Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

giovedì 9 febbraio 2017

Giovanni Grasso - Commemorazione 1931

Dopo un giro in landò per la Catania ottocentesca cinta di bastioni e una sosta nella villetta accanto al mare che vede i signori languidi dinanzi ai gelati di lampone, eccoci improvvisamente in un piccolo, nientaffatto lussuoso, direi quasi informe locale : un freddo corridoio che inghiotte gli uomini ancora storditi dal sole che la piazza accanto investe, un angusto susseguirsi di archi e puntelli, e poi, in fondo, come a concludere le allineate file di alcune panche sgangherate, una panca appena più alta, sollevantesi un metro dal terreno rozzo e alla quale non si potrebbe dare con precisione il nome di palcoscenico. Ecco assorta ed esaltata nello stesso momento, gente del popolo nei cui occhi brilla una luce che prima s'ignorava;



ecco atteggiamenti quasi incompatibili nelle persone che li assumono, ecco mani applaudire, braccia agitarsi in discussioni; nei volti dei cento spettatori mille espressioni, mille volontà, mille volti.
Appena un attimo di silenzio; poi squilla daccapo la voce del venditore ambulante che ti offre una manciata di ceci ; in un angolo — avvolta in una nube di fumo che pare voglia renderla evanescente e voglia farla scomparire come essere misterioso e tenebroso — una donnetta mesce acqua a meno di un soldo il bicchiere dopo che, ad uguale costo ha fornito il pubblico di un biglietto per assistere alla rappresentazione che or ora incomincia. Quasi una bolgia infernale. Un caldo asfissiante, un rumoreggiare di ragazzi e di adulti e di donnicciuole, uno sberleffare e un motteggiarsi a vicenda, un lanciar frizzi, acuti come sa fare il catanese, se per caso si scopre in mezzo al popolino il signorotto che non disdegna di assistere ad  una rappresentazione che ha luogo al Teatro Machiavelli.





La rappresentazione è annunziata da un manifesto murale su cui si è sbizzarrita la fantasia di un pittore da strapazzo : in esso è dipinta, a vivissimi colori, una scena che l'uomo comune non può in alcun modo decifrare ; qualcosa come le anime del purgatorio nel crocicchio dei « bravi » :   uomini   che sembrano alberi dalla gigantesca statura, alberi che sembrano strani insetti mai visti ; una chiesa, una stradicciuola, un'Etna che dovrebbe essere di là dal gruppo descritto e che invece è posta come nel centro dell'abitato e che, con la sua presenza, quasi incombente su uomini e cose, dà forse il senso della grandiosità, dell'infinito e dell'imperscrutabile all'ambiente. Di traverso al cartellone è attaccata  una   trisciolina di carta sulla quale  il calligrafo di turno ha scritto :

OGGI :   « CAVALLERIA   RUSTICANA » CON   FUMO   E   SANGUE

intendendo  dire che i non minuscoli attori di legno dispongono di speciali attrezzi per mezzo dei quali il puparo — che sta dietro le quinte e che, sudato, li manovra — ha la possibilità di presentare i personaggi in maniera assai realista e molto vicina al vero.
Si alza il sipario. Da questo momento incomincia la vita del più grande attore tragico che abbia avuto la Sicilia, d'uno dei più grandi attori che la storia teatrale ricordi.
Se qualcuno, in quel momento, pensò di penetrare, attraverso la piccolissima porta d'accesso al palcoscenico, fino all'angolo nel quale il «puparo», circondato dalle sue marionette e ingrovigliato in mezzo a cassepanche, a fili e ad attrezzi « parlava », come si dice nel gergo, i personaggi — notò certamente che il giovine figlio di don Angelo era come trasumanato.
Occhi egli aveva vivi e profondi, e negli occhi era tutta una vita, tutta una primavera che sbocciava fiori come nei campi della terra che lo aveva visto nascere — e poi la primavera mano mano sbiadiva e lontanava, e tumultuose le nubi che avevano gravato sull'orizzonte foriero di tempeste sopraggiungevano; e gli occhi avevano lampeggiamenti strani; tutta la forza d'una natura esuberante, di un volto capace di assumere mille espressioni, di un cuore che batteva fortemente e quasi ti faceva toccare con mano i suoi palpiti, era in quegli occhi. Il giovinetto che il padre aveva educato a stare rigido dietro le quinte per seguire solo con la voce i movimenti dei suoi « pupi », adesso invece si animava alla vicenda, e le sue braccia descrivevano nell'aria larghi gesti, e poi con le mani si arruffava i capelli corvini e ricciuti — i bei capelli di eterno ragazzo — o si premeva nel petto come per dire che di là, di là scaturiva tutto quel tumulto di passioni, tutta quell'ardente rete d'amore e di dolore, di gelosia e di dolcezze, di voluttà e di amarezze che gli tormentava l'anima e di cui pareva che dicesse ; vedete ? la colpa non è mia ! Intanto i « pupi » seguivano giù, nel breve palcoscenico, la voce; la mano nervosa di chi li manovrava li faceva passeggiare da destra a sinistra, li faceva sostare o girovagare, faceva loro muovere appena   i   piccoli   legni   ch'erano  posti   al  luogo
delle   braccia, ma eran  « pupi ».....   L'attore,
quello vero, quello di carne e d'ossa, era come imprigionato: parlava, si esaltava, rappresentava di già, ma un'altra sofferenza — oltre quella dell'arte, oltre quella del personaggio — si abbatteva contro di lui e tentava di soffocarlo.
Io dico che il segreto per potere comprendere la grandezza di Giovanni Grasso, la ragione per cui questo attore d'eccezione potè commuovere tutti i pubblici e potè fare sussultare con lui l'impassibile inglese come il cupo moscovita, l'aristocratico parigino come il sospettoso siciliano, l'americano chiassoso o il tedesco raccolto; il segreto per potere comprendere, dicevo, la grandezza di Giovanni Grasso consiste appunto nello scoprire quella sofferenza dei primi momenti — la sofferenza di colui che sa di patere essere e non è, che sa di avere un volto e   di  essere   costretto a  mettersi  una  maschera.

Quando questa maschera sarà strappata si rivelerà intero l'uomo; nel  gesto di colui che toglie   il   posticcio che gli impiastrica il volto  è la caratteristica dell'attore.
Coloro  che   giudicarono   Grasso   prendendo   il suo punto di partenza come il centro della sua personalità e che credettero di ravvisare il gran-de attore  nell'antico   «puparo»,   il  futuro Compar   Alfio   nello   stilizzato   e   convenzionale   Orlando,  che attribuirono alla  sua arte le qualità passionali  di  quei  fantocci  ch'egli   era  costretto a presentare e nei quali il suo cuore non poteva palpitare,   costoro   errarono.   Grasso  interprete di  Rinaldo  di  Montalbano,   di  Gano  di  Ma-gonza, di Rodomonte, di Merlino e di Malagigi non era Grasso ;   oppure — che è  la stessa cosa — le figure del ciclo carolingio nella presentazione di  Grasso  assumevano  altra forma,   altro aspetto,  altro valore.   Quelli erano  tipi,  erano   personaggi   e   non   persone ;   la   poesia   che emanava ed emana ancora dalle loro gesta nasceva da tutt'altra  ispirazione che non da quella  che  sbocciò  in  mezzo  alla  zagara  dei   nostri giardini che hanno come sfondo l'Etna e che si concludono con  un  mare   più  azzurro,   più  profondo, più arioso di  quello per il quale  navigò l'eroe   della  Chanson.   Quando  il   figlio  di   don Angelo —  spinto  dal  bisogno di  attirare  il  popolino   fedele   alla   tradizione   paterna   nell'antico teatro — metteva  in scena i casi  di Orlando    non   scavava   certo   in   profondità   se   scambiava la generosità del   personaggio   con  la  generosità   propria   del   siciliano,   se   attribuiva   la pazzia  dell'innamorato  di   Angelica  alle esaltazioni che poi doveva avere, per esempio, il suo Vanni del Feudalismo»,   se   infine   dava   alla galanteria del difensore del Cristianesimo lo stesse spirito che  poi  doveva  avere  Turiddu   Macca,  dal  basilico  all'orecchio e   dai   pantaloni   a campana.
Quella della prima giovinezza fu scuola per lui.... forse nemmeno scuola: fu la necessaria sofferenza che ad ogni artista impone la vita, quella catena che si è costretti a trascinare, che spesso si maledice ma che invece è stata benedetta da Dio perchè lima e raffina la nostra anima, perchè ci insegna la via del mondo e ci rivela completi — quelli che noi siamo, quelli che dobbiamo essere. Tale catena trascinò Giovanni Grasso per qualche tempo e fu fortuna per lui; fu fortuna perchè nella ribellione consistette la sua grandezza e la sua personalità. Ed allora, diavolo ribelle,  si accorse che quanto aveva dato di sé alle sue marionette era stato vano, quanto aveva cercato di ritrovare nei personaggi che si muovono con fili ed hanno volto ed occhi immobili era stato illusione, ciò che prima era stata la sua preghiera e la sua canzone era falso. Non è vero, che Grasso apprendeva dai « pupi » ; che Grasso andava loro incontro lieto di accogliere il loro mondo nel suo mondo con volto sorridente e con animo pronto; non è vero che lo spagnuolismo di maniera al quale era sembrato avesse aderito il suo cuore poteva essere simile a quell'altro spagnuolismo, meno formale e più profondo, che contraddistingue noi siciliani impetuosi ed aggressivi.
Ho sottolineato poco fa le parole con le quali venne annunziata la recita di « Cavalleria rusticana eseguita dalle marionette di Grasso — la seconda maniera del leone siciliano, dopo il tentativo che subì come eredità paterna e prima della completa rivelazione — : amore al realismo, ho detto ; richiamo verso la verità. Fu, questo, il primo passo; l'altro, meno lungo ma più significativo e più compendioso,  doveva compierlo appena dopo, senza ch'egli stesso se ne accorgesse ; la vera rivelazione della caratteristica di Giovanni Grasso fu quando il « puparo » si decise a diventare attore, e non perchè — notate bene — nella nuova veste avesse agio di meglio mostrarsi al pubblico, con tutte le sue possibilità e con tutte le sue infinite sfumature d'espressione, (questa è cosa secondaria  quando  si  vuole ricostruire il temperamento di un attore e si vogliono ricercare le ragioni per le quali il suo nome è degno di sopravvivere alla sua persona) ma perchè con quel gesto egli era ritornato bambino, aveva annullato quanto di formalistico poteva esservi nel mondo ch'egli conosceva, e, liberandosi del fardello del tempo, aveva dimostrata una fede nella natura, nelle brute forze della natura che sono capaci di sconvolgere in un attimo quanto ci circonda e quanto la natura stessa aveva prime creato.
Esteriormente, la civiltà era per lui rappresentata dal «pupo», dalla marionetta che gli altri — le altre marionette che ci circondano — vogliono così e così, con quell'abito, con quel sorrisino affiorante nelle labbra, con quel volto tinto, e che deve dire di sì e di sì anche quando il cuore vorrebbe dir di no e deve restare impassibile anche quando l'anima piange o si vorrebbe sghignazzare; la natura era invece rappresentata dalla persona, dall'uomo il quale si presenta al mondo così com'è, senza trucchi, senza inganni, col solo lasciapassare della sua sensibilità, della sua volontà, della sua innocenza.
Ed ecco l'uomo dinanzi agli altri uomini. Il cammino di Giovanni Grasso, da questo momento in poi, è coerente, lineare, logico; è il cammino di colui ch'è ritornato alla primitività, che non riconosce altra legge all'infuori eli quella del suo cuore, che vive nell'istinto della sua anima la quale non può suggerire cose errate perchè sente di essere pura e di vedere in purità ciò che ad essa si avvicina e ciò che la circonda.
Gli affetti più dolci, più spontanei diventano il centro del nuovo teatro ; la venerazione della madre, l'amore alla propria donna, il rispetto all'amicizia sono i punti fondamentali sui quali si basano i drammi che Giovanni Grasso presenta al mondo il quale, attonito, non ha nemmeno la possibilità di discutere questa nuova forza che ha annullato ciò che prima sembrava intangibile e inviolabile. E tali affetti non hanno confine : la madre è tutto, la propria donna è tutto, l'amico è tutto; chi tradisce una di queste tre regole fondamentali — che sono la legge dell'amore — è degno di essere punito, ed è punito non perchè la logica vuole così, ma perchè così comanda l'istinto, il cuore. E' punito, non per l'odio che suscita il traditore, ma per l'amore che ispira il tradito; non per vendetta della colpa, ma per l'annullamento della  colpa.
Ricordo di Giovanni Grasso una interpretazione che andò celebre durante il primo periodo della sua vita teatrale : un drammetto che non aveva niente d'artistico, ch'era anzi la negazione dell'arte e che solo una mentalità antiletteraria poteva concepire : era un atto che fece un poco imbizzire Giovanni Verga. Era intitolato Dodici anni dopo e voleva essere la.....
continuazione della Cavalleria : Compar Alfio ch'esce dal carcere dopo di avere scontato la sua pena e che s'incontra col figlioletto di Turiddu Macca. La si direbbe un tiro dell'attere alla poderosa opera del genio di nostra stirpe, se non si conoscesse la devozione che Grasso nutriva per Verga. Si dice infatti che Verga una sera sia andato ad assistere alla rappresentazione con la ferma volontà di richiamare il sue interprete e di impedire lo scempio. Ebbene, quando l'artista fu di fronte all'attore; quando l'attore ebbe il tempo di farsi ascoltare, allora ogni rancore  scomparve.
Grasso aveva una battuta semplicissima, ma egli dava ad essa tutta la potenza d' espressione che possedeva ; il suo volto — le ricordate ? pallido, butterato e nello stesso tempo gentile — il suo volto pareva fosse stato tagliato a pezzi, pareva fosse liberato di tutta la carne che 1'avrebbe impacciato, e le parole erano pronunziate con lentezza, lanciate in una volta e nello stesso tempo soffocate come l'urlo d'un leone ferito; e la ferita era il rimorso, la necessità di accusarsi, il riconoscimento del peccato: « U mmazzai jù a tò patri ! » ed era giù a terra, come un colosso abbattuto, piangendo, singhiozzando.
Questo gesto è significativo nel nostro grande attore: è ancora una volta l'abolizione del formalismo e dell'esteriorità; è l'uomo che ha bisogno di scontare a modo suo la pena, con ciò che maggiormente potrebbe umiliarlo ed affliggerlo: la confessione. Non solo; è la dichiarazione precisa del suo animo che mosso solamente  dall'amore  per  cui, se uccide  Turiddu Macca pensa che con quella morte ha salvato l'amico e la propria donna dal peccato, peccato che inchioda in una lama di coltello unta d'aglio. Infine come ha liberato la sua arte d'ogni formalismo, così vuole che la realizzazione sia priva di fronzoli e d'artifici, costituisca anche uno sconvolgimento di tecnica e di stile ; quella tecnica e quello stile ch'erano la conquista di tanti altri attori del suo periodo — non ultimo di quell'Ernesto Rossi che gli offrì, entusiasta e sincero, un posto gratuito alla Scuola di recitazione di Firenze, quasi che l'aquila si potesse imprigionare in una gabbia o il leone potesse diventare più espressivo se addomesticato e trasformato in cagnolino, pronto a sollevare dietro un cenno le zampe anteriori e a fare la riverenza, o non meglio se non lo si lascia libero a vagare per la foresta e ad atterrire col suo urlo tutta la jungla.

Primitivo dunque fu Grasso nel senso più vasto e più largo della parola; fu primitivo come artista e fu primitivo come attore; e questa primitività, questa scompostezza, questa irrequietezza del sentire e dell'esprimere diedero vita — perchè tali caratteristiche sono quelle che contraddistinguono la nostra gente — diedero vita al teatro siciliano; non solamente a quel teatro dal quale dovevano poi uscire Angelo Musco e Marinella Bragaglia, Mimì Aguglia e tutti quegli altri attori che elessero il Grande del Teatro Machiavelli come maestro e lo venerano come tale, ma sopratutto a quel teatro eh è la realizzazione artistica del nostro tormento  isolano,  nel quale ogni siciliano si chiude appunto come dentro un'isola, a quel teatro che comprese il genio di Giovanni Verga e la finezza di Luigi Capuana e la sottigliezza di Nino Martoglio, quel teatro ch'è un punto d'arrivo e un punto di partenza non soltanto di tutte le letterature dialettali ma di quelle che hanno dignità e vita nazionali.
Chi mi ha seguito fino a questo momento, si sarà accorto che il centro di questa possente forza nata per sbalordire fu l'amore: amore rude, selvaggio, ma amore; quello stesso del quale egli sapeva parlare con tanta leggiadria, con tanta dolcezza, con tanta simpatia alla Rusidda di Pietra fra pietre, alla « dolce mugghiredda » di Feudalismo, alla Marta di Capitano Bianco, a Chiara di Notte senz'alba, a tutte le infinite altre creature, madri e spose, che popolarono il suo repertorio; e fu amore per la terra, amore per il suo dolce orizzonte, per il suo cielo, per il suo mare, per le piccole cose come per le grandi, per la « pecorella bianca », per l'orologio che « batteva le ore durante l'assenza del personaggio » che egli incarnava, per la casa dove ogni angolo è un mistero e un mondo ; amore detto talvolta con troppa enfasi che però non era retorica; l'amore che può avere ,un bambino il quale si risveglia — come l'Aligi della tragedia dannunziana che Borgese per lui tradusse — dopo lungo sonno e tutto ciò che vede all'intorno diventa meraviglioso e diventa nuovo ed  inusitato.
In questo amore fu un tradito ed un calunniato. Purtroppo, assai superficialmente taluni o troppo lo ammirarono o troppo lo denigrarono, perchè videro in lui l'accoltellatore della scena finale, quasi che fosse gesto di maffia quella che invece era la catastrofe nella quale — come gli eroi del mito eschileo, come Oreste, come Edipo, come il padre di Ifigenia — egli rimaneva un vinto, schiacciato dal suo stesso atto di rivolta.
Oggi, dopo sei mesi dalla morte, dopo quei lunghi anni di silenzio che dovette imporsi per il terribile male che lo doveva colpire nel sonno, il nome di Giovanni Grasso è pieno di luce, è vivo come furono vive le sue creature, è presente in noi che lo amammo e in coloro che non lo conobbero nemmeno. Abbiamo perduto il suo gesto, non rivedremo più gli occhi suoi, il suo volto, la sua gigantesca figura, non riascolteremo più la sua voce tremante di emozione e di commozione, quella voce che faceva sussultare tutte le platee e faceva fremere tutti i pubblici, ma la grandezza della sua arte chi potrà cancellarla mai ? A differenza di ciò che avviene con gli altri attori, dei quali l'espressione, che vive con loro, si sperde nel tempo — il tempo in Giovanni Grasso ha operato un altro miracolo, che fu l'ultima riconoscenza della Natura madre : quello di confondere nel mito la sua arte ; ed il suo nome resta il simbolo di tutta una gente.
VITO MAR NICOLOSI
Rivista del comune di Catania maggio-giugno 1931 

Giovanni Grasso, 1908 Di Nikolai Nikolayevich Sapunov




martedì 7 febbraio 2017

Mimì Aguglia LE ORIGINI D'UNA NUOVA ATTRICE

LE ORIGINI  D'UNA NUOVA ATTRICE
Dal  caffè-concerto alla « Figlia di Jorio »


La signorina Mimi Aguglia è giovanissima. Non ha che venta'anni. Bruna, pallida, sorridente, con i capelli corti tagliati alla nazarena e un po' scomposti sulla fronte, con due occhi neri e fiammeggianti, offre tutte le attraenti caratteristiche delle fanciulle siciliane, che ondeggiano nella linea loro profilo tra Spagna e l'Oriente.
Fino a pochi mesi fa il nome della signorina Aguglia era completamente ignoto nel mondo teatrale italiano. O meglio, era conosciuto in una breve zona, in una penisola dell'arte scenica, cioè tra i frequentatori dei cafés-chantans che costituiscono una legione, che rappresentano una casta a parte, senza frequenti contatti con il pubblico ordinario dei teatri.
Ma anche caffè-concerto la giovinetta siciliana non aveva raggiunto la notorietà della Persico, della Ciotti, della Scozzi e di altre canzonettiste in voga.
E' vero che l'Aguglia è potuta arrivare, qualche volta, in locali di primo ordine, come l'Olympia di Roma, ma nella stessa città, poco dopo, ha pure calcato le tavole d'un piccolo locale di piazza Guglielmo Pepe, a breve distanza dai minuscoli serragli, dai giuochi di bersaglio e dai musei di galvanoplastica, in quella paurosa piazza romana dosa l'arte spicciola attirava e agglomerava parecchi strati di delinquenza, e che ora. dopo un ukase della Giunta comunale, è stata definitivamente spazzata di tutti i suoi equivoci edifici di legno, e degli ancora più equivoci spettatori diurni e notturni.
La bruna canzonettista dunque arrivando dalla Sicilia si trovava ancora a metà del suo cammino di gloria e di fortuna nel caffè-concerto, quando ne fu sbalzata con fulminea rapidità, per piom-
bare all'improvviso sopra un terreno che, dato il genere della sua arte, sarebbe apparso irraggiungibile, e ciò che è più prodigioso, da quel terreno si è levata subito vittoriosa, agitando il vessillo d un'arte novella, che fa esclamare a tutti: —Ma chi è quest'oscura attrice, la quale vince alla prima prova, eseguendo un lavoro di Gabriele D'Annunzio, che sgomentò artiste drammatiche esperte e consumate nella loro arte?

Insomma, la canzonettista diventava ad un tratto attrice tragica, e riceveva l'ampia consacrazione del pubblico teatrale, al di fuori e al di sopra della zona scenica in cui era apparsa e cresciuta.



***
M'è parso perciò interessante farmi raccontare da Mimi Aguglia la sua vita artistica, che rappresenta indubbiamente un capitolo curioso ne' nostri costumi teatrali.
La sua narrazione è stata semplice e sincera.
La nuova attrice è nata a Palermo. Suo padre Ignazio ha diretto alcune di quelle modeste compagnie di varietà nelle quali si recita, si canta e si balla, unioni patriarcali di due o tre famiglie, che percorrono ordinariamente le piccole città, le borgate e perfino i villaggi più remoti della Sicilia. La madre, Giuseppina Di Lorenzo (parente di Tina di Lorenzo, che, come si sa, è di famiglia siciliana), è morta due anni or sono, ma ella pure recitava accanto al marito, come recitano e cantano i fratellini e le sorelline di Mimì.
Don Ignazio Aguglia meriterebbe un' illustrazione a parte. Irruento ed eccitabile, ma galantuomo sino allo scrupolo, egli ha difeso la figlia contro tutte le insidie che potevano presentare il café-chantant e una vita costantemente errabonda. Le sue mani ni sono levale minacciose, e qualche volta hanno colpito nel segno. Così pure nel suo pugno ha balenato la canna di un revolver, Fortunatamente  senza disastrose conseguenze.
Ma è certo elle la bella Mimi è passata, come la proverbiale salamandra, attraverso il fuoco scottante del mondo canzonettistico, accontentandosi di eludere la fiera vigilanza paterna con qualche scappatella sentimentale. Del resto l'amore, l'amore a tinte romantiche, è un'istituzione radicata in Sicilia, e Mimi Aguglia mi ha confessato di essere stata furiosamente amata a dodici anni, e di avere, in quell'età infantile, provocato ì primi clamorosi rabbuffi di suo padre.
A cinque anni la piccina esordiva in una vecchia operetta drammatica, La Bastiglia, sostenendo la parte d'una bambina rapita che chiede l'elemosina ai passanti, e già strappava molte lagrime all'ingenuo pubblico de' piccoli teatri siciliani. A sette anni cantava delle canzonette 
allegre nell'Arena San Giorgio di Palermo, e un anno appresso destava nuova commozione recitando: Così va il mondo, bimba mia, a Mistretta.
La ragazzina, in tal guisa, foggiava sé stessa, quasi inconsciamente, ad un doppio gioco drammatico e comico. Per un momento i genitori 
pensarono di allontanarla dal teatro e di farne una maestrina. Infatti la mandarono a studiare nelle scuole, qua e là. Ma la nostalgia del palcoscenico era in Mimi così forte che a dodici anni ritornò giuliva alle farse ed alle canzonette.
Fu allora che, sviluppatasi la sua bellezza, ebbe la prima avventura romantica, di carattere spiccatamente siciliano.
Un giovinetto di sedici anni - come è precoce l'amore in Sicilia -
frequentando il caffè nel quale cantava l'Aguglia, s'innamorò della dodicenne canzonettista.
Egli non vantava alcun titolo per salire sul palcoscenico, e tanto meno per avvicinare in altro
modo la ben guardata divette. Che cosa pensò di fare allora? Sottrasse duemila lire a suo padre,
un agiato signore, e poi si presentò a don Ignazio Aguglia, che di nulla sospettava, per scritturare tutta la famiglia
a condizioni più vantaggiose di quelle che offriva il proprietario del caffè catanese.
Quindi improvvisò una piccola compagnia, vi si mise a capo, e incominciò con essa a girare la Sicilia, delirando allo stesso tempo d'amore per Mimì, la quale corrispose subito con entusiasmo alla passione del signorino.
S'intende che il loro affetto era improntato ad un puro platonismo  
ed i loro colloqui riuscivano rari e brevi, giacchè
don Ignazio Aguglia, fino da allora, passava le sue giornate accanto alla figliuola.

Viceversa gli altri comici, per spillare quattrini all'imberbe innamorato, si prestavano volentieri a rendergli degl'innocenti servigi amorosi, ed è così che un brutto giorno don Ignazio Aguglia indovinò il trucco e fece balenare per la prima volta in aria la canna del suo revolver! 
La compagnia tosto si disperse, la coppia amorosa versò un mare di lacrime, ma l'eroe del romanzetto dovette partire precipitosamente per Catania.
Dopo sono venuti gli anni de' maggiori successi provinciali, con alternative di miseria e di guadagni, 
tra  le variabili vicissitudini di tutti gl'irregolari della scena. tra  le variabili vicessitudini di tutti gl'irregolari della scena
Una sera, a Termini Imerese, la canzonettista si tramutò un'altra volta in attrice 
drammatica, e recitò, insieme a Giacinta Pezzana, nel Signor Alfonso di Dumas. In seguito
Mimì fece la prima conparsa accanto a Giovanni Grasso, il formidabile attore siciliano non ancora svelato all'Italia,
in quel sotteraneo teatro Machiavelli, dal quale è balzata una nuova arte, impressionante per la sua cruda verità.
La scrittura offerta a Mimì la obbligava a sostenere tutte le parti, dalla vecchia caratteristica alla giovane amorosa, e di più la obbligava a cantare e ballare. 
Da quel caos rappresentativo uscirono le prime affermazioni drammatiche della giovinetta, che delineava la propria arte in Cavalleria Rusticana, nella Zolfara e nei Mafiusi.
Con il Grasso, allora, rimase poco tempo. Ragioni economiche attrassero di nuovo lei e la famiglia verso gli spettacoli di varietà e di operetta. Mimì fu anche operettista al Rossini e alla Fenice di Napoli, ma il café-chantant rimaneva sempre il suo campo preferito. Mimì Aguglia, nella sua colorita narrazione, ha pure accennato alle prime rivalità artistiche con le compagne, a' nuovi amori sentimentali sempre bruscamente interrotti dal focoso don Ignazio, e sopratutto ad una solenne bastonatura che egli somministrò ad un pseudo-giornalista teatrale, che aveva tentato un grossolano ricatto contro la figlia. 
Ma questi — ha osservato ridendo la mia narratrice — sono gl'incidenti inevitabili del mondo canzonettistico.

Piuttosto è da ricordare una curiosa avventura giudiziaria che toccò, quando aveva diciassette anni, alla signorina Aguglia.
Ella cantava in un caffè di Salerno delle canzonette napoletane, e tra le altre una intitolata La serva un po' libera, ma appunto per questo accolta con speciali applausi. Una sera capitò nel caffè un delegato di P. S., e le sue orecchie pudiche rimasero offese dalle strofe a doppio senso della Serva. Senz'altro salì sul palcoscenico ed ingiunse all'Aguglia di non cantare più la gioconda canzone. La sera appresso, quando il pubblico salernitano si vide defraudato del numero prediletto, incominciò ad urlare e a strepitare, minacciando di porre a soqquadro il locale.
Accorso un altro delegato che non aveva gli scrupoli del suo collega, per evitare maggiori disordini tolse il divieto, e Mimi riprese subito La Serva, tra un uragano di applausi. Ma il delegato amico della pudicizia, sconfessando l'operato del collega, stese una feroce denunzia, obbligando la graziosa canzonettista a comparire innanzi al Pretore, sotto la duplice accusa di contravvenzione ai regolamenti di P. S. e di oltraggio al pudore. Tutta Salerno insorse a favore d: Mimi Aguglia, ed il processo — svoltosi innanzi ad una folla enorme — si tramutò in un'apoteosi.
L'accusata non diede campo al suo avvocato di profferire una sola parola. Essa dimostrò eloquentemente che La Serva era una delle canzoni meno immorali del suo repertorio, mentre le altre, più pepate, non erano state colpite dalla censura. E a richiesta del Pubblico Ministero, ne accennò, canticchiando maliziosamente, qualcuna, e disse, per esempio,  due versi della Farenara...
Il pubblico intanto incominciava ad appassionarsi e ad applaudire come al caffè! Sicché il Pretore, esaurientemente convinto che il primo delegato aveva preso un granchio ed il secondo meritava una promozione, si levò e lesse una sentenza di non farsi luogo a procedere per inesistenza di reato.

Mimì Aguglia in Malia di Luigi Capuana


Ho voluto riferire le bizzarre origini della nuova attrice — che ora trionfa nella Figlia di Jorio in siciliano — com'essa me le ha narrate, perchè questo repentino passaggio dal caffè-concerto al teatro tragico mi pare degno di studio, ed è una novella prova della singolare versatilità de' nostri artisti. Il caso di una giovinetta che ha vuto innanzi a sé un orizzonte artistico ben ristretto, e che tuttavia ha saputo sdoppiare le sue qualità sceniche per giungere all'esecuzione di un'opera d'arte superiore,  non è frequente.
Certo, se ora noi ci domandassimo quale altro cammino potrebbe fare la signorina Aguglia per arrivare ancor più in alto e poter conquistare con uguale sicurezza la scena italiana dopo quella dialettale, rimarremmo un po' imbarazzati. E poi, sono tante le contraddizioni di cui è seminata la giovanile carriera della pallida Mimi!
Vi sorprenderebbe se, un bel giorno, la tragica Mila di Codra ripiombasse di nuovo dall'Olimpo, ricomponendo il suo viso espressivo ed i suoi occhi seduttori alle grazie della canzonetta napoletana?                               Stanis:  Manca. - Varietas  aprile 1905



mercoledì 1 febbraio 2017

GIUSEPPE VILLAROEL "la vocazione del giornalista"



Fra i catanesi nati negli ultimi due decenni dell'Ottocento e il primo Novecento, molti i letterati che diedero manifestazioni inequivoche del loro ingegno nei diversi generi letterari, e che al di là della validità attuale dell'opera (dell'ampia produzione di alcuni si ricorda solamente il titolo di una silloge poetica o di un romanzo), per necessità di vita (condensata nel lati-netto «carmina non dant panem») svolsero un'altra attività professionalmente — ossia con continuità e costanza — fino al pensionamento.
L'attività svolta quasi clandestinamente — rimasta celata alla maggior parte dei lettori — fu per molti l'insegnamento, per pochi l'inserimento in un'amministrazione locale (con preferenza per il Comune o per la Provincia, ma anche per la Camera di Commercio), ma alcuni all'insegnamento o alla routine dell'impiego aggiunsero l'attività giornalistica, espletata come collaboratore o redattore o direttore di un periodico, anzi — come vedremo — immersi nel giornalismo inteso come professione, fatto di un certo numero di ore al tavolo di redazione di un quotidiano cittadino. In mezzo ad essi, perfettamente integrati, gli scrittori e i letterati che, artisti per temperamento, furono giornalisti per mestiere.
Sono un nutrito manipolo e di essi, senza sottili e discriminanti distinzioni, ricordiamo alcuni con rapidissimi cenni (con il rammarico di ometterne molti): Gesualdo Manzella Frontini (1885-1965), Ottavio Profeta (1890-1963), Giacomo Etna (1895-1963), Vito Mar Nicolosi (1901-1948) e, ancora, altri elementi rappresentativi del giornalismo intorno agli anni Venti: Mauro Ittar, Enrico Cardile e Gioacchino Di Stefano (Giornale dell'Isola), Salvatore Russo Schyros e Salvatore Frazzetta (Corriere di Catania) e il gruppo che a Catania, sempre in quegli anni ruotava nell'orbita di Giuseppe Villaroel e del Giornale dell'Isola letterario: «Da quel giornale vennero fuori Aniante, De Mattei, Patti, Brancati, Patanè, Etna e molti altri giovani del primo novecento catanese» (G. Villaroel, Il secolo dei panni al sole, Milano, 1959 p. 282). E ancora due a noi più vicini: Salvatore Lo Presti (1903-1980), segretario di redazione, e Antonio Prestinenza (1894-1967), direttore, che diedero a  La Sicilia, il nostro quotidiano, alcuni decenni della loro passione e dedizione e delle loro energie vitali.

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Vogliamo ricordare, a vent'anni dalla morte avvenuta a Roma il 10 luglio 1965, Giuseppe Villaroel (nato a Catania il 26 ottobre 1889), giornalista multiforme per quasi sessant'anni, che con penna intinta nel'inchiostro nero o viola riuscì a dare — con prosa lucida e incisiva — un taglio moderno agli elzeviri e agli articoli polemici (i personaggi e le macchiette di allora, con i vizi e le virtù, inseriti in articoli di terza pagina dopo la partenza da Catania, raccolti successivamente nei volumi: Gente di ieri e di oggi; Via Etnea; Il secolo dei panni al sole, pubblicati dal 1954 al 1959, conservano i tratti vividi e le caratteristiche essenziali di molti letterati-giornalisti di provincia).
Molto precoce in Villaroel la passione per la carta stampata, se, a diciotto anni, con l'amico poeta Salvatore Giuliano fondava nella primavera del 1909 Matelda, con sottotitolo ambizioso «rivista della poesia italiana», che segnava l'esordio poetico con la pubblicazione, nel numero di dicembre, di 10 sonetti intitolati collettivamente «Dal mare al bosco», datati «Tarderia 22 settembre 1908». Non è che la prima di una lunga serie di testate, che non è possibile in questa sede censire e collocare in ordine cronologico, del quindicennio catanese che finisce nel 1923. Poi si susseguono con contributi poetici: Prometeo, rivista quindicinale d'arte (1910); l'Amore siciliano, settimanale (a. 1, n. 1, Catania, 3 novembre 1910); La vita letteraria di Roma (1911); Settimana Siciliana, settimanale di Messina (1912); Rassegna siciliana. Vita e arte, quindicinale diretto da Ignazio Ferro, sospeso nel 1915 per il richiamo alle armi del direttore; Pick-wick (1915) e, ancora, Novissima Siciliana, rivista letteraria e artistica, di cui fu direttore e che visse nel biennio 1915-1916, editore Giannotta.

Le riviste, tuttavia, hanno dei limiti: diffusione limitata e periodicità varia (settimanale o quindicinale o mensile e ancora più estesa); ossia non sono lo strumento giornaliero di circolazione delle notizie e delle idee, come è la funzione precipua ed insostituibile del quotidiano. A Catania si stampavano dopo il 1910, due quotidiani: il Corriere di Catania (dal 1879) e la Sicilia (dal 1901). Occasionale e marginale, e quindi di scarsa evidenza (anche per l'inesistenza di una terza pagina), la collaborazione del giovane Villaroel ai due quotidiani, dal 1911 al 1914.
Tuttavia, la sua firma nel Corriere di Catania nel biennio 1914-1915 è già apprezzata; il 2 febbraio un denso articolo di apertura con titolo «Il Risorgimento italiano» recensiva l'opera I mille di Francesco Guardione, e il 28 successivo Adelaide Bernardini Capuana dedicava, sempre nella terza pagina, una lunga recensione alla seconda silloge del Nostro Le Vie del silenzio (Milano 1914).
Ad essi, nel 1915, si aggiungeva come terzo quotidiano, Il Giornale dell'Isola, il cui primo numero usciva sabato 13 marzo, affidato dalla proprietà, rappresentata dal barone Nicola Anzalone, alla direzione degli avvocati Carlo Carnazza e Giuseppe Simili. Esso fu la grande palestra per Giuseppe Villaroel: l'aureola di letterato e l'amicizia di Carlo Carnazza, rimasto dal 1916 unico direttore, gli diedero ampio spazio e molta autorità. Ben presto, dalle cronache anonime e quasi clandestine, passò ad una fioritura di firme apposte agli elzeviri, alle poesie, alla serie di articoli — nell'estate del 1915 — su Giosuè Carducci (poi raggruppati in Carducci e l'Italia, Teramo, 1915, pp. 26), dalle recensioni alla letteratura di attualità, alla rubrica «Fra libri e riviste». Ampio il contributo per la morte di Luigi Capuana (Catania, 29 novembre), anche nei giorni successivi. In questo scorcio d'estate affiorano in terza pagina: le delicate novelle di Antonio Bruno e, a fine anno, le raffinate traduzioni delle novelle di Edgar Allan Poe; i pezzi di Gioacchino Di Stefano dedicati all'olocausto di Guglielmo Oberdan o alla melodia del sogno di Debussy e, ancora, quelli di Enrico Cardile e «L'elogio della caserma» di Giovanni Centorbi.
Se questo è l'apprezzabile contributo al quotidiano, di cui è redattore letterario, Villaroel non cessa la collaborazione alle riviste catanesi e non catanesi, come La Via ed Aprutium di Teramo. Non basta. Nell'autunno del 1915, iscritto nella Facoltà di Lettere, ma già dal novembre del 1912 laureato in Giurisprudenza, otteneva dal Provveditore agli Studi Giuseppe Menotti De Francesco (e l'incontro avvenne, come scriverà il Villaroel nel 1964, nei saloni della prefettura di Catania) la nomina a supplente per l'insegnamento di lettere italiane e storia nell'Istituto tecnico «C. Gemmellaro», dove prestò servizio fino al 1922-23 (dal 1917-18, dopo la laurea, fu incaricato annuale).
Il triennio che va dal 1916 al 1918 trascorreva lungo i moduli dianzi riferiti, con una produzione sempre più intensa. Nella primavera del 1918 usciva la terza silloge poetica La tavolozza e l'oboe. I rapporti con l'amico Antonio Bruno, collaboratore del medesimo quotidiano e poeta, si guastano. Dal 1915, Bruno è corifeo della poesia futurista a Catania: Fuochi di Bengala, del 1917, segnavano l'acme; la polemica con Villaroel (antifuturista) diventava man mano feroce con articoli da sponde opposte, fino a «Buffonate cerebrali» di Villaroel (Giornale dell'Isola, 29 maggio 1919). Poi la riconciliazione, precaria, e dopo, nella primavera del 1919, la rottura definitiva, con il successivo pamphlet di Bruno Un poeta di provincia (Milano, 1920), stroncatura della poesia e della concezione giornalistica dell'antagonista, ma interessante per la cultura soda e pluridirezionale e lo stile di una prosa non provinciale.
Numerosi i motivi della filiazione dal quotidiano di un quindicinale (ben presto mensile) Giornale dell'Isola letterario, il cui primo numero reca la data del 1° febbraio 1919 (nel Giornale dell'Isola del 30 dicembre 1918 nell'annunzio relativo, fra l'altro, si leggeva «la compilazione è affidata al nostro redattore letterario Giuseppe Villaroel»). Caldeggiato fin dall'anno precedente da Villaroel, il direttore Carnazza lo affidava al collaboratore fidato e ben sperimentato, con il ruolo di redattore e supervisore di un supplemento letterario, autonomo ma con il direttore in comune con il quotidiano, durato quasi sei anni e rimasto unico nel panorama della stampa catanese per la formula nuova e aperto fin dall'inizio ai contributi più vari (Croce e Gentile, ma anche Francesco Guglielmino e Luigi Russo). L'organo di stampa, nelle mani di Villaroel divenne uno strumento di penetrazione, di collegamento e di scambio di collaborazione, e — a volte — una cassa di risonanza della produzione propria con la rassegna della stampa favorevole.
Antonio Bruno fu nei quattro numeri iniziali, di febbraio e di marzo, collaboratore e recensore nell'ambito della rubrica «Libri, riviste e giornali», ma dopo — ignoriamo i motivi — ruppe definitivamente. E nel volume contro Villaroel poeta, iniziato a scrivere a Biancavilla nel maggio del 1919, lancia un siluro di rancore nei confronti del periodico, che nel «Notiziario» del marzo (a. 1, n. 4) aveva annunziato in termini lusinghieri l'imminente uscita del volume di poesie cinesi dal titolo Palazzi di Giado: «L'Isola letterario fu il polpettone ad usum siculorum, pretesto al ragù d'una gragnuola di pareri, notizie, delucidazioni ed annunzii, esplosi o propinati all'inclita e al colto che s'allumaca tra Villa Bellini e piazza degli Studi».
Dal 1916 in poi diventano man mano alcune dozzine le riviste alle quali Villaroel prestava assiduamente la collaborazione; ne indicheremo, oltre aìì'Aprutium, alcune: La Diana, rivista di Napoli, con poesia nel fascicolo speciale per la morte di Guido Gozzano (1916); Il fatto nero (1916); Il compendio, rassegna letteraria romana; Noi e il mondo, mensile; Poesia ed Arte, rivista mensile di Ferrara; Le Fonti, rivista mensile di lettere e d'arte di Roma; Le lettere, giornale letterario di Roma; Cronache d'attualità, rivista di Roma diretta da Anton Giulio Bragaglia; Novella; Il Sagittario, rivista pubblicata a Viareggio e molte altre che si omettono.
A Catania quasi tutte le riviste e le rivistine richiedono preventivamente ed annunziano in caratteri vistosi la collaborazione promessa (o strappata) da Villaroel. Con riferimento al decennio 1911-1920 condividiamo quello che scrisse nel 1923 Giacomo Etna « Collabora a tutte le riviste del tempo, fonda giornali che durano un mese, scrive sonetti satirici in dialetto, si forma nello stesso tempo una cultura moderna». Indichiamone alcune: La scalata (1917); La fonte (1917); Rivista delle signorine (1920); Rivista di Sicilia (1921); Rivista d'oggi (Palermo, 1921); L'ascesa (1921); Sinagoga (1921); Haschisch (1921); L'Albatro (1923); Farfalle (1923); e anche La rinascenza scolastica, rivista pedagogica didattica letteraria, quindicinale, nel 1921 e nel 1922. Non è possibile distinguere nel bailamme, se la scelta ubbidiva all'impossibilità del diniego o al gusto della novità o al desiderio di permanere costantemente in orbita.
In questa fase della vita letteraria, prima della partenza per Lodi (1923), Villaroel fu certamente «il jolly della cultura catanese» (come lo definisce con proprietà icastica la studiosa Rosa Maria Monastra).
La sua fama aveva varcato i confini d'Italia, se già nel 1921 La Piume, una delle più autorevoli riviste letterarie che si pubblicavano a Madrid, non dimenticava — dopo la menzione delle attività di Verga e di De Roberto — di mettere in risalto il contributo artistico ed intellettuale del Giornale dell'Isola letterario.

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L'anno 1923, ultimo della permanenza a Catania, fu denso di progetti e di prospettive lusinghiere. Un'iniziativa prettamente giornalistica va segnalata: il Giornale dell'Isola avrebbe avuto il settimo numero, un settimanale con titolo Lunedì dell'Isola, con inizio delle pubblicazioni il 17 settembre, direttore Giuseppe Villaroel. Purtroppo, l'annunzio dato il 15 settembre veniva smorzato (anzi spento) il giorno dopo, con un comunicato di sospensione della pubblicazione, in quanto «le autorità locali hanno fatto conoscere che tale pubblicazione verrebbe considerata in contravvenzione alla legge sul riposo festivo» (Giornale dell'Isola, a. IX, n. 219, domenica 16 settembre 1923, p. 5).
A trentatrè anni Villaroel è un giornalista-scrittore di primo piano, organizzatore e promotore di cultura nella sua città; è il più noto della sua generazione e il più discusso. Il segno inconfondibile dei titoli acquisiti e riconosciuti e della notorietà consolidata è costituito anche dalle pubblicazioni a lui dedicate: Un poeta di provincia di Antonio Bruno nel 1920 (e aveva allora trent'anni) e Villaroel Ai Giacomo Etna nel 1923; all'inizio dell'anno, inoltre, annunziato un profilo a cura di Giacomo di Valbruna nella collana «I contemporanei» dell'editore napoletano Gaspare Casella. Nella primavera era uscita, a Milano per i tipi di Mondadori, la quarta raccolta poetica La Bellezza intravista, che ebbe allora e dopo apprezzamenti dalla critica e dal pubblico.
E la partenza di Villaroel fu messa in grande evidenza dal quotidiano, in cui lavorava da oltre otto anni, e in termini esaltanti (anzi trionfalistici): «Al vittorioso poeta della 'Bellezza intravista', al redattore letterario del 'Giornale dell'Isola' quotidiano, al redattore capo del 'Giornale dell'Isola letterario', giungano gli auguri trionfali...» (Giornale dell'Isola, 9 ottobre 1923, p. 3).

*(La Sicilia, 10 luglio 1985) di Sebastiano Catalano

domenica 29 gennaio 2017

Nino Martoglio

disegno di Gandolfo

 Spadaccino, dongiovanni e moschettiere, Nino Martoglio, nel periodo della mia giovinezza, ebbe fama torbida e movimentata a Catania, quando sopravvivevano ancora usanze e pregiudizi borbonici, e le signore uscivano in cabriolet, con gli ombrellini a merletti, e i cavalieri mostacciuti fulminavano logge e terrazze con gli occhi, e gli amanti si nutrivano di baci soffiati al vento sul palmo della mano. 
Allora, guardare dentro un cortile, fermarsi sotto un balcone, premere col braccio il braccio di una rosata fanciulla poteva costare la vita. 
Era il tempo in cui padri, fratelli, mariti assumevano il compito protettivo dell'integrità, non solo fisica, sibbene morale e mentale della donna; era il tempo delle mutande a fil di caviglia e dei costumi da bagno con le calze e le scarpette. 
Nino Martoglio cantava gli occhi delle more venditrici di arance e di gazose, le sartine del popolo, le belle alle finestre dietro i vasi di basilico; e aveva motivi delicati e nostalgici, non senza un remoto lievito di arguzia; ma non era soltanto il lirico degli idilli umbertini; era altresì il vivido colorista degli ambienti e dei costumi locali, giocondo ironizzatore dell'ingenuità e della fantasia popolare In questo risentiva un po' del genere, allora in voga, dopo la « Scoperta dell'America » del Pascarella e i quadretti napolitani del Di Giacomo.
Le sue scenette parodistiche degli « 'mbriachi scienti », dei « Civitoti in pretura », dei « Nimici salariati »,' della « Triplici allianza » rieccheggiavano i poeti vernacoli già celebri in terraferma; e, un po' di qua un po' di là, si avvertivano in aria movenze trilussiane o barbaranesche. 
Ciò nondimeno il mondo martogliano è schiettamente insulare. 
Nuovo era egli, e di piglio e di tono, nel singolar modo di esprimersi o di trattare il gergo o di dar mordente e vita al color del luogo. 
Il suo impasto espressivo è tutto umoroso di siculo fondiglio: e più si avvantaggia, nell'icastica dei tipi e dei personaggi, quanto più si avvale, nel rendere la drammatica comicità del temperamento e del carattere siciliano, di una sua inimitabile e irripetibile contaminazione del dialetto vòlto in lingua e della lingua trasferita in dialetto. 
Qui fu veramente maestro e Musco apprese da lui il giuoco. 
I paladini di Nino Martoglio parlano per metafore grottesche (la durlidana di Orlando col solo vento « arrifriscava l'aria »), la sua « criata sparrittera » è fervida di sintesi caricaturali deliziose (« ogni tantu tei -porta a so mugghieri — tutta '.mpupata ccu 'idi cornocchiali — ca pari ca a scupriri l'amisferi ti), i suoi ubbriachi scienti sono vividi di sdottorante ignoranza:

« la luna nesci quannu è scuru fittu 
e iu sparagna, supra l'ogghiu a grassi; 
u suli nesci a 'gghiornu; cchi nni fazzu? ».



Citiamo a memoria. Non stia, dunque, il lettore con le pinze pronte.
A Catania il Martoglio iniziò la sua attività giornalistica fondando e dirigendo un settimanale satirico: il D'Artagnan. 
In una cittadina che, allora, si giaceva in pace, sobria e pudica, entro la cerchia delle antiche mura, come la Firenze di Cacciaguida, questo  coraggioso  ed esplodente  ebdomadario suscitò allarmi e scalpore. 
Martoglio non era l'uomo degli eufemismi e delle perifrasi. 
Attacchi, polemiche, indiscrezioni, mottetti, allusioni, satire pullularono in quel diabolico foglio, dove le parole erano sempre sostenute con la punta del fioretto o con la lama della sciabola. 
Duelli a rotazione dovette affrontare il Martoglio in quegli anni. 
Ma egli li trattava e li considerava come piacevoli varianti delle sue giornate.  
Una ferita al polso, un taglio sulla mano, una piccola incisione sulla spalla o sul viso erano logici e normali infortuni del mestiere. 
Alla fine di uno scontro,   o illeso,  o fasciato leggiadramente, il fiero Nino usciva a passeggio per la via Etnea, alto, dritto, con tanto di barbetta petulante, focosi gli occhi,  adunco il naso, ampia la fronte, forte il labbro. 
La gente si torceva di rabbia e di paura; e le donne andavano in estasi per il poeta dolce di pensieri e ardimentoso di braccio. Infine, altro non era che un romantico spaeasato, un po' moschettiere, un po' ciranesco:

« Nica, Nicuzza mia, Nica d'amuri 
e Nica ti chiamai... ».

Come nei drammi rostandiani   cerca un nome alla sua donna. Come nei drammi rostandiani canta sotto i veroni con una mano sul petto e l'altra su l'elsa.
Questo stato di cose non può durare. Un increscioso incidente gli leva contro l'opinione pubblica
I nemici ne approfittano per liquidarlo anche nel campo della sua operosità giornalistica. Deve cedere il D'Artagnan ad altri e far fagotto.

Si trasferisce a Roma, cambia vita, mette casa, prende moglie, abbandona la musa. 
Musco più volte l'aveva sospinto a scrivere per il suo repertorio. E venuto il momento propizio. Ormai bisogna smetterla con i lirismi e con le avventure pericolose. Il poeta sente già il peso degli anni, dei figli, della famiglia. Si dà al teatro ed è la sua fortuna. Ma Catania gli resta sempre nel cuore. Vi ritorna più volte e più volte riappare lungo le vie della città con quella sua barba a spatola, impettito e altero, in bombetta grigia.
In uno di questi approdi insulari un suo figliuolo si ammala di tifo. Ricoveratolo in ospedale, i genitori lo assistono assiduamente. Martoglio, tuttavia, è costretto a viaggiare. Va e viene da Roma. 
Nell'ala del fabbricato, ove ha stanza il degente, c'è un ascensore in costruzione. Quando si dice il destino ! Una notte Martoglio si leva, innanzi l'alba, per avviarsi alla stazione e si avventura, al buio, per le corsie, fidando nel suo istinto di orientamento. Imbocca il corridoio, apre una porta. È quella dell'ascensore. Il baratro lo inghiotte. Nessuno se ne accorge. Il salto dalla vita alla morte è spaventoso e fulmineo.

*di Giuseppe Villaroel ed.1954



sabato 28 gennaio 2017

EMILIO PRAGA



Povero Praga! Oggi si fa ancora del chiasso attorno alla sua tomba, si agitano i campanellini e si battono le mani al richiamo della sua memoria e si tenta di soffocare, coll'applauso, l'ultima bestemmia che potrebbe uscir di sotterra. A lui vivo si porse il tributo dell'imprecazione e della calunnia — la sua anima fu punzecchiata a colpi di spillo — furono derisi i suoi affetti — fu inzaccherata di fango la sua aureola di poeta. Gli uomini seri si degnarono financo di sputare nella sua ultima  tazza   d'assenzio.
Ma al giorno d'oggi il vento spira cattivo per tutti coloro che in arte adoperano la squadra e il compasso e hanno il cuore imbottito di lardo e le vene ricolme di siero — per tutti coloro che vanno a passo di lumaca; col capo chino,  per non inciampare nei sassi — e domandano alla maggioranza dei grulli la casacca ad usum delfhini - e misurano co lo sguardo il cammino prima d'andare innanzi - e accostano di continuo al naso una boccettina d'essenze per non venir meno lungo la via. 



Al giorno d'oggi la bohème letteraria ha presa la sua rivincita; essa è rientrata nel mondo a tamburo battente e a bandiere spiegate — può spendere due soldi per tenere gli stivali inverniciati e venti lire per portare un cappello nuovo — è ammessa nei ginecei — rispettata dai parrucconi — applaudita dalla folla — e man mano va conquistando la posizione coi suoi volumi in elzevir.
Povero Praga! Anch'egli lo voleva il suo volume civettuolo ed elegante; e, parlandone cogli amici, non sapeva esprimersi bene e muoveva le mani come se accarezzasse una statuetta greca. Quasi quasi egli presentiva questa piccola rivoluzione in elzevir!

Nondimeno non c'è ancora da fare molte illusioni. La mia divagazione un po' azzurra sulla nuova èra che si va schiudendo per l'arte, serva di conforto ma non accenda troppo la fantasia di coloro che fanno presto a correre in groppa a mille seducenti chimere. La Bohème è eterna e nel suo grembo si ascondono e si asconderanno sempre i disillusi e gl'impotenti — coloro a cui manca il terreno sotto i piedi, quegli altri che tentano invano di strappare una scintilla dal cervello insugherito. La posa qualche volta soffoca in sul nascere dei giovani  ingegni che sognano il poema o il romanzo dai banchi del liceo. La posa spessissimo apre delle vie che hanno la funesta attrazione dell'abisso. E allora al poeta, al pittore, al musicista sfuggono il ritmo, il colorito e l'armonia e i loro pretesi capolavori fanno ridere la  gente!
Questa benedetta posa che noi rimproveriamo acerbamente ai droghieri arricchiti e ai farabutti in guanti gialli lasciamola stare al posto che merita. L'arte scevra d'artificio e di convenzionalismo e i suoi militi devono avere per essa un culto sincero, senza quei fronzoli che luccicano al sole ma che poi in sostanza sono calta dorata. Preferisco il calice di legno dei primi papi che celebravano la messa nelle catacombe, ai calici tempestati di gemme della basilica vaticana. Il povero Praga che beveva dell'assenzio e bestemmiava alla vita, sapeva scrivere anche il Canzoniere del bimbo e le Memorie del presbiterio. Quel tipo d'angelo avvizzito non osò mai far tacere nell'animo quelle note d'affetto che bastano a caratterizzare i suoi sentimenti e i suoi ideali da  tanti bistrattati.
Nei suoi versi infatti s'indovina l'uomo insieme al poeta. È proprio una rivelazione quella sua lirica spontanea senza veli e senza ipocrisie. Una rivelazione di patimenti e d'angosce, di gioie e di desideri — uno strano e confuso miscuglio di risate e di lacrime, di bestemmie disperate e di sogghigni beffardi — una musica stupenda che colpisce il pensiero e penetra nel cuore. Nei versi del Praga c'è l'arte e c'è la vita — quella folla di pensieri che albergarono nel cervello del cantore di Bella e di Serafina, quante volte hanno albergato nel nostro  e lo hanno  vellicato  come la ca rezza  d una  mano gentile  o lo  hanno sconvolto  come le  chiome  d un  bosco  fra  cui sibila il vento!

È proprio di certi uomini il far vibrare tutte le corde dei sentimenti — di quegli uomini che s'avventano alla vita baldi e speranzosi, pieni di cuore, d'ingegno e di fede, e che della vita vogliono assaporare le ebbrezze senza i dolori, e della gloria i trionfi senza gl'inciampi, e dell'arte i fascini senza gl'insulti e le amarezze — e vogliono andare innanzi, colla fronte sempre alta e la pupilla sempre gaia — e ad ogni difficoltà si turbano e cadono nell'affanno e si afferrano ad ogni oggetto colla disperazione del naufrago e giungono al termine della loro carriera moralmente suicidi, fisicamente affranti — se per caso un lembo di cielo si scopre al loro sguardo, esso lo salutano come l'ubbriaco che vede spuntar l'aurora, dopo aver passata la notte nell'orgia.  Ma oramai del Praga non rimane che l'artista. Non turbiamo più la pace di quel povero morto. Noi sappiamo anche di Praga che bordellava avvinazzato a notte; ma sappiamo anche di Praga che si fa prestare da un amico due lire per regalarle ad una povera mendicante affamata e tremante di freddo assieme a due figliuoletti. Noi sappiamo di Praga che parlava di suo figlio coll'entusiasmo febbrile di una giovane sposa — noi sappiamo di Praga che sognava perennemente una casetta  in campagna,  mezzo nascosta tra gli alberi ed allietata da primavere e da canzoni. Sicché nelle Trasparenze, insieme allo scetticismo che ribocca da una Camera ammobiliata, insieme all'acre voluttà che spirano i versi Alla Sultana, insieme al mezzo cinismo delle Veglie, abbiamo anche In Pace, Il bimbo malato, A Enrico Iunk. È proprio allora che si manifestava un altro Praga; il Praga che amava i bambini, la pace, il cielo sereno, i vecchierelli, la campagna, la solitudine, tutto  quanto  possiede  il  fascino  del  puro  ideale.

Amo   sedermi,   quando   spunta   il  sole
Fra queste blande  aiuole,
Nel   silenzio   infinito.
Nella  pace  profonda
Che  il buio  orbe  circonda.

E nel Bimbo malato

Bimbo,  non  tossir più!   Son  tanti e  tanti
Gli error di questa vita!
Perché farmi tremar come un pusillo?
Dormi, guarisci, la coltre è pulita,
Tepida   è  l'aura   e   tutto   è  pace   intorno...
Sai che per te vo' comperar domani
Un famoso  gingillo?

La poesia A Enrico Iunk è una delle più belle delle Trasparenze :

Della  città, madre d'inganni e toschi
Sei stanco, amico, e aneli ai verdi boschi
E a un pò d'acqua corrente;

A  un po'  d'acqua corrente in cui si specchia 
La   ricciuta   fanciulla oppur la vecchia 
che  ti   guarda  ridente.

Aneli   alla  mestizia  solitaria 
Per   cui   l'arte   respira   insieme   coll'aria 
Coll'aria  imbalsamata!

Vuoi della vita frivola l'oblio 
E da lontan già senti il brulichio 
Di un'allegra borgata!

Di  una  borgata  allegra  e faccendiera 
Dove   si   ciarla   da   mattina  a  sera 
Di   cento   mila   cose;

Dove  a  ogni  angol di  muro  il sol rischiara 
O  ombreggia  qualche imaginetta  cara: 
O   bimbi,   o   cenci,   o   rose.

Dove il paffuto oslier li accoglie umano, 
E la   cuoca  stringendoti la  mano, 
Par  che  un bacio  ti  scocchi.

Dove ti sveglia all'alba il bue che mugge 
O la  giovenca,  che il figlio che sugge 
Contempla   coi   grandi  occhi.

Questo Praga, ch'è sì buono e sì affettuoso, non insultatelo, per dio!   e s'egli dice

quest'etica Musa 
Che  m'apparve  matrona ed era ganza, 
Che   il  poema  promise ed ora  ricusa 
Perfino   una   romanza.

lasciatelo bestemmiare senza arricciare il naso. Povero giovane, non aveva torto!

Come dissi più sopra, si giudichi l'artista — l'uomo si lasci in pace. Quella pace ch'egli sospirava nei suoi versi, l'ottenne là, nel cimitero di Porta Magenta, dov'egli in vita, soleva spesso recarsi insieme a Tarchetti, l'instancabile visitatore di tombe. — Lasciatelo in pace; egli nemmeno vi disturba più coll'incomodarvi a leggere un solo rigo d'epitaffio. Sulla sua fossa non si legge neppure il suo nome e cognome. Vi è solo incastrata una croce di ferro — il lugubre simbolo della sua vita che lo perseguita fin laggiù, nell'eterno nulla...
Povero  Praga!



***
Il volume di versi inviatomi dall'editore Casanova vale proprio la pena di svolgerlo e di leggerlo attentamente.   Sono  i  versi   di  un poeta lombardo, notissimo per suo ingegno e le sue sventure divenuto celebre  dopo morto, e della cui bizzarra indole, della cui fine tristissima e immatura s'è tanto e si diversamente  parlato.
Voi sapete già ch'io accenno ad Emilio Praga di cui il Casanova aveva pubblicato un postumo volume di versi, le Trasparenze, e ristampato le Penombre, cupo e forte canzoniere, e stampato anche le Memorie del presbiterio blando romanzo, che il Praga lasciò interrotto e scucito, e che si prese la briga di finire, curandone l'edizione, un altro scrittore, amico di Emilio, anima squisitissima di artista, oggi morto — Roberto Sacchetti.

Il volume che adesso ci presenta il Casanova — Tavolozza — al quale precede uno studio biografico di Ferdinando Fontana intorno al poeta lombardo — è il primo volume di versi che avesse pubblicato il Praga, allora  ventenne,  ricco  e  felice.
Ricco! ecco la grande e magica parola. Giacché, questo bisogna dire anzi tutto: Emilio Praga cominciò ad essere infelice allorquando nella sua casa finirono le agiatezze. Di gracile corporatura, di salute un po' cagionevole, sensibile, voluttuoso, animo delicato e ingegno fine di artista, il nostro Emilio viveva bene dipingendo paesaggi, scrivendo versi, viaggiando ignorando  affatto le  difficoltà  e le asprezze della vita
La Tavolozza, da lui pubblicata a vent' anni fa fede di tale suo benessere.  Da codesto libro, infatti,  spira come un'aura di giovanile freschezza e di tranquilla felicità. Il poeta canta le cose belle e i miti affetti, canta qualche volta gli umani dolori, ma da uomo che non conosce gl'intimi recessi della sventura, senza bestemmiare, senza disperarsi, come farà in seguito in qualche tetra lirica delle Penombre. La Tavolozza, infine, è un canzoniere gentile di un gentile poeta. E a Milano, a quel tempo, piacque. Emilio Praga frequentava i salotti eleganti, e le signore stesero la mano inguantata al giovine artista, che rompeva la tradizione degl'Inni Sacri e delle liriche dal rumoroso decasillabo, ed i cui versi mandavano fresche folate di letteratura francese — di quella letteratura che aveva già illuminato di fugaci bagliori il trono borghese di Luigi Filippo.
Ma la felicità di Emilio Praga durò poco. A ventidue anni egli perdette il padre, ricco industriale, che possedeva una florida conceria di pelli a pochi chilometri   da  Milano.
Poco tempo dopo, l'industria delle pelli fu colpita da una crisi, e la fabbrica dei Praga andò in rovina. Ed il povero Emilio, in un attimo si vide a tu per tu con  le mille  difficoltà   della vita.
Tutto il rimanente si comprende. Emilio Praga non era nato per lottare, e in quella sua lotta asprissima soccombette. La sua debole fibra si spezzò ai primi urti. Ed egli cadde, cadde irremissibilmente, per non più rialzarsi, il suo cuore fu dilaniato dall'angoscia, il suo intelletto offuscato vide il mondo e gli uomini attraverso un grigio velo densissimo, e la sua musa ub briaca  d'assenzio, suggerì spesso alle nemiche labbra dell'infermo poeta la bieca rampogna o il lugubre inno nella  desolazione.
Ma, in mezzo a tanta tetraggine di vita e di pensiero, quante volte il suo animo si schiuse dolcemente al sorriso! Allorché la sua mente snebbiavasi dei fumi del verde liquore, com'egli tornava ad essere il buon Emilio, l'amico dei bimbi e dei vecchi, il poeta sospiroso della pace idillica e degli odori freschi dei prati!
Conducetelo un po' in campagna, di buon mattino, ed il suo animo esulta in quella festa di fiori, di profumi e di canti. Parlategli un po' del suo bambino e nel suo occhio  stanco  tremola  una  lacrima  di  tenerezza.
È appunto per questa sua istintiva bontà d'animo, che qualcuno, rievocando gli ultimi anni della sua vita privata, ha voluto difenderlo ad ogni costo, gittando magari qualche parola amara sulla moglie del poeta, una buona signora, che a certo punto, si vide costretta a separarsi  dal marito.
Or io non posso seguire codesti difensori in tale scabrosissimo compito; io non difendo, né accuso Emilio Praga; solamente dico ch'egli mi desta commiserazione. Ma non posso ammettere il panegirico ad ogni costo. Non posso vilipendere una povera signora, la quale a certo segno disdegnò la compagnia di un poeta, che a notte tarda, ritornava in casa ubriaco, e, annaspando nel letto coniugale, bruttava di vomito la moglie.
Sono tristi verità, dolorose a dirsi — ma valgono almeno a calmare gli artificiali entusiasmi di qualche inesperto letteratucolo, che vuol fare della scapigliatura a buon mercato, e chiama volgare pregiudizio tutto ciò che la società ammette come onesto, come doveroso, come gentile.
Le chiacchiere son belle a farsi dinanzi a un tavolino da caffè, col sigaro in bocca, in mezzo a un crocchio di amici che ti danno ascolto; ma i fatti son fatti. Sta a vedere che un poeta, solo perché è poeta, può permettersi di essere un porco. Sia porco finché gli piace,  ma lontano  mille  miglia  dalla gente pulita!
E questo non lo dico io soltanto; lo dicono tutti coloro che hanno un briciolo di buon senso. Ferdinando Fontana, amicissimo di Emilio Praga, nel suo studio biografico premesso alla Tavolozza, inveisce contro i falsi boemi, adulatori ad ogni costo della memoria dell'infelice poeta lombardo; ed il Fontana fa bene; e, tanto per mettere le cose a posto e placare cotesti entusiasmi a freddo, ricordando gli ultimi anni del Praga, accenna al ludibrio del talamo nuziale insozzato bestialmente, alla « depressione del senso morale fino al punto di riscuotere del denaro per conto d'un amico (che patisce la fame) e andarlo a sprecare in una notte... e l'amico crepi! fino al punto di amare teneramente e di cantare meravigliosamente il proprio bambino, e poi di cadérgli al fianco, ubbriaco fradicio sulla pubblica via ».
Ed  il  Fontana, che fu intimo del Praga ed abitò qualche tempo insieme a lui, può discorrerne con piena coscienza di causa. Anzi, se volete saperla intera, quel vago accenno ad un amico che patisce di fame si riferisce al Fontana medesimo, ed al seguente aneddoto che  adesso vi  racconterò.

Il Fontana ed il Praga abitavano insieme, lottando contro la miseria che li assaliva spietatamente. Lavoravano come negri per guadagnare qualche soldo: insomma,   una  vita   infame!
Una notte, vegliando fino all'alba, erano riusciti a finire un libretto d'opera, che, per un magro compenso, avevano promesso ad un editore. Ci avevano lavorato entrambi, e, nella speranza di quel po' di denaro, si erano rassegnati a rimanere tutta la notte a stomaco vuoto.
l domani di buon'ora il Praga esce col manoscritto, promettendo di tornare subito coi quattrini. Il Fontana resta in casa ad aspettare — ed aspettò tutto il santo giorno. La sera, tardissimo il Praga ritornò ubbriaco da fare schifo e...  con le scarselle vuote.
Notate:   trattavasi   dell'amico   affamato!
Ma lasciamo questo doloroso argomento. Io però non mi pento di averlo trattato; anzi insisto su ciò che ho detto, perché è bene che la verità si sappia, e intera, anche a costo di vedere svanire qualche entusiasmo che bolle di soverchio. Le peripezie della vita mi hanno insegnato ad andare un po' cauto e di non lasciarmi far trascinare troppo facilmente dalle lusinghiere parvenze.
E adesso lasciamo stare l'uomo, e torniamo al poeta, la cui Tavolozza io ho riletto con piacere e interesse grandissimo. Certamente da qualche anno in fatto di poesia si è progredito non poco, e la forma della lirica italiana ha andato riacquistando quella pulitezza e quella grazia e quella eleganza e quella concisione a cui non eravamo più abituati; sicché riesce più notevole nelle liriche del Praga il lor maggior difetto: la scorrettezza. Nondimeno quanta ispirazione, quanta freschezza,   quanta  ingenuità   di  poesia!
Sentite, per esempio, questa prima strofe d'una bella  lirica:   Il poeta ubbriaco:

Datemi un nappo, datemi dei versi; 
Le imposte aprite, entrino i venti e il sole; 
Quanti fantasmi nel cervel dispersi! 
Che musica di forme e di parole!

Il lettore finisce per sentirsi un po' ubbriaco anche  lui. 
E sentite queste altre due strofe d'im'altra bellissima poesia, I pescatori notturni. Par di leggere dei versi del Carducci :

Portan  la   vela  lacerata  ai  venti, 
Come  stendardo  che in battaglia errò; 
Portano   remi   e  canapi   stridenti. 
Che il nerbo delle braccia affaticò;

E nella  tolda  silenziosa  e  bruna 
Restan   le   lunghe   notti   ad   aspettar, 
Ad  aspettar   sotto   la   fredda   luna 
Che  il  pan  dell'indomani  apporti  il  mar!

on è vero che sembrano versi del Carducci? Ma il Praga li scrisse nel 1860, e a quel tempo Enotrio era presso che ignoto.
Ciò che prova? Prova che se il Praga fosse vissuto ancora, avrebbe dato più splendide prove del suo grande ingegno di quelle che gli riusci di dare. Ma egli invece preferi di morire poco dopo i trent'anni, bruciato dall'assenzio.   Tutti  i  gusti  son  gusti!

* « La Meteora »,  Cagliari,  4 marzo   1878.  E. Onufrio