi che il venosino epodo scocchi / Contro a'critici miei? L'usanza aborro», dalla MI ediz. (Torino, E. Loescher, 1881, p. 234) sono mutati in «Tu vuoi che il giambo archelochèo saetti/ Contro a' critici miei? L'usanza aborro»; ed ancora una variazione nel 1911 «Ch'io cangi mai l'arpocratèo contegno /.Contro a' critici miei? L'usanza aborro» (M. RAPISARDI, Poemi liriche e traduzioni, op. cit., p. 158).

3. L'incontro di Firenze del 1875 e il fatto traumatico del dicembre 1883.
Alla fine di ogni anno scolastico, ed anche di quello 1874-75, il professore Mario e Giselda si recavano a Firenze per un periodo sereno di vacanze, che trascorrevano nell'ospitale casa dei Fojanesi, anzi ora presso la signora Teresa rimasta vedova nel 1874.
E in quell'estate del '75 una serie di fatti casuali ed acasuali, di strane coincidenze, concorreva a fare incontrare persone sconosciute (Mario Rapisardi ed Eva Cattèrmole, poetessa) o riavvicinare persone che vivevano ormai lontane, divise da una scelta che sembrava irrevocabile (Giselda Fojanesi e Giovanni Verga). L'ipotesi dell'incontro concordato, G. Fojanesi - G. Verga, è stata avanzata da Gino Raya (17).
Quella che potrebbe sembrare l'inizio di una relazione «ininterrotta» (1875-1883), in realtà - come vedremo - costituì un episodio dell'eros verghiano, intersecato da una relazione successiva, iniziata nel 1878, con la contessa Paolina Greppi Lester, che coesisterà per alcuni anni con la prima relazione, ma che acquisterà un ruolo primario nel primo e in parte nel secondo quinquennio degli anni Ottanta.
(17)  Cfr. G. RAYA, Eros verghiano, Il ediz., Roma, ed. «Fermenti», 1985, P- 6 (v. anche I ediz., ivi, 1981).

La lettera del 14 dicembre 1883, l'ennesima di Giovanni Verga a Giselda, scoperta casualmente il 19 successivo dal Rapisardi, agì da detonatore, fece esplodere una situazione che si trascinava da anni, con la conseguenza traumatica ma necessaria di separare due «anime scompagnate».
Vedremo, nel prossimo capitolo, di arricchire con particolari rimasti in ombra gli otto anni fra i poli estremi, di dipanare il groviglio di sentimenti e di passioni che agitarono, ma non sconvolsero, Giovanni Verga quarantenne nel decennio più impegnativo, anche sul piano della produzione letteraria.

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1. Mario Rapisardi, marito di Giselda, e la relazione con la Contessa Lara - Incipiente attività giornalistica e letteraria di Giselda.
A Firenze. Fu proprio nell'estate del 1875 che Mario Rapisardi rientrando a casa descrisse alla moglie di avere incontrata una donna bella, bionda, elegantissima, avvolta in veli neri e con una collana di grosse perle, e di averla seguita fino ad un'abitazione di via del Maglio contrassegnata dal civico 14. Giselda rispose che era Evelina Cattèrmole che si recava in visita al padre. L'indomani il Rapisardi le inviava il volume Ricordanze (1). La risposta della bionda poetessa colpì Mario, che dall'ammirazione passò all'infatuazione, subito ricambiata dall'interlocutrice, cosicché all'infatuazione seguì una relazione di lunga durata. E le tracce o, meglio, le prove sono di tipo documentale.
La relazione, già iniziata, è posta in evidenza in una lettera da Milano dell'ottobre 1876 «A ogni svolto di cantonata dico fra me: ora incontrerò la mia Linuccia!», e concludeva in modo romantico ed inequivoco «Io vi ho dinanzi a questo eterno conquistatore dell'anima che si chiama l'Amore. Ho inclinato la fronte dinanzi a lui,
(1) Cfr. M. BORGESE, op. cit., p. 298 (fase. 1577, Roma, 1° die. 1937).

e ho ripetuto piangendo il suo nome» (2). Un cenno anche in una lettera coeva all'amico Calcidonio «Se tu sapessi le peripezie del mio cuore e del mio Lucifero] Delle prime ti parlerò lungamente quando mi sarà dato di riabbracciarti...» (3).
Dopo l'inizio dell'amorosa passione, nei pensieri di Rapisardi non trovava posto Giselda, e in una lettera a Calcidonio del 1877, dopo avere ricordato accoratamente il padre, continuava «T'assicuro, carissimo Nello, che, senza l'amore di mia madre e dell'arte, io mi sarei difficilmente rassegnato alla vita! Quante passioni e quanti disinganni!» (4). Giselda era già divenuta la grande esclusa!
La signora Giselda, dopo il primo scoppio di legittimo orgoglio, sembrava rassegnata all'ineluttabile progredire dell'evento e passione amorosa, come si evince da un episodio riferito dalla Borgese e cioè che l'Evelina Cattèrmole avendo appreso che la moglie di Rapisardi si era recata da lei (in quel momento assente), «le chiese di essere ricevuta, andò a trovarla pochi giorni dopo e le due donne divennero molto amiche». Sembra incredibile, ma vi è ancora di più «L'amicizia durò fino a che imprescindibili ragioni d'esistenza, più ancora che di convenienza, obbligarono a gran malincuore la Giselda, dopo la sua andata via da Catania, a sospendere i rapporti con l'infelice poetessa» (5). Vale quanto dire che la Giselda interruppe, anzi «sospese», «a gran malincuore» i rapporti di tenace amicizia che duravano da oltre otto o nove anni! Non sappiamo se tale comportamento possa definirsi di perfetto masochismo o di comprensione per il prossimo! In ogni caso uno strano comportamento.
E, in casa, sopportava perfettamente acquietata (erano già trascorsi sette anni!) che il ritratto della rivale fosse sempre sotto gli occhi del marito, sul tavolo da lavoro, e ciò rimane documentato «Le grazie di gesso che sono sul mio tavolino mi dicono che eravamo più savi allora; il ritratto della Lina è d'accordo con le Grazie, «, ed accenna di sì; ma il brutto teschio che le ho messo daccanto
(2) M. Rapisardi ad Evelina Cattèrmole, Milano ottobre 1876, in Epistolario, op. cit., pp. 73-74.
(3) Lettere di M. Rapisardi a C. Reina, op. cit., p. 27, Firenze, 13 ottobre 1876.
(4)  Lettere di M, Rapisardi a C. Reina, op. cit., p. 30. Il corsivo è mìo.
(5)  M. BORGESE, op. cit., pp. 298-99. Il corsivo è mio.

con poco piacere della Giselda,...» (6). Si trascinava, ma durava ancora, nel 1882, come confidava, e si sfogava nel contempo, all'amico Calcidonio, deluso ed amareggiato e agitato da sentimenti intrecciati: «...né le dolci lusinghe di quella tal donna, che io amo quanto posso e disprezzo quanto basta, possono tanto sull'animo mio da non farmi scorgere la grandissima vanità che ella ha di tenermi aggiogato al carro dei suoi trionfi, accanto ai molti asini che soffrono docili il suo governo (...) adirandomi qualche volta con me stesso di non avere avuto finora il coraggio di rompere una relazione che mi disonora» (7).
Nei primi del 1883 è tutto finito: una pietra tombale vuole coprire e annullare il passato; e un sentimento di autocommiserazione affiorava a proposito del volume di poesie pubblicato dalla Contessa Lara (signora Cattèrmole Mancini) «...trovando in esse dei versi che mi riguardano, mi hanno tirato in ballo, per gettar fango sulla tomba di un mio povero amore» (8).
Ancora qualcosa che riguarda la Giselda spettatrice, suo malgrado, di talune composizioni poetiche. La passione del Rapisardi, lo sappiamo, si estrinsecava in versi dedicati a questo come ad altri amori. La parte terza delle Ricordanze, composta dal 1873 al 1876, è densa di composizioni ispirate dall'innamoramento del momento; anzi, a tale proposito, la Borgese scrive icasticamente «Laterza parte delle Ricordanze è tutta per altre donne, sebbene scritta con la moglie vicina» (9). Ricordiamo solamente «A Lina nel regalarle un pugnale», due sonetti composti a Firenze nell'estate del 1876 (10).
(6) M. Rapisardi a Settimio Cipolla, Catania 17 dicembre 1882, in Epistolario, cit., p. 184.
(7) Lettere di M. Rapisardi a C. Reina, op. cit., Catania 5 dicembre 1882, p. 73.
(8) Lettere di M. Rapisardi a C. Reina, op. cit., 11 [gennaio] dell'83, pp. 76-77.
(9) M. BORGESE, op. cit., pp. 297-98; ivi disamina, «occasio» ed attribuzione, delle liriche.
(10)  M. RAPISARDI, Ricordanze, Il ediz., cit., pp. 181-182; i sonetti inseriti successivamente nelle altre edizioni e, infine, in ID., Poemi liriche e traduzioni, op. cit., p. 77. Per la data cfr. M. RAPISARDI, Prose poesie e lettere postume, op. cit., lettera cit., p. 162.
Cenni sugli amori del Rapisardi in A. TOMASELLI, Epistolario, cit., «Prefazione», pp. XXI-XXII; ID., Commentario rapisardiano, op. cit., «Mario Rapisardi e la Contessa Lara», pp. 87-106. Su Evelina Cattèrmole, giornalista a Firenze e a Roma (ove sposò il tenente Francesco Saverio Mancini) e sugli amori 'intrecciati', prima e dopo il matrimonio, v. C. BARBIERI, Il giornalismo, Roma 1982, p. 83.

E Giselda era veramente rassegnata o meditava di uscire da quella situazione frustrante? Furono, senza dubbio, anni molto tristi per le mortificazioni subite che superò man mano scoprendo nuovi interessi. Risale al 1878, secondo la Borgese, la scoperta di un'uscita di sicurezza: Giselda «si mise a scrivere per suo diletto, senza speranza di pubblicare»; però, nell'estate del 1880, trovandosi a Firenze, inviò una novella al «Fanfulla della domenica», che fu pubblicata dopo non molto; aggiungeva la Borgese che da allora continuò la collaborazione e nelle appendici del «Fanfulla», quotidiano, fu pubblicato nel 1880 il romanzo Maria, iniziato in quegli anni nella villetta di San Giovanni La Punta (11).
In una fase ulteriore, accanto alla Giselda troviamo Giovanni Verga. Il primo approccio del Verga con Ferdinando Martini, direttore del «Fanfulla della domenica», risale al 14 giugno 1881, per propiziare la pubblicazione del «raccontino 'Post - scriptum' - che a me piace assai», firmato «Gigi» (12). Dopo, dall'aprile 1882 (per un biennio) nuovo direttore fu Luigi Capuana, e Verga sperava che con l'amico al timone di comando tutto sarebbe stato più facile (e stranamente non fu così). Un racconto o novella «Amore campagnolo» usciva nel numero del 17 settembre 1882. A Catania don Carlo Ardizzoni esultava, appena tre giorni dopo, scrivendo a Mario Rapisardi «Signor Mario mio, lo dica alla Giselda sua, che ho avuto la speciosa ventura leggere nel «Fanfulla della domenica» lo stupendo racconto di lei, L'amor campagnuolo, di cui vo matto, e lo definisco, un giardinetto con dentro-gli le piante e i fiori di alquante guardature di cielo» (13).
Verga non desisteva, intanto, dai tentativi di sostenere l'incipiente
(11)M. BORGESE, op. cit., p. 302. L'avvenuta pubblicazione fu annunziata alla Giselda da un bigliettino della Contessa Lara (ivi).
(12) G. RAYA, Bibliografia verghiana (1840-1971), op. cit., G. Verga a F. Martini, Milano 14 giugno 1881, p. 44 "scheda" 285: «Quel Gigi dal cognome indecifrabile sarà (suppone il Navarria) uno pseudonimo di Giselda Fojanesi».
(13)  Bibl. Civ. e U.R., Fondo Rapisardi, Corrispondenti, C. Ardizzoni a M. Rapisardi, Da Catania 20 di settembre '82 (lettera inedita).

attività letteraria di Giselda ed ecco la seconda (in ordine temporale) sollecitazione, in una lettera di fine anno al direttore, per la pubblicazione di un racconto «Prima delusione». Mai titolo procurò tanta delusione a persone diverse! (14).
Per quanto riguarda il lungo racconto Maria, pubblicato in volume nei primi del 1883 (15), la richiesta di recensione fu avanzata dal Verga il 19 febbraio 1883 (16); diplomatica ed ermetica la risposta del direttore Luigi Capuana (17).
Come abbiamo visto, luci ed ombre, difficoltà ordinarie ed impreviste, nonostante l'autorevole patrono Giovanni Verga, autore di molte opere e de I Malavoglia.



(14) G. RAYA, Carteggio Verga - Capuana, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1984, G. Verga a L. Capuana, Milano 25 dicembre 1882, p. 182. Nella risposta del Capuana del 20 gennaio 1883, il giudizio fu drastico e inappellabile: «Non ti ho potuto servire per la novella di Giselda: è proprio infantile. Tale è stata trovata dall'Avanzini e dal Nencioni ai quali l'ho fatta leggere. La rimanderò all'autrice oggi stesso» (ivi, p. 185).
(15) GISELDA FOJANESI RAPISARDI, Maria, racconto, Milano, Ditta G. Brigola di G. Ottino e C. (Firenze, Tipografia dell'Arte della Stampa), 1883, pp. 368.
A proposito della stampa in volume, la notizia era già nota a Catania nell'anno decorso, se in una lettera del 13 settembre '82, diretta al Rapisardi, don Carlo Ardizzoni esprimeva il suo caloroso entusiasmo con «Viva la Giselda con la sua seconda edizione della "Maria"». Bibl. Civ. e U.R., Fondo Rapisardi, Corrispondenti, C. Ardizzoni a M. Rapisardi (lettera inedita). Il corsivo è mio.
(16) G. RAYA, Carteggio Verga - Capuana, op. cit., G. Verga a L. Capuana, Milano, 19 febbraio 1883, p. 188: «Ti raccomando e torno a raccomandarti i versi della Mancini (Contessa Lara) e il racconto della signora Giselda Fojanesi Rapisardi: Maria. A me non sembra poi che sia quella povera cosa che dice la «Domenica letteraria», che pur di povere cose ne ha e ne loda tante!».
(17) G. RAYA, Carteggio Verga - Capuana, op. cit., L. Capuana a G. Verga, Roma 20 febbraio 1883, pp. 188-189: «La Maria non l'ho letta: l'ho passata al bibliografo che ora fa i corrieri bibliografici, e ne sarà parlato nel 1 ° numero di marzo. In che senso non te lo so dire, perché il bibliografo è persona competentissima, senza partigianeria, ed ha piena libertà di giudizio» (quest'ultimo inciso non lascia presagire niente di buono).

2. Giselda: dall'antica simpatia alla passione travolgente per Giovanni Verga - L'inizio a Firenze e l'«esplosione» a Catania (1875-1883).
Dopo l'attività letteraria, l'attività amorosa (l'ordine espositivo prescelto non vuole alterare la priorità della seconda).
Insistentemente si è scritto di un incontro fortuito avvenuto a Firenze nell'anno 1880. La Borgese descrive il fatto, che fece traboccare il vaso stracolmo, avvenuto una sera del settembre 1880; la Giselda si preparava per assistere con il marito ad uno spettacolo di prosa all'Arena Nazionale di Firenze. Rapisardi entrò, munito di frustino, e comunicava alla moglie che non sarebbero andati a trascorrere la sera fuori casa e alle proteste di Giselda «lo lasciò cadere con forza più volte sulle spalle e sulle braccia nude dì lei che urlò di dolore». Dichiarazione di Giselda, esasperata, di volersi separare e piagnistei con immediato rinsavimento di Mario, cui seguì l'apparente perdono; ma questa volta la ferita inferta alla donna superava i limiti dell'umana (e sovrumana) sopportazione. L'indomani Giselda, seguiamo ancora la Borgese, uscì di casa e «come trasognata si trovò in via Rondinella, quando, proprio dì fronte a La ville de Lyon le si parò dinanzi Giovanni Verga». Dopo i convenevoli brevi «Si guardarono negli occhi e a lei venne da piangere. - Cara - le chiese Verga con tenerezza - è vero dunque che siete tanto infelice? Giselda non poteva parlare; chinò il capo. Poi domandò:
— Vi tratterrete qualche giorno qui?
—  Forse - e aggiunse: Certo, se voi lo volete» (18).
Questa è certamente la versione prospettata dalla Fojanesi.
Vedremo poi la versione dettagliata in una lettera del Rapisardi.
A Catania i due, nei tre anni successivi, si incontravano clandestinamente nell'appartamento ospitale della signora Piazzoli, moglie dell'ingegnere Emilio (entrambi milanesi) (19). La versione della Borgese è castigata ed incompleta «L'anno seguente all'incontro tra Verga e la Giselda (...), i Rapisardi non andarono a Firenze. Verga e la Giselda riuscirono a parlarsi solo una volta a un ricevimento domenicale della milanese signora Piazzoli,...» (20). 
(18) M. BORGESE, op. cit, pp. 386-87 (fase. 1578, Roma, 16 dicembre 1937). La Borgese così concludeva sul punto «Ecco come, e non altrimenti, dopo dieci anni, si rincontrarono Giovanni Verga e Giselda Rapisardi. Qualunque altra versione detta o scritta in buona o in mala fede non è la vera» (ivi, p. 387; il corsivo è mio).
(19) SAVERIO FIDUCIA, Nel palazzo d'un appaltatore i convegni di Verga con la moglie di Rapisardi, ne «La Sicilia», quotidiano, Catania, 13 maggio 1970, cit. in G. RAYA, Bibliografia verghiana, op. cit., p. 619 'scheda' 6524.
(20)  M. BORGESE, op. cit, p. 388.

I sotterfugi e gli espedienti furono escogitati, ma gli incontri certamente vi furono, perché i due colombi avevano superato la fase dell'idillio e dello scambio di bigliettini con frasi tenere.
La lettera diretta alla signora Giselda, scritta dal Verga il 14 dicembre 1883, e scoperta casualmente dal Rapisardi la mattina del 19 dicembre, fu il detonatore che fece esplodere una situazione insostenibile e restituì la «libertà» alla Giselda. Non commentiamo la lettera, su cui si sono soffermati tutti i critici e gli studiosi verghiani (21).
Cacciata immediatamente da casa (ebbe due ore per preparare la valigia con le cose indispensabili, vestiti ed oggetti personali), la Giselda uscendo dalla casa maritale si recò in via Sant'Anna per rendere edotto Giovanni Verga, che dichiarò di non poterla accompagnare perché «devo restare a disposizione di lui», per un duello non eventuale, anzi improbabile anche per la persona dello 'sfidato'. Ricordiamo che il Rapisardi, nel 1881, quando la polemica con il Carducci toccò l'acme, dopo avere discusso con gli amici Gaetano Ardizzoni e Gabriele Giuffrida il tipo di risposta da dare, così scriveva a Calcidonio Reina «... ed escluso il duello, che sarebbe ridicolo tra due persone tenute in conto di serie, né potendo io, con questa mia salute, condurmi in Bologna a schiaffeggiarlo in pubblico,...(22).
Il Verga, invece, le suggerì l'itinerario: una sosta a Roma e poi «... a Firenze le consigliò di andare dalla Contessa Lara fi/io al suo arrivo», e concludendo con una dichiarazione impegnativa, molto impegnativa, ossia «di contare su di lui da quel momento per qualsiasi aiuto morale e materiale». A Firenze venne a mancare l'ospitalità della Contessa Lara, perché assente (23).
Dopo qualche giorno la Giselda, da Firenze, scriveva alla signora Maria Aradas Bruno, un'amica molto comprensiva, per scusarsi del silenzio dovuto alla «catastrofe» e allo sconvolgimento nell'ultima
(21)  M. BORGESE, op. cit., pp. 389-391 (testo); le rettifiche, alle aggiunte fra parentesi quadre del Tomaselli, alle pp. 394-96; Nel 1922 era stata pubblicata da A. TOMASELLI, Epistolario, op.cit., pp. 483-85.
(22) A. TOMASELLI, Epistolario di M. Rapisardi, op. cit., pp. 132-33; la lettera è del 19 aprile 1881 (il corsivo è mio).
(23) M. BORGESE, op. cit., p. 392 (il corsivo è mio). La Giselda alloggiò per un certo tempo alla Pensione Benoit, Lung'Arno Serristori, 13.

settimana della sua vita e, tuttavia, con temperamento e determinazione, affermava «A non credere già che io sia pentita di quel che ho fatto, né sgomenta; cosa fatta capo ha, e forse tutto il male non vien per nuocere» (24).
Da quanto tempo durava la relazione? Ascoltiamo ora la parola del Rapisardi, che in una lunga lettera confidenziale all'amica signora Lida Cerracchini affermava recisamente «Ella sappia dunque (...), che cotesta signora mi ingannava e mi tradiva da parecchi anni. N'ebbi sentore e sospetti ben fondati e quasi certezza molto tempo fa; fui per ucciderla; ma ella sfuggì alla mia collera e riparò in casa di miei cugini che me la riportarono il giorno dopo. Pianse, mi si gettò alle ginocchia, mi supplicò di tenerla in casa mia, anche alla Punta purché almeno mi vedesse da lontano di quando in quando, mi giurò che non era scesa fino all'ultima abbiezione,...» (25).
D'altra parte la Giselda, scriveva la Borgese, ammetteva il precedente come una colpa grave e un rimorso costante e il corrispettivo atto di bontà elargito e non meritato «Ma non se la sentiva più di mentire; le avrebbe troppo ripugnato, avrebbe sofferto ancora troppo a continuare a quel modo, e si accusava d'essere stata vile quando Rapisardi aveva trovato la prima volta i biglietti: aveva accettato una bontà, che lei non meritava e che Rapisardi non meritava di farle» (26).
(24) M. BORGESE, op. cit., p. 393 (il corsivo è mio). Nella lettera la Giselda raccomandava di mantenere il segreto sull'opera di intermediaria svolta dall'interlocutrice per le lettere scambiate con il Verga. Nonostante la preghiera, la lettera pervenne al Rapisardi e fu inserita nel 1922 in A. TOMASELLI, Epistolario, op. cit., pp. 485-86, G. Fojanesi alla signora Maria Aradas Bruno, Firenze 25 dicembre 1883.
(25) A. TOMASELLI, Epistolario, op. cit., pp. 207-210, Mario Rapisardi a Lida Cerracchini; la lettera, senza data, va collocata nei primi del 1884 (il corsivo è mio).
(26)  M. BORGESE, op. cit., p. 391 (il corsivo è mio).

3. Giovanni Verga, amante di Giselda, un comportamento "disinvolto" che ricerca e coltiva nel contempo altre relazioni.
Un interrogativo è, a questo punto, d'obbligo: questa relazione amorosa - iniziata nel 1875 ed esplosa alla fine del 1883 - per quanto tempo continuò ancora? Non è un interrogativo posto dalla curiosità, e quindi ozioso, giacché la risposta potrebbe contribuire a definire l'accadimento un grande amore per entrambi (o per uno dei due) o una grande passione che bruciò intensamente una stagione dell'esistenza e si spense senza ritorno di fiamma.
Molti studiosi hanno dedicato attenzione all'eros verghiano, con monografie, con saggi introduttivi alle raccolte di lettere d'amore pubblicate, o incidentalmente in articoli 'leggeri' di puro intrattenimento. Con questa nostra indagine cercheremo alcuni punti fermi e, nel contempo, di scoprire se vi furono altre 'interferenze' femminili coeve e, quindi, se Verga ebbe in questa sfera una doppia personalità. A qualsiasi tipò d'ìndagini mancheranno sempre due piloni fondamentali: le lettere di Giselda a Verga, che egli conservò e furono distrutte alla sua morte (dal nipote Giovannino, confortato dal parere di Federico De Roberto) e quelle indirizzate alla donna (conservate gelosamente: che fine hanno fatto?); la Giselda reagì ben presto ad un ruolo meramente subalterno ed iniziava un anno dopo la carriera scolastica come ispettrice degli Educandati femminili, rimanendo nei ruoli dello Stato fino al 1923.
La precedenza spetta alle donne, ossia alla Borgese - che nel saggio più volte menzionato è l'eco della Giselda, con notizie attinte direttamente alla fonte - e, dopo, alla protagonista medesima, che successivamente al saggio della Borgese scrisse alcune lettere (oltre sessant'anni dopo la fase iniziale della relazione!), sorprendenti per la freschezza e la precisione espositiva e che, senza finzioni, mettono a nudo sentimenti e femminilità.
La Borgese, riguardo alla durata, optava per tempi piuttosto lunghi, ma indefiniti «In seguito lo scrittore semprechè poteva si recava dovunque il suo impiego conducesse la Giselda», ma ciò è improbabile conoscendosi in dettaglio le tappe della carriera della Fojanesi: e, nel contempo, subito dopo aggiungeva, attenuando l'affermazione iniziale «ma la vita sempre più costringeva la donna esclusivamente al lavoro per sé e per la madre» e, quindi, la continuazione fu interrotta, anche con riferimento allo scrittore con altre preoccupazioni ed assorbito da altre cure «... e d'altra parte anche Verga a quello per la famiglia che totalmente un poco per volta lo assorbì e lo confinò in Sicilia» (27).
Subito dopo, la Borgese cercava di porre in evidenza le cause che spinsero Verga nel 1886 a partire da Milano, ma l'avere anticipato eventi luttuosi ancora lontani nel tempo a venire, ma ravvicinati nel testo, è fonte di distorsione e di errori: «fin dall'86 Verga dovette lasciare Milano per la morte del fratello che gli abbandonava i suoi tre figli» (28). Il fratello Pietro, padre di tre figli, morirà nel 1903, ossia ben diciassette anni dopo! (29). La data della morte del minore dei tre nipoti, Marco, è ancora più lontana, nel 1905, ma arbitrariamente collocata nel medesimo contesto «egli ne annunziò la perdita alla Giselda con parole addirittura strazianti» (30). Quest'ultima notizia indurrebbe a ritenere che venticinque anni dopo (o trenta, secondo la data iniziale), vi era una corrispondenza attiva; ma l'amore di un tempo, concludeva la Borgese, «si mutò in un affetto che né la distanza né gli anni diminuirono». Comunque, nell'anno 1886 troviamo Verga attivo e premuroso, anche sul piano letterario, a favore della Giselda completando perfino un racconto «Ultima lezipne di musica», inserito nel volume Cose che accadono (31).
Apprendiamo ora dalla fresca prosa della protagonista - vivace nonostante i novant'anni! - lo svolgimento dei fatti e della vicenda, è cogliamo taluni nessi e tocchi di donna innamorata. Le lettere dirette a Nino Cappellani, studioso di Mario Rapisardi (32) e di Giovanni Verga (33), sono state pubblicate, dopo molti anni, dal medesimo Cappellani e sono ancora oggi interessantissime (34).
(27)  M. BORGESE, op. cit., p. 396.
(28)  M. BORGESE, op. cit, loc. ult. cit.
(29)  Cfr. G. RAYA, Bibliografia verghiana, op. cit., p. 159, "scheda' 1667. È riportato il testo della partecipazione a stampa (morto il 21 aprile).
(30)  M. BORGESE, op.cit., loc. ult. cit..
(31)  G. FOJANESI RAPISARDI, Cose che accadono, Zanichelli, Bologna, 1886. Il volume non è, purtroppo, reperibile nelle Biblioteche catanesi. Alcuni anni dopo fu ristampato dall'editore Giannotta con il titolo In Sicilia e in Toscana.
(32)  N. CAPPELLANI, Mario Rapisardi, Catania, Studio Editoriale Moderno, 1931, pp. 235; Giselda è ricordata nei versi dei Poemetti, (ivi, pp. 201-202).
(33)  N. CAPPELLANI, Vita di G. Verga, Firenze, F. Le Monnier, 1940, pp. 460; ID., Opere di G. Verga, Firenze, F. Le Monnier, 1940, pp. 440.
(34) N. CAPPELLANI, Conclusioni critiche sul Verga, F. Le Monnier, Firenze 1954, pp. 48-53. Riteniamo di ripubblicarle (v. Appendice II, "C").

Di particolare interesse la seconda (Milano, 20 febbraio 1941) (35), che puntualizzava alcuni ed esalta altri punti nodali:

a)  speranza di una dichiarazione di amore del Verga (attesa nell'estate/autunno del 1869 e delusione «rimasi molto delusa»);
b)  II atto: «prima sorpresa, poi affascinata, dall'amore scoppiato in Rapisardi, per il quale, dopo la brutta impressione dei primi giorni, nacque in me l'ammirazione per il suo ingegno...», poi il matrimonio con il prof. Rapisardi, diciamo di convenienza, preparato dalla signora Teresa;
c) dopo il matrimonio, amori e nuovi amori di Rapisardi, e quindi l'ineluttabilità «... come io mi staccassi sempre più da mio marito, sempre sotto l'assillo di un nuovo amore»;
d)  IV atto: «Vero verissimo il mio incontro, nell'estate del 1880, con verga, in piazza S. Gaetano, a Firenze, cosa che, certo, non potrei documentare, ma che accadde...»; l'insistenza e la cura dei dettagli è sospetta, pressoché incredibile la casualità dall'incontro (36);
e)  V atto: la giostra amatoria è un rapporto di conseguenza «... e fu dopo quel giorno, che la nostra relazione intima (non tresca, la brutta parola) incominciò e durò fino alla morte del caro, indimenticabile amico,...»: la relazione sembrerebbe senza soluzione di continuità usque ad finem (intuiamo, leggendo questo brano, l'alta pressione del desiderio e i sentimenti di passione che scaturirono);
f)   aggiungeva, però, subito dopo: «passando dalla passione a una tenera e buona amicizia, dopo che, per la morte del fratello Pietro e della moglie di questo, Giovanni tornò definitivamente a Catania»; le osservazioni fatte all'assunto della Borgese valgono per la Fojanesi (la morte della signora Ersilia Patriarca in Verga avvenne a fine agosto del 1896, e la dipartita del marito Pietro nel 1903);
(35)  N. CAPPELLANI, op. ult. cit., pp. 49-51.
(36) Un eminente studioso del Verga, G. Raya, anticipa di cinque anni l'incontro di Firenze e quindi la relazione: «Un nuovo incontro col Verga, forse a Firenze nell'estate 1875, forse anche prima, rinnova l'antica fiamma; e la tresca continua a Catania fino a metà dicembre 1883...» (G. RAYA, Eros verdiano, Roma, Ed. «Fermenti», 1985, p. 6).

g) dopo la fase in apnea, un'affermazione di esultanza «Veniva raramente da allora a Milano, ma sempre ci vedevamo» (il corsivo è mio). La Borgese e, a maggior ragione, la Fojanesi non pensano, e quindi escludono, altre liaisons dangereuses ed altri viaggi del Nostro, che non rimase 'confinato' a Catania.
Al termine della lettera vi è un cenno sui due volumi letti: Vita di G. Verga e Opere di G. Verga. «Non so se ce ne siano altri». Nessuna curiosità e nessuna domanda all'interlocutore ed autore, se per caso abbia pubblicato qualcosa anche sul caro primo Estinto, di cui era la vedova, con pensione di reversibilità!
Il passaggio dalla passione all'amicizia, che rimase inalterata nonostante il lungo tempo trascorso (quasi trentacinque anni nel 1920), è documentata dalla lettera inviata dal Verga agli auguri formulati dalla Giselda (Fojanesi ved. Rapisardi) per il suo 80° compleanno:

«Grazie, grazie di cuore, Buona e Cara Amica del pensiero e del ricordo che mi è sempre caro e che ricambio cordialmente coi migliori auguri e saluti. «Catania, 8-9-920                                                            G  Verga>> (37)
Abbiamo, con gli interventi precedenti, posto le premesse anche per un altro argomento solamente sfiorato, con le perplessità suscitate dalle conclusioni della Giselda «Veniva raramente da allora a Milano, ma sempre ci vedevamo», cioè se il Verga considerata esaurita, riteniamo nel 1886 (38), la fase della passione amorosa, abbia iniziato subito dopo la relazione con la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo (mentre continuava, non lo dimentichiamo, quella con la Contessa Paolina Greppi Lester). Il Cattaneo, a tale proposito, scrive che era più antica anche se documentata dal 1889, «sia pure irregolarmente, data la prudenza del Verga, l'avventura doveva durare da un pezzo quando, nel '91, la contessa rimase vedova...» (39).
(37) N. CAPPELLANI. Conclusioni critiche su Verga, op. cit., p. 52: Milano, 5 aprile 1941.
(38) Per un periodo più limitato è il Cattaneo, che situa «fra l'80 e l'84» l'inizio ed il culmine della relazione con la Fojanesi (G. CATTANEO, op. cit., p. 280).
(39)  G. CATTANEO, op. cit., loc. ult. cit.


domenica 30 novembre 2014

G. Verga, F. De Roberto e Ricordi - Bozze del contratto per il libretto della Lupa - 1891


Scritto da Simone Ricci

Il "ferro" del Verismo andava battuto finché era caldo: si può forse riassumere con questo modo di dire riadattato la vicenda che ha visto come protagonisti Giacomo PucciniGiulio Ricordi e Giovanni Verga. Una vicenda che si colloca storicamente nel periodo in cui le opere liriche cercavano di seguire l'esempio lanciato nel 1890 da "Cavalleria rusticana" di Pietro Mascagni, il cui successo internazionale aveva intensificato la ricerca di soggetti simili. Questo sforzo cominciò prima ancora che "Manon Lescaut", il primo vero trionfo di Puccini, fosse rappresentata per la prima volta al Regio di Torino (1° febbraio 1893). Bisogna infatti tornare indietro al 1891.
Lo stesso Ricordi aveva deciso di siglare un contratto con Giovanni Verga: lo scrittore siciliano aveva il compito di fornire un nuovo libretto, prendendo spunto da una novella tratta da "Vita dei campi", un impegno da portare a termine insieme a Federico De Roberto, altro rappresentate del filone verista. Si trattava de "La lupa", la storia di una donna siciliana piuttosto "vorace" dal punto di vista sessuale (la pubblicazione della novella in questione risaliva al 1880). Comincia in questo maniera la storia di un'opera che non vedrà mai la luce, a causa di una serie di eventi concomitanti, primo fra tutti il maggior interesse nutrito da Puccini nei confronti di quella che poi sarebbe diventata "La bohème".

In seguito alla stesura del contratto, il lavoro era proseguito senza grandi squilli di tromba. Verga era ben immerso nella stesura del libretto, tanto che la sua novella si trasformò rapidamente in un dramma. Nel 1893, il compositore lucchese approvò il primo abbozzo, chiedendo comunque qualche lieve modifica: ad esempio, la parte della figlia della "lupa", Maricchia, aveva bisogno di maggiore tenerezza. Verga andò ben oltre le richieste di Ricordi e nel 1894 l'abbozzo stava prendendo sempre più forma, al punto che Puccini dimostrò un entusiasmo crescente.  "La lupa" aveva buone possibilità di vedere la luce di lì a poco, come testimoniato da una lettera di Verga a De Roberto:

Perché continui a essere felice, ora che sembra così ansioso di cominciare, potresti mandarmi una scena dopo l'altra appena le hai terminate.
Ma cosa pensava esattamente Puccini di questo progetto? A parte qualche scarno riferimento nelle sue lettere (Io per ora lupeggio), il suo obiettivo era quello di mettere in musica un'opera breve, di dimensioni non superiori ai "Pagliacci" o "Le Villi", un atto unico che necessitava di numerosi tagli. Ricordi pensò bene di far visitare Catania al suo pupillo, in modo da assorbire l'atmosfera locale e immedesimarsi meglio. Le distrazioni della Bohème, però, erano troppo forti per fargli pensare a un allestimento del genere. 
La tappa siciliana confuse ancora di più le idee. Una volta tornato a Torre del Lago, Puccini confessò a Ricordi di avere parecchi dubbi sulla Lupa: non voleva accantonare nessun progetto, ma il soggetto di Verga non faceva evidentemente per lui, come spiegato nel viaggio di ritorno alla contessa Blandine Gravina. Il musicista toscano la ascoltò disapprovare lo scioglimento del dramma, vale a dire l'uccisione della protagonista nel corso di una processione. Verga iniziò a sospettare che Puccini lo prendesse in giro, ma attese ben diciassette anni che la sua novella fosse messa in musica, prima di puntare su altri autori. 
Temo che sarà minestra riscaldata. Io e Ricordi parleremo insieme al Puccini, che vuole e non vuole, e lo metteremo al caso di dir netto sì o no.
L'amarezza dello scrittore è più che palpabile (la lettera risale all'estate del 1893), un sentimento che sfocerà in breve tempo in rassegnazione. Bisogna però sottolineare come il tempo perso con "La lupa" non fu inutile e sprecato in senso assoluto. In effetti, Puccini si ispirò a questi abbozzi per comporre il tema di Rodolfo nella Bohème, mentre altre idee e spunti furono sfruttati in seguito per la "Tosca". 
Soltanto nel 1948 (Verga e Puccini erano morti da oltre due decenni), la novella verghiana diventò un'opera, grazie a Santo Santonocito, il quale si avvalse del libretto di Vincenzo De Simone. Chissà come sarebbe stata la Lupa pucciniana: nessuno può dirlo, la vicenda verrà ricordata per i ripensamenti, i sospetti e le indecisioni dei protagonisti, il compositore scartò molti soggetti nel corso della sua vita, ma in questa occasione fu molto vicino a portare a termine il lavoro, prima di metterlo da parte in maniera definitiva.
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Bozze contratto, collezione privata di F. De Roberto (inedito)









sabato 8 novembre 2014

Pietro Antonio Coppola un musicista insigne - 1793 / 1877.

foto con dedica a F. P. Frontini


Che il nome di P. A. Coppola ricorra frequentemente nella memoria dei catanesi non si può negare. Purtoppo, però — ripetendo quanto scriveva il «Bellini», giornale letterario artistico teatrale, che ebbe lunga vita e larga rinomanza, nel numero 424, anno XXVI del 15 maggio 1901 — non si può nemmeno negare che il Coppola, tanto onorato in vita, è stato completamente trascurato dopo la morte. Se ne togli infatti il pregevole mezzo busto eseguito dallo scultore catanese Salvatore Grimaldi e collocato al Giardino Bellini nel 1874, vivente il Maestro; se ne togli la via a lui intitolata, oggi non c'è altro che ricordi quest'altra gloria musicale catanese, perchè distrutto è ormai quel Teatro Comunale che portava il suo nome, negletta la tomba nel nostro Cimitero, e priva tuttora del monumentino che doveva essere eretto con le lire tremilasettecento deliberate dal Municipio pochi anni appresso la morte del Coppola; né le sue opere, come quelle del Pacini, del Platania, del Savasta, di Giuseppe Perrotta, di F. P. Frontini, di Gianni Bucceri, di Santo Santonocito, di Alfredo Sangiorgi e di altri, ricorrono più in alcun repertorio, se non molto raramente.

Di «statura regolare, piuttosto robusto, carnagione biancorossa, occhi cerulei», il suo ritratto, che ora figura alla Mostra di Catania fra quelli di altri illustri catanesi, fu donato dallo stesso Maestro alla nostra Università, rispondendo all'invito espressamente rivoltogli. Ecco, infatti, quanto, con sua lettera del 2 settembre 1858, scriveva al Coppola il Presidente della Deputazione della Regia Università agli Studi di Catania, Ferdinando Cutrona: Signore, la Deputazione ha deliberato consacrare alla pubblica riconoscenza dei posteri a memoria di quei sommi che hanno illustrato Catania e questa R. Università nei suoi rami dello scibile umano. Riunire i ritratti nelle principali aule della stessa che si trasformerebbero per così dire in un Pantheon Catanese, e questi ritratti procurarsi dalle famiglie o da coloro che le rappresentano è stata Videa più facilmente realizzabile e si è quindi adottata. Ella che tanto onora questa terra natale per le dotte produzioni musicali che la designano come uno dei più distinti Maestri in quell'Arte, merita sedere tra i primi posti di sì bella coronai di eletti ingegni. E però la Deputazione la prega volerle regalare, per sì onorevole destino, protestandosi per atto di tanta cortesia temutissimo. Il Presidente Ferdinando Cutrona.
Questa lettera (che si legge a pag. 49 di una vera Biografìa del Maestro Pietro Antonio Coppola, con tutti i documenti inediti trovati dopo la sua morte per Giuseppe De Felice Giuffrida, edita in Catania dalla Tipografia Popolare di Andrea Cavallaro, via Montesano, Casa Calvagna, 1877), testimonia più e meglio di qualunque altra notizia quale alta reputazione circondasse il Coppola.

Ingegno precoce, nato come Bellini da una famiglia di musicisti, a 17anni, non solo P. A. Coppola era chiamato a dirigere, come maestro di cembalo e concertatore, il nostro Teatro Comunale, dove suo padre, Giuseppe, era maestro concertatore fin dal 1795, anno in cui s'era trasferito con la famiglia da Castrogiovanni (Enna) a Catania, ma si faceva apprezzare per la severità dei suoi studi e per gli Inni, le Cantate, i Dialoghi, le Sinfonie, ecc. che componeva. Ma, apparso il 18 novembre 1825 il suo primo spartito, «Il Figlio del bandito», Pietro Antonio Coppola, a dire dei contemporanei, spiegò la scintilla del suo genio.
A quella prima opera seguirono «Achille in Sciro» e «Artale d'Alagona», date nello stesso «Comunale» di Catania, rispettivamente nel 1829 e nel 1830.
«Achille in Sciro» piacque tanto che il famoso impresario Barbaja lo richiese per il «San Carlo» di Napoli, dove fu rappresentato nella quaresima del 1831 presenti e plaudenti Rossini, Donizetti, Raimondi.
La gloria incomincia ad aureolare la fronte di P. A. Coppola, che da Napoli passa a Roma, dove la sera del 14 febbraio del 1835 egli trionfa al Teatro Valle con la «Nina pazza per amore», considerata il suo capolavoro e che richiamò sul Maestro l'attenzione dei principali teatri di Europa e d'America, particolarmente dell'I e R. Teatro di Musica Italiana di Vienna e del San Carlos di Lisbona. E nel giugno del 1836 all'Imperiale di Vienna il Coppola, con la musica tutta anima e brio della «Festa della Rosa», riscaldò a tal segno quei freddi spettatori che non seppero più frenarsi dal chiamarlo al proscenio e colmarlo di fiori. E quando, uscito dal teatro, egli salì in carrozza per farsi condurre a casa, la folla, in preda ad un indescrivibile entusiasmo, staccò i cavalli e trascinò a mano la carrozza, illuminando il percorso con torcie accese; L'eco di quel successo, per cui il Coppola fu salutato cardinale dell'Arte musicale valicò monti e mari e da ogni dove giunsero al Maestro attestazioni di compiacimento. Assai significative sono: la lettera dell'Intendente del Valle di Catania al Patrizio della Città e quella del Segretario del Decurionato.
Questo ultimo, nella seduta del 25 aprile 1838, approvava la proposta del Segretario Salvatore Leonardo, di coniare in onore del Maestro P. A. Coppola una medaglia di oro del valore di onze cinquanta, ma il Governo borbonico, nemico della gloria e del progresso e uso ad avversare tutto ciò che si facesse di bene, di buono e di bello, non volle acconsentire. Qualche anno dopo gli veniva intitolato il Comunale.
Tutti i teatri in Italia e all'Estero, si contendevano ormai le opere del Coppola, e così ecco alle vecchie aggiungersi le nuove: dalla «Bella Celeste degli Spadari» al «Postiglione», date, nella primavera del 1837 rispettivamente alla «Cannobiana» e alla «Scala» di Milano; dalla «Giovanna P Regina di Napoli» all'«Ines de Castro», date al «San Carlo» di Lisbona; dal «Folletto», dato a Roma nel 1844, all'«Orfana Guelfa», che fu definita opera degna di stare a fianco di quelle dei più celebri maestri del secolo e che fu rappresentata nel 1846 al R. Teatro Carolino di Palermo, dove l'anno appresso fu dato il «Fingal», opera di grande spettacolo.
Resosi vacante il posto di direttore del Conservatorio Musicale di Palermo, già tenuto da Pietro Raimondi, il Principe di Satriano, Viceré di Sicilia, così, fra l'altro, in data 7 luglio 1853, scriveva  al  Coppola:   Onoratissirno Signore...  Epperò a bella fama del profondo sapere musicale che di lei corre, per la testimonianza brillante delle Opere con tanto plauso universalmente accolte, e l'essere Ella nativo di questa Isola, farebbero dare a Lei la preferenza quando si avesse certezza che le individuali di Lei convenienze le consentissero di fermare in Palermo la sua dimora; con percepire un annuo assegnamento di 900 ducati, oltre della casa tolta in affìtto dal Conservatorio.
Ma il Maestro Coppola non accetta: anziché dalla cattedra egli vuole insegnare dalla scena con le opere.
Dopo tanto peregrinare, nel 1865, vinto dalla nostalgia di rivedere la casetta nella quale aveva imparato dal padre i primi elementi di musica, viene a Catania; vi è accolto trionfalmente: strade illuminate a festa, bande, rappresentazioni e balli al Teatro Comunale. In quella occasione egli dedica a Catania la sua ultima opera «Matatia vincitore» e il Comune gli offre «un medaglione d'oro del valore di lire 1275» (ossia cento onze): Al Creatore d'armonie, la Patria.
Ritornato a Lisbona, egli suscita ancora entusiasmo ed ammirazione con una recita, il 4 marzo del 1871, della «Bella Celeste»; ma ora P. A. Coppola non corre più dietro l'ispirazione e, inoperoso, lascia che gli allori appassiscano sulla sua fronte. Un tarlo ora lo rode: il desiderio di passare in patria gli ultimi anni della sua vita.
Conosciuto questo suo desiderio il Sindaco di Catania Antonio Paterno Marchese del Toscano, ecco una deliberazione del Consiglio Comunale con la quale si accordava al Maestro P. A. Coppola una annua pensione di L. 2.400, da percepirla durante la sua dimora in questa città, coll'obbligo di prestarsi alla direzione ed assistenza degli stabilimenti musicali, in cui il Municipio potrà utilizzare l'opera sua.
E il primo gennaio del 1872 il Maestro Pietro Antonio Coppola rientra a Catania. Di nuovo nelle sue mani, il Teatro Comunale assurge ad un livello artistico considerevole.
Ma ormai la vita del Maestro volge alla fine: nato FU dicembre del 1793, il Coppola conta già 84 anni quando, la mattina del 13 novembre 1877, alle ore sei e cinquanta minuti, si spegne: la sua ultima opera era stata un omaggio a Bellini: quella «Messa da Requiem» che, eseguita in Cattedrale il 24 settembre 1876, tumulandosi le ceneri del Cigno, fu giudicata veramente grande.
Nel numero del giornale «Bellini», del 15 maggio 1901, citato in principio, si legge che, sul punto di morire, Pietro Antonio Coppola fu sorpreso dal suo confessore Padre Guglielmino, che lo assisteva, a battere il tempo musicale. Esortato a dimenticare la musica e pensare al Cielo, il Maestro, raccolte le ultime forze, rispose: Ma son celesti melodie; e tranquillamente spirò.
Francesco Granata, 1953

***
Coppola compositore drammatico, nacque a Castrogiovanni (provincia di Caltanisetta) l'11 dicembre 1793 ; morì a Catania il 13 novembre 1877.
Studiò la musica dapprima con suo padre, maestro di cappella,  fu per breve tempo al Conservatorio di Napoli, ma la sua educazione musicale la completò in massima parte da solo studiando i trattati degli importanti teorici francesi e tedeschi.
- A 23 anni esordì come compositore drammatico coll'opera: I/ Figlio del bandito (Napoli, teatro del Fondo, 1816), alla quale seguirono: Achille in Sciro (ivi, 1825) e Artale d'Aragona (Catania, 1834) che non ebbero però --specialmente l'ultima - grandi successi.
Il maggior successo l'ebbe con l'opera : Nina pazza per amore (Roma , teatro Valle, febbraio 1835) che gli valse una grande popolarità, e che entusiasmò gli spettatori di tutti i principali teatri d'Europa; questa opera fece in breve tempo il giro d'Italia, la si diede a Vienna, Berlino, Parigi (teatro Italiano, 6 maggio 1854; già prima - nel 1839 - venne data, ridotta per l'opera francese, col titolo di Eva), Lisbona e più tardi ebbe uguali successi in Messico.
Gli spartiti che seguirono furono : Gl' Illinesi (Torino , teatro Regio , 26 dicembre 1836); La Festa della Rosa o Enrichetla di Baienfeld (Vienna, teatro Italiano, quaresima 1836); La Bella Celeste degli Spadari (Milano, teatro Canobbiana, 14 giugno 1837); 1l Postiglione di Longjumeau (Milano, teatro alla Scala, 6 novembre 1838); Giovanna I di Napoli (Lisbona, teatro S. Carlo, 11 ottobre 1840); Ines de Castro (1842);
// Folletto (Roma, 1844); L'Orfana guelfa (Palermo, teatro Caroline, quaresima 1846) e Fingal (quaresima 1847).
- Dal 1839 al 1842, e dal 1850 al 1871 visse a Lisbona in qualità di direttore di musica al teatro S. Carlo, nonchè del teatro del conte Farrobo, per il quale scrisse tre opere in lingua portoghese ed una francese.
- Nell'autunno del 1873 si stabilì in Catania ove, dietro speciale invito del Comune, assunse la direzione degli Istituti musicali della città.
Visse qui gli ultimi anni di sua vita onorato e stimato da quanti ebbero la fortuna di avvicinare quell' ingegno.
Nina Pazza Per Amore: The Love Mad Nina; a Comic Opera in Two Acts as ...  - P. A.  Coppola,  
P. A. Coppola offre questo piccolo autografo 
al giovane Frontini, allievo prediletto ...


giovedì 6 novembre 2014

Filippo Liardo (Leonforte, 1 maggio 1834 – Asnières, 19 febbraio 1917) è stato un pittore italiano

Disegno di F. Liardo - Collezione Francesco Paolo Frontini

FILIPPO LIARDO
Nacque a Leonforte da Salvatore e da Rosalia Pappalardo, catanese, il 1° maggio del 1840. A venti anni lo troviamo a Palermo, avviato alla pittura; ma era quello il sessanta, l'anno dei Mille, e Liardo, indossata la camicia rossa, tra una schioppettata e l'altra, gettò le basi del quadro "Il bombardamento di Palermo" col quale, cinque anni appresso, tenterà la conquista di Parigi.
Sebbene in un volume uscito in Francia nel 1803, "Nos peintres, dessinés par eux mèmes", egli abbia tracciato un vivacissimo ritratto di se stesso, poco conosciamo del periodo che va dai primi tentativi palermitani al viaggio a Pariggi. 
Sappiamo solo che, promosso ufficiane sul Volturno e sciolto l'Esercito garibaldino, Liardo rimase a Napoli a studiare, probabilmente iscritto in regola a quell'Accademia; che nel '64 espose a Firenze e che l'anno appresso si presentò a Parigi col "Bombardamento" anzidetto e con un gran numero di disegni colti dal vero durante la meravigliosa Epopea. Il successo gli arrise e i maggiori giornali illustrati del tempo:"L'illustrazione" di Londra e "Le monde illustre" ai quali si aggiunse poi "La vie elegante", lo presero come disegnatore-reporter, a fianco dello spagnolo Daniel Urrabieta y Vierge, il famoso illustratore del "Pablo di Segovia" e dei primi capitoli del "Don Chisciotte". Nel '66 rieccolo ancora in Italia, dove segue le sorti garibaldine nel Trentino (un ritratto ad olio del Generale ed una mirabile raccolta di disegni di guerra furono il frutto di quella sfortunata campagna), e nel '70 a Roma, dove dipinse tre ritratti di principesse di Casa Borghese. Dopo, si stabilì definitivamente a Parigi e vi morì settantenne; pare in miseria.
Come disegnatore di riviste e di giornali illustrati, Filippo Liardo fu un osservatore della realtà brioso, tal'altra lirico, sempre acuto e, per necessità di cose, velocissimo, inquantochè il pubblico chiedeva sempre più forti e nuove sensazioni e l'avvento dell'istantanea e delle riproduzioni fotomeccaniche era ancora di là da venire. Come pittore, ligio all'insegnamento del primo Morelli,ne seguì le orme nobilissime e si accostò ai maggiori esponenti del periodo aureo della pittura francese.
Dei quadri non dispersi nel periodo della Comune, il migliore di quelli conservati in Italia è "La sepoltura garibaldina", oggi nella Galleria d'Arte moderna di Palermo. Sala G
N.266 - Filippo Liardo:  "La bufera" - proprietà, senatore Pasquale Libertini.
Estratto dal catalogo:"MOSTRA RETROSPETTIVA DELLA PITTURA CATANESE"
Catania - Castello Ursino 1-31 ottobre XVII - XVIII
"La sepoltura garibaldina"

***

F. Liardo



Guglielmo Policastro, studioso e scrittore di storia catanese (Catania 1881-1954)



Distillò in una quantità enorme di volumi, opuscoli e articoli i segreti di mille archivi, spesso mai prima esplorati. La biografia del marchese Antonino di San Giuliano fu la sua prima opera di vasto impegno; la seconda fu una Storia del Teatro siciliano (che è del '24). Le sue maggiori fatiche, che lo impegnarono in un estenuante lavoro ventennale, sono Catania prima del 1693 (nel 1693 la città fu ineramente distrutta dal terremoto), Catania del Settecento (ossia dopo la ricostruzione) e Bellini, rispettivamente del 1952, del 1950 e del 1935. Altre biografie, altri studi egli dedicò ai siciliani (Musco, Francesco Di Bartolo, Angelo Majorana, Gioacchino Russo, Orlando, Natale Attanasio) e, più raramente, a italiani d'altre regioni (Mussolini, Oriani, Bissolati, Boselli). Collaborò al Marzocco, alla Lettura, a Matelda, al Resto del Carlino, al Popolo di Sicilia, al Popolo di Roma, al Bollettino della Sera (New York), eccetera. Non ignorò il teatro (Oltre il potere umano, Il ponte della vita, 17 sicretu di Puddicinedda, 'U misi di maiu) né la narrativa (Il cortile di San Pantaleo e Inutilità del bene, romanzi) e la poesia. Prima che morisse, l'amministrazione comunale di Catania gli affidò l'incarico di ricostituire l'archivio storico, distrutto, con tutto il palazzo comunale, dall'incendio sedizioso del 14 dicembre 1944; ma riuscì solo ad accingersi all'opera. Pochi giorni prima di spirare potè mettere invece la parola « fine » a uno studio su Bellini a Parigi e a Londra. - s. Nic.

(1909) LA FONTE
Come un sottile stelo di cristallo, 
fiorito in cima in un azzurro giglio, 
dal centro de la vasca, ov'è un groviglio 
mostruoso di rami di corallo, 

rapido s'erge, un cerulo zampillo 
che scrosciando ricade, poi con roco 
romore ne la conca che trabocca 
d'acqua, ov'un cigno vaga dal tranquillo 
occhio e si sciacqua, or sì, or no, per gioco. 
Canta la fonte sonora con bocca 
una lieta canzone: i lilla a ciocca
olezzano , a l'Intorno ne l'aiuole 
tra l'umor de la vasca e il caldo sole, 
e mirano de l'Acque il dolce ballo.
                                                   Guglielmo Policastro.

***

Ricordo di Policastro
La mia amicizia con Guglielmo Policastro nacque quando io, reduce dalla guerra 915-918, venni dalla mia Giarre, dove ero nato nel 1895, a stabilirmi a Catania. Lui era già maturo e noto. Era nato nel 1881. Io, invece, giovane ancora e agli inizi della mia attività pubblicistica. Poi, a mano a mano che l'amore per la vita e la storia di Catania mi avvicinava e legava sempre più a lui, i nostri rapporti divenivano più stretti e cordiali. Avveniva tra me e Guglielmo Policastro quel che nel medesimo periodo avveniva tra me e Saverio Fiducia. Due miei grandi amici, uno migliore e più caro dell'altro.                          ,
Poi, quando egli mise mano alla selezione e alla raccolta dei suoi articoli, disseminati qua e là in giornali e riviste, per la stampa dei suoi due volumi su Catania, ed io, valendomi di rari preziosi documenti, mi ero già occupato della storia dei Monasteri e della chiesa delle Clarisse in Catania, Guglielmo Policastro, che quei miei articoli aveva letto, mi espresse il desiderio di averli messi a sua disposizione. Inutile dire che fui felice di accontentarlo.
*   *   *
È noto che mentre altrove, dopo il terremoto del 1693, la vita continuò a svolgersi e a fluire senza scosse, a Catania invece, a causa appunto del cataclisma che l'aveva ridotta una immensa e spaventosa montagna di macerie e rovine seppellendovi sotto ben 16.050 abitanti dei circa 25.000 che la popolavano, secondo la relazione del Duca di Camastra, la vita si fermò tra lutti e lacrime dei superstiti. I quali, però anziché scoraggiarsi e fuggire, pensarono, seguendo l'esempio dei loro progenitori, di fare rinascere la loro città così come nel corso dei secoli, altre sette volte fino ad allora era caduta ed era risorta. Infatti, prima ancora che spirasse il triste secolo, la nuova Catania incominciò a delinearsi nelle strade, nelle piazze, nei palazzi, più grande e più bella di quella scomparsa. In una gara meravigliosa tra nobiltà e popolo, tra civili e religiosi, a mano a mano che la città si ripopolava e risorgevano chiese, monasteri, palazzi, ville, scuole, eccetera, la vita, la cultura, la religione il commercio rifiorivano come, ad ogni primavera, rifiorisce la natura.
È stato quindi merito di Guglielmo Policastro quello di aver calato il suo volume « Catania nel Settecento » in quello che fu per Catania il secolo d'oro, così straordinariamente fecondo di intraprendenza, d'iniziative, di coraggio e d'amore, in una parola di opere, senza di che non poteva certo risorgere dalla tremenda catastrofe del 1693. In altre parole, con questo suo libro Guglielmo Policastro ha tessuto un vasto e persino suggestivo diorama della Catania settecentesca.
Certo, non si può parlare di « Catania nel Settecento » di Guglielmo Policastro senza accennare al volume di Francesco Fichera: « G. B. Vaccarini e l'architettura del Settecento in Sicilia ». Il Fichera, però, in questa sua magistrale opera che spazia fra l'altro in tutta l'Isola nostra con frequenti richiami e rilievi non solo artistici e architettonici, bensì biobibliografici, da quel grande architetto e studioso che era, guarda e studia Catania principalmente, più che dal punto di vista storico, da quello dell'architettura e dell'arte, facendo continuo riferimento alle opere del Vaccarini, a cui attribuisce anche la chiesa di Santa Chiara, appartenuta, crediamo, sempre alle Clarisse e mai alle Benedettine, e dovuta all'architetto Giuseppe Palazzotto, come con documenti alla mano ha potuto dimostrare nel 1942 il sottoscritto, vivente l'arch. Fichera (1).
Accanto a « Catania nel Settecento » bisogna ricordare un'altra opera storica del Policastro, cioè « Catania prima del 1693, così notevole e diremmo indispensabile per chi voglia vedere e studiare Catania come era appunto prima del Settecento.
E « Bellini »? Ricco di notizie e avvenimenti anch'esso, nonché di illustrazioni documentarie, per cui meritava una edizione migliore e più degna, « Bellini » è un libro che fa palpitare il cuore dei catanesi, anche perché contiene delle parole (p. 102) rivolte da Vincenzo alla sua mamma veramente commoventi. Parole che oggi, purtroppo, i figli, tranne rare eccezioni, non sanno dire alle proprie mamme.
In seguito Guglielmo Policastro scrisse anche « Bellini a Parigi ». Quanto lavoro, ricordo, e quante faticose, pazienti, instancabili e anche dispendiose ricerche gli costò. Ma con sua grande amarezza non fece in tempo a vederlo stampato. Il manoscritto lo conserva, tra le carte del padre, il figlio avvocato Rosario.
Topo di biblioteca e soprattutto assiduo instancabile ricercatore d'archivio, Guglielmo Policastro, qualificato « diligentissimo » dal maestro Francesco Pastura, un altro grande catanese che, prima di scomparire, ebbe la forza di portare a compimento  il suo « Bellini secondo la storia », elevando all'immortale musicista il monumento più alto e solenne, Guglielmo Policastro, dicevamo, ha lasciato tra i suoi lavori più importanti diversi opuscoli, uno più pregevole dell'altro. Si tratta di: « La Cappella musicale del Duomo e l'Oratorio sacro in Catania nel 1600 », « La musica ecclesiastica in Catania sotto i benedettini (1091-1565) », « Cento anni di attività musicale a Catania e nel Convento di San Nicolò l'Arena », « Musica e teatro nel Seicento nella provincia di Catania », « I Teatri del '600 in Catania »: tutti argomenti che nessuno aveva trattato con tanta messe di notizie e di particolari di prima mano e con tanto zelo. E per dire della loro importanza basti il fatto che furono tenuti presenti dal Pastura nella elaborazione del suo prezioso volume: « Secoli di musica catanese ».
Ma Guglielmo Policastro, ingegno versatile e multiforme, che spiegò la sua attività letteraria, storica, giornalistica, collaborando ad una infinità di giornali e riviste, anche esteri, si occupò anche di teatro. Al teatro infatti diede « Il Teatro siciliano », un volume interessante e utile per la conoscenza di autori, attori e teatri della Catania ottocentesca, compresi quelli delle marionette. Al teatro diede inoltre ben cinque sue commedie, tre in lingua: « Il ponte della vita », « Oltre il potere umano » e « Il cortile di San Pantaleo », e due: « U misi di maju » e « U sicretu di Puddicinedda » in dialetto siciliano. « Oltre il potere umano » fu rappresentato con successo nel 1909 nel nostro Teatro Sangiorgi.
*   *   *
Nato nel 1881 e avviato dal padre all'avvocatura, ben presto invece Guglielmo Policastro abbandonò l'università per il giornalismo. Venne così a trovarsi nella scia luminosa di Giuseppe De Felice («Corriere di Catania»), di Giuseppe Simili («Sicilia»), di Carlo Carnazza (« Giornale dell'Isola »), di Paolo Arrabito (« Gazzetta della Sera »), nonchè del marchese di Sangiuliano e di altre eminenti personalità del mondo politico, giornalistico, della cultura e dell'arte.
E fu proprio all'inizio della sua carriera pubblicistica ch'egli scrisse e pubblicò i suoi primi saggi biografici. Nel 1909 « De Felice » con prefazione di Napoleone Colajanni e un giudizio di Leonida Bissolati. Nel 1912 « Un uomo di Stato: il marchese Di Sangiuliano », con prefazione dello storico Francesco Guardione. Nomi, quelli di codesti prefatori, che bastano da soli a dare la misura del concetto in cui fin d'allora era tenuto Guglielmo Policastro.
Ricordo che spesso, nei momenti di scoraggiamento dovuti agli attacchi del male che ne minava la forte fibra se la prendeva col destino. Diceva che il destino gli era stato avverso. Ma ciò non era vero. Chi non ha qualche cosa da rimproverare al proprio destino?
Che egli non aveva potuto mettere la parola fine o non aveva potuto vedere stampati « Bellini a Parigi », « L'Ottocento musicale di Catania » e « Il Teatro Comunale di Catania », tre lavori ai quali aveva lavorato o stava lavorando con l'impegno e la passione che soleva mettere in tutto ciò che faceva, questo sì, era vero. Ma non pensava, o dimenticava che « per meritare la riconoscenza degli studiosi in genere e dei catanesi in particolare » — come alla sua morte, l'8 agosto 1954, scrisse di lui Saverio Fiducia — bastavano e bastano « Catania prima del 1693 », « Catania nel Settecento » e « Bellini ». - di Francesco Granata 

* Enciclopedia di Catania
* LA SICILIA », 13 agosto 1976.  



sabato 25 ottobre 2014

Zenone Lavagna il pittore votato a grandi cose. Nato a Biancavilla il 14 febbraio 1863

Nato a Biancavilla il 14 febbraio 1863, Zenone Lavagna aveva quattro fratelli (Natale, Salvatore, Antonino e Francesco), e una sorella : Maria. Non si può qui non accennare a Salvatore : medico, letterato e commediografo, che ha lasciato un volume (Camene, Catania 1959) in cui sono raccolti quattro suoi lavori teatrali, tra cui « Thamar », definito da Federico De Roberto « per il disegno e la vigoria di tocco un vero poema drammatico », e « Agata » rappresentata con successo al Teatro Massimo Bellini e all'Anfiteatro Gangi.
Ancora ragazzo, Zenone Lavagna si era fatto notare per le sue spiccate attitudini artistiche. Condotto quindi dai genitori a Catania, qui fu affidato al pittore e pastellista insigne Angelo D'Agata, da poco ritornato da Firenze dove aveva frequentato l'Accademia di Belle Arti. Lo studio del D'Agata era al secondo piano della sua casa in via Madonna del Rosario.
Ottenuto in seguito ai suoi progressi un sussidio dal paese natio, Zenone Lavagna poté recarsi a studiare all'Istituto di Belle Arti di Napoli. Ammesso al corso di figura, divenne ben presto allievo prediletto di Domenico Morelli. Conseguito il diploma passò a Roma per perfezionarsi alla scuola del nudo. E a Roma s'iniziò la sua vita di pittore errabondo. Infatti, oltre che in Svizzera (Zurigo e Locamo) e in Germania, soggiornò ora a Milano, ora a Pallanza, ora a Venezia, ora a Catania, ora a Palermo, dove, colpito da un male inesorabile, spirò nel marzo del 1900 a soli 37 anni.
nudo di donna, collezione Frontini

Al lavoro originale di creazione alternava lo studio delle opere dei grandi maestri, dei quali soleva copiare noti capolavori che poi rivendeva per poter vivere.
A Napoli aveva dipinto fra l'altro una Testa di giovinetta e un'altra Testina (pure di giovinetta), che sono due notevoli pezzi di pittura non foss'altro per il possente rilievo delle loro figure e per la soavità espressiva dei loro occhi.
Quando Zenone Lavagna, dopo aver soggiornato all'estero e in mezza Italia, venne a Catania, mise lo studio, aiutato certo dal fratello Natale, allora Curato della chiesa di S. Cosimo e Damiano, nella chiesa della Confraternita di S. Giacomo, nel medesimo spiazzo della Madonna dell'Aiuto e della Casa di Loreto (« prototipo — dice Guglielmo Policastro — del Santuario Lauretano»). E lì andavano a trovarlo Giovanni Verga e Federico De Roberto, Luigi Capuana e Mario Rapisardi, Calcedonio Reina e qualche volta anche Giuseppe Sciuti, tutti suoi amici e ammiratori del suo genio e della sua arte. Sciuti, dopo aver visto alcune sue tele, gli predisse successo e grandezza. « Voi farete cose grandi », gli disse. E quel vaticinio si sarebbe avverato se il giovane e tra i nostri maggiori pittori dell'Ottocento non si fosse spento allorché il di lui meriggio stava per scoccare, come scrisse Saverio Fiducia in questo stesso quotidiano nel gennaio del 1954.
Giovanni Verga soleva accompagnarsi a Zenone Lavagna e soffermarsi a guardarlo mentr'egli fermava su tela o su tavolette angoli della Catania della fine del secolo. Uno di quegli angoli (un quadretto di cm. 23 x 16) mi fu regalato or son molt'anni, assieme ad una figura terzina di nudo dello stesso Zenone, dal di lui fratello e mio indimenticabile amico dottor Salvatore. Tale quadretto rappresenta l'antica chiesetta di Santa Maria degli Angeli, edificata nel 1383 e assegnata poi ai PP. Cappuccini e tuttora esistente, ma abbandonata, nei pressi dell'icona della Madonna del Conforto, o d' 'u pani cottu, come la chiama il popolo, lungo la via Cifali, che sarebbe stato più giusto chiamarla Cibele.

Fra le opere più importanti di Zenone Lavagna, oltre quelle già citate, sono da ricordare : un ritratto del Card. Dusmet, che dovrebbe esistere alla Curia Arcivescovile ; l'Arabo, una testa trattata con una tecnica comune, sì, ad altri pittori del suo tempo, ma che tuttavia si distacca e differenzia dalla pittura coeva per una personale impronta e vigoria di disegno, impasto e tocco ; il Monaco, che è il ritratto di un noto frate catanese soprannominato Pisasale; i ritratti della Madre e della Signora Concettina. Questi due ritratti segnano, fra l'altro, il passaggio dell'arte di Zenone Lavagna ad una tecnica, per cui essi hanno per lo studioso una rilevante importanza. Si tratta di una nuova tecnica che andò poi sviluppandosi ed evolvendosi attraverso audacie coloristiche che se nell'Ottocento potevano sembrare ed erano tali, ora mostrano invece quanto fossero avveniristiche e precorritrici.
Accanto a codesti due ritratti stanno l'Opera che, ispiratagli dall'omonimo romanzo zoliano, figurò nel 1895 alla Triennale di Brera; Peccato e Perdono, che raffigura un pittore davanti il cavalletto in atteggiamento triste e pensoso con a fianco la modella compresa dell'afflizione del maestro; di Mater Admirahilis, nonché di paesaggi, quali, ad esempio, 77 lago di Como e Rio di Venezia. A proposito di Mater Admirahilis, che è una delle migliori e più avvenenti opere di Zenone Lavagna e della pittura dell'Ottocento non soltanto catanese, essa fu tuttavia respinta da una Mostra religiosa torinese, ma poi, nel 1898, accettata ed esposta alla Mostra Internazionale di Venezia ed acquistata dal cav. Francesco Parisi per la sua Galleria veneziana. Il titolo a codesta opera fu dato da Calcedonio Reina.
Un'opera veramente singolare è la tela che rappresenta : a destra Cristo in croce, a sinistra la Madonna straziata dal dolore e nello sfondo il panorama di Gerusalemme. A parte la bellezza delle figure animate di verità e poesia, la singolarità di questa tela, oltre che nella grandiosità (metri quindici per dieci), consiste nel fatto che mentre il fondo è azzurro le figure sono bianche, un bianco, però, che, col passare degli anni, si è un po' oscurato. Eseguita nel 1896 appartiene alla chiesa madre di Belpasso e viene esposta una volta l'anno dalla domenica delle Palme a Pasqua . A proposito della Pasqua, ecco un particolare che mi è stato raccontato dall'amico belpassese prof. Venero Girgenti. Un tempo, quando la gloria suonava di mattina, verso le ore undici, i ragazzi che affollavano la chiesa fuggivano a gambe levate per andare a prendersi 'i Cicilia, cioè i cuddura ccu l'ova.
A questo punto mi corre l'obbligo di ringraziare non soltanto l'amico Girgenti, bensì, per le notizie gentilmente favoritemi, il parroco Padre Giuseppe Vasta e il signor Antonino Lavagna, pronipote di Zenone, figlio del quasi novantenne nipote Giuseppe, che porta il nome del nonno.
   
nudo di donna 2, collezione Frontini

Ma non possiamo chiudere queste brevi note su Zenone Lavagna senza accennare al suo San Francesco di Paola.
È un'opera firmata. Nessun dubbio, quindi, che sia sua. Ma perché, vien fatto di chiedersi, perché sotto la firma l'artista ha scritto : « dal Tiepolo di Venezia », se non ha nulla che la faccia somigliare a quella del Tiepolo? Proprio nulla. Né l'atteggiamento della figura, ispirata e solenne nel Tiepolo, conclusa invece in una mistica compostezza nel Lavagna ; né la luce che, mentre nel Tiepolo non investe solamente l'immagine del santo ma tutto il quadro, nell'opera del Lavagna è crepuscolare e lo sguardo del santo traluce appena dalle palpebre socchiuse ; né, infine, lo sfondo, grigio nel Lavagna, splendente invece e rallegrato da alcuni angeli nel Tiepolo. Che Zenone Lavagna abbia visto il San Francesco di Paola del Tiepolo e gli sia venuto l'estro di trattare anche lui il medesimo soggetto, questo sì. Ma che poi lo abbia fatto a modo suo, anche questo non si può negare. E così il suo San Francesco di Paola è suo, tutto suo. Se qualcuno avesse dei dubbi, non ha che da andare a Venezia a vedere, nella chiesa di San Benedetto, quello del Tiepolo e poi venire a casa mia a vedere quello del Lavagna. Sì, perché ce l'ho io da circa quarantanni.
Era andato a finire, attraverso chi sa quali e quanti passaggi, nella botteghina di un caro vecchietto nei pressi di San Placido. Me ne parlarono, data l'amicizia che ci legava, il pittore prof. Benedetto Condorelli e il dott. Salvatore Lavagna, fratello, come già detto di Zenone.
Andammo insieme, ricordo, e io comprai il quadro. Lo feci incorniciare e da allora l'ho sempre tenuto nel mio studio.

* « LA SICILIA », 9 marzo 1977. di Francesco Granata
* Catalogo illustrato della « Mostra retrospettiva della pittura catanese » organizzata nell'ottobre del 1939 in Castello Ursino dal quotidiano « Il Popolo di Sicilia ».







domenica 5 ottobre 2014

"La solita canzone" di Gian Pietro Lucini, critica di Gesualdo Manzella Frontini - 1910



Di Gian Pietro Lucini, non appena mi sarà dato, io voglio scrivere a lungo poi che i suoi grandi difetti e le sue meravigliose virtù di Poeta trascendono e sconfinano dai limiti d'una fugace rassegna.
È troppa complessa visione quella della sua anima perchè si possa riportare nei brevi tratti piani d'un articolo senza menomarne i contorni. Io ch'ebbi il piacere di parlare del suo volume penultimo Revolverate, e trovarmi a doverlo difendere dalle anonime scuriate di chi ebbe paura d'immergersi nel mondo pericolosamente ironico  del  Poeta, oggi con allegrezza ritorno all'ordine delle mie idee poi che col nuovo libro La solita canzone Egli dà una riconferma... rinterzata della sua bella e completa figura.

* * *
Non è la solita canzone ch'Egli ci canta, sebbene si compiaccia perdersi tra le grige nebbie d'un titolo repugnante: strana compiacenza di Artista, allora quando altri si scalmana a giocare sull'illusione delle etichette straluccicanti!
La solita canzone: Primavera, senso, fedeltà, stanchezza, desiderio, voluttà, spasimo, abbandono, debolezza... Tutti i motivi della sinfonia, della grande eterna sinfonia polifonica dell'Amore, principio e fine! Ebbene non adorò l'Uomo nella vibratile coscienza primìgena una imagine d'Amore, nel rozzo cervello passata quando selvaggiamente cantava a torno la Natura anarchica? Dice l'Ecclesiaste (I. 9,10): « Quello che è stato fatto è lo stesso che si farà; e non vi è nulla di nuovo sotto il sole! » E dunque le scuole, le chiese e chiesuole, le differenziazioni, le selezioni naturali non sono che modalità: l'Arte è un organismo di natura superiore, ma la sua materia è indistruttibile, eterna, unica e le sue
varietà  sono   soggettive.....   Vecchio
ciarpame questo ch'io vado sventolando, ma è che ancora ci si illude di poter trovare il nuovo assoluto.
Non à forse — sento obiettarmi — ogni movimento artistico riportato sulla via dall'Arte qualcosa che s'era trascurata, o che si era almeno da tempo smarrita dietro un vaneggiare incomposto ?
Io non nego valore all'obiezione affermando che la tecnica, gl'incroci, circostanze di luogo e di tempo abbiano potuto e ci daranno intuizioni, che potranno avere dal soggetto forme varie, ma i motivi nacquero con l'Energia del mondo, sin dal primo sorridere di cielo e lacrimar di stelle tra le tenebre.
La solita canzone ! Ma quali e quanti ravvicinamenti inattesi, quali e quanti accordi inusitati. Egli a volte s'accosta alla natura per una varietà, sonorità, incalzante rapidità di verso, che la Musica del Debussy sino ad oggi solo à saputo raggiungere.
Anima vasta canta su sette motivi differenti la primavera : è preoccupazione del sociologo il quale vede in essa la mezzana dell'aumento straordinario della razza : è la investitrice violenta che sconvolge le quiete coscienze e seduce : è breve inganno e rossa festa : è l'assillo della carne illusa che avidamente vuole : è morte voluttuosa in un bacio: è distruzione: infine è l'alimentatrice della pudredine necessaria che sboccia dai lieviti fermentati.
E su questa eclettica canzone settimina non s'affaccia che una maschera, comica o brutalmente ironica, a ricalcare certe variazioni dolorose: È la maschera del Poeta: innanzi alla tregenda della menzogna, delle ipocrisie, delle doppiezze vigliacche, scintillano i muscoli rilevati d'acciaio e gli occhi taglienti e penetranti della maschera mobilissima. Il Poeta Lucini à della ideal vita un senso eroico di Bontà, Ingenuità, Umanità, Grandezza, e pertanto al suo sguardo, cui non sfugge grinza alcuna delle pieghevoli e cangianti ani-mule, balza il contrasto: Il Poeta allora s'immerge nella lotta, s'azzuffa, svuota la sua sacra bile; oppure gonfia, gonfia le creazioni, vi alita dentro ridendo, e poi d'un tratto spacca con un pugno l'opera vana e ne ritrae la misera otre flaccida; oppure olimpicamente s'abbandona alla visione pura del suo Ideale, ma raramente: O ironia, creazione e distruzione di mondi superiori! Si è detto da alcuni che il Lucini sia maledettamente verboso. E si à torto e ragione.
Per la lunga esperienza fatta sul suo pensiero, speculando, il Lucini ne conosce ogni elemento della complicata composizione chimica, e così passaggi, variazioni, rinsaldamenti, rafforzamenti per una idea che credevamo esaurita, ci sorprendono: questo gioco a volte non gli riesce, e accusa al Poeta la pesantezza.
E quanti di codesti critici vivono — in silenzio — delle briciole di simili ingegni poderosi alla Gian Pietro Lucini, e s'allargano i polmoni piccioletti alle ventate d'ossigeno che la bocca ampia e le labbra instancabili non sparagnano!...
Ed ò detto anche: essi anno pure ragione, ma in un certo senso, poi che notano un difetto, ma ne ignorano la provenienza.
Il Lucini à troppe cose da dire perché la visione del mondo è troppo vasta in lui e profonda ; multiplo congegno intuitivo non sa spesso rispettare il senso della misura qualitativa, e vien fuori materia greggia, concettuale, che non è poesia.
Sarà magari spontaneità d'ispirazione e non volontà dell'Artista, ma la creazione ne soffre come un inquinamento, per un innesto infecondo deleterio.
La poesia procede per imagini — altro vecchio ciarpame e non mai troppo rimescolato — e perciò la terminologia scientifica non è poesia nè tende a divenirlo.
Ma quale delle canzoni del Lucini io dovrò notarvi se mai voleste correre ad esse svolgendo il volume nuovo ? Forse al ditirambo... e per rimuovere il Desiderio?
Ditirambo vertiginoso: esaltazione della vita e dell'amore, in un'orgia di immagini tumultuarie? O pure alla Primavera e gli Alabardieri ove l'impeto selvaggio è contemperato ad una purezza quattrocentesca di Giovinetta che invita dalla barriera, graziosa e ridente? Oppure alla satanica Eva biondina si espone, ove un trattato d'arte di farsi amare trae lacrime da da occhi dolorosi?
Il Lucini bisogna leggerlo e rileggerlo spesso, integralmente: non si presta alle improvvisazioni dei recensori da gazzette, miserabili parassiti d'una mala pianta prodigiosa di notorietà ad ore fisse; nè ai sgargianti papaveri sonniferi d'Italia — speriamo — vorrà venire la bizzarra idea di accorgersi di Lui: Ahi! povero amico come comincio a piangervi!

tratto da, Contemporanei e Futuristi di G. Manzella Frontini - 1910
                                                        
***
In 8, pp. 360 con 1 tav. n. t. Dedica aut. dell'a. al futurista Manzella Frontini. Il poeta siciliano Manzella Frontini, fu tra i primi aderenti al movimento, schierandosi subito sulle posizioni luciniane (insieme ai suoi conterranei Cardile e De Maria), antiborghesi e antidannunziane. Con il 1912 si conclude questa prima fase con l'esclusione dei luciniani. La solita canzone del melibeo chiude la collaborazione di Lucini con le edizioni di Poesia. Questo testo peraltro è considerato come l'esempio migliore di simbolismo italiano. Salaris, p. 25 - 26. ITA

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